Libri > Il Signore degli Anelli e altri
Segui la storia  |       
Autore: Martin Eden    20/01/2021    1 recensioni
Ciao a tutti! Dopo anni di latitanza, mi è venuta voglia di tornare su questo Fandom, che ho tanto amato...e lo faccio con una vecchia storia LOTR che ho ripreso in mano ultimamente, dopo aver rivisto i film della trilogia de Lo Hobbit...mi è venuta voglia!
Scommetto che molti di voi, come me si sono posti questa domanda: ma Legolas e Aragorn dove si saranno conosciuti?! :D
Questa fanfiction cercherà di dare una risposta...allora voi leggete e commentate! :)
Genere: Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aragorn, Legolas, Thranduil
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Compagni di Sventura'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Legolas

 

Con i giorni, mi ero ripreso un poco. Un paio di notti di riposo, e mi sembrava di essere tornato come nuovo. Un po’ di stanchezza era ancora annidata nelle gambe, ma stoicamente pensavo di poterla gestire.

Dopo tanto cammino ero arrivato ai confini con il defunto regno di Angmar.

Me n’ero accorto subito. L’aria era cambiata, si era fatta più pesante e ovattata, come se attraversassi un’invisibile barriera. Nubi dense di pioggia volavano verso nord, dove scorgevo una terra brulla e sconfinata fino alle prime forme delle montagne e, alla mia destra, le forme squadrate della fortezza di Gundabad.

L’ultima volta che avevo visto quelle lucenti lastre di metallo, ero con Tauriel. Era stato un momento di grande intimità, fra di noi, nonché uno degli ultimi che ricordo di aver passato da solo con lei. In quell’occasione le avevo raccontato di mia madre e mi era parso di intravedere un lampo nei suoi occhi, qualcosa di simile alla tenerezza, e solo per me. Ma durò poco. La battaglia ci richiamava dal ventre della nostra coscienza, e già qualcos’altro, forse, richiamava Tauriel all’ordine naturale delle cose.

Cercai di scacciare quel pensiero e mi concentrai sul mio obiettivo.

Ero giunto alla fonte del mio tormento. Il luogo dove morì mia madre, dove mio padre aveva rischiato la vita per il nostro popolo; il luogo al cui cospetto mi sentivo quasi morire anche io. Un posto maledetto da ogni razza, uno scrigno di dolore che mi sembrava di percepire al contatto con ogni sparuto filo d’erba. Un paesaggio che ora aveva forme e colori, per quanto spenti e confusi.

Era come dare un nome alle mie paure. Se da un lato mi sentivo pronto ad affrontarle a testa alta, dall’altro avvertivo la spiacevole sensazione di non poterle vincere così facilmente.

Avevo una direzione: nord, nord e ancora nord, fino ai confini del Beleriand, se fosse stato necessario. Avrei esplorato in lungo e in largo quel luogo dimenticato dai Valar, lo avrei fatto mio prigioniero e avrei sondato tutte le domande che ora affollavano di nuovo la mia mente.

Solo poi avrei potuto cercare serenamente il Dùnadan.

Non avevo altra scelta.

Trassi un sospiro e mi incamminai nuovamente. Un raggio di sole sbucò proprio in quel momento dal cielo e parve salutarmi, indicandomi la via. Lo seguii con lo sguardo fin oltre gli spazi aperti e incontrastati delle Lande del Nord, finché notai la sagoma di una rocca sulla collina, contro i cui muri nessuna luce avrebbe mai potuto riflettersi. Indovinai che doveva trattarsi di Fornost, la capitale del Male.

Non mi sarei lasciato sfuggire l’occasione di farle visita.

Scesi agevolmente dal primo dirupo, con il viso rivolto verso la roccaforte. Mi aspettavano ancora leghe e leghe di marcia in quelle terre ostili, per questo ora correvo con l’arco di mio padre pronto in una mano.

