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Autore: Elsira    22/01/2021    2 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Pagina 4.

 

I'm only human
I'm only human
Just a little human

I can take so much
'Til I've had enough


(Sono solo un'umana
Sono solo un'umana
Solo una piccola umana

Posso sopportare così tanto
Finché non ne ho abbastanza)

- Human, Christina Perri


 

Alla fermata dell'autobus e con le cuffie nelle orecchie, cercavo di ignorare il più possibile la richiesta sempre più disperata della mia gola di essere attraversata da un qualsiasi tipo di liquido. Mi schiacciai ancora di più contro il muretto alle mie spalle, nel tentativo di prendere quella poca ombra che la quercia del giardino di quella casa riusciva a offrirmi. Non ho mai saputo se si trattasse di coincidenze o meno, ma chissà per quale ragione il tempo atmosferico sembrava avercela con me nei giorni in cui ero nervosa ancor prima di mettere piede giù dal letto. Se uscivo e mi scordavo l'ombrello, appena mi allontanavo da casa iniziava a diluviare, per poi smettere quando entravo in un qualsiasi edificio e ricominciare appena ne uscivo. Se mi dimenticavo gli occhiali da sole, ogni volta c’erano dei raggi talmente forti che spaccavano le pietre e mi facevano dolere gli occhi per ore. Se rimanevo appiedata, mi dimenticavo la bottiglietta, sacra, dell’acqua perché mi ero preparata di corsa per colpa di una sveglia che non era capace di fare il suo lavoro, con tanto di caldo della malora, seppure fossimo appena entrati in aprile.

Tirai un sospiro rassegnato a quello che pareva essere il mio destino, mentre aspettavo il quinto pullman della giornata, il quale, se tutto fosse andato bene, sarebbe arrivato nel giro di una quarantina di minuti. Cercai di pensare positivo e concentrarmi sulla canzone degli Eagles che avevo nelle orecchie, quando l’ombra di una macchina e il suono del clacson mi fecero guardare avanti. Da dietro al finestrino appena abbassatosi, vidi il volto sorridente di Arkin: «Serve un passaggio?»

«Devo andare in città… a casa di mio padre…» Borbottai, incerta se accettare o meno l’offerta. Il suo sorriso si allargò, mentre si stendeva per aprirmi la portiera e fare cenno di salire: «Salta su, stjerne.»

Rimasi al mio posto, sinceramente combattuta se salire in macchina o meno. Non volevo essere un impiccio. «Davvero?»

Arkin abbassò gli occhiali da sole che fino a quel momento gli avevano nascosto gli occhi e, serio, affermò: «Se non sali in macchina entro due secondi, ti prendo di peso e ti lego sul tettuccio al posto bici.»

Non potei fare a meno di ridere, salendo e ringraziandolo con un sorriso. Nemmeno ce lo aveva, la sua polo, il posto bici sul tettuccio.

Il tempo di ripartire, che Arkin chiese subito: «Allora… come mai appiedata?»

«Aspettavo il pullman…» Risposi io, evasiva.

«Beh, sì… L’avevo capito questo, dato che eri alla fermata del pullman… Riformulo: perché non sei andata in macchina in città?»

«Perché… non… so guidare… Cioè.» Mi corressi subito: «Mettiamo bene le cose in chiaro: non è che non so guidare. Io so guidare. È solo che non… sono... legalmente autorizzata a farlo…»

«Mi stai dicendo che non hai la patente?»

Non risposi, il volto rivolto contro il finestrino del passeggero per evitare di guardare Arkin in faccia, come se il paesaggio dei campi mezzi coltivati fosse la cosa più interessante del mondo.

«Com’è possibile? Io e te abbiamo la stessa età, perché non l’hai presa a 18 anni come tutti?»

«Perché si dà il caso che io a diciott'anni, a differenza di tutti, fossi troppo impegnata.»

«Ah ah… Sì… Certo… E io sono il figlio illegittimo del principe di Norvegia. Dai, non avevi voglia, ammettilo.»

«Ma lo sai che sei proprio un rompiscatole?»

«Ah, davvero? Allora sono sceso di un gradino, fino a ora ero da prendere a schiaffi.»

«Lo sei ancora…» Poi, con tono da cane bastonato, chiesi: «Hai dell’acqua?»

Mi fece cenno con la testa, non distogliendo gli occhi dalla strada: «Nel cruscotto ci dovrebbe essere una bottiglietta.»

