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Autore: sacrogral    19/01/2021    7 recensioni
Questa è una delle mie preferite. Per Tixit, perché Girodelle è roba sua e perché scrive da Dio.
E per una mia amica carissima che bazzica questo sito ma mai che si degni di dirmi cosa pensa delle mie storie.
E per Beatrice, che aveva trovato la poesia.
Sono Victor Clément Florian conte de Girodelle. Lo dico perché a guardarmi non si direbbe o, meglio, non si direbbe più. Io comunque non ho mai visto nessuno migliorare, sbattuto in cella e vessato da duplice disgrazia: arrestato per volontà di Sua Maestà, per non aver ubbidito a un suo ordine; se liberato, lo sarò dal popolo, per essere mandato al patibolo perché nobile. C’è poco da star allegri.
Genere: Comico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Victor Clemente Girodelle
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Sono Victor Clément Florian conte de Girodelle. Lo dico perché a guardarmi  non si direbbe  o, meglio, non si direbbe più. Io comunque non ho mai visto nessuno migliorare, sbattuto in cella e vessato da duplice disgrazia: arrestato per volontà di Sua Maestà, per non aver ubbidito a un suo ordine; se liberato, lo sarò dal popolo, per essere mandato al patibolo perché nobile. C’è poco da star allegri.

Posso ancora sperare che i miei buoni familiari riescano a corrompere qualche morto di fame di soldato e farmi uscire da questa infame sentina di marciume e perdizione, ma per adesso non vedo luce e la mia igiene è decisamente discutibile, e peggiorati sono il mio carattere e il mio odore.

La carta e la penna su cui scrivo me li ha procurati- ironia della sorte- il boia Sanson: buon diavolo dalla pessima fama, in realtà uno che si limita a svolgere il proprio mestiere e sa stare al suo posto. Magari fosse così per tutti! Passa sempre in visita ai condannati, sembra scusarsi di fare quel che fa, che è giusto un mestiere ereditato dal padre e dal nonno prima di lui; mi ha preso in simpatia, si ferma qui quasi ogni giorno, porta nuove a me in attesa di nuove e io mi scopro a fraternizzare con questa feccia d’uomo, e mi viene da ridere. Fraternizzare un accidenti, io che ho sempre subìto i contatti umani e me ne sono bellamente infischiato- ebbene sì- del consesso dei miei simili. E ora invece mi ingaglioffo e mi fa pure piacere, per la prima volta in vita mia mando al diavolo il contegno e l’eleganza: spero di salvarmi da tutta questa follia, la vita prima di tutto, e soprattutto prego ogni momento di non vomitare in mezzo a questo puzzo di latrina e alle grida di furfanti che ormai apostrofo con parole che sembrano prese dall’inferno.
Eppure carta e penna me li ha procurati quell’ammazzatore di topi, e neppure ha voluto niente in cambio. E a me servivano, a me servono. Questa può essere la mia unica e ultima occasione per scrivere qualcosa della mia vita dissipata che valga la pena di essere raccontato. Mi vedo già la scena: Oscar- così la voglio pensare, solo Oscar- che prende in mano queste carte, ormai diventate celebri in tutta Parigi come il canto del cigno del conte Girodelle, e il suo inutile servo- solo così lo voglio pensare, servo- che le chiede: “Cos’è quel libro?” e lei “Queste sacre pagine sono le memorie del mio unico e grande amore, razza di cafone zotico e insensibile, adesso mi alzo e vado a uccidermi piangendo sulla sua tomba, maledicendo tutti i miei errori”.

Ecco, una cosa così.

Perché alla fine io sono un romantico, e nel momento della fine vicina penso al mio amore, come hanno fatto i grandi cavalieri del tempo che fu. E Oscar, adorata Oscar, è stato il mio grande amore.

Se chi mi leggerà avrà già fatto cadere la memoria del suo dolce nome, vi informo, ignoranti lettori già pronti al sogghigno, che Oscar è una donna, una donna di quelle che vi potete solo sognare; il padre, per un giusto ma forse un filo esagerato senso del suo nome e del suo casato, l’ha battezzata con un nome da uomo, credo pure che l’abbia registrata come un uomo, il suo erede- ma è una donna, e bellissima.

Quando ero ancora il giovane conte Girodelle dalle belle speranze, la incontrai per la prima volta e immediatamente fu chiaro il nostro destino, infatti mi sfidò a duello. Duello di torneo, duello al primo sangue, ma per la carica di comandante delle Guardie Reali, carica che io avevo sempre sognato, sia perché comoda e remunerativa e prestigiosa, sia perché proteggere la Famiglia Reale è l’aspirazione più grande per un nobile.  Io, ragazzino pieno di supponenza, speravo almeno di farmi bello davanti alle Loro Maestà duellando da piccolo esperto col rampollo Jarjayes, invece Oscar mi attese a metà strada, con l’aria ancora più supponente della mia. Non le interessava nulla, disse- ma parlando di sé al maschile- di un incarico che prevedesse il proteggere una donna, lui- cioè lei- voleva combattere e ottenere la gloria sul campo, o qualcosa del genere; però non avrebbe certo gradito che si dicesse in giro che aveva avuto paura di affrontare un blasonato pappamolle. Il blasonato pappamolle, per capirci, sarei stato io.

Scesi da cavallo con la consapevolezza che ci fosse un solo modo per fargli- farle!- rimangiare le sue parole ingiuriose: addio spettacolo, a favore di un bel combattimento discreto e riservato.

Me lo vedo ancora davanti, quel quasi bambino biondo, con un sorrisetto sicuro e importuno- il più bel bambino che avessi mai visto. Aveva neppure quindici anni, io poco di più.

Quel duello è uno dei momenti che porto nel cuore, forse sarà quello che rivedrò davanti al boia, quando la mente si rifugerà nei pensieri più dolci.
E lo persi, quel duello- non scherzava, il giovane Jarjayes, e con la spada non era “esperto”, era un mago, che si muoveva come un’ape. Fui sconfitto perché era più bravo- più brava!- di me.

Ho ancora una piccola cicatrice del suo  affondo, adesso la tocco e mi fa compagnia.

Seppi poi che suo padre l’aveva schiaffeggiata e punita per il colpo di testa del duello senza spettatori; seppi poi, dopo, che ero stato battuto da una ragazza; ma avevo già pregato Sua Maestà Luigi XV di scegliere il conte Jarjayes come capitano delle Guardie Reali, che mi aveva battuto in regolare duello col quale ci eravamo dati reciproca soddisfazione e tutto il resto è storia.

Non ho passato tutta la vita pensando a lei, intendiamoci. Né voglio dire di averla amata come lui. Concordo che l’abbia amata meglio e pure di più. E allora? Per anni non ho neppure pensato di poter mai avere un rivale, e che comunque, quando mi fossi deciso, avrei trovato delle difficoltà con lei, per il carattere di lei, ma certo non prevedevo un altro che potesse aspirare a lei.

