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Autore: MaxB    24/01/2021    3 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Urgono spiegazioni!! Innanzitutto mi dispiace, SaphiraLupin, per il ritardo di due giorni :( Dovevo pubblicare ieri ma dopo aver corretto mezzo capitolo si è spento tutto, pensavo che non avesse salvato le modifiche e mi è venuto il nervoso, quindi ho mandato a quel paese tutto. Invece aveva salvato e... va be', meglio così.
Poi, il capitolo è sostanzialmente una richiesta di SoffioDiNuvola, che aveva chiesto del naufragio e della conversazione che ne era seguita. Ora, il mio intento era quello, in origine, di descrivere la nostra adorata scena nell'erba alta, ma in effetti volevo anche fare questa scena del naufragio. Volevo dedicargli qualcosa come due pagine... ne ho scritte 15. Come al solito. Quindi farò capitoli diversi MA non mi sembra giusto aver accontentare SoffioDiNuvola (grazie ancora per la richiesta^^) e non la mia carissima Sofy_m che mi aveva chiesto la scena di quando Thorn è ferito all'intendenza e fa tutte le concessioni che Ofelia vuole (torniamo al libro 2 signori*-*) QUINDI (amo scrivere le congiunzioni in grande e inserire le parentesi xD sorry) il prossimo capitolo sarà il suo. E quello dopo ancora sarà 'sta benedetta erba alta.
Spero di essere stata chiara, se ho dimenticato qualche commissione scusatemi, ricordatemela e perdonatemi, per favore♥
L’Attraversaspecchi IV, Echi in tempesta, Il rinnegamento, Il dirigibile e Alla deriva, pagg. 352-360, 366-373 e 384-397.


20. Ensemble

Seicentocinquantanove minuti e trentadue secondi erano passati da quando Thorn si era lasciato con Ofelia, all’alba; quando erano tornati dalla loro ispezione al Colombario e la Buona Famiglia era crollata. Era rimasto a dir poco sorpreso quando aveva visto Ofelia sbucare da una scala sulla veranda su cui si trovavano (malauguratamente) lui, Lady Septima e il collaboratore che aveva dato uno schiaffo a sua moglie la prima volta che l’aveva vista all’osservatorio delle deviazioni. Il malessere derivante dall’essere accompagnato dalle peggiori persone possibili era evaporato quando aveva dato un’occhiata a Ofelia. Il loro appuntamento era fissato per quella notte, mancavano ancora diverse ore (trecentosessantotto minuti, almeno). Non aveva potuto fare a meno di irrigidirsi quando l’aveva vista, ma fortunatamente nessuno ci aveva fatto caso.
Ofelia sembrava diversa.
Al di là della pelle pulita (doveva aver avuto l’occasione di farsi una doccia probabilmente, anche se nel caos di quel giorno lui non ne aveva avuta l’opportunità), il suo viso era confuso. Sembrava che le fosse successo qualcosa.
E indossava gli occhiali e i guanti fasulli che aveva sostituito nell’ufficio dell’accoglienza. Il qualcosa che traspariva dal suo viso, però, una specie di sofferenza, gli aveva lasciato ben poco spazio per pensare a come dovesse sentirsi a disagio con quelle lenti inadatte a migliorare la sua miopia. E leggere guanti non isolanti come i suoi, da lettrice, doveva disorientarla non poco.
Thorn aveva sentito un’involontaria ondata di rabbia per tutta quella situazione, per quel luogo, per l’arca stessa. Per come avevano trattato sua moglie, per il modo in cui erano costretti a vedersi come fuggiaschi e delinquenti, godendo della reciproca compagnia per pochi attimi rubati e con il timore di essere costantemente scoperti. Non aveva capito quanto desiderasse una vita normale finché non aveva ritrovato Ofelia. E per quanto lei gli avesse detto di apprezzare il fatto che non fossero una coppia convenzionale, e lui avesse garantito che era così anche per lui, si era chiesto quanto in realtà Ofelia gli avesse dato quella risposta solo per accontentarlo.
Lei era l’ultima persona al mondo alla quale avrebbe augurato una vita simile. L’ultima al mondo che avrebbe voluto far impelagare in quella situazione ridicolmente assurda e sfuggente, fuori da qualsiasi schema di previsione o calcolo. Avrebbe dovuto saperlo, ormai, che probabilmente era Ofelia stessa ad attirarsi addosso quelle sciagure, ma non poteva fare a meno di desiderare che fosse diverso.
I ricordi del passato e di quello che stava facendo in quel momento continuavano a mescolarsi confusamente nel suo cervello, provocandogli delle fitte di emicrania difficilmente trascurabili.
Dopo che Ofelia era arrivata da loro, era comparsa anche Elizabeth, ed erano state entrambe cacciate dall’osservatorio. La seconda con l’accusa di spionaggio, mediante l’infrazione del principio di confino e la divulgazione di informazioni riservate per conto di LUX; la prima perché non era una cittadina babeliana e il suo permesso di soggiorno evidenziava che avrebbe dovuto essere espatriata come gli altri.
Prima che l’osservatore muovesse queste accuse, nel lasso di tempo tra l’arrivo di Ofelia ed Elizabeth e il loro ripudio (dodici minuti e due secondi), anche Thorn era stato congedato. L’osservatorio si era scisso, aveva rifiutato le sovvenzioni di LUX e aveva deciso di agire indipendentemente. Scelta saggia, forse, ma per lui era una complicazione.
Le tempistiche cronologiche si delineavano perfettamente nella sua mente mentre Lady Septima guidava lui, le ragazze e una moltitudine di cittadini, che avrebbe dovuto essere dichiarata illegale per stare in quell’aeronave minuscola, fino al centro città di Babel.
Qualcosa non gli tornava. Il disagio che provava quando c’erano delle variabili impazzite non calcolabili, nell’equazione, lo attraversava come un prurito. Andava ben oltre la preoccupazione per Ofelia. Con o senza di lui, era perfettamente in grado sia di badare a se stessa che di cacciarsi nei guai. Essere al suo fianco, però, aveva un effetto catartico, perché avrebbe potuto fare qualcosa in caso di bisogno. Non l’aveva forse già salvata ben più di una volta, e non solo da qualche caduta accidentale?
Era stata lei ad insegnargli che in due si agiva meglio che da soli. Come lui non avrebbe voluto nessun altro al di fuori di Ofelia al suo fianco, si augurava che per lei fosse lo stesso. E stava per convincersi che forse era proprio così. Anche un po’ di più.
La notte oscurò il mondo secondo dopo secondo. Se avesse avuto un po’ di fantasia o poesia nell’animo, Thorn avrebbe potuto pensare che fosse come un sipario che si chiudeva su un periodo della loro vita, o il preludio di ciò che li attendeva, una strada buia in cui avrebbero dovuto trovare le risposte a tentoni, o ancora, il presagio di ciò che forse sarebbe stato un futuro pieno di insidie. Invece era solo la notte, arrivata trentasette minuti dopo il loro decollo. Ofelia era inquieta. Avrebbe voluto alzarsi e avvicinarsi a lei per offrirle in qualche modo conforto, anche se non avrebbe saputo cosa dire o fare. Lei si muoveva e guardava ovunque, stando attenta a non soffermarsi troppo a scrutare lui per mantenere la copertura. Quando i loro sguardi si incrociavano, cercava di trasmetterle calma con gli occhi.
Non credeva di riuscirci molto bene. Non sapeva nemmeno come si facesse, a dire il vero.
Quando l’aeronave si fermò brevemente per far scendere i cittadini senza-poteri in un’insulsa arca minore del tutto inadatta a contenere un numero così elevato di abitanti, Thorn guardò Ofelia. Sapeva per certo che aveva un animo buono e proteso verso il prossimo. Ne ebbe la conferma quando vide lo sgomento e la rabbia sopiti sul suo volto. Si tramutarono subito in vergogna, però, e le sue palpebre si abbassarono come se non potesse reggere la visione di tutta quell’ingiustizia. Da un lato Thorn fu sollevato nel vederla così docile, perché se si fosse battuta per cambiare la situazione dei Babeliani avrebbe solo peggiorato la sua, ma al tempo stesso gli fece provare uno strano dolore in petto: se Ofelia, la sua moglie combattiva che quando agiva per quella che considerava una giusta causa se ne infischiava non solo delle leggi ma anche dei sentimenti altrui, chinava così la testa di fronte ad una cattiveria simile, significava solo che la sua paura superava il suo desiderio di combattere. E non era mai accaduto.
Aveva più voglia che mai di consolarla, rassicurarla circa il fatto che avesse fatto bene a non protestare, ma Ofelia non lo guardò. Fortunatamente. Non sapeva quanto delle loro false identità fosse trapelato, quanto avessero intuito che relazione li univa. Nell’ipotesi più rosea, quella con la percentuale di realizzazione più bassa, non avevano scoperto nulla, e loro dovevano mantenere la copertura. Nell’ipotesi peggiore sapevano tutto e aspettavano solo il momento propizio per smascherarli.
Sorvolarono il memoriale e giunsero nel centro-città di Babel, dove il dirigibile atterrò. Lady Septima fece scendere i figli di Polluce, comunicando loro che quella sarebbe stata la loro nuova dimora.