Mi immaginavo come lui l’avesse usato su quel campo di battaglia, uccidendo creature immonde, fino ad uscirne vincitore. Potevano essere solo fuggevoli sogni, visto che non aveva mai voluto condividere con me quell’esperienza. Quello che conoscevo della storia, l’avevo appreso dai miei saggi maestri e dai libri. Pensare a mio padre che combatteva al fianco dei nostri Elfi e di altri valorosi guerrieri di altre epoche in quel territorio impregnato di leggenda mi inebriava di orgoglio e di sgomento.

Come avrei voluto sentirglielo raccontare almeno una volta.

Era paradossale, ma molto più probabilmente sarei stato io a raccontare a lui di come mi ero battuto sul campo di Fornost. Quando fossi tornato alla reggia, avrei dovuto dirglielo, sfidando la sua ira e i suoi occhi aguzzi, per non dire aguzzini.

Non ci volevo pensare, in quel momento. Pensare a re Thranduil mi provocava solo dolore inutile.

Passarono altri giorni di mortale silenzio. Il primo suono che mi investì le orecchie dopo quella pace forzata fu un verso acuto, stridulo, fin troppo conosciuto per qualsiasi guerriero.

Subito trassi i pugnali dal loro fodero: brillavano di un blu fosforescente e molto intenso, come sempre accadeva quando c’erano orchi nelle vicinanze. La magia elfica captava le vibrazioni del Male e mi avvertiva di prepararmi allo scontro.

Li riposi; subito incoccai una freccia nell’arco e mi abbassai. Il grido era venuto da poco più sotto di me, oltre una fitta macchia di cespugli. Non riuscivo a comprendere cosa stava succedendo poco più in là, la via mi era celata.

Mi mossi velocemente, circospetto, in quella direzione. Da dietro le piante, sbirciai.

Un manipolo di orchetti se ne stava selvaggiamente riverso sul terreno, a ridere e a rotolarsi nella terra, grugnendo come maiali.

Provavo ribrezzo di fronte a quel triste spettacolo; mi prudevano le mani al pensiero di vederli ancora vivi.

Pensai che forse un po’ di esercizio fisico mi avrebbe aiutato a distrarmi. Quegli esseri meritavano solo di morire.

Assaporavo già il momento in cui avrei spillato sangue dalle loro teste. Una rabbia antica come la mia stirpe strisciava rapidamente nelle mie viscere e mi inebriava i muscoli già tesi all’odore della guerra. I ricordi della battaglia delle 5 armate erano ancora così vividi in me, che potevo sentire il sapore della polvere in bocca. E una voglia di vita immensa, voglia di vincere.

Nascosto dai cespugli, tesi l’arco e presi la mira. L’orchetto più vicino si pavoneggiava con un compagno riguardo a un oggetto non meglio identificato: muggiva e a gesti indicava che cosa avrebbe voluto farne. Si potesse strozzare!

Decisi di cominciare da lui. Lo puntai e tirai la corda.

Ora iniziava il mio divertimento.

Proprio mentre stavo per scoccare la freccia, però, ne intravvidi un’altra solcare l’aria e infilzarsi dritta nella bocca di un altro orchetto, la cui sagoma era ornata da un elmo e un’armatura malconci: poteva essere il loro capo.

A dire il vero, doveva essere stato il capo. Ormai era caduto a terra, morto stecchito, ancora con la bocca aperta e i denti ben in mostra.

Sorpreso, mi appiattii sotto il cespuglio. Guardai alla mia sinistra, lungo la visuale libera fino a un punto dove notai qualcosa che si muoveva.

Una figura stava accovacciata tra le rocce, pronta a scoccare una nuova freccia, ma senza essere ansiosa. Gli orchi erano in fermento, correvano come pazzi di qua e di là, sotto di noi: andavano a prendere mazze e aste, e altri ordigni rudimentali con cui combattere.

Schiamazzavano perché avevano perso il loro capitano. Difficile ora prenderli di mira, in quella confusione.

