Libri > L'Attraversaspecchi
Segui la storia  |       
Autore: MaxB    27/02/2021    5 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ciao a tutti!! Finalmente aggiorno *-*
Un grande grazie a Sofy_m, come sempre, che mi ha suggerito questo capitolo. Avrei voluto descriverlo da tanto ma alla fine rimandavo sempre, il suo suggerimento mi ha dato lo sprone per ultimarlo finalmente.
Il prossimo sarà la fantomatica scena dell'erba alta, finalmente, ma vi avverto, ci metterò parecchio a postare. Vorrei concentrarmi su Ingranaggi perché sono indietro e la storia minaccia di essere fin troppo lunga, quindi è il caso che acceleri. Anche se non abbandono Into the deep, passerà in secondo piano, purtroppo.
Questo capitolo credo non sarà nulla di che perché mi piace un sacco, e quando un mio capitolo mi piace di solito piace solo a me xD Come quando a scuola ero convinta di aver preso un bel voto e invece mi ritrovavo con un 6 o un 7. Non a caso la mia linea di condotta era: dì sempre che è andata male, male, male. Se va davvero male ti ci sei già adeguata, se va bene sei anche più felice.
Spero però di sbagliarmi su questo capitolo, perché è una delle mie parti preferite dei libri.
Grazie a tutti come sempre♥

L’Attraversaspecchi II, Gli scomparsi di Chiardiluna, I racconti e Le promessepagg. 97-107 e 157-170.

21. Accordé


Erano passati trentuno giorni da quando aveva visto Ofelia l’ultima volta. Trentuno giorni e undici ore. L’aveva osservata in occasione della sua prima esibizione da vicenarratrice. Da lontano, come spettatore.
Le aveva parlato per l’ultima volta nove ore prima della sua esibizione, al telefono. Lei aveva chiuso la comunicazione senza salutare o confermare l’appuntamento che lui aveva fissato per giovedì, tra le undici e trenta e mezzogiorno. Non si era presentata. E non aveva più voluto rispondere al telefono da quel momento in poi. Non aveva più voluto parlargli, per la precisione, perché i calcoli non mentivano: era impossibile che una persona, per quanto debole fosse il suo sistema immunitario, avesse ogni giorno una patologia diversa, dal mal di gola al mal d’orecchi, dall’artrite che le impediva di sollevare la cornetta al male ai piedi che le precludeva la possibilità di camminare fino alla cornetta.
E poi era difficile che una donna così giovane avesse l’artrite, a meno che non fosse una condizione genetica tipica del suo ceppo familiare. Sua zia però non lo aveva informato di una simile malattia, pertanto doveva essere una scusa per non parlare con lui.
Cosa si era aspettato, dopotutto? Era partito con il piede sbagliato, lo aveva persino ammesso. Era un modo per scusarsi. Come aveva potuto essere così illogico da pensare che bastasse una simile frase per porre rimedio all’odio che Ofelia nutriva nei suoi confronti? Aveva ignorato lui stesso le regole basilari della matematica. Aveva creduto che lei potesse essere… l’eccezione, che potesse vederlo davvero come un marito, come la persona amata.
Il fatto che lui la vedesse già così non contribuiva affatto a rendergli la situazione più tollerabile. Perché doveva sempre essere lui ad anelare all’affetto altrui? Prima con sua madre, poi con sua zia, ora con la fidanzata… nessuno di loro l’aveva mai voluto. Nessuna lo voleva. Ma lui aveva un tale desiderio di essere indispensabile per qualcun altro…
Odiava quei pensieri. Non lo portavano mai da nessuna parte, si faceva pena da solo.
Mise giù con stizza il calamaio e prese la pipa. Tirò due boccate, giusto per cercare di calmarsi.
Ofelia non voleva parargli. Niente di nuovo, ci era abituato. Quello a cui non era abituato era la gestione di questo… rapporto matrimoniale. E a complicare il tutto c’era anche l’innegabile sentimento che provava per lei. Si era… invaghito della sua fidanzata.
Invaghito non era il termine corretto, non indicava con precisione la complessità e la profondità di quello che sentiva, ma non voleva pensare alla giusta definizione. Era troppo rischioso e compromettente.
Era il quattro giugno, nel giro di due mesi si sarebbero sposati. Il tre agosto. Avrebbe dovuto convivere con quel silenzio imbronciato per tutta la vita? Sperava proprio di no. E quella speranza gli dava ancora più fastidio dell’essere ignorato volutamente. Era abituato a quello; alle malelingue, ai pettegolezzi, ai nomignoli affibbiatigli, tutt’altro che lusinghieri, ma quella era gente di cui non gli interessava nulla. Invece di Ofelia gli importava. Anche un po’ di più.
