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Autore: AlexSupertramp    24/01/2021    1 recensioni
La mano si era mossa un anno fa, più o meno.
Mi ricordo che mi trovavo al centro di riabilitazione del Dottor Barns e me la stavo fissando, la mano, e pensavo proprio di volere che si muovesse, in qualche modo.
E alla fine si era mossa. Forse perché l’avevo pensato più intensamente del solito, o almeno quella era stata la ragione che aveva trovato lei a quell’avvenimento, quando gliel’avevo raccontato al telefono.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il tempo trasforma il cuore umano
Placa i ricordi amari, concede l'oblio.
Il calore si sente solo accanto alle persone.
(Misako Kurata - Kodomo no Omocha)
 
Those Weeks

 
La mano si era mossa un anno fa, più o meno.
Mi ricordo che mi trovavo al centro di riabilitazione del Dottor Barns e me la stavo fissando, la mano, e pensavo proprio di volere che si muovesse, in qualche modo.
E alla fine si era mossa. Forse perché l’avevo pensato più intensamente del solito, o almeno quella era stata la ragione che aveva trovato lei a quell’avvenimento, quando gliel’avevo raccontato al telefono.
Ricordo di aver mosso leggermente le dita della mano destra fino ad alzarne l’indice di qualche grado in più rispetto alla calma piatta a cui mi ero abituato.
Poi quei gradi erano aumentati sempre di più fino a riuscire addirittura ad intrecciarle tra loro le dita.
Mio padre ne fu entusiasta, mi ricordo che addirittura gli occhi gli divennero lucidi. Forse, pensai, quella visione lo stava ripagando di tutti gli sforzi che aveva fatto nel cercare di contattare il dottor Barns e di quel travagliato trasferimento a Los Angeles.
Spesso mi chiedeva di fargli vedere la mano che si muoveva e io lo accontentavo, perché mi resi conto che quella dinamica non mi dispiaceva né mi infastidiva più di tanto.
Comunque dopo un anno da quel primo, minuscolo movimento di dita, ora riuscivo a contare muovendo un dito alla volta e chiudendo le restanti quattro a pugno, e non sentivo assolutamente nulla.
E con quella mano chiusa a pugno, lasciando che si muovessero solo le dita, iniziai a contare i giorni. E mi resi subito conto che non bastava una sola mano a calcolare il tempo intercorso dalla nostra ultima telefonata. Allora trasformai i giorni in settimane e per quelle bastarono le mie cinque dita della mano ancora ammaccata.
Nel alzai quattro, chiudendo solo l’ultimo a pugno.
Non so perché in quel momento realizzai veramente il tempo, forse perché l’avevo trasformato in qualche cosa che potevo toccare e addirittura muovere, ma mi resi conto che erano veramente passate quattro settimane dall’ultima volta in cui io e Kurata avevamo parlato al telefono.
Mi voltai istintivamente verso il comodino su cui avevo sistemato i dinosauri, il trofeo di karate e il bigliettino d’auguri che mi aveva mandato due settimane prima, e poi tornai a guardarmi la mano con le quattro dita alzate.
Forse avrei dovuto abbassarne due perché, in fondo, lei quel bigliettino me lo aveva mandato, ma io non le avevo telefonato per ringraziarla. Allora le piegai a metà, ma sentii una fitta di dolore nel polso che mi costrinse a sciogliere quella posizione per aprire nuovamente la mano e sgranchirmi le dita.
Erano due anni che non la vedevo e, per quanto avessimo cercato di tenerci in contatto con telefonate e fax, mi ero reso conto molto presto che quel genere di cose non mi bastava affatto e che avrei voluto prendere il primo volo per il Giappone e tornare da lei. Mi era successo così spesso, di pensare di mollare tutto e tornare a casa, soprattutto i primi tempi dopo l’operazione, quando la mano non voleva proprio saperne di muoversi. E allora mi dannavo, pensando di aver rinunciato a lei inutilmente se quello stupido arto non si muoveva nemmeno di un millimetro.
Ricordo che una notte mi ero messo a cercare sull’elenco telefonico la biglietteria più vicina a casa. Ero fermamente intenzionato ad informarmi sul costo di un biglietto aereo per Tokyo e risparmiare sulla paghetta che il vecchiaccio mi rifilava ad ogni fine settimana.