In somma, udivo anch’io i commenti salaci e pronunciati a mezza voce di uomini e donne verso di lei, e le speranze- ma già vane nel momento in cui erano espresse- di momenti romantici, di notti di fuoco e via dicendo, ma certo nessuno avrebbe pensato seriamente a lei. Una donna da ammirare, mica da amare! I soldati della Guardia Reale poi vedevano in lei un uomo, per la miseria, il loro comandante!

Per questo a lungo non ho fatto caso a lui. Ma, davvero, chi ci avrebbe fatto caso? Era il suo attendente, mio Dio, il suo attendente! Sempre un passo indietro, sempre rispettoso e sobrio. Galante con le signore, ma mai sopra le righe; educato e disponibile con i nobili che incontrava, ma mai invadente. Avete presente quelle cose di cui ci si ricorda solo quando servono? Che so, le briglie dei cavalli, le posate per mangiare, queste cose qui? Ecco, lui era più o meno lo stesso. Io avrei dovuto pensare a lui come a un rivale? Uno che, se avessi avuto voglia di offenderlo, neppure avrebbe potuto chiedermi conto e ragione?
 
Poi ho cominciato a notarlo, quel tipo. Intanto, e lo ammetto con grande, grande fatica, era bello. Non so come, con degli abiti modesti e neppure una goccia di sangue blu nelle vene, quello era uno che si notava. Quando parlava, poi, assumeva sempre un non so che di ironico, o di malinconico, che pur senza dir nulla- proprio nulla- di sconveniente, tuttavia mi irritava. Poi sembrava far tutto alla perfezione. Presente quando necessario, eclissato quando la situazione lo richiede, impeccabile da mane a sera, silenzioso ma pure divertente. Anch’io ho avuto attendenti, e molti, ma erano decisamente gente dimenticabilissima e sostituibile.  E sentire Oscar chiamarlo per nome, e lui per nome chiamarla, in bando ai titoli, alle distanze!

Oppure, peggio ancora: una volta, a Versailles, Oscar rischiò di morire, a causa di uno sciocco incidente: un lampadario si staccò, proprio mentre lei stava passando. E chi si precipita a salvarla, incurante dell’incolumità personale? L’attendente! Fosse capitato a me, se mai mi sarei buttato sotto quell’affare pesante quanto una giornata passata con mio cognato Alphonse, ammesso che l’avessi visto oscillare in maniera sospetta, ne avrei approfittato almeno per cercare di entrare nelle grazie di Oscar, o in quelle di qualche signora sensibile, in seconda istanza- quello, nemmeno ci pensa. La aiuta a rialzarsi, ha l’aria di chi non vuole essere neppure ringraziato, di chi ha fatto un gesto qualsiasi! Posso salvarti la vita, Oscar? Sì, certo, André. Posso anche portarti un bicchiere di vino? Sì, certo, André. Ma si può, dico io?
 
Una sera passai a casa del comandante. In realtà avrei dovuto vedere suo padre per conto del mio. Data l’occasione però mi presentai in gran lustro- e se ripenso alla cura con cui scelsi la camicia di seta mi vien da piangere, mentre in questa cella piena di muffa devo schiacciare gli scarafaggi- e mi preparai a esser ricevuto dal conte- contessa- madamigella Oscar in persona. Invece mi accolse la governante- una buffa signora in crinoline, con la personalità di un ministro d’Austria, che mi invitò a passare, dato che il generale mi stava attendendo nel suo studio. Non sembrava aver fretta di avvertire la sua padrona, percepii con un po’ di fastidio. Troppa, decisamente troppa libertà ai domestici! La seguii, quindi, e passai davanti alla biblioteca. E sentii ridere. Ridere, buon cielo! E pensai: “Sono anni che sono ai comandi di Oscar Francois de Jarjayes, e posso contare sulla punta delle dita le volte che l’ho sentita ridere”.

Mi fermo quindi, e spio. Non giudicatemi adesso, lettori malevoli, la curiosità fu troppo forte. Spiai, dunque, e agghiacciai. Vidi Oscar in quello che doveva essere il suo abbigliamento informale- camicia bianca indossata con una certa disinvoltura, pantaloni comodi, quasi da uomo del popolo- e quel contadino ripulito, vestito in maniera speculare, seduti l’uno di fronte all’altra, ciascuno con un bicchiere di vino, e davanti a loro una scacchiera.

“André, questa mossa la rifaccio. Adesso me la fai ritirare”

“No, Oscar, neppure per idea. È la rivincita. Ti sei fatta inforchettare dal mio cavallo, adesso puoi salutare la tua torre e sono a un passo dal pareggiare!”

“Il tuo cavallo… il tuo Alexander… posso distruggerlo in un momento, se sposto la regina!”

“Chi, Maria Antonietta?”

E giù risate.

Ma che c’era poi di divertente? Vedo lei che lo tocca su una spalla, con le lacrime agli occhi. Vedo lui di profilo, che le fa eco mostrando denti bianchissimi (un domestico?) Quei due sono ubriachi, penso, altro che scacchi!

“Oscar, ma non trovi che questo alfiere somigli al cardinale de Rohan?”

“Gli somiglierà il tuo! Il mio è molto più magro!”

E giù, risate.

La signora buffa dovette chiamarmi due volte, la seconda con un tono un po’ duretto, prima che abbandonassi quell’espressione da pesce lesso che doveva essermisi dipinta in faccia.
Naturalmente mi diressi verso lo studio del generale, un po’ più incerto di quando ero arrivato.
 
Non son uomo da sottovalutare il pericolo, ma ancora non ne avevo percepita la grandezza. Continuavo comunque a temporeggiare, tanto la nostra vita filava regolare e prevedibile. Solo che, quando vedevo quel tipo, ci facevo più caso. E le botte più grosse le presi proprio alla fine. Ricordate tutti, immagino, lo “scandalo della collana”, che diede la spallata finale alla popolarità, già in picchiata verticale, della Regina. Non voglio entrare nei dettagli, che non è il caso, ma passato tutto il marasma- e non fu cosa da poco- ci ritrovammo, le Guardie Reali intendo, a assediare quella tigre di Jeanne Valois e suo marito Nicholas de la Motte rintanati in un convento sconsacrato di cui tacerò il nome. Pensare che quel La Motte aveva fatto parte del nostro reggimento! L’unica consolazione è il pensiero che sia io che Oscar l’avevamo trovato inadeguato e repellente fin dalla prima occhiata.