Aprii entusiasta, ma l’espressione mi si rabbuiò non appena vidi la targhetta rossa sulla plastica, facendomi borbottare: «Ma è frizzante…»

«Beh… Sì, a me piace frizzante e…» Disse lui, alzando le spalle e, dopo avermi lanciato una breve occhiata, esclamò: «Che stai facendo?»

«La sgaso.» Risposi io non curante, mentre agitavo con forza la bottiglietta nella mia mano, aprivo appena e richiudevo subito il tappo, per poi ripetere l’operazione in modo da togliere il più possibile l'anidride carbonica dal suo interno.

«Ma è la mia acqua!» Esclamò, il mezzo-norvegese al mio fianco, con un tono che doveva essere tra lo sconcertato e l’arrabbiato.

Io risposi con una semplice alzata di spalle: «Tanto tu non la bevi.»

«E se avessi avuto sete anch’io?»

«Appena arriviamo ti do un’intera cassa, contento?» Sbuffai, annoiata da quella discussione: ma perché doveva fare sempre di tutto un problema, anche dove non ce ne erano?

Batté la mano sul volante, come per affermare meglio la propria posizione, per poi indicare il contenitore di plastica tra le mie mani: «Io non voglio una cassa, io volevo quella bottiglietta lì!»

«Ma lo sai che sei più immaturo di un bambino?» Sbuffai, guardando dall’altra parte e facendo fare all'acqua l’ultimo shakeramento. Il semaforo era appena diventato rosso e Arkin approfittò della fermata della vettura per voltarsi verso di me ed esclamare un teatrale: «Ah! Io sarei l’immaturo?»

Non risposi, perché troppo impegnata a estinguere l’arsura che mi stava disintegrando la gola.

«Accidenti… Avevi proprio sete, eh…» Commentò Arkin, ripartendo. Risposi solo dopo aver ripreso fiato, asciugandomi le labbra umide con il polso. «Sì, sono due ore e mezza che aspetto il pullman…»

«Sul serio? Come mai, non è passato?»

Attesi un attimo prima di rispondere, riflettendo se fosse stato il caso di dire la verità o meno. Alla fine scelsi che di lui potevo anche fidarmi: «In realtà è passato ogni mezz’ora, come di regola, solo che ogni volta l’autista non aveva il biglietto da darmi, perciò non sono potuta salire.» Scostai lo sguardo verso il finestrino, mordendomi la lingua, pentendomi subito della scelta fatta, già consapevole di come sarebbe proseguita la conversazione. “Ho sbagliato... Non avrei dovuto espormi così tanto.”

Dopo qualche secondo di silenzio imbarazzante, quasi avesse aspettato lo stop per potersi fermare e guardarmi, Arkin sussurrò: «Che… cosa?» Non risposi, cosa che fece proseguire lui: «Fammi capire… Tu hai aspettato due ore e mezza, con quaranta gradi all’ombra, senz’acqua, in piedi, perché l’autista non aveva da darti il biglietto?» Abbassai gli occhi, mentre un’ondata di un’emozione cui non ero mai riuscita a dare un nome mi attorcigliava lo stomaco. O meglio, voluto dar un nome.

«Perché?»

“Piantala con quello sguardo, non sono un’idiota. So come gira il mondo. Solo che non mi piace, non mi va giù e io così non mi comporto. Ne va della mia coscienza!”

«Salire senza no, eh? Che avresti fatto se non fossi passato io?»

«È illegale prendere il pullman senza il biglietto timbrato.»

«Tu non sei una persona normale… Oltretutto tu lo volevi pure, è colpa dell’autista se non te l’ha dato, se saliva il controllore non poteva nemmeno farti la multa.»

«Non c’entra nulla la multa.» “È una questione più importante.” «Se il mio buon senso mi vieta di fare qualcosa, io non la faccio. Punto.»

«Rischi grosso a fare così. Ti metteranno tutti i piedi in testa…»

«Io non credo al “mangia o vieni mangiato”. Credo che, dando il buon esempio, magari qualcuno potrebbe anche invitarmi a tavola e nessuno resterebbe a bocca asciutta.»

«Potresti morire di fame nell’attendere quell’invito.»

«Allora si vede che sarà destino che io muoia di fame.» Lo guardai, un sorriso triste a distendermi le labbra. «Ma non potrei vivere con la coscienza che, per mangiare io, ho fatto morire di fame qualcun’altro.»

