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Autore: sacrogral    19/01/2021    5 recensioni
Mina, ti era piaciuta, giusto? Allora è per te.
Avviso a Fiamma: ho forzato la cronologia, lo ammetto - ma nessun André è stato maltrattato, lo sai.
Li vedevo parlare nascosto o ignorato, non so. Avrei dovuto immaginare che sarebbe venuto in visita, maledetto svedese, al cui ritorno io per primo ho brindato. E l’ho fatto con tutta la sincerità che riuscivo a metterci, l’ho fatto per lei, per vedere i suoi occhi brillare. Lo stesso motivo per cui mi sono interessato della lista dei caduti nelle Americhe, sperando di trovarlo (Dio mi perdoni) e di non trovarlo, ma per i motivi sbagliati: non volevo che diventasse un eroe, un martire, il suo ideale per sempre.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: André Grandier, Axel von Fersen, Oscar François de Jarjayes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Li vedevo parlare nascosto o ignorato, non so. Avrei dovuto immaginare che sarebbe venuto in visita, maledetto svedese, al cui ritorno io per primo ho brindato. E l’ho fatto con tutta la sincerità che riuscivo a metterci, l’ho fatto per lei, per vedere i suoi occhi brillare. Lo stesso motivo per cui mi sono interessato della lista dei caduti nelle Americhe, sperando di trovarlo (Dio mi perdoni) e di non trovarlo, ma per i motivi sbagliati: non volevo che diventasse un eroe, un martire, il suo ideale per sempre.

Rabbrividisco: era in gioco la vita di un uomo, una brava persona, e io altro non sapevo fare che pensare a lei, alla reazione di lei. Forse sto diventando pazzo, forse dovrei scappare lontano, più lontano che nelle Americhe, io non ho visto altro che un angolo di Francia e non sento il bisogno di niente altro, ho tutto quello che potrei desiderare, ma talvolta ci penso: scappare, lasciare tutto, andare in Italia, nella terra dell’arte e del sole, vedere Venezia, Firenze, Tintoretto e Botticelli, la Laguna e la terra di Dante Alighieri… conoscere e ammirare… e rinunciare per sempre a lei, alla visione di lei. Appoggiato a questo tronco, scabro e ruvido, è come se amplificassi ogni sensazione, come se il mio corpo fosse attraversato da brividi continui e lo so, lo sento che questa è la vita, nel suo bene e nel suo male. Perché questa è davvero la vita, nel suo scorrere e nel suo fluire, e tutto il resto è orpello, è l’abilità e l’eleganza del dettaglio: la musica, l’arte, la scrittura, nulla possono di fronte al volto di lei, che io non so fermare, che Fersen non vuol fermare… e io che ho paura che tutto cambi e quindi non faccio cambiare niente, io che sono vile di fronte all’idea di perderla, perché niente potrebbe compensarmi della sua perdita. A cosa, a chi serve una vita portata avanti così, senza coraggio? Non ho mai esitato di fronte a nulla, eppure sono  un vigliacco, e non capisco come quel nobile svedese riesca a stare impassibile davanti a lei, senza tremare… come può non vedere?

Lui deve aver detto qualcosa che l’ha colpita. Riguarda quel dannato ballo, ne son sicuro. Vedo solo con la mente gli occhi di lei farsi fessure. Dio, Oscar, com’eri bella quella sera. Non più bella di adesso, ma in una maniera diversa, tale da mozzare il fiato. Dio, Oscar, cosa non avrei dato per stringerti, quella sera. Essere altro da me, essere migliore. Cosa non avrei dato per non aver paura di cadere a terra, vedendoti sorridere.

Le ha afferrato un polso. A stento reprimo l’istinto di correre lì, levarle di dosso quella mano, eroica, forse?, la mano che ha combattuto per la libertà delle colonie americane… si fosse reso conto di quanto male ha fatto alla sua regina, chissà se mai l’avrebbe compiuto, quell’atto eroico… e invece mi fermo, disciplinato come sempre, con questa abitudine al controllo che ho esercitato negli anni. E lo vedo che le sta dicendo qualcosa, con l’espressione seria e sicura, tronfia mi viene da pensare, ma son ingiusto, son accecato dalla rabbia e dalla gelosia… sì, son accecato dalla gelosia, non dovrei neppure pensarla, questa parola, non ne ho diritto, ma non ne esiste un’altra, e penso Come osi toccarla? Lei che è mia e Dio mi perdoni, e mi perdoni pure il generale, non riesco a staccare gli occhi da loro e non riesco a muovermi, grazie al Cielo, e ricordo a me stesso che la mia felicità è niente confronto alla sua, che sono il suo angelo custode, che devo accettare quel che sarà- ma sono anche un uomo, son fatto di carne e di sangue, e quel sangue lo sento ribollire mentre Fersen, piegato su di te, ti afferra il polso, ti impedisce di dire o fare qualcosa che vorresti.