Comunque- e vedetevi davanti la scena- siamo nei pressi del convento, ci siamo noi e pure, manco a dirlo, l’attendente, il cui ruolo in quel momento mi sembra più inutile che mai. Il comandante ci ordina- lo ripeto, ordina- di attenderla, perché per stanare quei due sbandati basta lei. Non so, forse teme, e i fatti le daranno ragione, qualche gesto sconsiderato da parte di quella pazza e del suo degno consorte, se facciamo irruzione tutti insieme. O forse vuol parlarle da sola. Oscar, mia coraggiosa Oscar! E niente, noi ci fermiamo a debita distanza da quella rocca medievale dalle pareti in pietra e spesse e attendiamo. Il servo resta appoggiato ad un albero, non parla granché; finché si riscuote, come toccato, che so, dalla parola di Dio, mormora qualcosa tipo: “Oscar ha bisogno di me” e scatta. Ci provano in tre Guardie Reali a fermarlo- io no, già prevedendo la rampogna del comandante al  solerte protettore vedendo il suo ordine disatteso- e lui se li scrolla di dosso come se niente fosse e sparisce. Passa ancora un po’ di tempo. Che il cielo mi fulmini se so di preciso cosa è successo dentro quel convento, fatto sta che all’improvviso salta in aria tutto, come una polveriera. Impallidisco. Mi vedo Oscar, la mia amata Oscar, ridotta in brandelli. E invece- e grazie a tutti i santi, e che un giorno ci sia una stellina in paradiso accanto al nome di quel valletto, solo per questo- dal fumo riemerge lui col comandante Oscar sulle spalle, poco cosciente, ammaccata, ma salva. Ci ho ripensato tanto e non mi sono dato spiegazione: a quella distanza, da dentro una roccaforte… come diavolo ha fatto quello a sentire il richiamo di Oscar? No, perché non è possibile! E- ve lo devo dire?- la depositò a terra, in luogo comodo, e aveva l’aria di uno che non vuol esser ringraziato, che ha fatto un gesto qualunque. Mi aspettavo di sentirgli dire Posso anche portarti una tazza di tè, Oscar? Passata tutta la concitazione, me lo chiesi: “Ma chi è mai questo tipo che fa sembrare dei poveri allocchi il fior fiore delle Guardie di Sua Maestà? Chi è questo tipo che fa sempre la cosa giusta, anche quando fa quella sbagliata?”
 
E venne poi quell’altra grandissima rogna- perdonatemi il linguaggio, perdonatemi!-  che fu l’affaire del Cavaliere nero. Ve lo ricorderete di certo, creò scalpore: il ladro che ruba ai ricchi per dare ai poveri. Un ministro inglese, una volta, lo paragonò a un personaggio delle leggende popolari delle sue terre, tal Robin Hood, anche lui un brigante che voleva sovvertire l’ordine costituito. Ricordo che Oscar, spavalda Oscar, lo rimise al suo posto: “Un ladro resta sempre un ladro!” lo sistemò, col tono che usava con noi quando eravamo un po’ lenti nell’eseguire. Era nervosa, in quei giorni, dava scarsa confidenza, il suo piglio marziale si imponeva sulla sua grazia naturale: voleva catturarlo lei, quel delinquente, era diventata quasi un'ossessione. Raddoppiammo ronde notturne e turni di guardia. Avessi avuto il coraggio, le avrei domandato se, per caso, c’era anche altro che la preoccupava. A volte aveva la testa fra le nuvole. Non glielo chiesi mai.

Una di quelle sere, mentre mi trovavo nel mio palazzo e leggevo un romanzetto mediocre- La nouvelle Heloise di Rousseau, mi ricordo, un libro da nulla, una storia ridicola e pure approssimativo- fui avvisato che Oscar aveva catturato il Cavaliere nero. Qui devo premettere che, nei giorni precedenti, erano successi fatti che mi ero perduto. Tipo che Oscar stessa  era stata rapita dal Cavaliere nero. Anche lì accadde tutto molto in fretta, non si è mai compreso bene come sia andata, il tempo di saperlo e già tutto era concluso, e il comandante ha sempre rifiutato di parlarne. Però, in sintesi, finì che il Cavaliere nero non era il Cavaliere nero- Oscar ci disse di essersi sbagliata e di aver rilasciato il prigioniero, innocente- e che lei stava bene.

Oscar, coraggiosa Oscar, chissà se ti rivedrò mai, chissà se vedrò ancora i tuoi capelli mossi dal vento, e sentirò lo stomaco stringersi in una morsa, ma piacevole…

Ma- e qui è il punto dove voglio arrivare- quando tutto tornò alla normalità, e pure il vero Cavaliere nero- bontà sua- decise di farla finita con le sue uscite notturne, e Oscar si presentò a noi col cipiglio consueto e con una luce nuova, chiaramente rividi anche l’attendente. E ancora una volta rimasi di sale. Ho difficoltà a descriverlo, sembrava più maturo, quel tipo, forse perché aveva tagliato i capelli, e quel nuovo taglio prevedeva un ciuffo a coprire l’occhio sinistro. Allora, potrò sembrare tardo, ma solo passandogli accanto quella mattina, in cui lo vidi con un occhio coperto, da capelli naturali di una sfumatura di nero perfetto, realizzai che aveva pure occhi magnifici. Verdi, amici miei, verdi come prati di erba fresca, e luminosi, maledizione, tanto che sembravano riversare cascate di gioielli addosso a chi lo guardava. In quella giornata, commisi due gaffe, certo perdonabilissime, che adesso vi esplicito:
  1. Mi permisi di dire al comandante- innocua boutade- che il suo attendente indulgeva nella vanità di un taglio di capelli nuovo, forse aveva qualche bella popolana da conquistare? Oscar mi fulminò: “Capitano, André ha perduto l’occhio sinistro. Durante uno scontro. Vi prego di non toccare più l’argomento!” e non mi rivolse più parola per tutta la giornata.
  2. Dando prova di grande magnanimità, rivolsi io parola al subordinato, porgendogli la mia solidarietà. La sua risposta? Spostò lo sguardo verso il comandante, la guardò in lontananza: “L’importante è che non sia stato ferito il suo occhio” disse, e mi sorrise.
Io ho ricostruito il tutto a senso, ma non ci vuole un genio per dedurre che quello aveva sacrificato pure un occhio, in qualche modo che ancora mi sfugge, per proteggere lei. Posso dare un occhio per te, Oscar? Sì, certo, André. Posso fare qualcos’altro per te? E con l’aria di chi non ha fatto niente di più di ciò che doveva. Ma, dico io, si può?
 
L’ho detto, non pretendo di averla amata come l’ha amata lui. Un amore così lo si vede, diciamo, una volta in un secolo, e se il secolo è di quelli fortunati. Io sono dell’idea che il servizio d’amore debba avere un limite. Non nego che cominciai a provare una certa compassione per lui, che comunque- ripeto- non avrebbe mai potuto- mai, confermo- alzare gli occhi su di lei. Ridicolo solo pensarci. “Sacrifica pure una gamba, sacrifica pure un braccio. Non puoi nuotare controcorrente, non puoi ordinare al sole di sorgere a ovest!” mi irritavo, e mi chiedevo come potesse sopravvivere. Non capivo allora; adesso- chiuso fra queste mura puzzolenti, mentre metto nero su bianco pensieri distanti da un presente di tragedia e umiliazione, mentre mi rivolto in questo fango da plebaglia, ancora incapace di comprendere fino in fondo come sia accaduto- lo considero con altri occhi: quello era felice così. Aveva concentrato tutto l’amore che aveva verso una persona sola, si nutriva di quell’amore come una pianta trae vita dal terreno su cui è nata, non vedeva più dove finiva se stesso e cominciava lei. Era come se per lui tutto fosse polvere e bruttura eccetto lei. Viveva la vita come se fosse lontano, diciamo in guerra, e per salvarsi dall’orrore si aggrappasse alle poche immagini di luce che lo legavano a ciò che era davvero importante. Ed è proprio quello che faccio io adesso- Oscar, amata Oscar, quanto in te vedo la mia vita passata, quanto di te è puro ideale? Eppure, quel dannato orbo vedeva te, proprio te, sempre e solo te.