Certo. Quante volte aveva visto abusi di potere, corsie preferenziali, raccomandazioni e favoritismi in vita sua? I senza-poteri sacrificabili erano stati relegati su un’arca minore ad alta probabilità di crollo, mentre gli illustri figli di Polluce, diversi solo perché avevano avuto la fortuna di nascere con qualche potere, venivano fatti sistemare nel centro città, che doveva rappresentare una zona franca in quella devastazione.
Non c’erano zone franche, poveri illusi.
Solo quando i civili si furono allontanati nella nebbia fitta Lady Septima si rivolse a lui. O meglio, con la voce si rivolse a lui, ma non con gli occhi, con l’atteggiamento, con il comportamento. Non l’aveva mai considerato alla sua altezza. Non l’aveva quasi mai considerato neppure un essere umano, Thorn ne era quasi certo.
- Rimanete a bordo, sir, vi porterò io stessa dei Genealogisti, ma prima devo sbrigare un’ultima formalità. Voi due, con me!
Un filamento di pensiero lo indusse ad irrigidirsi di fronte alla prospettiva di incontrare nuovamente i Genealogisti, quella coppia dorata così ripugnante da poter essere annoverata nella rosa delle personalità che più gli avevano ispirato ribrezzo nella vita. Ma era un pensiero minimo, un’attenzione dalla percentuale bassissima. Tutta la sua mente era concentrata su Ofelia, sul tono imperioso di Lady Septima nei suoi confronti e su quello che le sarebbe accaduto.
- Che intendete fare di loro?
Il suo tono era distaccato. Non doveva far trapelare alcuna emozione. Non doveva tradirsi facendo capire quanto fosse importante Ofelia per lui.
Ma Lady Septima non lo considerò, e mai nella vita Thorn provò un fastidio più cocente nell’essere ignorato. Lady Septima si allontanò, tallonata da Elizabeth, fin troppo docile. Finalmente l’Ofelia che conosceva si palesò, e lei indietreggiò quasi istintivamente, senza nemmeno rendersene conto. Non erano nella migliore delle situazioni, ma in qualche modo fu sollevato nel constatare che le reazioni di Ofelia erano le stesse, che non l’avevano cambiata così radicalmente. Era un timore insensato, soprattutto visto tutto quello che stava accadendo, ma ne fu illogicamente alleggerito nell’animo.
Che cosa ridicola, inspiegabile e… rassicurante.
Le guardie preposte si avvicinarono con l’intento di metterle le mani addosso, costringendola a seguire Lady Septima. Erano due individui più alti di Ofelia rispettivamente di trentaquattro e trenta centimetri e più bassi di lui di dieci e quattordici centimetri. Quel sentimento insolito che aveva rabbiosamente catalogato (ridicolo) come gelosia non ebbe nemmeno il tempo di manifestarsi.
- Ci penso io – ordinò infatti, afferrandole la spalla contemporaneamente.
Sperava che il suo tocco potesse infonderle coraggio, in qualche modo. Voleva farle capire che lui c’era, che era lì, che le guardava la schiena. Letteralmente. Stupito, si rese conto di non aver nemmeno pensato alla possibilità che Ofelia volesse ritrarsi dal suo tocco. Era come se ormai il suo stesso corpo si stesse abituando a toccarla, ad appagare quel bisogno che aveva di entrare in contatto con lei, e non paventasse più un rifiuto. Per lo meno, nei gesti più superficiali…
Gli artigli di Thorn percepivano con chiarezza ferina le guardie interfamiliari che li circondavano su tutti i lati. All’erta, pronte a scattare al minimo movimento inconsulto. La nebbia, la poca visibilità e l’ignoranza circa il futuro rendevano gli artigli estremamente ricettivi. In modo mostruoso. Non sembravano sazi del sangue che avevano già stillato.
Thorn rinsaldò la presa sulla spalla di Ofelia, ma per darsi forza invece che trasmettergliela. Lei era lì, impaurita forse più di lui. Doveva concentrarsi su di lei e sulla fiducia che, contro ogni buon senso, aveva sempre riposto e continuava a riporre in lui.
Passarono cinquecentoquarantasette secondi prima che Lady Septima aprisse nuovamente la bocca.
- Vi avevo detto di restare a bordo, sir.
Le sue dita non poterono fare a meno di stringere ancora di più la spalla di Ofelia, come preda di un riflesso involontario. Di fronte a loro si stagliava la figura imponente di un dirigibile due volte e un quarto più grande di quello da cui erano scesi. Era un dirigibile per le lunghe distanze, ormeggiato su quello che una volta era il mercato, carico di persone che battevano sui vetri per chiedere aiuto. Un numero di te o quattro volte maggiore alla capienza prevista per un’aeronave simile.
Non aveva nemmeno parole per descrivere quanto fosse deprecabile una situazione del genere. Per una volta nella vita avrebbe voluto essere un po’ meno calcolatore, meno ricettivo rispetto alle condizioni dell’ambiente circostante, meno pronto a fare collegamenti e a capire cosa stava per succedere. E non si trattava di premonizioni, capacità di anticipare il futuro o qualche altro trucchetto da giocoliere, del tutto irrazionali e non classificabili. Bastava analizzare i numeri per arrivare ad un risultato.
Un risultato che gli faceva vibrare gli artigli di furia cieca. Dovette sforzarsi con tutto se stesso per non ferire Ofelia.
Contemporaneamente a questi pensieri ed emozioni, i suoi occhi notarono anche la presenza dei fucili a baionetta. Ne aveva visti in vita sua, certo, ma era del tutto illogico vederli a Babel, l’arca su cui la parola stessa era più pericolosa dell’arma in sé per via dell’Indice dei Taboo.
Ovviamente, però, la cosa non lo sorprese più di tanto. Un controsenso? No, era solo la meschina natura umana di governanti che detenevano troppo potere e contravvenivano alle regole imposte da loro stessi. Non aveva mai riflettuto sulla mancanza di armi, non ci si era soffermato troppo, ma ora che le vedeva gli appariva palese che ce ne fossero.
Se avesse restituito al mondo i suoi dadi forse si sarebbe verificata un’inversione di potere. Forse le persone tenute all’oscuro e costrette a vivere una vita scelta per loro da qualcun altro avrebbero avuto l’ardire di decidere da sé. Probabilmente non sarebbe andata bene, l’anarchia non era mai la soluzione al problema, ma era meglio pentirsi delle scelte fatte piuttosto che delle scelte sbagliate imposte da qualcuno che anelava solo al controllo totale.
Lasciò divagare quel filamento di pensiero, relegandolo in un angolo della mente, e disse solo: - Sono armi. È illegale.
La sua voce era rigida, dura e fredda, non lasciava trasparire nulla del tumulto interiore che provava. Quelle armi… le voleva vedere volare via. Non dovevano in alcun modo essere puntate su Ofelia.
Doveva mantenere il controllo. Per Ofelia, che probabilmente era più spaventata di lui. Con lei non si poteva mai dire, magari era calma e rassegnata. Ancora una volta poteva abbattere tutti i suoi calcoli.
Lady Septima, invece, no. – È materiale per la prevenzione della pace – lo corresse, come se usare quella perifrasi metonimica cambiasse lo scopo di quelle armi: uccidere. – Siete rimasto chiuso in quell’osservatorio troppo a lungo, sir Henry. Come ho detto, le circostanze sono cambiate. E le leggi anche. Ciò non toglie che l’Index sia sempre in vigore.
Di persone così false, subdole e ipocrite Thorn ne aveva incontrate tante in vita sua. Se non avesse avuto la memoria da Storiografo avrebbe potuto dire che erano troppe per poterle contare, ma lui in realtà sapeva benissimo chi fossero, una per una. Però non lo avevano mai affrontato così apertamente. Solo bisbigli e pettegolezzi alle sue spalle, cattiverie gratuite che non pesavano nulla, per lui. Invece il fatto che Lady Septima lo fronteggiasse così direttamente gli dava quasi il diritto di reagire. Avrebbe voluto farlo, e i suoi artigli ferini più di lui, ma si trattenne. Mettersi a discutere con quella donna non avrebbe portato a nulla di buono, e lui doveva proteggere Ofelia.
- Quante persone avete ammassato in quel dirigibile? – domandò glacialmente mentre il suo cervello esaminava già le infinite risposte a quella domanda, che variavano in funzione dell’area del dirigibile, delle zone non occupabili e dell’ammassamento di persone al suo interno, che poteva non essere distribuito uniformemente. I risultati che la sua mente snocciolava erano disgustosi.
- Il giusto numero – rispose seraficamente, falsamente, Lady Septima. – E due di più. Miss Eulalia, miss Elizabeth, avete disonorato la compianta Lady Helena e vi siete rese indegne di essere sue Figliocce. Vi condanno a essere bandite.
Thorn se lo aspettava, tutte le variabili portavano a quel risultato. Ma non lo accettava. Non poteva accettarlo. Quasi non prestò attenzione al mormorio protestante di Elizabeth, che si immolò, penitente, avanzando verso il dirigibile. Un agnello al macello.