Ma quando poi avevo controllato l’indirizzo della biglietteria mi ero reso subito conto della follia perché Los Angeles non era solo una città enorme, ma talmente dispersiva che avrei dovuto prendere quattro autobus diversi più due metro per arrivare all’aeroporto. E l’avrei anche fatto, in realtà, se poi non mi fossi reso immediatamente conto che anche se avessi messo da parte tutte le paghette fino alla fine della mia adolescenza, non ce l’avrei mai fatta a pagarmi un biglietto per tornare a casa da solo.
E allora mi prendeva lo sconforto, perché mi sentivo legato ad una sedia con delle catene d’acciaio e Sana era lì, a pochi passi da me, ma legata anche lei con altre catene di cui non riuscivo nemmeno a vederne la fine.
Allora continuavo a dannarmi, pensando a quanto non mi bastasse sentire solo la sua voce per telefono una o due volte alla settimana.
Sana era spesso impegnata con il suo programma alla radio e io ero spesso impegnato con la riabilitazione e poi, dopo qualche tempo, con gli allenamenti di karate del dottor Barns. Poi c’era il fuso orario tra noi due, certo, che ci separava ulteriormente. Diciassette ore di differenza che spesso mi impedivano di chiamarla quando ne avevo voglia così come spingevano lei a lasciare stupidi messaggi in segreteria che io riuscivo ad ascoltare solo quando mi svegliavo.
E il tempo era passato in quel modo e io, onestamente, iniziai a pensare di non dovermi dannare più di tanto all’idea che quelle cose non mi bastassero più.
Mi dicevo, e qualche volta me lo diceva anche Natsumi, che alla fine Sana era guarita dalla sua strana malattia e che io mi stavo impegnando anche per lei affinché la mia mano guarisse e che quelle erano le cose che contavano davvero. E per quanto mi facessero arrabbiare come null’altro al mondo, avevo imparato a conviverci, senza dannarmi e senza più pensare che quelle due o tre telefonate alla settimana non mi bastavano più.
Mi ero reso conto, in quel momento, di aver semplicemente dimenticato quella sensazione di sconforto che avevo provato spesso i primi mesi lì a Los Angeles. Oppure l’avevo assopita, non ne ero certo. Stava di fatto, comunque, che iniziavo a pensare alla mia vita a Tokyo come qualcosa di molto bello, ma anche molto lontano che proprio non riuscivo più a sentire allo stesso modo di prima.
Da qualche parte, in uno dei libri di psicologia che mi aveva dato Kamura ai tempi della malattia di Kurata, avevo letto che i ricordi nella mente degli esseri umani prendono una strana forma con il passare del tempo. Cioè si tende a ricordare solo il bello, in una sorta di oblio di dimenticanza, e il tutto prende una forma sfocata e poco riconoscibile rispetto a quello che è successo davvero nella realtà. E io spesso mi domandavo se quella nuova percezione delle cose che sentivo non fosse dovuto semplicemente all’oblio della dimenticanza.
Sbuffai perché mi stavo rendendo conto di pensarci veramente troppo a quel genere di cose e io, in realtà, non ci volevo proprio più pensare.
Poi qualcosa mi colpì alla testa e mi voltai di scatto verso la fila di banchi dietro al mio. Incontrai subito lo sguardo felice di Matt, a due banchi di distanza che indicava un punto indistinto proprio ai miei piedi. Seguii allora il suo dito e notai un foglio di carta appallottolato che giaceva proprio accanto alla mia scarpa. Quindi lo presi, capendo fin da subito che su quel foglio c’era scritto qualcosa e dopo averne letto velocemente il contenuto, alzai il pollice della mano destra verso di lui, tornando poi al professore al centro dell’aula che continua a parlare, di qualcosa di cui ignoravo completamente la natura, temendo per un istante di tornare a pensare a quelle strane percezioni che mi venivano in mente, ormai, sempre più di frequente.
 
Comunque il calcio non mi entusiasmava affatto.