E poco dopo Oscar lasciò le Guardie Reali. La notizia mi colpì come un fulmine: lasciare l’apice della carriera di un militare, per ottenere cosa? Ripensai a quel ragazzino che mi aveva detto che voleva onore e gloria. Ma quale gloria? Se ne andava a comandare la Guardia Metropolitana! Era il colmo, il colmo! Quella non era una promozione, era un degrado! E lo aveva chiesto lei! Al suo posto, per il comando delle Guardie Reali, alla Regina in persona, aveva proposto me. Favore fatto, favore reso. Bene, il mio sogno si realizzava. Bene, non me ne importava nulla. La domanda era: “Ma perché avevo atteso tanto?”. Una vita dissipata, quando avrei potuto essere felice già da tempo. Sentii che non potevo accettare di non vederla più. Adesso la volevo mia sposa, contessa de Girodelle, era tempo di passare all’azione. E azione fu. Chiesi la sua mano al generale Francois Augustin Reyner de Jarjayes, padre riverito e onorato.

Se esistesse un Dio giusto che guarda i suoi figli mentre si affaticano in questo mondo cane- e ditemelo pure, che ormai tutta l’educazione datami dai miei familiari imbelli, che non stanno muovendo un dito per farmi uscire di qui, se n’è andata alle ortiche- dicevo, se esistesse un Dio giusto eccetera, a questo punto potrei dire che rimpiango di non vedere più il volto della mia amata sposa, che adesso verserebbe calde lacrime sul suo amato sposo lontano. Invece , se siete lettori attenti, avrete capito che siamo ben lungi dal vero. Ma voglio procedere passo passo- Oscar, onnipresente Oscar, ascolta come il tuo devoto Victor Florian ha vissuto i tuoi rifiuti, guida un manipolo di cavalieri e vieni a salvarmi dal fango e dal degrado… io forse non ne avrei la forza, ma tu sì.

Tutto sembrava a me favorevole. Col generale, forse tornato a più miti consigli e riappacificatosi con l’idea di avere una sesta figlia anziché un figlio, o forse ammorbidito dalla vecchiaia, fu come sfondare una porta aperta. Il piccolo ostacolo però fu lei. Vi  descrivo le mie visite a Palazzo Jarjayes:
1)
In attesa profumato e azzimato, sento la voce della mia dolce promessa: “Voglio proprio vederlo in faccia, questo pretendente, almeno per il coraggio dimostrato!”. Non so come dirlo, ma il coraggio mi venne meno. Ecco che entra ancora in divisa, fra il divertito e l’irritato;  mi guarda e si stupisce:

“È uno scherzo, il vostro?”

Madamoiselle, sono fermamente intenzionato a…”

“Capitano, se mi lasciate passare, dovrei conferire con mio padre”

E mi spinge letteralmente da una parte.

“Sono comandante, adesso…” mormoro, fra me e me.

Ho fatto in tempo a vederla. Ma lei, mi ha visto? Resto interdetto e vagamente offeso. Ma lo sa, quante vorrebbero essere al suo posto? Sento montare una certa rabbia. E poi, vedo qualcosa che mi rasserena. Vedo l’attendente, con un vassoio in mano. E lei, che non lo guarda nemmeno, gli dice: “Non mi va la cioccolata”, e procede per la sua via.

C’è qualcosa nella postura di lui, nello sguardo chinato a terra… c’è qualcosa che mi fa dire: “Guai in paradiso”, che mi fa sogghignare, e infine pensare a quanto sono stato sciocco a preoccuparmi per un domestico. Già, perché mi ero davvero un po’ preoccupato. Solo un po’. Dimenticando chi ero io e chi era lui.
Mi saluta, mi pare,  con umiltà. In che altro modo dovrebbe, in effetti?

2)
In attesa azzimato e profumato, la mia promessa non ha la minima intenzione di presentarsi. La domestica, quella con la personalità di un colonnello, si è ammorbidita, adesso che vede in me un buon partito per Oscar sua. Comunque Oscar se n’è andata a cavallo chissà dove e io sono qui appunto in attesa. Ancora non so che la mia proposta è stata congelata in un limbo, che il generale Jarjayes di lì a poco darà un ballo a Palazzo, in cui inviterà il fior fiore della gioventù affinché Oscar possa scegliere fra più pretendenti- insomma, ancora non so niente di tutto ciò, ancora non so neppure che l’orbo si è arruolato nel reggimento di Oscar e quindi per ora mi risparmio una nuova sorpresa (Posso seguirti nelle imprese più pazzesche  e meno gloriose della storia della vita militare che peraltro non ho mai desiderato, Oscar? Sì certo, André. Posso anche portarti qualcosa da mangiare? Sì certo, André).

Vedo però il servo in giro per casa. Continua a sembrarmi un’anima in pena e, anche se non capisco cosa sia successo e non lo saprò mai, penso che se è lì- e vivaìddio- stavolta non se lo è portato dietro, magari vuole stare sola perché sta riflettendo sulla mia proposta (Sono stata impulsiva col mio adorato Victor soltanto perché presa da una timidezza comprensibile, vista la mia inesperienza. Adesso vado a riceverlo e mi butto fra le sue braccia, una cosa così).

Penso anche, con piacere, che mi sembra che qualcosa fra loro si sia incrinato. Ed era pure l’ora.

Lo apostrofo. Lui si avvicina, chiede se può fare qualcosa per me. Sparire, grazie, dalla faccia della Terra, se non è di troppo disturbo.

È più alto di me, più robusto di me. Indossa abiti semplici, non c’è confronto con i miei. Quell’aria elegante gli deve venire dalla natura. Quel modo discreto e riservato di trattare con la gente deve venirgli dall’educazione. Nella mano sinistra tiene un vassoio, con un bel po’ di tazze in equilibrio. Che bravo giocoliere.

A quel punto non resisto. Ascoltate un po’, lettori compiacenti,  e tenete presente che racconto a memoria.
 
“Sicuramente voi lo sapete, presto ci sarà un matrimonio”.

Irrigidisce la mascella. Colpito.

“Sapete” infierisco “vedervi sempre a fianco di madamigella Oscar mi ha fatto capire che la vostra amicizia sia più profonda rispetto a un consueto legame servo/padrone. Dico bene?”

Corruga la fronte. Colpito, colpito!

“Sarà difficile per voi non vederla più. A Palazzo Girodelle abbiamo personale sufficiente per non disturbare nessun altro. Mia moglie potrà avere tutti i servitori che vorrà e voi potrete finalmente, come dire, riposarvi”

Prendo un fiore da un vaso, lo avvicino alle narici, poi guardo lui.