Quella figura aveva rovinato il mio prezioso piano.

La vidi muoversi poco più in là e appostarsi dietro un’altra pietra. Incoccò e sparò altre due frecce, che andarono a segno; poi gli orchi cominciarono a salire in massa la collina e a lanciare quelli che sembravano affilatissimi coltelli.

La figura rinfoderò l’arco e sparì in men che non si dica, tempestata inutilmente da tutti quei proiettili. Io me ne stetti acquattato a osservare la scena, incerto se intervenire o meno.

La figura riapparve poco più sotto, con la spada in mano. Nel frattempo, un altro gruppetto di orchi, uscito da chissà dove, si riversava lungo il pendio, diretti al campo: erano molti di più di quanto potessi immaginarmi, almeno tre dozzine, forse attirati dalle urla.

Cominciai a sudare.

Lo sconosciuto si batteva come un leone. Roteava la spada con una certa maestria, ed era molto veloce: molto più veloce di quanto pensassi.

Con tutti quegli orchetti attorno, non riuscivo a vedere bene il suo viso e le insegne sulle sue vesti, semmai ce ne fossero. A giudicare dalla corporatura, poteva essere un mio simile.

Si batteva bene, ma i nemici cominciavano a essere troppi anche per la sua bravura. Lo sentivo gridare dallo sforzo e dalla determinazione con cui sgozzava quelle creature malvagie, ma temevo non avrebbe resistito a lungo. Altri orchetti si erano armati di frecce e stavano tentando di prendere maldestramente la mira.

Decisi che era giunto il momento di far pesare la mia presenza in quello scontro.

Incoccai di nuovo la mia freccia e senza esitare la puntai contro uno dei nemici che lo circondavano. Lo colpii in pieno collo, facendolo stramazzare a terra. Eccitato dall’aver fatto centro, presi altre due frecce e le scoccai, facendo centro.

Fu il parapiglia.

Gli orchetti cominciarono a correre come impazziti in tutte le direzioni. Qualcuno cominciò a roteare armi alla cieca, anche contro i suoi stessi compagni. Altri avanzarono minacciosi verso di me, con diverse pietre in mano. Presero a lanciarle, e fui costretto a spostarmi.

La figura approfittò della baraonda per togliersi di impiccio e abbattere altre bestie. Eppure quelle parevano moltiplicarsi, invece che diminuire. Oppure, erano semplicemente più agguerrite e incattivite dall’odore del sangue, quindi anche se abbattute si rialzavano e ritornavano ad attaccare più violentemente, in un ultimo sforzo prima di spirare.

Corsi giù per il pendio, scoccando frecce, verso il loro campo.

Quando ebbi usato anche l’ultima, seppi che la prima fase del piano si era conclusa. Trassi i miei pugnali baluginanti e iniziai a tranciare corpi e qualsiasi cosa si parasse di fronte a me.

Ritrovai la figura sconosciuta che si dimenava poco più in là. Ormai aveva decimato un’ala del manipolo di orchetti e avanzava in fretta verso il cuore del nemico. Andai a darle manforte.

In pochi balzi le fui accanto. Quasi la toccavo. Mentre stavamo uccidendo quanto più orchetti possibili, la vidi voltarsi e gridare:

- E tu chi sei?!-

Quasi ringhiava dallo stupore e dalla fatica. Dovevo averla sorpresa, ma non necessariamente in positivo.

Ci guardammo per un lunghissimo attimo, che mi parve infinito. Quando vidi il suo viso, il mondo mi crollò addosso.

Non era un elfo, ma un uomo. Un uomo che recava sul viso le cicatrici degli anni e la cattiveria delle battaglie e del tempo nascosta nella barba. Aveva un odore alle mie narici nauseabondo, un odore di morte e di oblio. E uno sguardo da far tremare la terra.