Ma lì, a Los Angeles sembrava andare parecchio di moda tra le persone e Matt ne era completamente assuefatto. Lui lo chiamava spesso calcetto, o fare due tiri in porta. Io lo definivo, invece, una gran rottura, ma era pur sempre qualcosa che impegnava il corpo e liberava la mente.
«Ehi Akito, ho prenotato il campo fino alle sei… secondo me due partite ci escono.» mi disse lui, dopo avermi dato una leggera pacca sulla spalla. Lo scrutai un po’ infastidito da quel gesto anche se lui, come tutti gli altri ragazzi della scuola, sembravano sempre a loro agio nel toccare e tirare pacche amichevoli sulle spalle della gente.
«Sì, può darsi.» mi limitai a riflettere distrattamente quando ormai eravamo già arrivati al campo di calcio della scuola.
«Comunque, che dici di giocare in difesa oggi?»
«Mah, per me non fa alcuna differenza.»
«Ottimo. Mi sembra che te la cavi meglio, amico.»
«Può darsi.» conclusi il discorso, sfilandomi lo zaino dalle spalle per appoggiarlo a terra, accanto ad una panchina messa proprio di fronte al campetto.
«Allora iniziamo a riscaldarci, io così senza farmi prima una corsetta non sono buono a nulla.» iniziò Matt, saltellando sulla punta dei piedi per iniziare quel riscaldamento. Lo osservai prima di fare uno scatto in avanti e cominciare a correre, sentendomelo alle spalle che cercava di chiamarmi affinché io rallentassi.
Poi la partita fu un vero schifo, in realtà. Nessuno di noi era veramente in grado di gestire il pallone, ma mi ero reso conto che Matt, al contrario di me e di qualche altro ragazzo della scuola, sembrava tenerci particolarmente a quella partita perché quando la nostra squadra fu dichiarata ufficialmente sconfitta, per poco non si era messo a piangere.
«Andrà meglio la prossima volta.» gli dissi, avvicinandomi a lui di qualche passo.
«Cazzo Akito. Proprio oggi che Emma è seduta lì a guardarci!» mi disse lui, passandosi le mani tra i capelli e tirandoseli tutti indietro come se volesse, in realtà, strapparseli dalla testa.
«Emma?»
«Sì amico, Emma Wilson… seguiamo insieme letteratura inglese. Sono settimane che voglio chiederle di uscire e speravo di farlo adesso. Ma dove mi presento ora? Abbiamo fatto schifo…»
Allora alzai le spalle, spostando lo sguardo sul mucchio di ragazze che si dimenava in modo strano proprio su quella panchina dove avevo appoggiato lo zaino. E poi ce n’era un’altra che invece aveva la faccia praticamente appiccicata alla rete del campo, le dita infilate nelle griglie e uno sguardo che avrei definito “catturato”.
«È lei Emma…» balbettò Matt, tirandosi ancora di più i capelli all’indietro. Pensai che se avesse continuato in quel modo, avrebbe avuto bisogno di una parrucca e mi chiesi se quella Emma Wilson avrebbe apprezzato, in tal caso.
Comunque feci qualche passo verso l’uscita del campo, e mi resi conto che Matt aveva ripreso a seguirmi e quando fummo finalmente fuori da quel posto, la tizia in questione, Emma, saltellò verso di noi.
Non mi seppi spiegare il perché, ma la scrutai da cima a fondo.
«Ragazzi ciao… vi stavo aspettando.»
Lanciai una rapida occhiata a Matt, accanto a me. Volevo essere sicuro che avesse ancora tutti i capelli in testa, ma i movimenti di quella ragazza mi spinsero a tornare su di lei. Si era praticamente messa le braccia dietro alla schiena e ci sorrideva. Mi domandai se Matt avesse qualcosa da dirle perché io non ne avevo la minima idea.
«C-ciao… Emma.»
Lei guardò Matt e poi me.
«Noi non ci conosciamo, almeno non ufficialmente. Mi chiamo Emma Wilson… tu invece sei Akito Hayama.»
«Già.» mi limitai a confermare qualcosa che sembrava essere ancora sulla bocca di tutti, nonostante fosse passato parecchio tempo dal mio trasferimento a Los Angeles e il mio inglese fosse decisamente migliorato.