«E a quei vivi che ti lasceresti indietro non pensi?» Quella fu l’ultima domanda, priva di risposta, che venne pronunciata. Restammo ognuno nel proprio silenzio nei cinque minuti successivi, entrambi senza alcuna intenzione di riprendere il discorso. Solo dopo aver varcato il cartello con il nome della città, Arkin distese le labbra in un sorriso e, come non fosse successo nulla, mi chiese: «Da che parte devo andare?»

«Gira a sinistra al prossimo incrocio.» Risposi, grata di poter ricacciare indietro quella sensazione allo stomaco e tornare a toni leggeri. Lui mi lanciò una breve, scettica, occhiata. «Ma c’è un viale privato.»

«Sì, casa di babbo è in fondo a quel viale.»

La macchina svoltò e, mentre percorreva la strada costeggiata da file di cipressi e tigli, vedevo la faccia del mio amico farsi sempre più incredula. “No, ti prego… Non quell’espressione…” 

«Mi stai… prendendo… in giro…»

“Non chiedermelo… Ti prego.”

«Ma quanti cazzo di soldi c’hai?»

Mi morsi le labbra, incapace di trattenere un moto di stizza. Dovetti concentrarmi con tutta me stessa per rispondere. «Non sono soldi miei, sono i soldi di mio padre.»

«È la stess…»

«No!» Più che un esclamazione, fu una specie di rantolo. Mi schiarii la voce, cercando di riprendere il controllo. «Non è assolutamente la stessa cosa… Attraversa il piazzale e parcheggia nel garage.»

«Parcheggio?» I suoi occhi erano confusi, ma avevano anche una piccola luce di curiosità innocente. Cercai di sforzarmi il più possibile su quel piccolo barlume e accennai un sorriso. «Non vuoi entrare e vedere casa?»

«Diamine, sì! Subito!»

Una volta scesi di macchina, mi guardai un attimo attorno per essere certa che fosse tutto tranquillo, dopodichè ci dirigemmo in casa.

Dovetti trascinare Arkin per un braccio per l’intero tragitto, ma alla fine riuscii ad arrivare in camera mia senza troppe complicazioni. “Me la sono cavata con un cenno di mano e un sorriso ai soli giardinieri. Riflettendoci, è andata alla grande…” Pensai, mentre aprivo la porta e quasi ci spingevo il mio amico all’interno. 

«Hey, te la vuoi dare una calmata?» La voce di Arkin mi fece tornare al presente, la mia espressione in preda alla confusione. Lui tirò un sospirò, voltandosi verso di me e prendendomi i polsi, in modo da tenermi ferme le mani lungo il corpo. «Hai detto che mi avresti fatto vedere casa tua…»

«Di mio padre.» Lo corressi subito, immediatamente di nuovo lucida. Lui mi guardò un attimo più confuso. Tirò un altro sospiro e lasciò la presa sui miei polsi, riprendendo lì dove l'avevo interrotto con voce più calma, una mano nella tasca dei jeans e l’altra lasciata cadere lungo il dorso. «Hai detto che mi avresti fatto vedere casa di tuo padre, ma mi hai strattonato dalla macchina a qui senza darmi tempo di vedere nulla. E tra l’altro, pareva tu volessi nascondermi da tutti.»

Scostai lo sguardo, restando in silenzio. «Ho qualcosa che non va? Ti vergogni di me, per caso?» Lui inclinò la testa, le braccia incrociate al petto, in attesa di una mia spiegazione che arrivò solo dopo che fui riuscita a sciogliere il nodo che avevo in gola. «Non stavo nascondendo te, ma me stessa. Non mi piace stare in mezzo alla gente che lavora per mio padre, non mi piace parlare con loro o avere a che fare con loro. Mi trattano come una principessa, mi guardano come fossi una privilegiata, ed è una sensazione che detesto. Non è colpa mia se sono sua figlia, se lui è uno coi soldi… Non è una cosa che ho scelto io…»

Arkin non disse nulla, non commentò la mia piccola spiegazione, mi diede solo qualche lieve patta sulla testa, sussurrando: «Su, su…» Alzai lo sguardo per vedergli un sorriso strafottente in volto: «Se può esserti di consolazione, io non ti vedrò mai come la principessina di papà. Per me sarai sempre quella bimba che quando si incazza pare un cinghiale.»