Immobile davanti a me, come una statua. Eppure sento che è vivo, sento che è un uomo e che si sta imponendo uno sforzo, un grosso sforzo, per non saltarmi al collo.

Lo sto facendo cuocere a fuoco lento, povero sciocco triste plebeo.

“Eppure, talvolta, sapete… vi ho quasi invidiato per quello che per voi era una fatica, ma dal mio punto di vista era un rapporto privilegiato con la mia amata

Immobile. Ma avrei scommesso che tremasse. Non poteva neppure andarsene, finché non lo avessi congedato. Questo significa essere un nobile!
 E allora, con un colpo di teatro, aggiungo:

“Voi soffrite, inutile negarlo, ed io ho pena di voi. Se la mia amata lo desidera, e voi lo desiderate, posso darvi dimostrazione di quanta magnanimità sia pieno il mio cuore. Posso tollerare che voi continuiate a essere l’attendente di mia moglie…”

E qui mi fermo.

Senza aver lui cambiato espressione, e forse fu per questo che mi prese con la guardia abbassata, mi ritrovai sporco di… cioccolato. Proprio di cioccolato. Non aveva altro da tirarmi in faccia, al momento. Restai lì, con il viso marrone e zuccheroso, senza parole. Gli abiti impeccabili, una nobiltà di sangue antica di secoli, un volto da far emozionare un pittore… tutto questo ero io, e tutto per ritrovarmi in attesa di una donna che non sarebbe arrivata e sporco non di ferite inflitte in una nobile tenzone sotto il sole complice dei coraggiosi, ma di volgar cioccolato gettatomi senza preavviso.

“Peccato che la bevanda non fosse bollente” sibilò, e davanti alla mia mancanza di reazione, aggiunse:

“Posso fare altro per voi?”, e davanti alla mia mancanza di reazione, se ne andò.


Bene, pensate pure che me lo sia meritato. Va bene, va bene, sono stato un vigliacco ad approfittarmi della situazione, non è stato elegante provocare un uomo che non era in condizione di difendersi- e d’accordo, mi sarebbe potuta andare peggio, visto che l’uomo alla fine difendersi sapeva. Aveva uno sguardo da assassino, lo sguardo di chi non ha paura della morte. Forse non mi tirò un pugno solo perché aveva in mano il vassoio e non voleva romperlo, lo giudicava più importante di me. Io ero uno che si rimetteva al suo posto con una tazza di cioccolata sul viso. Ma che dovevo fare? Io, nobile, sfidarlo a duello? Se tanto mi dà tanto, un occhio solo o due, quello era capace di passarmi a fil di spada. Quello era uno capace di mettere a repentaglio la vita per salvare un gatto e capace di uccidere per una causa in cui credeva. Forse anche per un’offesa di troppo. Va bene, già che ci siete, fatemi pure un taglio e versateci del limone sopra!
 
Capii una cosa che forse avrei già dovuto afferrare: quell’uomo, quel tipo insomma, era lo schiavo di Oscar perché lui stesso lo voleva, ma non era uno schiavo; quell’uomo era il servo di Oscar, ma non era un servo. Lui nella vita recitava la parte del servo perché questa era la parte che gli era toccata in sorte, ma era un uomo libero, e consapevole di esserlo. Oscar avrebbe potuto chiedergli di saltare e lui avrebbe domandato “Quanto alto?”, ma se glielo avessi chiesto io, conte o non conte, avrebbe alzato un sopracciglio e scrollato le spalle. Posso scalare questa montagna impervia e rocciosa a mani nude al tuo posto, Oscar? No, André. Allora la scalerò con te, al tuo fianco.

E quindi, ci ero  arrivato: avevo un rivale, ed era bello, maledizione, era senza macchia e senza paura, viveva da vent’anni con la donna che amavo, avevano condiviso cose che io neppure immaginavo, le era devoto all’inverosimile e era un uomo libero di pensiero e di azione. E io non potevo sapere se sarei riuscito a spuntarla, malgrado fossi il conte  Girodelle. E, di nuovo, lo ammetto: a parità di condizioni di partenza, non ci sarebbe stata sfida. Ripassando mentalmente quello che sapevo di lui, quell’uomo valeva il doppio di me. E allora? Le condizioni di partenza non erano le stesse, tanto certamente bastava a Oscar. Perché lui poteva essere innamorato cotto, poteva sospirare e bestemmiare il destino, ma c’era una cosa che non poteva fare: obbligare Oscar- mia splendida, aristocratica Oscar- a ricambiare quell’amore mal indirizzato, quell’amore da romanzo cortese. E figuriamoci se il comandante Oscar- mia orgogliosa Oscar- avrebbe mai ricambiato l’amore di un attendente!
 
Quand’è che ho perduto le speranze che lei un giorno potesse essere mia moglie? La risposta più facile sarebbe: “Al ballo a Palazzo Jarjayes”. Ma non direi la verità. Io ho perso le speranze, e ho perso anche la dignità, dopo il ballo a Palazzo Jarjayes. Adesso, che mi sono appena tolto un ragno schifoso dai capelli, più sudici del pavimento delle mie stalle, par impossibile emozionarsi al ricordo di quella sera. E pure ridere. Però ricordo benissimo quel ballo, e non è vero che non c’erano dame da far danzare- la battuta, apocrifa,  che è stata poi attribuita a Oscar- perché ce n’erano e come, e nella mente del generale Jarjayes avrebbe dovuto essere un’occasione elegante ma discreta, affinché tutti potessero ammirare la sua brillante figlia per la prima volta nella vita in abiti femminili. Confesso che vi presi parte principalmente per questo: per vederla in abiti femminili. Me l’ero immaginata così tante volte. E poi restavo ancora, almeno nelle parole di quel vecchio trombone del generale- che i mei buoni precettori mi perdonino, non riesco a trattenermi!- il pretendente preferito (si espresse proprio così, quell’incapace, inabile pure a indirizzare la figlia verso il migliore dei matrimoni possibili!). A quel ballo, Oscar prese parte, ubbidì alla volontà paterna. Era splendida. Ed era, provocatoria, in divisa. Quella serata aveva ottime probabilità di diventare lo scandalo più scandaloso degli anni a venire, e così sarebbe stato, se questa specie di rivolta popolare non ci avesse tolto il gusto anche del pettegolezzo più salace, per lasciarci solo il desiderio di salvare la pelle.  Oscar, adorata Oscar, con che grazia ti prendesti gioco di noi tutti, con che impeccabile eleganza mostrasti cosa significa essere una persona indipendente, libera, completa… la più bella delle donne, il più affascinante dei cavalieri… che mondo da conoscere, che mistero ancora da svelare… e il tuo sorriso, Oscar ammirata, voglio portarlo con me nella tomba!
 