«Sabato faccio una festa per il mio compleanno… mi piacerebbe molto che veniste anche voi. Che ne dite?» domandò, continuando a dondolare su se stessa, nascondendo le braccia dietro alla schiena.
«Ma certo che verremo.»
«Magnifico. Vi aspetto a casa mia alle sette.» concluse lei, porgendo un bigliettino con su scritto qualcosa. immaginai ci fosse scritto il suo indirizzo, ma fu Matt a recuperarlo e a infilarselo in tasca.
 
 
«Ma ti rendi conto che fortuna, Akito? Sabato riuscirò a chiederle di uscire, vedrai.» annunciò lui, cercando di restare in equilibrio sulla sua bici che guidava troppo piano. Succedeva spesso che io me ne tornassi a casa a piedi e lui mi seguisse con la sua bici mezza arrugginita.
«Secondo te dovremmo andarci a piedi? Potrei chiedere a mio padre di accompagnarci, ma sarebbe da sfigati, non pensi?»
«Cos’è quel plurale?»
«Io e te Akito, ci ha invitati. Non sarebbe carino da parte tua non presentarti.»
«Chi se ne frega.»
Poi Matt mi girò in torno con la bici e mi si piazzò davanti, cercando di sbarrarmi la strada.
«Emma ha un sacco di amiche carine.»
Lo raggirai, oltrepassandolo e accelerando il passo.
«Ma che ti costa? Non vorrai farmi andare da solo spero.»
«E invece sì.»
E invece fui io a cambiare idea, o fui costretto, non me lo seppi spiegare. Stava di fatto che Matt si presentò con suo padre quel sabato perché secondo lui avremmo fatto prima e sarebbe riuscito a gestire il suo nervosismo.
Io pensai che fosse da sfigati, ma in fondo non mi interessava poi molto. Sul sedile posteriore, ingabbiato nella cintura di sicurezza, mi guardai le mani e mi resi conto di dover aggiungere anche la sinistra nel conto delle settimane.
E mi domandai il perché avessimo smesso di sentirci come prima. L’ultima volta che l’avevo sentita mi aveva detto di essere davvero impegnata con un nuovo film e io le avevo risposto di essere molto impegnato a mia volta. Poi mi guardai intorno e pensai che in fondo quella festa non era un vero e proprio impegno.
Comunque arrivammo anche prima dell’orario stabilito e pensai che Matt sembrava avere ancora tutti i capelli in testa, nonostante fosse visibilmente nervoso.
Si sfregò le mani, più di una volta.
«Ho pensato al cinema. Così se non avrò niente da dirle, non mi sentirò nervoso.»
«Già, così i tuoi capelli ti ringrazieranno.»
«Eh? Che vuoi dire?»
«Niente, niente.» gli risposi, avviandomi verso la porta d’ingresso.
E fu proprio Emma Wilson ad aprirci la porta, con un sorriso enorme e addosso solo un costume da bagno. Fu solo dopo qualche secondo che mi resi conto di averla scrutata da cima a fondo un’altra volta e dimenticai perfino Matt alle mie spalle.
Lei però si voltò di spalle, facendo ondeggiare i suoi capelli biondi e lisci sopra le spalle mentre ci conduceva al giardino di casa sua, da cui in effetti proveniva la musica e un assordante vociare di cui non mi ero reso subito conto, quando ci aveva accolti all’ingresso.
C’era un mucchio di gente che non avevo mai visto, fatta eccezione per qualcuno con cui condividevo qualche corso a scuola. Matt lo persi quasi subito, nonostante il suo nervosismo era riuscito ad infilarsi in un gruppetto di ragazzi, tra cui proprio Emma Wilson, che circondavano il tavolo delle bevande non troppo lontano dall’enorme piscina. Era una festa di compleanno organizzata decisamente in grande stile e quando vidi Matt iniziare a bere qualcosa pensai che in fondo avrei potuto anche svignarmela prima del previsto.
Feci qualche passo verso la piscina e mi tolsi le scarpe per sedermi sul bordo.
La vidi prima che potesse dirmi qualcosa, riflessa nello specchio d’acqua nel quale avevo messo i piedi.
«Ciao Akito.» mi disse, prima di sedersi sul bordo della piscina proprio accanto a me.