Ofelia non si muoveva, e lui strinse ancora di più la presa sulla sua spalla, come a volerle dire silenziosamente che doveva continuare a rimanere immobile. Non l’avrebbe mai fatta salire in quella trappola assassina. Un genocidio, ecco cos’era. Omicidio di massa a sangue freddo. Uno sterminio. Nemmeno i suoi artigli sarebbero stati in grado di compiere una simile, grottesca carneficina.
- Questo aerostato non è fatto per trasportare tanti passeggeri, senza parlare dei problemi di comunicazione radio. Questa gente non arriverà mai a destinazione e voi lo sapete.
L’accusa nella sua voce non scalfì minimamente la facciata di pietra di Lady Septima. Nemmeno lui sarebbe stato in grado di rimanere così impassibile di fronte ad un’insinuazione del genere. Era certo, oltretutto, che all’interno quella donna meschina fosse dura quanto all’esterno. Lui mascherava le sue emozioni. Aveva impiegato anni per affinare quell’arte, affinché nessuno notasse quanto certi commenti lo ferissero. L’impassibilità allontanava i deboli che desideravano farlo soffrire, l’indifferenza lo rendeva una vittima poco appetibile. Quella facciata si era leggermente incrinata da quando aveva conosciuto Ofelia, che era stata capace di smuovergli dentro qualcosa di più potente delle rigide maniere che si era imposto. Ma Lady Septima non provava nulla. Il suo viso era lo specchio di quello che era nell’intimo. Un’insensibile.
Ne era certo nella maniera più assoluta.
- Quello che so, sir Henry, è che voi non siete un autentico Babeliano.
Ed era anche crudele. Arrivista. Egoista. Presuntuosa.
Sola. Infelice.
Lo sguardo di disgusto con cui squadrava la sua armatura, no, la sua gamba storpia, la sua debolezza, non lo scalfì minimamente. Quella donna gli faceva solo pena. Una pena furiosa per ciò che, comunque, si accingeva a fare ad Ofelia.
- Siete un errore che si è infiltrato tra le nostre file. I Genealogisti vi hanno concesso un’opportunità che avete buttato via, ma questo non sta a me giudicarlo. Compite il vostro dovere andando a fare rapporto e lasciatemi compiere il mio senza occuparvi della sorte di miss Eulalia.
Si era esposto troppo.
Non gli importava più.
Esitarono entrambi, lui ed Ofelia. I pensieri sulla stessa lunghezza d’onda, lo percepiva. Avrebbe voluto dilaniare, non gli artigli, ma lui, Lady Septima. Se ne vergognava. Se ne rallegrava. Ma scagliarsi contro di lei avrebbe sicuramente fatto scattare le guardie, che non reggevano armi giocattolo. Ed erano troppi. Erano numericamente svantaggiati sotto ogni punto di vista, e i numeri non mentivano mai. Se solo gli artigli fossero stati in grado di agire anche sugli oggetti, invece che solo sui nervi umani… bramosi di azione com’erano, avrebbero fermato non solo le pallottole, ma anche le armi stesse, riducendole a pezzi informi di metallo.
- Vado.
La voce di Ofelia fu lo sparo che non si aspettava, lo scatto della sua spalla il rinculo dell’arma.
Ovviamente. Come aveva potuto non prestarvi attenzione? Ofelia si sarebbe sacrificata per permettere a lui di salvarsi. Nonostante la sua copertura fosse compromessa. Nonostante non avesse nessuno al mondo a parte lei, e non gli interessasse effettivamente di nessuno che non fosse lei. Ofelia lo avrebbe salvato.
Ma lo aveva già salvato in così tanti modi che… morire non gli sarebbe importato. Purché fosse stato al suo fianco. Purché lei fosse salva. E se Ofelia non poteva vivere, tanto valeva seguirla. Non era rimasto più nulla per lui. Apparteneva al luogo in cui si trovava Ofelia.
Apparteneva a sua moglie.
- Avete infangato la memoria di Octavio – sputò lei, piena di acredine. Sempre così sollecita verso i suoi amici, così diversa da lui…
- Salite, little girl – l’apostrofò Lady Septima, senza lasciar intravedere nemmeno un’incrinatura in quel suo viso altero.
Al secondo passo verso il dirigibile Ofelia cadde. Thorn impiegò due secondi per rendersi conto che non era colpa della solita goffaggine, ma dei suoi sandali. I lacci delle sue calzature si erano intrecciati in preda al panico, cercando di obbligare la loro padrona a fare marcia indietro.
L’animismo rispondeva allo stato emotivo di chi esercitava quel potere. Era inconscio. Era incapace di mentire. Ofelia non voleva salire sull’aeronave. Non voleva andare in contro alla morte.
Aveva paura. Ma si stava sacrificando per lui.
Quella scena, Ofelia curva sui suoi sandali, che cercava di sbrogliarli, di lottare contro se stessa per procedere verso quel destino infausto, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Una minima parte del suo cervello si occupò di analizzare quell’allegoria. La matematica non mentiva nemmeno in quel campo. C’era un limite alla tolleranza di un recipiente, un limite che poteva essere forzato, ma non all’infinito. Raggiunto quel limite bastava una quantità infinitesimale di liquido per far strabordare l’eccesso.
Thorn era pieno. Ben oltre l’orlo. Ed era stanco. Stanco di dover essere costretto a fare ciò che volevano gli altri.
Voleva restituire al mondo i suoi dadi per Ofelia. Ma se Ofelia non poteva usarli, almeno lui avrebbe usato i suoi. Poteva ancora decidere, per lo meno, come morire.
- Restituite questo ai Genealogisti da parte mia – ordinò imperiosamente, con la voce chiara e forte, l’accento del Polo, la sua inflessione naturale, più prepotente che mai. Fu lieto di disfarsi di quel sole di stoffa, quel simbolo pregno di corruzione e marciume.
Non si curò di guardare l’espressione di lady Septima. Non gliene fregava nulla di quella donna. E no, non era un Babeliano, e ne andava fiero. Anche un po’ di più.
Si inginocchiò accanto ad Ofelia in uno stridore metallico che ignorò. Sentì i tratti del volto perdere la loro rigidità quando incontrò i grandi occhi di Ofelia, spalancati dietro gli occhiali inutili e falsati. Erano colmi di emozioni, in parte di paura, in parte di rimpianto, ma anche di sollievo e vergogna nel rendersi conto che lui non l’avrebbe abbandonata.
E cosa avrebbe mai potuto fare senza di lei? Era lei la sua missione più importante, al diavolo il mondo!
Non gliel’aveva detto lei stessa, che il mondo non aveva fatto nulla per lui e lui non gli doveva nulla per questo? Era vero. Ma a lei doveva quella poca felicità che aveva provato nella sua vita.
- Insieme.
In modo naturale, seppur impacciato, Thorn si curvò e allungò per prenderla in braccio. Non si era mai considerato un individuo forte, per quanto fosse consapevole dei suoi muscoli allenati, suo malgrado. Non era possente, ma nemmeno debole. E Ofelia non gli era mai parsa più leggera, un piacevole ammasso di morbido tepore contro il suo corpo ossuto.
Non si sarebbe mai pentito di quella scelta. Stringere Ofelia tra le braccia era… era tutto. Era l’unica cosa che contasse, era tutte le cose che voleva.
Salì con lei sul dirigibile.
 
Il calore lo investì come un’artigliata non appena permise ad Ofelia di rimettere i piedi a terra. Avrebbe voluto tenerla stretta a sé ancora un po’, ma sapeva che lei si sarebbe agitata, odiando essere costretta fisicamente. Inoltre sapeva che la temperatura elevata (quattro gradi al di sopra delle massime estive medie di Babel) lo avrebbe presto fatto sudare copiosamente, in modo vergognoso, rendendolo appiccicoso. Non voleva che Ofelia lo percepisse e si disgustasse.
L’odore di corpi ammassati e sudati gli bloccò la gola un istante dopo, facendogli risalire un conato di vomito lungo la trachea. Lo ricacciò giù a forza.
Una parte del suo cervello stava ancora calcolando le varie opzioni di capienza di quel dirigibile. Ne aveva ipotizzate centoventuno fino a quel momento, e solo tredici, le più pessimistiche che aveva elaborato, si avvicinavano al numero reale. L’aeronave era colma. Strapiena. Strabordante. Straripante. Satura.
Dire semplicemente piena, carica o sovraffollata non rendeva l’idea. C’erano persone persino in bagno, e non per utilizzarlo per la sua funzione, ma per trovare un posto. Gente sul punto di guerra. Gente che piangeva. Gente sdraiata per terra (un numero infinito di batteri strisciava su quei pavimenti luridi, e le persone ci si sdraiavano!). Gente che batteva sui vetri come se servisse a qualcosa. Gente che urlava. Gente che… giocava a carte.
Il caos più assoluto.
Una fitta particolarmente penetrante di emicrania gli lacerò il cervello, irrigidendogli persino i nervi. Gli artigli si rilassarono, pronti a colpire, in armonia con il suo stato d’animo.
Tirò fuori la bottiglietta di disinfettante, nella vana speranza di tenere lontana da sé tutta quella sporca umanità. Quei microbi. Quella scarsa igiene. Quella disperazione.
Abbondò con il disinfettante.