Una fitta alla testa lo costrinse a riporre la pipa, dopo un’ultima lunga boccata.
Si alzò in fretta, raccogliendo le carte che gli servivano e uscendo dal suo ufficio.
Non si premurò di avvisare il suo segretario, sapeva bene qual era il suo programma per la giornata. Avrebbe voluto dire che lo conosceva meglio di lui, ma sarebbe stata una bugia.
Mentre apriva la porta della Rosa dei venti per dirigersi verso la mostra canina in cui doveva effettuare il censimento, cercò di non pensare a Ofelia. Cosa impossibile.
Doveva cercare di parlarle prima del matrimonio. Non voleva assolutamente dover cominciare quella… convivenza sul piede di guerra. Era ben consapevole del fatto che lei non lo amava. Glielo aveva detto chiaro e tondo, non c’era alcuna possibilità di mal interpretare le sue parole. Come se non bastasse, la sua memoria gli riproponeva più volte al giorno la conversazione avuta in quell’occasione, nella vecchia stazione ghiacciata e deserta. Le aveva toccato il braccio. E lei gli aveva detto che non lo amava, e non avrebbe mai consumato il matrimonio.
Thorn strinse i denti e i fogli che teneva in mano.
Accantonò tutto quell’inutile sentimentalismo, quei rimpianti inopportuni, e si concentrò sul suo lavoro. Da quando i Draghi erano morti c’era penuria di viveri. Nessuno era più in grado di procurare la carne necessaria al sostentamento del Polo per tutto l’inverno. Era facile valutare obiettivamente la cosa, senza farsi prendere dall’emozione: per quanto odiasse quel ramo della sua famiglia, che non era mai stata una famiglia per lui, il loro lavoro era indispensabile. La loro scomparsa aveva gettato il Polo e i conti, nonché le riserve di cibo, nello scompiglio. Lo capiva, era un dato oggettivo, calcolabile. Perché con Ofelia era così diverso? Cosa gliene importava se la sua fidanzata non provava nulla per lui, anzi, forse lo disprezzava?
Doveva trovare il modo di parlarle.
Accelerò il passo, sentendo un dolore all’anca attraversargli la gamba. Era abituato a convivere con quei fastidi, causati dall’eccessiva magrezza, dalle ferite inferte da bambino, dalla crescita troppo rapida e dal prolungato tentativo di reprimere costantemente gli artigli. Per una volta accolse quel fastidio come un’opportunità per rimanere lucido e smettere di pensare a…
Una mano.
Thorn si bloccò.
Era arrivato alla mostra canina. Aveva camminato, attraversato la Rosa dei venti, chiuso e aperto porte meccanicamente, senza bisogno di prestare attenzione a ciò che faceva. Ed era giunto di fronte ad uno specchio da cui sbucava una mano.
Una mano viva, che si agitava convulsamente. Una mano guantata.
Era Ofelia, per forza. Quante possibilità c’erano che fosse qualcun altro? Guanti da lettrice, potere da attraversaspecchi, ambiguo e decisamente impossibile da trovare al Polo.
Che diavolo ci faceva la sua mano nello specchio della mostra canina? Proprio mentre passava lui, per giunta?
- Aiutateci intendente! – si sentì chiamare da una voce femminile concitata.
Voltandosi verso la fonte del rumore, scorse quattro signore anziane, membri dell’aristocrazia, accompagnate da un cane a testa, tutti imbellettati con nastri e orpelli fuori luogo sul pelo di un animale. Non capiva proprio cosa passasse nella mente delle persone, a volte, ma ancora di più non capiva come potessero essere così ipocrite. Le conosceva una a una per nome, quelle vecchie, ed erano delle gran pettegole. Non gli avevano risparmiato un commento velenoso, non erano mai state indulgenti nei suoi confronti, si erano addirittura opposte alla sua investitura alla carica di intendente. E ora gli chiedevano aiuto.
La falsità ammantava la corte tanto quanto le illusioni. Anche un po’ di più, probabilmente.
Tenendo ben stretti i fascicoli sotto braccio, Thorn allungò una mano. Esitò appena, prima di afferrarle il polso magro. La mente lo catapultò per un attimo indietro, di nuovo alla stazione congelata, ma cercò di accantonare il ricordo. Se doveva toccare lei, il corpo non gli dava alcun segnale di rifiuto. Anzi, avrebbe voluto poterla toccare… più spesso. Non era avvezzo ai contatti fisici, e visto che con lei non aveva problemi di nausea da quel punto di vista… un esperimento. Sarebbe stato un esperimento.