«Ciao Wilson.» le risposi, spostando lo sguardo su di lei. Aveva le mani appoggiate sotto le gambe, che muoveva nell’acqua come se fosse una bambina su un’altalena.
Corrugò appena la fronte.
«Perché mi chiami per cognome?»
«Perché da me si usa così.» le dissi, spostando rapidamente lo sguardo altrove.
«In Giappone? Che cosa strana. Siete così impersonali?»
«Impersonali?»
«Sì, voglio dire… è così strano qui chiamarsi per cognome. Tranne per i prof, certo. Quelli lo fanno per mantenere il distacco… lo fate anche voi per quello?»
«Non direi.»
«E allora perché lo fate?»
«Per educazione, rispetto… che ne so. Lo facciamo e basta.»
«Ok, ok. Non te la prendere… è una sciocchezza.» mi disse poi, sorridendomi divertita.
«Comunque, qui non siamo in Giappone e puoi chiamarmi Emma e basta. Non mi sentirò offesa, te lo giuro.»
Ma io non le risposi nemmeno, perché mi sentivo stranamente a disagio a parlare con lei sul bordo di quella piscina. Cercai Matt con lo sguardo, ma dopo un rapido giro della scena circostante mi resi conto di aver completamente perso le sue tracce.
«Te la cavi bene con l’inglese. Da quanto sei qui a Los Angeles?»
«Un po’.»
«Mh… sai, mio padre è un diplomatico e quando ero piccola ci siamo trasferiti in Arabia Saudita per due anni. Non capivo nulla di quello che dicevano le persone e non avevo nessuno con cui giocare. Dicono che i bambini riescono a comunicare tra loro anche se non parlano la stessa lingua, ma ti assicuro che non è così. Io cercavo disperatamente di comunicare con gli altri, ma non mi capiva nessuno e mi sentivo così triste.» disse senza prendere nemmeno una pausa. Pensai che parlasse davvero tanto, così come muoveva velocemente le gambe nell’acqua.
Mi voltai verso di lei percependo quella strana sensazione di disagio ancora più forte. Forse era l’acqua troppo fredda o il fatto che fossero tutti in costume tranne me.
«E ho pensato che anche tu potessi sentirti solo, ma vedo che l’inglese lo parli molto bene… però parli davvero poco tu. Ti piace vivere qui?»
Mi piaceva vivere lì? Mi resi conto di aver passato quei due anni a tormentarmi di così tante cose che non mi ero mai posto veramente quella domanda e in quel momento, con il sole sul viso, i piedi nell’acqua di quella piscina enorme e quella ragazza che continuava a parlarmi come se mi frequentasse da una vita ero ancora in grado di non rispondere?
Eppure mi mancava qualcosa. Abbassai di nuovo lo sguardo sulle mie mani, sulle dita che continuavo a contare ormai su entrambi gli arti.
«Non lo so.»
Lei scoppiò a ridere e lo sguardo mi cadde sul suo petto che si muoveva ritmicamente seguendo il suono della sua risata. Allora guardai nuovamente altrove.
«Che significa che non lo sai? Ti piace o no?»
«Non è questione di piacere o no.»
«E di cosa, allora?»
«Non l’ho ancora capito.»
«Sei veramente criptico, sai? Io adoro vivere qui e mi piace da morire il caldo, la spiaggia il mare. Non potrei mai vivere in un posto in cui fa freddo.»
«Da me d’inverno nevica spesso.»
«Davvero? E ti piace la neve?»
«Non mi dispiace, in effetti.»
Alla neve avevo legato molti ricordi del passato e avevo trasformato quella mia percezione in qualcosa di bello per cui ero giunto alla conclusione che la neve, in effetti, non mi dispiaceva affatto.
«Io la detesto, sai? Bagnata e fredda… no, decisamente preferisco il mare.»
Poi si distese con le gambe, entrando lentamente in acqua ma continuando a restare appoggiata al bordo della piscina con entrambe le braccia.
«Vogliamo andarci?»
«Andare dove?» le domandai, alzando le sopracciglia.
«Al mare, no. Domani pomeriggio, dopo le lezioni… ti insegno a fare surf.»
«Domani ho il karate.» le dissi prontamente. Mi guardai nuovamente intorno, ma Matt era decisamente scomparso.