E la serata toccò il culmine quando una buona metà di quei pezzenti dei soldati della Guardia Metropolitana si presentò a Palazzo, su invito del comandante. Una manica di disgraziati che Oscar, con disinvoltura, invitò a mangiare, a bere, e a guardare le belle dame. Scoppiò un putiferio memorabile, e credo che sia stato un miracolo, dovuto ad un angelo custode assai competente, se il generale Jarjayes non fu preso da attacco di cuore, sul posto, tanto si era fatto paonazzo.
 
Preso da insana curiosità, mi avvicinai a uno di quei buzzurri famelici, per porre una domanda che mi stava a cuore. Riporto il dialogo, al solito, fidandomi dei ricordi:

“Scusatemi, bravo giovine…”

“Prego, prego! Posso esservi utile? (bestemmia), chiedete pure!”

“Se non fraintendo, voi dovreste essere al seguito del comandante Jarjayes…”

“Sì sì! (rutto) Sono uno dei suoi soldati. Non male, eh? Ci sta mettendo in riga come mai era capitato, ma ci sa fare! (Parolaccia), voi lo conoscete bene?”

“In realtà, monsieur, siamo amici da molto tempo. Sono il conte Victor Clément Florian de Girodelle”

(Bestemmia più parolaccia)Addirittura un conte? Certo, da queste parti… Ma ditemi, sono ai vostri ordini… lasciate solo che butti giù questo bicchiere di roba (rumori strani, gorgoglii)… a posto… ditemi, ditemi…”

“Non vedo un mio caro amico che dovrebbe essere vostro commilitone… mi chiedevo se voi lo conosceste… il suo nome è André” (mio lieve imbarazzo: non ricordavo il nome di famiglia)

(Parolaccia e fiatata di alito pestilenziale) Non c’è. È ancora in infermeria”

Mon dieu, non gli sarà mica accaduto qualcosa di spiacevole?”

(Bestemmia), no! Una rissa da caserma. Sapete, conte, mica ci si può fidare del primo venuto. Qualcuno dei ragazzi lo ha rimesso al suo posto, saputo che aveva lavorato anni per il comandante, ma prima. Un bel pestaggio, non vi consiglio di andarlo a trovare! (risata da ubriaco)
“Non me lo sogno neppure. Quindi si è battuto per il suo onore, se ben comprendo?”

(sequela di parolacce), si è battuto perché gli son saltati addosso in cinque o sei. Ma si è battuto come un leone. Io, per me, di lui mi fido. E il suo amico (bestemmia) sa menare le mani e ne aveva voglia. Diceva non so che di un certo matrimonio  che non si doveva fare, ed era nervoso (bestemmia), parecchio!”

“Capisco perfettamente. Vi auguro un piacevole prosieguo

“Un che? Comunque, anche a voi, conte, anche a voi!” (risata)
 
Forse non avevo scelto il più raffinato fra gli interlocutori, ma il concetto mi era arrivato chiaro. Il povero illuso, quindi, non aveva retto il colpo.
Prevedibile.
Doveva essersi macerato nel dolore, nei rimpianti e nei rimorsi. Doveva aver preso atto di quello che io già conoscevo da una vita: che omnia vincit amor- citazione virgiliana che, cari lettori delle memorie di Victor Florian Girodelle, che un tempo fu conte e comandante delle Guardie Reali e orgoglio della sua famiglia di ingrati vassalli, io non vi farò l’offesa di tradurre- che omnia vincit amor, dicevo,  è un’emerita sciocchezza e che nella vita è necessario muoversi con un minimo di criterio e con un obiettivo possibile da raggiungere. Cinque contro uno? Forse sei? Puoi batterti come un leone quanto vuoi, minimo ci lasci tre costole e un paio di denti. Magari, magari!, subisci pure danni più gravi. “Chissà come sei bello, adesso! Non voglio nemmeno pensare alla tua faccia tumefatta, al naso rotto (son sicuro) agli occhi pesti (tutti e due? ma sì! tutti e due)!  Chissà quanti gioielli escono ora dal tuo sguardo!- riflettevo- E chissà con quale sprezzo ti ha guardato, il comandante! Una rissa da caserma, nella sua caserma! Finito, caro mio, finito. Puoi andare a suonare una fisarmonica sotto un ponte, chiedendo la carità”. Posso farmi ridurre in uno stato pietoso cercando di non mostrare  che sono un uomo distrutto a causa dell’amore per te  e senza che tu debba minimamente scomporti, Oscar? Sì, certo, André.  E me la ridevo di gusto.

E proprio allora accadde qualcosa che ancor oggi non riesco a giustificare. Mi si avvicinò uno di quegli  esiziali soldati, con una brutta cicatrice sul viso e l’aria torva: “Io sono uno di quelli che ha pestato quella mela marcia di Grandier. Qualcosa da dire?” mi apostrofò.

“Io sono il conte Victor Clément Florian de Girodelle. Penso che voi e i vostri degni compagni siate dei vili e degli uomini senza onore. Ritengo che voi tutti assieme non valiate la metà del mio amico André, persona onesta e irreprensibile. E ora, voi, signore, avete qualcosa da dire?”

Rimase interdetto.

“Ripeto, monsieur. Sul mio onore, garantisco di non aver conosciuto uomo più stimabile e virtuoso di colui che voi avete sì vigliaccamente massacrato. Se lo desiderate, son pronto a provare le mie parole a tempo e luogo di vostra scelta. Uno contro uno. Avete qualcosa da replicare?”

Mormorò un qualcosa del tipo: “Maledetti nobili”, ma rispose chiaramente: “No”

“Allora, con permesso, vi congedo”. Lo seguii con lo sguardo finché non si confuse fra la folla, ormai scomposta e senza controllo, dei presenti, esterrefatti e deliziati dalla piega che la serata aveva preso.
 

Non voglio certo dire che fu un’azione dettata da grande sensibilità o da gentilezza d’animo. Se ci fossero ancora dei dubbi in merito, la mia intenzione era quella di sposarmi con Oscar Francois de Jarjayes, impalmarla, e dimenticare quanto prima gli anni della sua vita precedenti alla nostra unione, da ricordare da me e da lei come una breve parentesi. Non so qual sentimento mi spinse a prendere a male parole quel soldataccio, e non so neppure cosa mi spinga, adesso, a ricordare quell’episodio da niente. Se c’è una persona al mondo che mai ho detestato, quella persona è André Grandier (adesso ho presente il nome di famiglia), figlio di genitori oscuri, uomo dagli umili natali, mio rivale per motivi incomprensibili, la cui vita ha sfiorato la mia in modo del tutto casuale. Tuttora, recluso in questa fetida e maleodorante cella, meno ampia del guardaroba ove riponevo le mie vesti, quando mi viene in mente lui, sento montare un’indignazione rovente, e penso che quel derelitto, lui solo, sia stato l’ostacolo fra me e la mia felicità. Se penso a quanto quell’uomo deve aver inghiottito amaro in vita sua, provo solo soddisfazione. E quando penso a lui, mi viene sempre in mente una frase, sentita non so dove: Cammina con leggerezza, sono i miei sogni quelli che stai calpestando. A volte la riferisco a lui, a volte a me stesso.