«Un… un cosa?» Esclamai inorridita, il volto completamente in fiamme. Avrei voluto dargli uno schiaffo, ma la sua risata mi fermò la mano: «Finalmente! Ecco un’espressione che ti si addice!» Non feci in tempo a ribattere, che Arkin mi diede le spalle. Iniziò a guardarsi attorno, esaminando la mia camera da letto e, dopo qualche secondo di silenzio, si voltò verso di me con un’espressione quasi dispiaciuta: «Questa non è la tua stanza. È una camera degli ospiti, dico bene?»

Mi scappò un amaro sorriso a sentirgli porre quella domanda, sentendomi però anche scaldare un poco il cuore. Decisi di seguire il mio intuito e farlo parlare, magari sarebbe riuscito a farmi sentire compresa, almeno lui: «Perché? Cos’ha che non va la mia camera?»

Arkin sfiorò il muro color denim chiaro, gli occhi leggermente strizzati, segno evidente che stava cercando le parole giuste nella sua mente. «È... fredda…» Si guardò un poco attorno, la mano sempre a sfiorare la parete. «Non ti rappresenta per nulla. È una bella camera, non mi fraintendere: è enorme, il mobilio è fantastico, l’accostamento dei colori è impeccabile per quel che ne capisco io, però… Come dire… Non è tua… Sembra fatta da un designer, buttata lì e lasciata a se stessa. Non c’è una tua foto, non una dei tuoi amici o della tua famiglia, non ci sono tuoi disegni, tutti i libri, noiosi dai titoli, sono ordinati nelle scaffalature, non c’è nulla sul comò se non l'abat-jour.» Si avvicinò alla libreria e mi guardò stranito, quasi non riuscendo a credere a ciò che leggeva. «“Le 48 leggi del potere”? Seriamente?»

Non avevo mai nemmeno aperto quel libro. Così come il buon 80% di quello che era stipato lì dentro, composto da testi su come fare soldi, essere imprenditori di successo, politica e cose del campo della finanza. Saranno anche state ottime letture, per carità, ma non erano assolutamente il mio genere. Erano tutti regali di mio padre.

Il restante 20% erano libri per l'università e dizionari vari. E un paio di libri su Michelangelo Buonarroti e Leonardo Da Vinci, i miei amori Rinascimentali. Anche se erano anni che non prendevo un pennello in mano, non ero mai riuscita a togliermi dalla testa e dal cuore le emozioni che mi trasmettevano quei due Geni. Ammiravo e adoravo tutto di loro, persino la loro relazione d'odio. Ma era una passione, se così si vuol chiamare, che tenevo per me, non mi ero mai trovata a mio agio a parlarne con altre persone, e non credo l'avrei mai fatto. L'unica valvola di sfogo che avevo era Aurora, che tutte le volte ascoltava i miei infiniti sermoni e sproloqui con una pazienza infinita, dandomi pure spago anche se sapevo benissimo che le importava poco. Anche per questo la amavo. 

Arkin si scostò dalla libreria. «Non c’è nulla di te qui dentro, questa potrebbe benissimo essere la stanza di una qualsiasi ragazza. Una che aspira a diventare la prossima Bill Gates.» Fece un piccolo sospiro, dopodiché guardò me e aggiunse: «La tua camera da bambina era un’esplosione di colori e personalità, costantemente in disordine probabilmente, ma chi ti conosceva sapeva vedere te in quel casino, che apparentemente non aveva né capo né coda. E trovarti. Ricordo ancora la luce che avevi negli occhi quella mattina che sei venuta alla materna con i capelli ancora tinti dalla pittura che avevi usato di nascosto per dipingere il muro, perché nel bel mezzo della notte ti era venuta voglia di pitturare con le mani le pareti.»

Chinai il capo per nascondere il volto, il labbro inferiore che tremava vistosamente già alla parola “fredda”. Possibile che lui avesse capito in meno di un minuto quello che mio padre non comprendeva da anni?

Vidi le scarpe da ginnastica di Arkin avvicinarsi e nel giro di poco le sue braccia mi avvolsero in un tenero abbraccio. Non disse nulla, non mi chiese nulla, rimase solo a cullarmi dolcemente nel più assoluto silenzio, accarezzandomi i capelli. Ho sempre odiato quando mi toccano i capelli, solo il mio parrucchiere è autorizzato a metterci le mani, ma quel tocco leggero era così piacevole e rilassante che non provai nessuna frustrazione nel riceverlo.