- Vieni con me – gli ordinò Ofelia, più sicura di quanto non fosse lui.
Non si sarebbe arresa senza combattere. L’ammirava per questo, per la sua anima da ribelle che non si piegava di fronte a ciò che le imponevano gli altri. Nemmeno di fronte all’evidenza. Lui, da un certo punto di vista, si era già rassegnato. Amava Ofelia anche per questo.
La seguì a breve distanza, seguendo il varco che si stava aprendo tra i corpi. Le era grato per aver preso il posto di aprifila. Per lui era già difficile controllare i propri artigli da dietro, dovendosi guardare sempre alle spalle e ai lati, se fosse stato davanti si sarebbe anche dovuto preoccupare di non colpire Ofelia erroneamente. Il suo animismo sembrava essersi placato, comunque, e non poté fare a meno di sperare che fosse stato in parte per il suo intervento.
Ofelia ondeggiava di fronte a lui, come se la sua goffaggine si fosse enfatizzata, o come se il dirigibile stesse attraversando una turbolenza nonostante in realtà fosse perfettamente fermo. Erano i corpi che non lo erano, corpi che sfioravano Ofelia, le cui dita si ritraevano di scatto. Probabilmente stava leggendo ogni singolo pezzo di stoffa in cui si imbatteva, e l’assorbimento dello stato d’animo delle persone condannate a morire lì dentro non doveva essere particolarmente gioioso o sereno. Thorn aveva i suoi veri guanti e occhiali. Glieli avrebbe dati non appena si fossero fermati. Voleva liberarla almeno da quel disagio.
Thorn era talmente concentrato ad evitare contatti, a mantenere tutto e tutti nel suo campo visivo e a cercare di non scatenare gli artigli che non fece quasi caso alla cacofonia di voci di tutti gli accenti, ai marchi luminosi sulle fronti della maggior parte dei presenti (novantotto percento), o ai cenni di saluto di Ofelia. Non ci fece quasi caso. Una piccola parte della sua mente era ben conscia di ogni cosa.
Non appena raggiunsero la vetrata panoramica di poppa Thorn si appoggiò a un vetro, grato per l’angolazione che gli offriva. Per lo meno poteva tenere d’occhio tutti, non aveva nessuno alle spalle. Anche lì, come in ogni altro anfratto del dirigibile, le persone battevano sui vetri come se potesse servire a risolvere qualcosa. Nemmeno le colorite imprecazioni che lanciavano alle guardie e ai loro avi erano utili. La logica era alquanto carente, in quel momento. Thorn vide che Ofelia si faceva largo tra alcuni corpi particolarmente esagitati per guardare fuori.
- Che aspettano? Altri clandestini?
Stavano già superando di tre volte e mezzo il limite della tolleranza di peso di quell’aeronave. Altri clandestini erano proprio l’ultima cosa che serviva. Thorn si voltò lentamente ma, all’atto di guardare fuori, si rese conto delle decine di dita stampate sul vetro, che avevano lasciato impronte umide di sudore, grasso e residui di cibo e biologici. Evitò di respirare e deglutire finché, preso un tovagliolino da un buffet da cui non avrebbe mai e poi mai mangiato, non riuscì a pulire grossolanamente una porzione di vetro utile per guardare all’esterno.
Voleva altro disinfettante.
Invece fece spazio ad Ofelia e le indicò la manica a vento afflosciata lungo l’asta, vicino al dirigibile. – Il Soffio di Nina.
- E sarebbe?
- Il nome che i Babeliani danno al vento del sud. Durante la stagione secca si alza ogni notte.
- Che motivo c’è di aspettarlo? Questo è un dirigibile, mica un pallone aerostatico.
Ofelia… ingenua, speranzosa. Ignara.
Quel potente vento era l’unica cosa in grado di sollevare dargli ormeggi quel piroscafo stracarico. Sì, era un dirigibile, ma non avrebbe avuto quella funzione per loro. Sarebbe stato un pallone aerostatico per il tempo necessario a farli cadere nel vuoto. Poi sarebbe stato semplicemente la loro tomba. Ma non glielo disse.
Invece, prese dalla tasca i suoi guanti. Come se permetterle di avere i suoi effetti personali potesse rendere la prospettiva di quella morte più digeribile. Non esitò nemmeno quando, invece di porgerglieli affinché li indossasse lei stessa, glieli infilò lui. Dito dopo dito. Accarezzò la pelle delle sue mani lisce, così poco avvezze a toccare il mondo se non attraverso quei guanti dalla stoffa speciale. E così potenti, in grado di risalire a storie ed emozioni di cui gli oggetti erano pregni. Rimpiangeva che lei non avesse letto il suo orologio da taschino. C’erano ancora così tante cose che non sapeva di lui. Non voleva avere più segreti, muri o distanze fra loro.
Avrebbe voluto farle sentire con la sua pelle quanto aveva significato per lui. Quanto ancora significava, quanto aveva migliorato la sua vita. Quanto la sua vita non fosse stata nemmeno una vera vita prima di lei. Quanto aveva prima sperato, poi gradito e infine bramato il tocco delle sue mani sulla pelle, quanto si era sentito… appagato, completo e nuovo quando lei aveva soddisfatto quel bisogno. Cosa aveva significato per lui quel primo bacio inaspettato, cosa invece aveva simboleggiato il secondo, irruento ma per lo meno ricambiato. Come si era sentito quasi mancare quando l’aveva vista lì a Babel, contro ogni logica e buon senso. Quanto lo sorprendeva ogni volta che andava contro ad ogni regola e piano per fare di testa sua, quanto era rimasto stupito, mai infastidito, dalla sua forza e testardaggine.
Ofelia era il miracolo che gli aveva dato un futuro. Con una famiglia, con amore, con un senso di appartenenza. Che gli aveva fatto scoprire di avere un desiderio latente e quasi incolmabile di essere toccato, di entrare in contatto con un essere umano. Con lei. Di sapere con ogni certezza e fibra e giuntura e nervo e muscolo che lui le apparteneva, sempre, e che lei gli apparteneva con la stessa intensità.
Le sue dita non lasciarono trapelare niente del suo tormento interiore. Non tremarono nemmeno. Non indugiarono mai troppo a lungo. La sua memoria avrebbe conservato sino alla sua morte l’intensità di quel tocco leggero, quel calore piacevole che non gli avrebbe mai dato fastidio.
Le abbottonò i guanti, sperando che lei percepisse cosa significava per lui attraverso quel semplice gesto. Pensò di esserci riuscito, dato che la vide sgranare gli occhi, colta di sorpresa. Ma lo lasciò fare. Arrendevole.
Prese infine gli occhiali, che erano stati riposti con cura nella sua tasca, e si avvicinò a lei più del dovuto mentre glieli rimetteva con grande attenzione e premura sul naso. Finalmente vide i suoi occhi metterlo a fuoco, guardarlo veramente, registrare i lineamenti duri del suo volto, la mascella contratta, e capire. Senza bisogno di parole. Capire che erano spacciati.
- Saresti dovuto rimanere a terra – mormorò in risposta.
Non lo maledisse. Non maledisse la loro sorte. Non diede di matto. Non pianse. Non cercò di battere inutilmente i pugni sul vetro. Non si rassegnò nemmeno, da quanto poteva vedere. Rimpiangeva solo di averlo trascinato con sé su quel dirigibile. Rimpiangeva di non poterlo vedere sopravvivere. Lui. Vivere senza di lei.
Aveva letto e sentito parlare in qualche scadente commedia a teatro, che sua zia lo aveva obbligato a guardare da piccolo, di quell’amore altruistico. Quell’amore così profondo e disinteressato che spingeva una persona a prendere il posto di un’altra, pur di mantenerla in vita. Una malattia, un’esecuzione, qualsiasi cosa. Persone che amavano così tanto da voler morire per poter far vivere i loro cari.
Ofelia dunque provava quell’amore per lui. Il fatto che lui si fosse immolato per andare con lei, piuttosto che stare senza di lei, rappresentava l’altra faccia dello stesso sentimento. Finché fossero stati insieme, non avrebbero temuto nulla.
Sentì le sue labbra allargarsi in un sorriso per un istante. Ofelia gli faceva venire voglia di sorridere. Di… vivere. Tornò subito serio, troppo abituato a controllarsi per indugiare con un sorriso stupido stampato in volto ad un passo dal baratro. Letteralmente.
- Reggiti al corrimano.