Non ebbi possibilità di pensare a nient’altro. Un sibilo familiare aveva colto impreparate le mie orecchie: una freccia era appena stata scoccata contro il guerriero. Mi gettai su di lui, istintivamente, come se fosse veramente un mio compagno d’armi e io lo dovessi salvare da morte sicura.

Fu un momento di distrazione, forse dato da tutto quel pandemonio, o forse fu una mia disattenzione; o forse, i Valar avevano già deciso tutto per me senza che io lo sapessi.

Avvertii il mantello che si incastrava tra i miei stessi piedi: scivolai, mi mancò il fiato mentre cadevo scompostamente contro lo sconosciuto.

Poi la freccia colpì il bersaglio con precisione micidiale e con un rumore sordo trapassò la mia pelle.

Mugolai per il dolore, accartocciandomi su me stesso come una foglia. Portai la mano al punto ferito, dal quale iniziava a uscire sangue caldo. Il mio sangue.

Era stato tutto così terribile quanto incredibile, considerato che intorno a me scorrazzavano solamente orchetti e questi non sono certo famosi per la destrezza con gli archi. Forse era stato solo un caso, ma quel caso aveva messo fuori gioco me e la mia spalla, in maniera del tutto inaspettata.

Per un attimo il male e lo sbigottimento erano stati sconcertanti. La bocca mi si era spalancata da sola in un urlo muto, mentre la mia mano si era chiusa intorno alla freccia.

Ma non avevo tempo da perdere, se volevo sopravvivere.

Raccolsi il mio coraggio, strinsi le dita intorno al legno e tirai. Con uno strappo secco il mio corpo fu di nuovo libero dal Male, anche se a caro prezzo. Altro dolore si iniettò in me, rapido e profondo.

Gli orchetti mi scavalcavano veloci: forse pensavano fossi già morto. Mi rimisi faticosamente in piedi e afferrai di nuovo i pugnali, tra sguardi attoniti e sibili minacciosi. Non ero abituato a combattere ferito; a dire il vero era successo poche volte nella mia vita. Inoltre, ero ancora giovane e inesperto, allora. Ora, invece, mi consideravo veloce, addestrato, abile; soprattutto, pensavo di essere invincibile. Ma qualcosa si era rotto nella mia invisibile corazza.

Con un urlo, mi rivoltai di nuovo sugli orchetti. Sentii la presenza dell’uomo vicino a me, quasi schiena contro schiena: sembrava stesse bene. Era accaduto tutto così in fretta, prima che la mia mente potesse reagire in maniera razionale, che senza quasi rendermene conto ero già tornato a combattere.

Li aspettavamo che si scagliassero contro di noi, proteggendoci le spalle, poi li colpivamo nei loro punti deboli, una volta scoperti. Una alla volta, le orde si dimezzarono contro le nostre armi, finché sul campo non restarono altro che cadaveri.

Ero al limite delle mie forze. Quando vidi che non restava più neanche un nemico in piedi, piantai un pugnale per terra e mi ci appoggiai sopra, inginocchiandomi. La spalla ferita pulsava e nonostante l’ardore della battaglia, dovevo ammettere che mi dava non poca noia.

Mi concessi solo un secondo per riprendere fiato, poi mi rimisi di nuovo in piedi e tenni sguainata la mia arma.

Mi voltai lentamente, cercando l’uomo.

Anche lui stava cercando il mio sguardo. Mi fissava ritto immobile, anche lui con la spada in posizione di attacco. Era la prima volta che ci osservavamo per qualche istante in più.

Accidenti a me e alla mia frenesia! Mi ritrovavo debole di fronte a un guerriero di tutto rispetto, senza poter decifrare se si trattasse di un amico o un nemico.

Mai avrei voluto mostrarmi in quelle condizioni.

Alzai i pugnali.

Forse c’era un’ultima lotta da affrontare.

Se dovevo morire, volevo morire da eroe.

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il Signore degli Anelli e altri / Vai alla pagina dell'autore: Martin Eden