«Karate?»
«Già.»
«Fai karate? Fico… da quanto tempo?» mi disse quasi urlando, sollevandosi nuovamente sulle braccia per tornare a sedersi sul bordo della piscina.
«Un po’.»
«Un po’ tanto? Sei cintura nera? Ho visto tanti di quei film… mi insegni qualche mossa?»
Mi domandai a quale domanda voleva che le rispondessi sul serio, ma mi resi conto che forse lei si aspettava una descrizione dettagliata di quello che facevo nella vita o nel karate, in quel caso, e alzai le spalle.
«Non posso.»
«Cosa non puoi?»
«Insegnare mosse ai voi, comuni mortali.»
«Eh?» mi disse in un’espressione stranita. Ma poi, dopo qualche secondo, riprese a sorridere.
«Sei spiritoso, vedo. Comunque non credo che tu non possa. Io ho insegnato un sacco di passi di danza sai?»
«Non è la stessa cosa.»
«Oh sì, c’è disciplina, ti trasforma il corpo ed è un’arte millenaria.» mi disse, elencando quelle cose sulle dita di una mano. Guardai attentamente quel gesto, lo stesso che avevo fatto io esattamente qualche ora prima e mi sentii nuovamente a disagio.
«Come vuoi.» le dissi, tirandomi su con le braccia. Ma prima che potessi farlo sul serio, mi bloccò con una mano.
«Dove vai?»
«A casa.»
«Di già?»
«Devo preparare la cena.» le dissi.
«Ma non prendermi in giro, non ci credo che tu prepari la cena.»
Allora le rivolsi un’alzata di spalle indifferente.
«Allora ci vieni al mare? Possiamo andare dopodomani…»
«Io mi alleno sempre.»
Quella ragazza, Emma, arricciò le labbra corrugando la fronte e capii, da quel gesto, che non era una di quelle che si arrendeva nella vita. Era insistente, ma non avrebbe mai raggiunto i suoi livelli. E mi domandai se lei non fosse stata così insistente con me, mi sarei mai accorto della mia non tenacia?
«D’accordo… allora dimmelo tu un giorno in cui possiamo andare al mare.»
«Credo che dovresti invitare Matt. Lui ci verrebbe anche subito.»
«Ma io l’ho chiesto a te, non si risponde ad un invito con un altro invito.»
«Non è quello che ho fatto.»
«Be’ è la stessa cosa. Ho deciso, ci andremo mercoledì… se vuoi porta anche Matt. Ma sappi che io l’ho chiesto a te.»
E in quel momento si alzò lei dal bordo piscina, schizzandomi qualche goccia d’acqua sul viso con il piede, prima di tornarsene verso il gruppetto da cui era venuta.
Guardai il cielo limpido.
Da quando vivevo lì aveva piovuto solo cinque volte, era sempre tutto caldo e secco e chissà, forse era proprio la neve la cosa che mi mancava di più di Tokyo.
Alla fine me ne tornai a casa da solo, lasciando Matt alla festa con la speranza che quella ragazza lo invitasse sul serio al mare.
Non ero stupido, e nemmeno più un ragazzino di undici anni, sebbene non mi sentissi chissà quanto cambiato se pensavo ai momenti in cui l’imbarazzo prendeva il sopravvento.
Avevo capito che quella ragazza voleva che uscissimo da soli, io e lei, e aveva trovato un’ottima scusa per farlo. Pensai che parlasse davvero tanto, ma a differenza di lei con le parole ci sapeva fare fin troppo bene. E mi domandai cosa fosse quella sensazione che mi sfuggiva dalle mani.
Forse era semplicemente dovuto al fatto che quella tizia non fosse male, forse perché si era presentata in costume da bagno o forse perché continuavo a sentirmi in preda all’oblio della dimenticanza che continuavo a sentire quella sensazione.
Poi arrivò il mercoledì e Matt si era beccato l’influenza. In realtà mi aveva confidato che proprio alla festa di Emma aveva conosciuto una delle sue amiche carine e si era reso conto che quella per Emma Wilson non era altro che un’infatuazione perché Taylor, invece, era decisamente il grande amore.