 
Se qualcuno ancora ricorda che ho detto di aver perduto le mie speranze- e en passant anche la mia dignità- dopo il ballo, adesso, lettore intrigante, stai per essere soddisfatto. Perché dopo questi brevi scambi di parole, la cui piacevolezza ricorda una battuta di caccia in compagnia di mio cognato Roland, seguii Oscar che si era defilata in giardino senza farsi notare. Non so se qualcuno abbia presente cosa sia il momento perfetto: quello in cui le rose sono fiorite, il vento è tiepido, la luna ricorda il sopracciglio di una giovinetta e illumina il cielo senza invadenza. Ecco, quello era un momento perfetto. Certo, se Oscar fosse stata avvolta da una veste bianco argentea e avesse contemplato il cielo, tutto sarebbe stato più appropriato. Lei invece, appoggiata a una colonna, stava ridendo a crepapelle.
 
Oscar, meravigliosa Oscar, sembravi un soldato in un momento di pausa, cui hanno raccontato un aneddoto così riuscito da non poter trattenere l’ilarità, e pensando di essere sola lasciavi che la risata fluisse libera,  che la tua postura fosse scomposta, mentre un raggio di luna ti rendeva tuo malgrado simile a un angelo rinascimentale. Cosa avrei potuto fare, io, se non ammirarti?
 
Quando mi notò, mi avvicinai e misi in atto la mia tattica a lungo elaborata. Prima confusi il nemico, parlandole della festa e dello scopo che lei voleva ottenere, per me troppo dichiarato per essere convinto; poi lo circondai, dicendole che mai io mi sarei tirato indietro davanti alle manifestazioni del suo carattere particolare e intenso, che ben conoscevo; attaccai, infine, lodando la sua bellezza e ribadendole l’onestà delle mie intenzioni. E dal momento che era molto vicina, e sembrava sorpresa ma non indifferente alle mie attenzioni, e dato che la luna sembrava ammiccare dal cielo spingendomi verso di lei, sommando tutto questo a una serie di fattori che mi erano sembrati positivi e incoraggianti, azzardai a toccare, con molta, molta lentezza e facendo attenzione a sfiorarla appena, le sue labbra con le mie.

Adesso, lettore comprensivo e in spasmodica attesa di sapere a qual meraviglia o fiore potrò mai paragonare le labbra di Oscar, ti dico subito che non lo saprai mai perché io stesso lo ignoro: al mio audace tentativo corrispose infatti un formidabile pugno nello stomaco, che mi mozzò il fiato e mi costrinse a piegarmi in due. Oscar si allontanò con un balzo e specificò, se mai fosse stato necessario:

“Comandante Girodelle, per l’amicizia che ci lega dimenticherò questo comportamento inopportuno, ma vi avverto: un altro gesto impudente e sarò costretta a sfidarvi, o altrimenti a gonfiarvi di botte fino a riportarvi a più miti consigli!”

 Dire che sembrava il dio Marte non renderebbe ancora l’idea. Intuii, da piccoli segnali, di non avere via di scampo.

“Madamigella Oscar” dissi, dopo aver tossito un paio di volte “Deduco che vogliate che ritiri la mia proposta di matrimonio, che sembra esser più un’offesa per voi che un omaggio…. Ditemi, vi faccio così ribrezzo?”

La sua espressione si addolcì, mi sembrò che provasse un sentimento per me, qualcosa di molto vicino alla pena.

“No, non mi fate affatto ribrezzo, Victor, ma semplicemente non posso amarvi. E poi…” si fermò, guardò una rosa bianca vicina a lei, poi ne accarezzò una rossa “… e poi sono altre le labbra che conosco”.

Non c’era più molto altro da dire.

“Ritirate la vostra proposta. E in fretta” ribadì, andandosene.

E io restai fulminato.

 
Non che fosse proprio questo il punto, ma nel momento in cui disse “sono altre le labbra che conosco”, evidente fu l’implicazione che conoscesse le labbra di qualcuno.  La domanda quindi era: “Di chi?”

Mi aveva confessato, senza dirmelo, che il suo cuore era occupato, che lei sentiva di appartenere ad un uomo che non ero io, ma non potevo credere che fosse lui! E allo stesso tempo, chi altri avrebbe potuto essere?  Chi poteva essere sfuggito alla mia attenzione, chi si era insinuato nei suoi pensieri  non visto, chi c’era riuscito, senza che si diffondesse un pettegolezzo di troppo, o- perché no?-  un pubblico annuncio? E ancora, chi più di quello poteva aver meritato ai suoi occhi?  Mi sentii, per qualche motivo paradossale, doppiamente rifiutato: una volta nei panni di me stesso, trattato alla stregua di un volgare importuno, e un’altra volta nei panni del mio rivale, l’unico che avevo temuto e stimato tale, quell’uomo che si illuminava guardandola, quell’uomo che lei aveva rifiutato senza dubbio accecata dai pregiudizi di classe, perché altro motivo non poteva esserci. D’accordo, su quei pregiudizi ho basato tutto il mio pensiero espresso finora, potrei definirli solide convinzioni dettate da Dio. E allora? Mica ero lei! Da parte mia, se non avessi tirato io acqua al mio mulino, chi l’avrebbe fatto? Santo cielo, gli aveva preferito chissà chi, forse per vanità, forse per denaro… no, impossibile! Lui – e lo ammettevo a fatica- era quello che ogni donna dovrebbe desiderare. Una personalità di ferro, uno sprezzo del pericolo ammirevole, ma di burro, assolutamente di burro con la donna del suo cuore… santo Dio! Mi resi conto allora, e me ne rendo conto anche adesso, mentre cerco di respirare quest’aria sulfurea e pestilenziale che mi par bruciarmi i polmoni, che ero deluso, deluso da lei. E deluso dal mondo che non va come dovrebbe, in ogni senso. Avevo fissa nella mente l’immagine del profilo sfregiato di quel ragazzo che mi diceva: “L’importante è che non sia stato ferito il suo occhio”. Forse sarebbe stata più onorevole la sconfitta davanti al sentimento di lui, che faticavo a capire, tanto mi sovrastava, piuttosto che di fronte a un modo più banale di amare.  Alla fine, mi dicevo, è davvero una bestialità l’idea che l’amore vinca tutto. Alla fine, l’amore altro non è che una piaga sociale al pari della povertà o dell’ignoranza crassa, e bisognerebbe maneggiarlo con prudenza, o forse non maneggiarlo affatto.
 
E passò ancora il tempo, in cui io mi leccai le mie ferite come potevo, ovvero dedicandomi agli impegni mondani e a quelli imposti dal mio nuovo incarico. Non era il momento più adatto per diventare il comandante delle Guardie Reali, dato che non sembrava essere più un incarico puramente onorifico- come a volte mi ero illuso che fosse- ma un vero e proprio lavoro di sorveglianza continua e talora repressione sul campo, e non mi piaceva. Mi imposi di dimenticare Oscar- Oscar, più volte sognata Oscar, com’era possibile riuscirci?- e mi comportai, con gli altri e con me stesso, come se l’avessi fatto. Parigi bruciava, non passava giorno in cui lo stato di allerta non fosse massimo, avevo la sensazione che nessuno avesse niente da perdere e tutti avessero qualcosa da rimpiangere. E poi arrivò, insieme alla calura estiva e a un vento di scirocco, l’ordine diretto di Sua Maestà di fermare i soldati  della Guardia Metropolitana ribelli che si dirigevano verso gli obiettivi caldi. E sussultai, vedendo che si trattava del reggimento agli ordini di Oscar.
 