Rimanemmo così per qualche minuto abbandonate, finché non mi fu completamente passata e potei asciugarmi gli occhi senza temere che le mie emozioni sfuggissero di nuovo al mio controllo. In effetti, quel giorno le avevo messe anche troppo alla prova.

Alzai lo sguardo ancora un poco spento e trovai quei due zaffiri che mi osservavano rassicuranti, accompagnati da un sorriso strafottente che avrebbe fatto invidia a Terence Hill nel ruolo di Trinità. Non potei fare altro che ridire e appoggiare la fronte al petto del mio amico, dolcemente sconfitta da quell’accidenti di sua capacità di tirarmi su il morale.

Arkin si staccò e andò a sedersi pesantemente sulla sedia girevole, davanti la scrivania. «Uh, figo…» Sussurrò appena, prima di iniziare a girare come una trottola, ridendo sinceramente divertito, mentre io lo guardavo con un perplesso sopracciglio alzato. Ma davvero avevamo la stessa età? Sul serio il ragazzo davanti a me aveva ventidue anni? Era impossibile: un attimo era il perfetto amico, un confidente e scrutatore d’anima come dubito esistano pari… e l’attimo dopo diventava un bambino in piena regola, anzi persino peggio!

Riusciva sempre a sorprendermi, ma ancora non avevo capito se in modo positivo o meno. Però, questa era una caratteristica che mi aveva sempre affascinata: l’essere in grado, da un secondo all’altro, di lasciarsi prendere dalla spensieratezza più pura e genuina, la capacità di divertirsi con nulla e riuscire a influenzare coloro che ti stanno attorno con una gioia innocente. È un tipo di forza che io non ho mai avuto: la capacità di mettere a proprio agio e far sentire compresi chiunque ti trovi davanti. Dal canto mio, da quando hanno deciso che dovevo essere adulta, lo sono semplicemente diventata. Era successo così, da un giorno all'altro, senza nessun vero preavviso né desiderio personale, senza più nessuna capacità di provare quella gioia innocente se non per mezzo di ricordi che si facevano sempre più sbiaditi. “O forse, ho solo finto di diventarlo…”

Mi rabbuiai un attimo a tali pensieri, ma poi sentii Arkin fare allegramente “wiiiiiii” ogni volta che si dava una nuova spinta per girare ancora più in fretta e mi scappò una risata, accompagnata però dal gesto automatico di scuotere scoraggiata la testa: era uno spettacolo decisamente triste. Anche se in senso buffo. Un buffo triste.

Decisi di smettere di pensare a un modo per definirlo e andai a sistemare i vestiti che la cameriera mi aveva lasciato sul letto, lasciandolo al suo divertimento.

«Okay… Basta, mi viene da vomitare…» Decretò alla fine, dopo cinque minuti buoni di trottola, facendomi scappare un sorriso rassegnato.

«Metto apposto questa maglia e poi ho fatto.» Dissi, prendendo la cruccia e stendendo l’abito. Lui fece un cenno di ok con la mano, spostando gli occhi scrutatori sulla scrivania.

Seduto al contrario sulla sedia, dopo una breve manciata di istanti allungò la mano e prese il portafoglio. Non dissi nulla, tanto dei soldi ero certa che gli importasse meno di niente, anche perché sarebbe cascato male visto che era già tanto se ci avesse trovato 5 euro. Sicuramente era molto più interessato all’indecente foto nella carta di identità, ci avrei potuto mettere la mano sul fuoco; e avrei pure vinto. 

Lo aprì, mentre ero certa nella sua mente stavano già andando a formarsi battutine preparatorie su come ero venuta male quando, contro ogni mia aspettativa, tirò fuori un pezzo di carta plastificata, proferendo tra il confuso e l’incredulo: «Ma… questo…» Gli lanciai un’occhiata e vidi che teneva in mano il biglietto a forma di cuore che mi aveva regalato quando eravamo bambini. Mi sorprese un poco il fatto che lo avesse trovato con tanta facilità, perché credevo di averlo nascosto bene. 

«Sì, è il tuo bigliettino.» Gli risposi con un sorriso, avvicinandomi e posizionandomi dietro di lui. Il mio amico mi guardò, sorpreso: «Ma lo hai conservato per tutto questo tempo? Sul serio?» Rimisi il portafoglio al suo posto. «Che domande, certo! È importante per me.»