Io mi limitai a dirgli che ci saremo visti a scuola e che gli auguravo di guarire presto. Quando raggiunsi l’uscita della scuola, avevo deciso di tornarmene a casa mia e disertare la gita al mare.
Ma poi la vidi, appoggiata al muro della scuola con dei pantaloncini e una canotta leggera, gli occhiali da sole e un paio di sandali.
Iniziò a sventolare un braccio per attirare la mia attenzione, ma io mi sentii nuovamente a disagio.
«Akito, sono qui.»
«Lo vedo.» le dissi, una volta accorciata la distanza tra noi.
«Sei pronto? Ho pensato di portare qualcosa da bere… magari potremmo chiedere al bar sulla spiaggia se ce le tiene in frigo così da non berle calde.»
Mi domandai quale fosse la logica di quell’idea.
«Poi le tavole da surf le prenderemo in spiaggia. Coraggio andiamo, ci divertiremo.» mi disse, afferrandomi per un braccio e cercando di trascinarmi con sé.
«Io non vengo.» mi limitai a dirle lo stretto indispensabile.
«Ma perché, scusa?»
«È che…» c’era davvero qualcosa che mi sfuggiva, ma non riuscivo ad acciuffarlo nella mia mente. Possibile che l’oblio della dimenticanza fosse così profondo.
«Cosa c’è?» mi domandò lei, stranita. Mi sembrava quasi preoccupata, almeno dalla sua faccia riuscii a capire quello. Fece qualche passo verso di me e mi sentii ancora più a disagio.
«Niente. Non posso venirci al mare con te.»
Le sue labbra si arricciarono di nuovo, ma la sua faccia continuava a suggerirmi la stessa espressione.
Poi la oltrepassai ma lei mi afferrò nuovamente per un braccio.
«Sei davvero criptico, Akito.» mi disse, trasformando quell’espressione in un sorriso. Poi, lentamente, mi lasciò andare il braccio continuando a sorridermi.
Si era arresa, o comunque aveva smesso di fare l’insistente. E in quel momento, forse quel qualcosa che mi sfuggiva mi era apparso leggermente più chiaro perché non riuscivo più a trovarci nessuna somiglianza.
Forse era stato tutto frutto della mia testa e forse lei davvero voleva solo insegnarmi a fare surf al mare. Stava di fatto che io non sapevo più quale fosse la sensazione che provavo ogni volta che avevo dato un bacio a Kurata. Non me lo ricordavo più e mi sentivo terrorizzato all’idea di non sapere più dove fosse finita quella sensazione.
Mossi la mano destra un paio di volte, chiudendola a pugno, mentre percorrevo la strada verso casa. Guardai l’ora sull’orologio da polso e mi resi conto che in quel momento in Giappone erano le otto di sera.
Quando tornai a casa trovai mio padre e Natsumi seduti al tavolo in cucina e feci due rapidi passi verso di loro.
«Voglio tornare in Giappone.»
Mio padre alzò le sopracciglia e mi guardò stranito.
«Akito, puoi sederti un attimo per favore?»
«No, io devo tornare in Giappone.» perché mi sto dimenticando di lei.
«Va bene, resta pure in piedi. Ti ho già iscritto al tuo vecchio liceo… torneremo all’inizio dell’anno scolastico. Non c’è bisogno che tu vada a vedere la scuola perché la conosci…»
Ma non gli feci finire la frase.
Presi il telefono e composi il suo numero. Mi resi conto in quel momento di essermi davvero stancato di contare le settimane con le dita delle mani.
«Sì, Kurata
Rispose al primo squillo.
«Salve, sono Hayama.»
«È da molto che non ci sentivamo
«Già.»
«Eh, è Hayama?»
Sentii la sua voce in lontananza e di colpo pensai che ricordare non sarebbe stato poi così difficile.

 
 
*Note d'autrice*
Salve a tutti e buona domenica. Il canale è tornato attivo :D
Dunque, mi è venuta una piccola ispirazione leggendo l'ultima parte del manga. Mi sono chiesta come mai Akito non avesse telefonato dopo il biglietto per il compleanno e da lì è partita la pippa mentale.
Aspetto con ansia di sapere cosa ne pensate e spero tanto che vi piaccia.
Vi mando tanti baci,
Alex della domenica 
 
   
 
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