Adesso scapperai, Oscar, fuggirai da qualche parte dove lui ti raggiungerà, e dirà qualcosa che ti ferirà e io non potrò impedirlo, e tu farai qualcosa di impulsivo che si rivelerà terribile o meraviglioso, Oscar, perché con te non si sa mai… e soffrirai, forse, o soffrirò io…

E all’improvviso vedo il tuo corpo rilassarsi, ed è come accade nei sogni, che non sai mai come sei arrivato in un posto o cosa sia normale, e ti vedo ridere, ridere di gusto.

E mi chiami, Oscar. Mi sembra impossibile, ma sento il mio nome. Che mi succede? Forse, oltre alle fate morgane e ai mostri che vedo con quest’unico occhio malandato, forse ho pure le allucinazioni auditive. Perché dovresti chiamarmi adesso? Eppure ti sento, e sento una nota di impazienza nella tua voce. E ti lascio ripetere il mio nome, prima di muovermi come se arrivassi adesso, con tutta calma, ti lascio il tempo di liberare il braccio dalla stretta di Fersen- ti è costato tanto, Oscar? Cosa hai provato?- e avvicinarmi calmo, alzando un sopracciglio appena, nel veder un bicchiere rotto, nel guardare di sfuggita ma non disattento la sua espressione, e poi la tua. Aspetto solo un tuo cenno.
“André” dici, lieve “Ti dispiace dire a Fersen dove eravamo… conte, mi ricordate la data? Perché, e non ridere, è convinto di avermi vista a un ballo, in abiti femminili, e mi par di capire che ero pure aggraziata, giusto? Una dama desiderabile, André… prendi nota!” e ridi, anche se io- solo io- percepisco la tua tensione, e butti  indietro la testa, e la tua voce non trema, mentre ti affidi a me come sempre, per supportarti.

Dove eravamo dici, dove eravamo noi.

Allora guardo Fersen, e mi dipingo in faccia un’espressione fra lo stupito e il divertito, ti seguo, Oscar, certo che ti seguo. E mi rivedo mentre ti vedo apparire in cima a quelle scale, nell’incertezza di una conferma da ottenere, e adesso ho mille immagini cui paragonarti, anche se quella sera non ne ho avuta neppure una, colto da ineffabilità, e dal desiderio di toccarti per capire se eri vera.

“Aspetta… conte, avete detto… sì, certo. Allora, nonna ci aveva fatto una torta di mele, noi stavamo ancora pensando al Cavaliere nero e io ero uscito da poco dalla convalescenza” butto là, e accenno al mio occhio; Fersen ingoia a vuoto, io continuo come se niente fosse “Oscar è stata a casa con me finché non ho avuto il permesso del medico di poter uscire di nuovo alla luce; quella sera, abbiam giocato a scacchi, parlato di quel ladro, bevuto quel rosso, quello Chateau qualcosa che abbiam preso senza permesso dalla cantina del generale, ma ci è sembrata giusto una marachella… non avevamo sonno, abbiam finito la torta di mia nonna, mentre il palazzo sembrava deserto… poi, anche se era tardi, siamo usciti in giardino, e la luna era piena. Abbiamo fatto a gara a chi ricordava più poesie.
Vi sembrerà sciocco, conte, ma ci piace declamare poesie alla luna, specie quando abbiam bevuto un bicchiere di troppo. Ho vinto io.
Le ho declamato

Quello mi sembra simile a un dio,
quello mi sembra superiore agli dei – se è lecito dirlo -,
lui che, seduto innanzi a te, senza scomporsi,
ti vede e ti ascolta,
mentre dolcemente ridi; a un tuo sorriso invece io miseramente
mi sento tutto svenire…


e Oscar si è dichiarata sconfitta, perché non aveva un altro Catullo da oppormi. Benché- e qui mi inchinai- Oscar reciti molto meglio di me”.

Lo vedo spaesato e confuso. Ha il sapore della verità, quello che dico.

“Poi, siamo andati a dormire, ma prima ci siamo bevuti un bicchiere di armagnac che ci ha dato il colpo di grazia. Abbiamo brindato al cartaginese Annibale che, come me adesso, aveva perduto un occhio, per non perdere la battaglia del Trasimeno. Oscar, forse abbiam parlato anche della sua tattica?”

Mi osservi, mi pare, ammirata.

“No, André. Ne abbiam parlato il giorno dopo”

“Giusto. Quando ci siam fermati dopo una cavalcata, la mia prima cavalcata dopo il fatto. Indossavo ancora la benda. Era una giornata di sole, e cercavamo di riscrivere l’arte della guerra, ma in modo divertente” e rido.

“André, buon Dio… voi avete una memoria di ferro e… mi dispiace per il vostro occhio. Un giorno dovrete ragguagliarmi, ma… Oscar, io credo di essere in grave imbarazzo… non so cosa pensassi, come abbia potuto credere…”

Tu adesso sorridi, Oscar, sembri serena:

“Non dovete, conte. Mi pare che il paragone fosse lusinghiero”

“Oscar” dice lui, annaspando “Era… quella donna, intendo… era bellissima, era un sogno…  vi somigliava così tanto e… io le ho pure parlato di voi, finché non è fuggita…”

“Conte di Fersen” aggiungo, impietoso “Il vostro fascino è indiscutibile, ma da quando si parla di una donna per conquistare un’altra donna? Non mi sembra un espediente così ingegnoso”

“È vero” dici tu, allegra “Non stento a credere che quella bella dama sia fuggita. Io avrei usato decisamente altre parole e trattato altri argomenti. Ammesso che avessi voluto far breccia nel suo cuore”.