Il Soffio di Nina arrivò in quel momento. La forza di quel vento era notevole davvero, uno dei più forti tra tutte le arche. Thorn ne aveva sentito parlare quando era al Polo, e lo aveva sperimento di persona sulla sua pelle in quel tempo trascorso a Babel. Per riuscire addirittura a spostare un’aeronave stracarica oltre ogni ragionevolezza, la sua forza doveva essere pari a…
Il suo cervello si mise ad elaborare complicati calcoli di fisica che prendevano in considerazione velocità e forza del vento, massa del dirigibile, attrito e spinte contrarie. In qualche modo lo aiutò a rimanere lucido mentre venivano sballottati di qua e di là, in balìa dei capricci atmosferici. Calcolare lo aiutava ad analizzare, a placare la mente per poterla poi usare per risolvere problemi e cercare una via d’uscita. Infatti, forse se…
Il gomito gli sbatté contro il vetro quando ci fu una scossa particolarmente violenta. L’impatto però fu meno duro del previsto… Una gomma da masticare. Una schifosissima gomma da masticare ancora umida di saliva e impregnata di centinaia di migliaia di microbi derivanti dalla cavità orale probabilmente sporca di qualcuno gli stava insozzando la camicia. Appiccicata al suo gomito. Gli faceva schifo. Schifo. Disgustosa. Doveva toglierla. Non aveva nulla con cui farlo però. La salviettina usata per pulire il vetro era già lurida, e usare la carta per rimuovere quell’appiccicume avrebbe peggiorato il risultato. Sentiva già quei microrganismi filtrare nel tessuto e incontrare la sua pelle. Se avesse avuto disinfettante in abbondanza ne avrebbe gettato un intero flacone sul gomito.
- Dobbiamo prendere… il controllo dell’apparecchio – mormorò Ofelia, parlando a scatti per via degli scossoni.
Gli guardò la gamba, ma Thorn non capì perché. La gamba e l’armatura resistevano, era il gomito quello che rischiava di rimanere seriamente danneggiato.
- Dubito che Lady Septima sia stata così gentile da lasciarci un dirigibile pilotabile.
Gli sembrava inutile indorare così la pillola, ma quell’istinto sconosciuto che lo spingeva a voler proteggere Ofelia edulcorava le sue parole, prevalendo sulla ragione. Non dubitava che fosse pilotabile, era certo che non lo fosse. Altrimenti qualcuno avrebbe già preso il controllo della navetta, riportandoli indietro o impostando la rotta su un punto preciso. Ma gli scossoni rendevano evidente che fossero diventati proprio ciò che Ofelia aveva detto prima: un pallone aerostatico preda delle correnti.
A conferma delle sue parole, il dirigibile si inclinò, e Thorn afferrò subito Ofelia per evitare che cadesse o si facesse male. Stava già perdendo l’equilibrio… quella situazione era meno congeniale per lei che per lui, paradossalmente.
Ofelia gli rimase ben attaccata, scrutando con occhi sgranati tutte quelle persone che cercavano in qualche modo di aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa, persino vestiti di altri, pur di evitare di scivolare lungo il parquet. Lurido, per giunta. Poi il suo sguardo fu catturato da un ragazzino in sedia a rotelle che ondeggiava con l’aeronave. Riconobbe prima la sciarpa che rischiava di strozzarlo, visibilmente terrorizzata. Quella sciarpa che non molto tempo prima si era avvinghiata alla sua gamba con entusiasmo. Il giovane era il figlio di Lazarus. Ambroise. O forse no, dato che avevano trovato la sua urna funeraria nel Colombario.
L’adolescente parve riconoscere entrambi, e si illuminò di un sorriso sincero. Del tutto fuori luogo, visto che rischiava di farsi seriamente male su quella trappola mortale che era la sedia a rotelle. Per un secondo fu grato della sua armatura, rispetto a quell’aggeggio.
- Anche voi qui, miss? Come avete…
Scivolò via, le sue parole si persero. Poi tornò indietro e di nuovo avanti, mentre l’aeronave cambiava inclinazione. La gomma da masticare sul gomito, la sporcizia delle superfici, il calore asfissiante e l’afrore nauseante bastavano a fargli venire i conati, non aveva bisogno di guardare anche una carrozzina ondeggiare impazzita. Quando ripassò di fronte a loro, afferrò la sciarpa perché stesse fermo.
- Che ci fate qui? – gli chiese.
Il ragazzo gli parve sconcertato, cosa che lo convinse ancora meno della sua non implicazione in tutta quella faccenda. Troppo innocente sembrava, troppo.
- È stato per via dei clandestini che ospitavo… Non ho potuto farci niente, sorry. Gli Olfattivi della guardia familiare avevano memorizzato il loro odore e hanno seguito la pista fino a casa di mio padre. Ordine di Lady Septima. Siamo stati tutti arrestati e separati qualche giorno fa. Non so neppure se siano a bordo anche loro. Questo dirigibile per le lunghe distanza è immenso, non li ho trovati. È vero quello che dicono? Che anche la Buona Famiglia è sprofondata?
E parlava pure troppo. Gli dispiaceva per Ofelia, ma lui di quel tipo non si fidava più di quanto si fidasse di Archibald. Forse ancora meno. Strinse ancora più forte la sciarpa, chiedendosi superficialmente se potesse sentire male e se in tal caso un suo maltrattamento avrebbe fatto soffrire Ofelia, e costrinse Ambroise a guardarlo.
- Che ci state nascondendo, voi e vostro padre?
- Non capisco, sir…
- Credo invece che capiate molto bene.
Thorn era sollevato all’idea di poter utilizzare finalmente il suo vero tono di voce, invece di falsificarlo e adottare l’accento babeliano per mantenere la copertura. Si rendeva conto di quanto l’inflessione del Polo suonasse più aspra, più tagliente. Ed era quello di cui aveva bisogno, perché non avrebbe permesso a nessuno di approfittarsi della bontà di Ofelia e di prenderla per il naso.
Ofelia sembrava aver capito la sua reazione, perché non lo bloccò, né gli disse che stava esagerando. Esaminò con tutta calma, quasi con tristezza, il riflesso di Ambroise sul vetro, poi chinò gli occhi per meditare. Sembrava… stanca. Avvilita, anche. Thorn avrebbe voluto fare qualcosa per tirarle su il morale, ma sapeva che non c’era niente che avrebbe potuto risolvere quella situazione.
- Voi siete autista – esordì invece, quando fu evidente che Ambroise non avrebbe risposto. – Sareste in grado di pilotare il dirigibile?
Ambroise, si rese conto Thorn in quel momento, era diventato particolarmente rosso in viso. Forse non aveva risposto perché non aveva fiato per parlare, dato che la sciarpa lo stava strangolando. Ed era Thorn a tirarla, la sciarpa. Mollò la presa per farlo riprendere proprio quando lui scosse la testa in diniego.
- Credo che la plancia di comando sia stata sabotata – li informò quando ebbe ripreso a respirare. – E non è la notizia peggiore, miss. Stando all’orientamento e alla velocità del Soffio di Nina non troveremo arche su cui atterrare. Mio padre mi ha insegnato la cartografia: non c’è niente in questa direzione, solo nuvole.
Forse Thorn non era così esperto di cartografia, di certo non quanto Ambroise, ma non era un illuso. Sapeva che non sarebbero arrivati da nessuna parte, e che il vento presto si sarebbe placato, lasciandoli precipitare nel vuoto. Lui si era rassegnato, ma Ofelia in qualche modo sembrava voler ancora lottare. Che non avesse capito la gravità della situazione?
Fece una smorfia, ma la rivelazione di Ambroise non la sconvolse particolarmente. Poi sbatté le costole contro il corrimano in modo brusco. Si era distratto, avrebbe dovuto evitare che si facesse male, invece di prestare tutta quell’attenzione al ragazzo lì di fianco. Che oltretutto si rivolgeva sempre e solo a sua moglie…
La prese per mano per tenerla stretta, sia per poter godere della sua presenza fisica per quegli ultimi istanti, sia per impedirle di sbattere ancora contro il corrimano, o inciampare, cadere, farsi male. Avrebbe voluto che si togliesse i guanti, come quando erano stati insieme la prima volta, o la seconda, negli appartamenti direttoriali. Il modo in cui Ofelia lo aveva guardato e gli aveva toccato il viso dolcemente, con le mani nude premute contro la sua pelle, sul collo, sulle spalle, sul petto, senza una traccia di disgusto, era stato più intimo di qualsiasi cosa avesse mai sperimentato. Anche più di quello che era venuto dopo. Perché Ofelia toccava il mondo attraverso un velo, attraverso i suoi guanti, e raramente li toglieva. Invece per lui, per leggere lui in un modo del tutto diverso dal solito li aveva tolti. E… gli sembrava che le fosse piaciuto quanto era piaciuto a lui.
Le strinse forte la mano, sperando di poter percepire lo stesso il calore attraverso il guanto. Era quasi la metà della sua, piccola come tutto il resto, proporzionata a lei. Almeno quelle, le proporzioni fisiche, Ofelia le rispettava, fisicamente.
Prese di tasca l’orologio per fare un calcolo approssimativo di quanto tempo fosse passato dalla prima spinta del Soffio di Nina e quanto probabilmente gliene restava, tenendo conto della distanza percorsa. Lo lasciò penzolare dalla tasca, dove cominciò ad oscillare e ad aprirsi e chiudersi al ritmo dei suoi calcoli. Doveva ammettere che, anche se non aveva ereditato da Ofelia l’unico potere che aveva bramato, la lettura, sia il potere di attraversaspecchi che l’animismo gli erano tornati utili in diversi modi. Gli unici che non voleva. Era stata una possibilità, quella di non guadagnare la lettura e prendere invece gli altri due poteri, certo, ma era stata quella meno rosea e meno probabile, e ovviamente Ofelia l’aveva fatta avverare. Non sapeva più se trovarlo divertente o terribilmente irritante. In ogni caso, il suo orologio da taschino conservava anche una parte di lei, dato che lui gli aveva dato vita grazie ad Ofelia. Era diventato il loro orologio. La cosa a cui, ancor più di prima, teneva più di tutto. A livello materiale, ovviamente. L’unico oggetto a cui si sentiva legato, insomma.