Se adesso, amico lettore, mi chiedessi di descriverti cosa provai, mi troveresti senza risposta. Mi imposi di non pensare a niente, mi imposi di ricordare solo che ero pur sempre un militare al servizio di Sua Maestà. Frugai nel rancore onnipresente dopo l’umiliazione del rifiuto, chiusi le paratie all’affetto e alla stima doverosa, raggelai ogni commosso ricordo di lei, dimenticai il tono di voce con cui arringava, decisi freddamente che sarebbe stata la mia occasione di vendetta e riscatto. E mi apprestai a obbedire agli ordini.

Quindi, come sono finito in questa fogna di lerciume, a rimuginare su un passato sfolgorante e su un futuro inesistente, perduta ogni aura di fascino che apparteneva all’ormai fu conte Girodelle? Sopravvalutai o forse sottovalutai me stesso, fui meno spietato o meno ardimentoso di quanto credevo di essere, meno crudele e meno astuto, o solo più onesto.

Quando mi trovai davanti Oscar, con quei debosciati di soldati, tutti- devo dirlo- pieni di una dignità che mai, mai avrei attribuito loro!- quando mi trovai davanti Oscar, dunque, che mi disse chiaro e tondo, spalancando le braccia, che per fermarla avrei dovuto spararle, a lei che era il mio amore e era stata il mio comandante per quasi quattro lustri, chi può davvero condannarmi quando ammetto che mi tremarono voce e ginocchia? Lei lo sapeva, ne son sicuro, che mai, mai avrei potuto.

Eppure esitai, finché non vidi lui.

E allora crollò ogni diga del comandante delle Guardie Reali Girodelle, preso l’ennesima volta di sorpresa.

In quei momenti concitati, drammatici, eppure… eppure… non mi sfuggirono gli sguardi fra loro due, lui al suo fianco, lui in divisa con l’aria serena di chi ha tutto ciò che vuole, pure in quel momento di tensione e rischio, in quel momento che era proprio il peggiore che si possa immaginare. E mi si schiarì la mente. E feci qualcosa di cui ogni giorno di questa vita lurida che mi resta- perdonate, perdonate il linguaggio!- mi pento e mi pentirò.

Mentre i miei soldati aspettavano un ordine, mentre quella banda di rivoltosi attendeva col fiato sospeso, io mi avvicinai a quello, e ci trovammo a distanza breve quanto i nostri due cavalli ci consentivano.

“André, vorrei dirvi qualcosa”

Lui mi guardò perplesso, diffidente.

“Sentite… mi dispiace per quel giorno. Mi sono meritato quella cioccolata in faccia”

Per un attimo aggrottò la fronte, poi, inaspettatamente, ecco che si illuminò di un sorriso, e pensai e penso ancora che, in un altro momento, in altre circostanze, io di quell’uomo avrei voluto, avrei dovuto essere amico.

“Posso rifarlo quando volete, conte Girodelle” mi disse, ma quasi allegro, come se tutto quello che lo circondava fosse per lui naturale e comunque gestibile, non lo preoccupasse poi troppo. Perché lui era felice, malgrado tutto.

 E io azzardai.

“Avrei una richiesta, amico mio” buttai fuori- ma dovevo essere privo di lucidità- “Quando tutto questo sarà finito, vorrei… vorrei essere il vostro testimone. Perché il vostro matrimonio mi renderà felice”.

E attesi.

André Grandier, quell’uomo che non avevo mai visto degno di ferrarmi i cavalli (ma non è vero, sto mentendo per darmi un tono, ma non ce la faccio più nemmeno a darmi un tono), mi guardò e mi tese la mano, che io strinsi.

“Sarà un onore e un privilegio, Victor

Con questo, avevo chiuso un cerchio. Avevo chiarito ogni dubbio che si era affacciato alla mia mente fin troppo intrappolata in pensieri contorti. Invece, tutto era semplice e lineare. Alla fine- ma non ce l’hanno sempre detto?- l’amore vince su ogni cosa. E pure io facevo un passo indietro, ma ormai lo sapevo: avevo già abbandonato quella battaglia perduta in partenza, quello scontro con qualcosa di più grande di me. E ricomponevo anche il mio amore per lei, che aveva dimostrato di essere fiera e libera come io la amavo e, libera di scegliere, aveva scelto. Posso offrirti tutto il mio amore che non ti porterà altro che rinunce ai tuoi privilegi e ai tuoi agi, ma in cambio avrai una felicità che i comuni mortali ignorano? Sì, certo, André.
 
Adesso che la mano mi fa male e la luce del giorno viene meno, mi accorgo che le memorie del conte Victor Florian de Girodelle sono andate in una direzione diversa da quella che avevo pianificato. Pazienza. Ho detto che volevo raccontare, per la prima volta in vita mia, una storia degna di non esser dimenticata. L’ho fatto.  E peccato se non è la mia.

Son giunto alla fine. Sussurrai a Oscar, sorpresa, perplessa, che non avrei mai potuto sparale, né farle del male in alcun modo, anzi, se avesse voluto, avrei fatto qualunque cosa per lei. E ordinai alle Guardie Reali di tornare indietro e di lasciar in pace quel manipolo di rinnegati. Tornai a Palazzo Girodelle, mi versai un’abbondante dose di cognac, mi misi ad attendere e a riflettere. Già guardavo con nostalgia le mie stanze, ben sapendo che presto avrei dovuto salutarle, e che il cambio non sarebbe stato attraente.

Riflettei che, se il mondo fosse stato giusto e retto, Oscar, vedendomi, sarebbe dovuta scendere da cavallo e corrermi incontro, vedendo in me il suo salvatore e liberatore. Ma già mentre lo pensavo, comprendevo che era un’idea ridicola, innanzitutto perché lei non aveva alcun bisogno di essere salvata né liberata e, se mai ne aveva avuto, già qualcun altro ci aveva pensato, qualcuno più adatto; e che il mondo anzi stava cominciando ad essere più giusto e più retto, che Oscar, la donna più bella del mondo, e André, l’uomo più innamorato che abbia mai visto, rappresentavano in un certo senso un nuovo inizio, l’alba di un secolo nuovo; e che quelli come me si stavano avviando verso un lento tramonto, perché non avevamo capito, tutti noi, una cosa fondamentale: solo la bellezza, ma quella vera, può salvare il mondo.
 
Stavo ancora mettendo in ordine i pensieri e sorridevo fra me e me, quando sentii un rumore di cavalli che si avvicinavano, e un nodo in gola stringersi pian piano.
 
 
 
 
 
 
  
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