Lo fissiamo entrambi, con aria angelica, e silenziosi.


Vedo il conte di Fersen prima impallidire, poi arrossire, poi balbettare:

“Non so davvero cosa avessi per la mente. Oscar… se solo sapeste cosa mi ero immaginato… credo di aver peccato di superbia, di vanità… santo cielo, non credo di essere stato mai così in difficoltà in vita mia. Devo sembrarvi uno sciocco… André, vi sembro uno sciocco?” chiede, il conte confuso, a me attendente, in piedi mentre lui è seduto e non sa dove guardare, lui, che avrebbe potuto avere in mano tutta la luce dell’universo.

“Certo, conte. Mi sembrate veramente un ridicolo idiota, più cieco di me guercio, e mi sembrate il degno cicisbeo di quella bambina che tutti chiamiamo Sua maestà” avrei voluto dire, e invece gli risposi: “Ma no, figuratevi. Soltanto che non riesco a immaginare come abbiate pensato di vedere- forse- Oscar a un ballo, vestita da dama, e splendida come non dubito che fosse questa signora. Credo che Oscar, in abito da sera, sembrerebbe uno spaventapasseri!” chioso, e guardo te, che sorridi e sembri però volermi dire qualcosa che rimandi.

E pensare, conte di Fersen, che tu mi sei sembrato quell’uomo, quello simile a un dio: impassibile, distante, occupato a guardarsi le unghie- penso con rancore- seduto accanto a lei che dolcemente ride, occupato dal vuoto della tua mente divina

Provo un piacere che non mi impreziosisce vedendolo sorridere in maniera forzata, vedendolo ferito nella vanità- perché è la vanità che ti ha portato qui, conte di Fersen, a dire a Oscar che l’avevi riconosciuta e che non potevi amarla, a sottolineare anziché fingere di ignorare, come un uomo veramente nobile avrebbe fatto, l’ovvia evidenza del suo amore, il suo coraggio di tentare la carta della femminilità e della bellezza, per conquistare te, forse eroe del Nuovo continente, ma certo debole di umana debolezza; e quella superbia cui alludi, l’ho capito bene, altro non è che il congratularti con te stesso, per una nuova tacca sul tuo fucile.

E Oscar non lo avrebbe potuto sopportare, non la mia Oscar. E se piangerà, piangerà in solitudine. Ma tu adesso non sai che dire, conte di Fersen, non vedi l’ora di andartene, rimettendo in tasca il tuo bel discorso preparato per l’occasione, infarcito di chissà quali belle parole, che una donna stavolta ti ha troncato sul nascere, a te, amante della regina di Francia.
 
“Finalmente se n’è andato” mi dice Oscar, tesa, mentre lo vediamo ancora allontanarsi a cavallo, al trotto, e ho quasi la sensazione che possa tornare indietro e ripensarci “Grazie, André” aggiunge, guardandomi.

“Figurati, Oscar, è stato pure divertente”, le dico, avvicinandomi “Come ti senti?” le chiedo poi, più incerto.

“Preferirei non parlarne”, e incrocia le braccia dietro la testa “Però, almeno qualcosa ho salvato. Almeno un pezzo di dignità. Vorrei davvero che avessimo passato una serata come quella che hai descritto. Sei sempre stato bravo a narrare, e pure a improvvisare”

“Non è stato difficile, ne abbiamo trascorse tante, di simili…” dico, sperando di non aver assunto il tono della nostalgia.

Le poso una mano sulla spalla. Lei, senza dir niente, la copre con la sua.

“Uno spaventapasseri, hai detto?”

“Oscar, era così… per dare colore” e, dopo una pausa “Fersen non ha torto, quella sera eri abbagliante”, e mi aspetto uno scatto, di un qualche tipo, che però non arriva, come non arriva nessun altro genere di confidenza; e lascio che il momento si stemperi, mentre guardiamo il tramonto e le ultime vestigia del conte di Fersen che scompaiono alla nostra vista.

Sento ancora la sua mano sulla mia, avverto il nervosismo e i tuoi conflitti, che però adesso non posso placare, neppure posso sfiorare- adesso sei sola, mia Oscar, posso solo attendere.

“Adesso sai cosa facciamo, André?” dici improvvisamente “Adesso prendiamo un paio di bottiglie di Chataeu nonsocosa dalla cantina, ce le beviamo in santa pace, e poi, appena sale la luna, ci mettiamo a declamare poesie!”

“Ottima idea, Oscar” approvo, sollevato.

E, rivolgendomi uno sguardo intenso, intenso e forte, tanto che lo sostengo appena, mi chiedi: “Mi reciterai di nuovo quella poesia? Quella di Catullo, che hai detto prima?”

“Certo, Oscar. Come vuoi tu”.
 
  
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