Era arrivato al venticinquesimo calcolo quando Ofelia, che stava fissando il suo orologio con aria smarrita, sgranò gli occhi.
- Dov’è questa plancia di comando?
Ambroise, che sembrava in difficoltà con quella sedia a rotelle quanto Thorn lo era con la sporcizia, cercò di girarsi verso Ofelia. Lui non si prese il disturbo di aiutarlo. Non quando significava lasciare la mano di Ofelia.
- All’altro capo della navicella, miss, ma come ho detto è stata sabotata.
- Dobbiamo andarci – dichiarò Ofelia, perentoria.
Thorn non aveva idea di cosa le fosse saltato in mente, ma avrebbe acconsentito a fare qualsiasi cosa potesse evitarle un attacco di panico. Una piccola, remota a illogicamente positiva parte di sé lo pungolava, rammentandogli tutte le volte che Ofelia aveva fatto qualcosa di assurdo e incomprensibile ed era riuscita a risolvere una situazione; rammentandogli che era piena di risorse e imprevedibile, intelligente e arguta, e se c’era qualcuno in grado di trovare una soluzione, al di là di tutti i suoi calcoli, era lei. Ma non voleva dar retta a quella voce più del necessario. Era una vana speranza, e nella vita aveva provato fin troppo quel sentimento.
Però l’avrebbe accontenta. Quello era sicuro.
Si diede un’occhiata attorno per valutare la situazione. Se muoversi appena erano entrati in quel dirigibile mortifero era stato difficile, in quel momento sarebbe stato impossibile, soprattutto per lui. I rollii e gli scossoni dell’aeronave erano troppo ingovernabili e aleatori, la gente si cadeva addosso e si pestava i piedi, alcuni si abbracciavano e altri si picchiavano. La percentuale di probabilità che partisse un colpo di artigli involontario era alta, davvero alta. A sbarrare la strada c’era anche un gruppo di musicisti. Cosa li spingesse a suonare e dare spettacolo negli ultimi momenti della loro vita era un mistero che non avrebbe mai svelato. E non era nemmeno certo di volerlo comprendere. Con la coda dell’occhio vide persino una vecchia che ballava nuda su un tavolo.
Se non se ne fosse andato avrebbe davvero rimesso, ne era sicuro. Sentiva già la salivazione aumentare mentre cercava di cacciare in fondo allo stomaco la bile e lontano dalla mente quell’immagine raccapricciante. Forse avrebbe apprezzato di più se fosse stata Ofelia a farlo. Nel privato, ovviamente. Forse.
Il caldo e l’odore gli stavano dando alla testa, doveva allontanarsi da lì. Non era più padrone dei suoi pensieri.
Magari… l’unico modo per muoversi era avere tutti i lati coperti. Era certo che Ofelia avrebbe capito, lei sembrava sempre comprendere al meglio quali fossero le sue esigenze. Così afferrò i manici della sedia a rotelle senza chiedere il permesso al proprietario e si incamminò verso la plancia di comando.
Non poteva vedere in faccia Ambroise, ma dal tono di voce il ragazzo sembrava quasi commosso. – E io che pensavo che non mi voleste bene, sir.
Trattenne a stento una smorfia. Voler bene… come se fosse così immediato amare qualcuno. Così facile. Quel ragazzo era grossolanamente in errore. E lui non tollerava gli errori. – Non vi voglio bene – mugugnò infatti. Che razza di discorsi. – Mi sto servendo di voi.
Era la pura e semplice verità. Come sempre, non si curava dell’effetto che le sue parole avevano sugli interlocutori. Ambroise non era importante per lui, anzi, ancora diffidava del suo coinvolgimento in tutta quella storia. I fraintendimenti causavano intralcio, e Ambroise non doveva fraintenderlo. La sua sedia a rotelle gli serviva per farsi largo tra l’ammasso di corpi, tutto lì. E stava anche riuscendo bene nello svolgere il suo compito. Thorn la utilizzò addirittura come arma, pungolando le caviglie di qualcuno quando minacciava di avvicinarsi troppo a lui. Ofelia era silenziosa dietro di lui, ma Thorn la percepiva. Era l’unica che i suoi artigli non sentissero come un nemico, ed essendo alle sue spalle non rischiava di ferirsi e non permetteva ad alcuno di rimanere vittima di un colpo vagante. Sapeva che avrebbe capito.
Questo non significava che fosse facile trattenerli. Anche se non la consideravano un nemico, sapeva bene che se i suoi nervi fossero saltati i suoi artigli avrebbero colpito indistintamente chi si trovava al suo fianco. E questo includeva Ofelia. Soprattutto Ofelia. I suoi lati erano ancora scoperti, e questo lo rendeva nervoso. Trattenere gli artigli era più difficile, in quella situazione, che manovrare la pesante sedia a rotelle di Ambroise. E in alcuni casi, quando assisteva a scene particolarmente violente o viscide, non era nemmeno certo di volerli tenere imbrigliati.
Camminarono parecchio (trecentosedici passi). L’aeronave era lunga, ma non ci impiegarono molto tempo solo per quello. L’assembramento di corpi lungo il cammino rendeva necessario rallentare il passo e fermarsi a più riprese; i beccheggi, gli scossoni, l’andamento altalenante e le inclinazioni irregolari della nave li costringevano a cambiare direzione, aggrapparsi a qualcosa o attendere che il peggio passasse. L’effluvio altamente organico che permeava l’ambiente faceva venire il capogiro, specialmente perché si mischiava all’aria calda, appiccicandosi a pelle, vestiti e polmoni stessi come uno strato di sudiciume viscido. Se avesse potuto, Thorn avrebbe inalato l’odore alcolico e asettico della boccetta di disinfettante.
Poi fu silenzio. Un cambio repentino. L’intero dirigibile ammutolì. Persino gli oblò sembrarono accusare il colpo. Thorn dovette fermarsi. Cos’era successo di così drastico da riuscire a congelare sul posto un branco eterogenei, anarchico e caotico di persone?
Gli bastarono un’occhiata fuori e una fastidiosa sensazione allo stomaco per capirlo. L’emicrania si acuì.
Stavano precipitando nel vuoto tra le arche. Nel mare di nuvole. Il Soffio di Nina li aveva abbandonati. Stavano andando in contro alla morte.
Thorn si voltò appena per cercare di capire come stesse Ofelia, cosa stesse pensando. Si irrigidì quando vide il suo volto: pallido, visibilmente terrorizzato, incapace di razionalizzare ciò che stava accadendo. Sembrava un automa rotto. Non assomigliava ad Ofelia, alla donna che aveva sposato. Anzi, alla donna che aveva fatto di tutto per poterlo sposare. Lei era combattiva, determinata, testarda, vivace, curiosa, vitale e inarrestabile. Non era quella piccola figura ingobbita, le cui lenti erano bianche come il suo volto esangue, con gli occhi sbarrati, incapace di reagire. Non era lei. E lui aveva bisogno che lei fosse nel pieno delle forze. Non c’era speranza per loro, ma non voleva vederla morire mentre era posseduta dal panico. Non voleva vederla morire, punto. Ma tra i mali minori, si augurava che fosse per lo meno serena. Da quando era diventato così egoista riguardo a lei?
Si sentiva le mani lerce, umide di sudore e sporcizia, indegne di toccarla, ma non poté impedirselo. Si staccò della sedia a rotelle di Ambroise e fronteggiò sua moglie.
- Ofelia – la chiamò, avvisandola che si stava avvicinando a lei. Dandole il tempo di ritrarsi.
Non lo fece. Si girò verso di lui, con il viso basso.
Thorn le afferrò il volto con quanta più delicatezza possibile, accarezzandole le guance con i palmi. Le posò i pollici sulle gote, esercitando una pressione minima affinché capisse di doversi lasciare guidare da lui. Lo fece. Lo guardò negli occhi, trasmettendogli dolore e paura. Poteva prendersene carico. Poteva prendersi carico di tutto quello che l’angosciava, finché lei fosse stata al suo fianco. Fu grato al suo autocontrollo: era certo che Ofelia lo avrebbe visto serio, deciso, impassibile. Era quello di cui aveva bisogno, di solidità. Non di sorrisi o tenerezza. Lui c’era, era apparentemente calmo, e voleva farlo capire ad Ofelia.
Sudava così copiosamente che le goccioline d’acqua che gli scendevano dalle tempie, invadendogli fastidiosamente il viso, le caddero sugli occhiali.
Aveva bisogno di una doccia. Di sapone. Accantonò il pensiero.
Ofelia boccheggiò. Sembrava a corto di respiro. Stava per andare in iperventilazione. Rafforzò un poco la presa sul suo volto.
- Il vuoto… - ansimò lei, come se stesse soffocando. – Non dovremmo essere qui.
No, non avrebbero dovuto essere lì. Lei non avrebbe dovuto.
- Continuiamo ad andare avanti. Siamo quasi arrivati.