«Certo che è davvero orribile…» Bofonchiò, aprendolo e rigirandoselo perplesso tra le mani. Io sorrisi, lasciandomi sfuggire una risatina sincera: «Ah ah, sì concordo in pieno!»

Arkin mi guardò storto, per poi bofonchiare offeso: «Sei cattiva…»

«E perché? Sei tu che l’hai ammesso.» Sbattei le palpebre, interrogativa. 

«Sì, ma tu avresti dovuto dire qualcosa per contraddirmi… Qualcosa come “ma no, non è vero che è orribile”, “sei troppo critico con te stesso”, “avevi solo 3 anni quando lo hai fatto, scemo”... Roba così…» Disse lui, tentando di imitare il tono di voce di una ragazza, ottenendo però il risultato di suonare come una gallina a cui viene tirato il collo. Mi trattenni dal farglielo notare, stringendo le labbra tra loro per non scoppiare in una risata poco carina, mentre Arkin tornava a guardare il pezzo di carta con aria delusa, poggiando il mento sullo schienale della sedia.

Non potei fare a meno di storcere la bocca e prenderlo un poco in giro, sedendomi sul letto a una piazza e mezzo, dietro di lui: «Ma cosa sei, una di quelle adolescenti in cerca disperata di complimenti, che postano le loro foto e dicono “sono orribile” solo per sentirsi dire quanto in realtà siano bellissime?» Lui mi guardò storto, dopodiché si alzò e si diresse nell’altra stanza, allorché io gli chiesi: «Ehi… dove stai andando?»

«A buttare questo obbrobrio.» “Cazzo, la sua memoria!” «Mentre mi trascinavi di qua e di là ho intravisto un caminetto acceso, devo solo ritrovarlo.» 

Sì, non avete letto male: acceso. “Per atmosfera”, così diceva sempre mio padre quando gli chiedevo perché tenesse il finto - l’ho sempre considerato tale, visto che per accenderlo bisogna utilizzare il bioetanolo anziché la legna - camino in funzione anche quando fuori si scoppiava di caldo. Non era raro nemmeno che, in contemporanea, accendesse l’aria condizionata. Mio padre era sempre stato un mago di sprechi e risparmi stupidi, in tutti i frangenti. Comprava la carne in offerta che scadeva il giorno successivo, per poi andare a cena al ristorante stellato e lasciarla ammuffire nel frigorifero, se non ci fosse stata la cameriera che la gettava. Mi ripeteva sempre che il rispetto per gli altri e, soprattutto per ciò in cui credono, è la cosa più importante e quelle rare volte in cui andavamo a comunioni, battesimi e via dicendo, era il primo che imprecava prima, durante e dopo l’intera cerimonia, offendendo preti, la cerimonia in sé e tutti “quegli imbecilli che credono a ‘sta roba”. Un uomo pieno di contraddizioni, mio padre.

«Cosa? No, non provarci nemmeno!» Gridai, scattando in piedi e correndogli dietro per impedirglielo.

«Sì invece!» Ribatté lui, fermandosi e stendendo il braccio verso l’alto per impedirmi di riprendermi il biglietto, dato che avevo iniziato a saltellare isterica nel tentativo di riappropriarmene, colmando quei 18 centimetri che ci separavano. «Ma lo hai fatto tu!»

«E tu avresti dovuto bruciarlo tempo fa! È inguardabile!»

«Eddai Arkin! È mio!»

Lui mi guardò con un sopracciglio alzato, un’aria sufficiente in volto: «Tecnicamente l’ho fatto io, quindi è mio

Smisi di saltellare e lo fulminai, correggendolo: «No, tecnicamente tu lo hai regalato a me, quindi adesso…» Glielo strappai dalle mani, approfittando della sua distrazione, per poi portarlo con cura al petto e concludere: «Questo biglietto è mio e tu non puoi più riaverlo indietro!» Lo accarezzai dolcemente e mi diressi verso la mia camera, parlando alla carta come fosse un pupo: «Tranquillo piccolo, ora c’è la mamma qui con te, è tutto apposto… Quel vecchio babbuino prepotente non ti farà più del male…»

«Vecchio babbuino prepotente?» Ripeté lui, guardandomi storto e alzando nervosamente un sopracciglio. Io mi voltai e, per tutta risposta, gli mostrai un sorriso a 32 denti.

«Signorina Camilla!»