Ofelia mosse le pupille, lanciando un’occhiata alle sue spalle. Ambroise probabilmente aveva perso nuovamente il controllo della carrozzina, e stava farneticando, ma finalmente Ofelia vide ciò che lui voleva che vedesse: la plancia di comando. Vicina.
Ofelia parve ritrovare il controllo, anche se in minima parte. Mosse un passo esitante, così Thorn le lasciò andare il viso. Nonostante fosse disgustosamente sudato, facesse caldo, l’olezzo della nave fosse nauseabondo e stessero per morire, la sua memoria lo riportò indietro, a quelle altre volte in cui aveva toccato il viso di Ofelia così gentilmente. Quando il barone Melchior (dovette sforzarsi doppiamente per trattenere gli artigli) l’aveva quasi uccisa. Lui le aveva preso il volto tra le mani per cercare segni di vita, per assicurarsi che stesse bene, e aveva sentito come una scossa elettrica sulla punta delle dita. Nella sala dell’Ordinatore di Babel, non troppo tempo prima, quando per evitare di infliggerle un colpo d’artigli se l’era trascinata addosso. Il dolore degli scaffali che gli scavavano la schiena era nulla in confronto al piacere, all’ondata di calore che lo aveva pervaso quando aveva infilato le mani tra i capelli di Ofelia per attirarla a sé. Per baciarla. Rabbrividiva ancora. E a casa di Lazarus, la prima volta che avevano condiviso… tutto. Thorn aveva interrotto un lungo bacio per guardarla e chiederle il permesso di procedere, con una sicurezza che non avrebbe mai pensato di possedere. Le aveva accarezzato la guancia arrossata con il pollice, e Ofelia, con la mano nuda, liscia e morbida, aveva sfiorato la sua, appoggiando poi il viso alle sue lunghe dita. Gli aveva comunicato silenziosamente che era pronta ad abbandonarsi a lui.
Thorn avrebbe voluto piangere in quel momento. Ma gli occhi erano secchi e la gola era invasa dal riflusso gastrico.
Staccò le mani da lei, recidendo un contatto profondo e intimo, tranciando una parte di sé. Avrebbe volentieri passato i suoi ultimi istanti stretto a lei, ma dovevano tentare. Non avrebbe accolto la morte a braccia aperte. E Ofelia anche di meno.
Giunsero nella plancia di comando quasi in trance. La situazione era peggiore del previsto. Gli strumenti di controllo manuale erano stati sabotati. Non si salvava nulla se non l’attrezzatura per le comunicazioni radio interne all’aeronave, che sarebbe servita a ben poco. La nebbia esterna si stava addirittura infiltrando dentro le giunture della nave, reclamandola a sé. Era una catastrofe.
- Non possiamo fare niente se non riprendiamo quota – si sentì dire meccanicamente. Una parte del suo cervello stava ancora analizzando freddamente la situazione. Per fortuna, quella più logica e razionale.
Dovevano riprendere quota, erano troppo pesanti. Un uomo si era spaparanzato sulla consolle delle comunicazioni radio come se fosse un letto. Lo spostò senza tante cerimonie. Che andasse a dormire da un’altra parte.
Si sedette al suo posto, spense la consolle e prese il cornetto di un tubo acustico, che con ogni probabilità aveva la funzione di trasmettere gli ordini in tutto il dirigibile.
La salivazione gli si era azzerata, dovette deglutire più volte per riuscire a parlare. Se voleva che Ofelia tornasse quella di sempre, che non avesse più paura, doveva agire lui per primo. Trasmetterle quella sicurezza che nemmeno lui aveva. E per lei poteva farlo.
- Ascoltate tutti. Siamo troppo pesanti.
Cercò di non soffermarsi sul suono della sua voce, distorta dagli echi. Doveva parlare più lentamente, scandire ogni parola, altrimenti nessuno avrebbe capito nulla. Sentiva i vestiti inzuppati aderirgli al corpo, ma era l’ultimo dei suoi problemi. Dovevano ascoltarlo. Per una volta nella vita, tutti dovevano obbedire ai suoi ordini. Senza lamentarsi. Senza indicarlo e accusarlo. Senza pregiudizi. Dovevano eseguire. Il suo accento del Polo parve quasi rafforzarsi, come se quei ricordi avessero sbloccato in lui un meccanismo linguistico sconosciuto.
- Siamo originari di famiglie diverse. Siete Cyclopiani? Mettetevi in assenza di gravità. Siete Fantasmi? Trasformatevi nello stato gassoso. Siete Colossi? Riducete la vostra massa. Se ci sono Zefiri a bordo, che invochino venti ascendenti. Non sarete più cittadini di Babel, ma siete sempre ciò che siete. Ognuno di voi può contribuire a riportarci in superficie.
Attesero istanti interminabili che duravano quanto un secondo ma sembravano protrarsi per molto, molto di più. L’unica cosa di cui Thorn era consapevole era la presenza di Ofelia accanto a sé. Della sua realtà, solidità… della sua fiducia.
Finalmente, dopo i trenta secondi più pesanti della sua vita, la navicella parve riprendere un po’ di quota, alleggerirsi, tentare la risalita. Lo avevano ascoltato.
- Funziona. Continuate.
E poi le grida. Urla. Ma non di orrore, di rassegnazione, di disperazione, bensì di giubilo. Erano risaliti, riemersi. Vedevano nuovamente le stelle. Ce l’avevano fatta.
Sospirò di sollievo.
Percepì lo sguardo di Ofelia su di sé, insistente. Quando si voltò verso di lei, vide un affetto incommensurabile nei suoi occhi, una rinnovata calma e una fiducia sconfinata. Come quella volta sull’impluvium di Lazarus, quando avevano ascoltato il messaggio della bambola dei Genealogisti, Ofelia sembrava scavargli dentro con gli occhi, come se dentro di lui ci fosse qualcosa di prezioso che solo lei era in grado di percepire. Era… era tante cose insieme, quello sguardo: commovente, estasiante, tranquillizzante, ma anche preoccupante, perché Thorn non era sicuro che quello che Ofelia vedeva esistesse davvero.
Era lo sguardo più bello che gli fosse mai stato rivolto. Anche un po’ di più.
Sua moglie era orgogliosa, fiera di lui. Non poteva deluderla, non lei.
Si schiarì la voce, in imbarazzo, e sentì il rumore echeggiare per tutto il dirigibile. Chiuse il cornetto radiofonico con la mano prima di parlare. Cercò di non farsi destabilizzare troppo dalle occhiate calorose di Ofelia.
- Abbiamo solo guadagnato un po’ di tempo – la informò. Odiava dover essere così brutale, ma Ofelia odiava le menzogne, lo sapeva bene, e non avrebbe rischiato di illuderla per nulla proprio in quel momento. Non voleva che lo fissasse con delusione, tradita. Doveva essere sincero. – Siamo sempre in mezzo al nulla alla mercé dei venti. Che dobbiamo fare?
Ofelia parve presa in contropiede da quella domanda. Da parte sua, non la poneva a cuor leggero. Ma aveva esaurito le idee. Non poteva far altro. Non aveva il potere di dirigere altrove l’aeronave, né di limitarne il peso, né di fare qualsiasi altra cosa. Ofelia invece aveva più volte avuto degli autentici colpi di genio che li avevano salvati da situazioni difficili o avevano risolto più di un mistero. Ofelia era incredibile. Se c’era qualcuno in grado di tirarli fuori da lì, quella era lei.
Se ne rese conto con brutalità e accettazione: sarebbe sempre stata Ofelia l’autorità fra di loro. Il capo. Lui poteva solo essere la stampella che la sorreggeva, la sua armatura, l’àncora da cui trarre forza affinché potesse dare il meglio. Prima era stata sperduta, aveva smarrito la bussola. Lui aveva preso la direttiva in sua vece. In quella situazione, dopo averle ridato la determinazione che aveva accantonato, toccava a lei salvarli.
Poteva farcela. Solo lei poteva. Anche un po’ di più.
Lo sguardo di Ofelia si indurì, raccogliendo fermezza. Era quello tenace che ben conosceva. Che aveva visto sin dalla prima volta quando a colazione, su Anima, aveva sbandierato silenziosamente il suo malcontento all’idea di andarsene così presto. O quando se n’era andata a zonzo per il Polo di notte, senza scorta, e non si era dimostrata minimamente pentita. Era quello lo sguardo che poteva letteralmente piegare una porta al proprio volere.
- Animerò il dirigibile.
Thorn sollevò le sopracciglia, sorpreso suo malgrado. Stava pensando al suo animismo, in effetti, ma Ofelia poteva davvero fare tanto?
Lei stessa parve dubitare di ciò che aveva appena detto. – Cioè, non proprio l’aeronave, ma il meccanismo di pilotaggio. Lady Septima ha sabotato solo gli strumenti di comando manuale.
La voce parve venirle meno.
Animare dei meccanismi di pilotaggio sembrava già più sensato rispetto all’animare un’intera navetta, soprattutto se trasportava un peso di quella portata, eppure… - Il tuo animismo riesce a fare questo?
Non dubitava di lei, non voleva dubitare di lei, ma sembrava un’idea talmente balzana. Andava contro a tutte le statistiche, a tutte le previsioni, a…
Ce l’avrebbe fatta. Proprio per l’impossibilità dell’impresa era certo che ce l’avrebbe fatta.