Il sorriso mi morì l’istante in cui la voce di Janak mi giunse alle orecchie, mentre il corpo si irrigidiva involontariamente. Dovetti sforzarmi con tutta me stessa per voltarmi verso di lui e rispondere al saluto nel modo più naturale possibile. «Ciao Janak.»

Il robusto indiano sulla cinquantina si diresse verso me e Arkin, il sorriso che aveva costantemente in volto più brillante che mai. «Signorina Camilla, che bello vedervi. Restate a cena stasera? Suo padre è…»

«All’estero. Sì, lo so.» Lo interruppi, le labbra serrate e il finto sorriso più naturale che riuscivo a fare. Inspirai profondamente per cercare, invano, di rilassarmi. «Sto solo nel pomeriggio, torno a dormire da mia madre. Per mangiare non preoccuparti, mi arrangio da sola.» Presi Arkin per il polso e me lo tirai dietro verso l’uscita, sorpassando l’uomo e tenendo lo sguardo sul pavimento, sperando con tutta me stessa che non mi parlasse né guardasse più. 

Alzai gli occhi non prima di vedere la luce dell’esterno. 

Percepii le mani di Arkin sulle spalle, che si rilassarono solo in quel momento. «Tutto okay?»

Annuii, non sapendo che altro fare. Stavo seriamente iniziando a sentirmi male, in quel momento avrei voluto solo correre in camera, spalancare la finestra e chiudere a chiave la porta. E non pensare a nulla, far tacere quelle brutte sensazioni che mi attanagliavano lo stomaco e mi facevano martellare la testa.

Arkin scese un paio di gradini e si voltò verso di me con un sorriso, facendomi tornare presente a ciò che mi accadeva intorno. «Devi studiare ora, dico bene? Io vado.»

«Mi dispiace…» Fu tutto quello che riuscii a dire, senza riuscire a sorridergli. Avrei potuto rifilargli un sorriso falso, ma non volevo. Non con lui.

Come mi avesse letto nel pensiero, le sue labbra si distesero a formare un’espressione di gioia degna di un bambino quando entra in un negozio di caramelle. «Non preoccuparti, dovevo venire comunque in città, ho un appuntamento con degli amici.» Mi accarezzò la guancia con affetto e mi guardò negli occhi, aggiungendo: «E la prossima volta che hai bisogno di un passaggio, chiamami.»

«Lo sai che non lo farò mai.» Ribattei. Lui avvicinò la sua fronte alla mia, sfiorandola appena. «Già… Ma io almeno ci provo. Vi ser deg, lille stjerne. (Ci vediamo, stellina.)» Mi lasciò un lieve bacio sulla nuca e si voltò, avviandosi alla macchina, la mano alzata in cenno di saluto. 

«Mh… Vi ser deg…  (Ci vediamo...)» Sussurrai, guardandolo fare retromarcia e imboccare il viale. Rimasi immobile sugli scalini fino a che non fui più in grado di vedere la sua Polo bianca, dopodiché girai i tacchi e mi diressi a corsa in camera mia.

 
 

 


Sì, beh... La ragazza ha seri problemi relazionali. E di ansia, quella di tipo sociale. Dovrebbe andare da uno psicologo, ma... beh, uno dei suoi maggiori problemi è la sua relazione con il denaro. Non è essere tirchi, o parsimoniosi, o non averli... E' proprio paura di spendere, non tanto perché si teme o si sa che finiscono, ma proprio paura nel termine più concreto del termine. Per questo ha il portafoglio praticamente vuoto. E questa sua paura del denaro è una buona base per la sua ansia sociale. Non è semplice avere a che fare con le persone in età scolastica (parlo di elementari-medie, molto prima di quanto accade qui) se hai il terrore di invitarli a casa tua. C'era un flashback di Cam sull'argomento, ma non sono ancora sicura di volerlo inserire nel racconto onestamente, forse stonerebbe meno come os, devo rifletterci un poco.
Ha un sacco di pippe mentali in testa, non si fosse capito. 
Io onestamente non vedo l'ora di presentare Aurora, la ragazza da un tocco di colore alla storia. E poi è l'unica che riesce a far ragionare un po' Cam. E lei e Arkin insieme sono uno spettacolo pirotecnico, spero davvero solo di riuscire a tramettere la sua energia e il suo entusiasmo infinito. Tutti dovrebbero avere un'Aurora nella loro nicchia di amici... 
Bon, grazie se siete arrivati fino a sto' punto, avete una pazienza infinita anche voi evidentemente!
Alla prossima, bye bye!



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