- Deve riuscirci, perché non abbiamo altra scelta.
Thorn la osservò mentre si metteva di fronte al sostegno su cui avrebbe dovuto trovarsi la barra del timone. Ofelia esitò per due secondi, ma quando incrociò il suo riflesso nei vetri neri parve perdere ogni esitazione. Si raddrizzò, alzò il mento e afferrò un’invisibile ruota del timone, i piedi ben ancorati a terra. Aggrottò persino le sopracciglia, pronta allo sforzo.
Mosse le mani verso sinistra, simmetricamente, come per girare davvero il timone immaginario. L’aeronave parve assecondarla, ma Ofelia increspò la fronte, poco convinta. Girò dalla parte opposta, e di nuovo il piroscafo seguì le sue direttive.
Si era davvero connessa al dirigibile. Lo aveva animato. Lo stava guidando. Li stava salvando.
Partì un applauso entusiasta da parte di un gruppetto di persone che avevano seguito ogni loro gesto dal momento in cui Thorn aveva abbaiato quegli ordini all’interfono. Sembravano aver riposto in loro tutte le speranze, e non ne erano stati delusi. Anche Ambroise, che era rimasto indietro, brutalmente abbandonato, applaudì con le mani invertite. Uno spettacolo alquanto inconsueto. Ofelia sorrise leggermente, fiera anche di sé, oltre che del marito.
Non erano una coppia ordinaria, lo avevano già evidenziato. Ed erano felici così. Lui era… felice così. Anche un po’ di più.
- Sareste un eccellente tac-si, miss! Ora non ci resta che scegliere la destinazione – si complimentò Ambroise.
Thorn trattenne a stento una smorfia. Si sentiva inutile. Era il capofamiglia, e si era trovato costretto a gettare sulle spalle di sua moglie un peso immenso. E ora gli toccava dipendere anche da un adolescente.
-Tocca a voi guidarci. Lazarus vi ha insegnato la cartografia. Le mie enciclopediche conoscenze hanno i loro limiti.
Mai parole più amare erano state pronunciate. Le parole non avevano un gusto, certo, ma lasciare il comando a qualcun altro aveva fatto rimescolare il contenuto del suo stomaco. E gli si era acuito il mal di testa.
- Difficile stabilire con precisione dove ci abbia portato il Soffio di Nina, sir. Da queste parti non troveremo terre. Forse dovremmo voltarci e fare rotta su Babel.
Prima che Thorn potesse contestare le parole di Ambroise, un’altra voce lo sovrastò.
- Vi ha dato di volta il turbante, giovanotto?
Thorn vide Ofelia sollevare le sopracciglia. Si preparò ad uno scontro. La voce ringhiante apparteneva ad un uomo alto, austero e vestito di nero. Aveva la barbetta scura sudata, un collare ortopedico e un altro corpo sulla spalla. Non gli sembrava di conoscerlo. Anzi, non lo conosceva, perché lui non scordava mai nessuno.
Thorn studiò Ofelia in cerca di una reazione che lo aiutasse a capire chi fossero quei due individui, ma lei non sembrava spaventata. Sembrava più… interessata alla sorte dell’uomo svenuto.
- Non vi preoccupate – mormorò quello sveglio, interpretando nel suo stesso modo l’angoscia di Ofelia. Quindi si conoscevano… - È svenuto per l’odore, da bravo Olfattivo. Nell’immediato, la priorità assoluta è non tornare a Babel. Le cose si stanno mettendo parecchio male laggiù, la città è sull’orlo di una guerra civile, una guerra in cui quelli come noi sono i nemici da sradicare.
A giudicare dalle parole proibite pronunciate con così tanta sicurezza, dal discorso agguerrito e dalla palese volontà di allontanarsi da quell’arca, quell’uomo doveva essere un nemico di Lady Septima, dei Genealogisti e dell’intero sistema da loro creato. Non era proprio un alleato, ma di sicuro non un oppositore.
- Anch’io penso che faremmo meglio a cercare asilo altrove – intervenne una passeggera non interpellata. – L’arca più vicina a Babel è Totem, potremmo cercare rifugio lì.
L’uomo che prima Thorn aveva spostato, che aveva preferito rimanere inerte e lasciarsi trascinare dagli eventi per tutto quel tempo, disse la sua da sotto la consolle radio: - Totem è lontanissima, non ci arriveremo mai! Tantomeno senza una radio funzionante e un pilota professionista. Il boy in sedia a rotelle ha ragione, dovremmo tornare a Babel.
Quell’uomo non gli ispirava alcuna simpatia. Era meglio quando se ne stava zitto e buono. Poteva permettere ad Ofelia di prendere il comando, ma non si fidava del giudizio di nessun altro.
Si scatenò una discussione come Thorn ne aveva già viste, al Polo, tra i funzionari più in vista. Tante chiacchiere per nulla, dal momento che alla fine ognuno sarebbe rimasto inamovibile nelle proprie convinzioni. E per essere tutti passeggeri provenienti da un’arca in cui la parola stessa “guerra” era proibita, sembravano ben informati su come si facesse.
In tutto quel trambusto, Thorn era estremamente consapevole di Ofelia, le cui smorfie dimostravano chiaramente quanto sforzo le richiedesse governare l’aeronave. Quegli stupidi passeggeri stavano solo ostacolando il suo lavoro, facendola faticare più di quanto fosse necessario.
Sentì gli artigli insorgere come una marea, pronti ad attaccare e zittire i sistemi nervosi di quegli idioti ciarlatani, ma fu distratto da Ofelia.
Ofelia, che si girò per chiedere un po’ di calma come stava per fare lui. Ofelia, che invece sembrò intravedere qualcosa fuori dall’aeronave, e che lui imitò. Ofelia che sembrava… confusa e… impaurita.
- Spegnete le luci. Presto.
La fiducia in lei era così radicata nel suo intero essere, nel suo corpo, che bastò quell’ordine concitato a farlo scattare. Non c’erano interruttori. Scardinò uno sgabello dai bulloni che lo fissavano al pavimento e ruppe la lampadina sul soffitto, facendo sprofondare tutti nel buio.
E poi, come gli altri settantadue passeggeri presenti nella plancia di comando, lo vide. Il pinnacolo di una torre campanaria che il dirigibile stava per centrare in pieno.
Ofelia emise un verso di sforzo estremo quando obbligò il piroscafo a virare, tirando e arrotolando cavi immaginari con quanta più volontà possibile. Evitò lo scontro frontale, ma non l’impatto. Mentre Thorn lasciava cadere rumorosamente a terra lo sgabello (non che qualcuno avrebbe fatto caso a quel botto, nel frastuono generale) l’aeronave tremò. Grida, una campana, una vibrazione. Ofelia era ancora in piedi, indifesa, mentre cercava di salvare tutti. Da sola.
Thorn la raggiunse in due falcate e la strinse a sé.
Per un secondo fu consapevole solo della schiena di Ofelia premuta contro il proprio petto, del suo piccolo corpo protetto dalle sue braccia, dalla sua schiena, da qualsiasi parte del suo fisico potesse fungere da protezione. Se erano destinati a sopravvivere, avrebbe fatto di tutto perché lei ne uscisse incolume.
Il secondo dopo, la sensazione di aver ingerito il proprio stomaco sovrastò qualsiasi altro pensiero. Stavano precipitando di nuovo.
Sentì Ofelia stringersi a lui, come a voler fuggire dall’impatto, e l’abbracciò ancora più serratamente.
Quattro secondi dopo… atterrarono. Nemmeno troppo bruscamente. La sua mascella serrata non subì il contraccolpo, i suoi piedi non sussultarono.
Erano immobili. Percepiva solo il cuore di Ofelia battere forsennatamente contro il suo, attraverso la schiena. Sentirlo gli fece provare un sollievo immenso.
Non si mosse. Non si sarebbe mosso mai più, se non fosse stata Ofelia a riscuotersi, delicatamente. Scostò le sue braccia dal corpo con cautela, come se temesse di ferirlo. Lui seguì ogni suo movimento finché non incontrò il suo sguardo. Sapeva che sul volto di Ofelia si rifletteva esattamente quello che provava lui: stupore. Erano sopravvissuti. Contro ogni aspettativa, contro ogni calcolo.
La probabilità di uscirne indenni era inferiore all’un percento. Molto inferiore. Non aveva voluto nemmeno soffermarsi su quel numero quando aveva già dato per spacciata l’aeronave. Ancora una volta Ofelia aveva creato una sua matematica, sfidato ogni legge, ottenuto la vittoria contro ogni previsione.
I miracoli non esistevano.
Errata corrige: i miracoli non erano esistiti; finché non era arrivata Ofelia.
Ofelia era un miracolo. Il fatto stesso che amasse lui lo era.
Avrebbe fatto di tutto per lei. Qualsiasi cosa.
Si raddrizzò, sordo ai commenti di Ambroise, e cominciò a dettare ordini.
Il minimo che poteva fare per anelare ad essere alla sua altezza era darsi da fare. Sgravarla da qualsiasi peso. E metterla al sicuro.
Nient’altro aveva importanza.
Niente.
  
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