Nient’altro.
Bugiardo.
Tirò piano il suo braccio, attento a non farle male, ma incontrò una certa resistenza. Allora tirò più forte, strappandola allo specchio, finché non la vide capitombolare fuori dalla superficie e cadere di schiena. Era stato tutto così repentino che non aveva avuto il tempo di impedirle di ruzzolare sul duro parquet.
Era Ofelia ovviamente, scomposta in un ammasso di gonna, sciarpa e capelli spettinati, come al solito. Aveva perso gli occhiali, e questo gli permise di avere una panoramica perfetta e diretta verso il suo viso. La sua fidan… Ofelia sembrava ancora più sorpresa di lui. Perplessa. E si vergognava per la figuraccia. I suoi grandi occhi scuri erano spalancati. Stanchi, anche. Fissi su di lui senza vederlo.
Il cuore di Thorn mancò un battito, cosa che lo fece infuriare. Non la vedeva da un mese e reagiva così? Che patetismo.
Ofelia si riscosse in fretta, cercando a tentoni qualcosa, probabilmente gli occhiali. Era davvero molto miope. Non poté fare a meno di essere intenerito da quella figura così piccola, indifesa e fragile, e si odiò di nuovo per quello. Lui poteva proteggerla, poteva essere forte per lei. Perché lei non voleva lasciarglielo fare?
Ofelia cominciò a balbettare frasi sconclusionate. Thorn si chinò, prendendo gli occhiali al posto suo. Ci avrebbe messo un bel po’ di tempo per trovarli da sola, dato che stava cercando dalla parte opposta. Glieli mise in mano con delicatezza, perché non li rompesse con un movimento brusco.
- Mi… io mi ringrazio tanto – bofonchiò, chiaramente confondendo le parole nell’imbarazzo e nella foga.
Thorn le afferrò il braccio, sopra il gomito, aiutandola ad alzarsi. Era… morbido, il suo braccio. E caldo.
- Vi dispiace molto, si scusi – continuò a mormorare.
Quei tentativi di scusarsi e ringraziarlo avrebbero anche potuto divertirlo se la situazione non fosse stata quella che era. Un mese che non si vedevano. Un mese che non parlavano. Perché lei non voleva. E mancavano due mesi al matrimonio. Attese che Ofelia lo riconoscesse per guardare che reazione avrebbe avuto.
Finalmente in piedi, Thorn le lasciò il braccio e sistemò i formulari in una posizione più stabile. Ofelia invece si rimise gli occhiali, sbagliando il verso prima di riuscire a indossarli correttamente. Aveva i capelli spettinati, ma non pareva farci molto caso. Stranamente, la cosa non disturbava nemmeno lui, nonostante il suo radicato e imprescindibile bisogno di ordine. La prima cosa che mise a fuoco fu lui, dato che si trovava vicino a lei… così vicino…
I mormorii le morirono sulle labbra quando lo riconobbe. – Che ci fate qui?
Thorn aggrottò le sopracciglia di fronte alla sua espressione stupita, non più intimidita. Lo guardava dal basso con evidente disappunto. Nonostante l’avesse appena aiutata. E che razza di domanda era cosa ci faceva lui lì? Non era lui ad essere rimasto incastrato in uno specchio, lasciando una mano a sbucare da una superficie riflettente sotto gli occhi di tutti.
Quanto imprevedibile era quella donna…
- Dovrei essere io a chiedervi che faceva la vostra mano in questo specchio. Le qui presenti signore saranno pure abituate alle stravaganze, ma avete rischiato di far venire loro un accidente.
In risposta alle sue parole, Ofelia si guardò intorno per la prima volta. Vide le signore a cui Thorn si riferiva, le anziane aristocratiche che la fissavano con sdegno. Lo sguardo dei loro cani imbellettati non era meno riprovevole. Quella collera sarebbe stata rivolta a lui non appena avesse detto loro a cosa serviva quel censimento.
Poi vide Ofelia scrutare l’ambiente oltre le persone, prendere atto di dove si trovava, intorno e in alto.
Infine la cortesia prese il sopravvento: - Chiedo perdono, madame. Ero completamente incastrata. Non mi succedeva da un pezzo.
Una parte del suo cervello invece si chiese quante altre volte fosse rimasta incastrata in quel modo, e come. Il fatto che non le succedesse da un pezzo non significava affatto che non fosse mai accaduto.
Thorn considerava la cortesia una fasulla perdita di tempo, anche se Ofelia riusciva a farla sembrare sincera. La vide cercare di sistemarsi i ciuffi ricci sfuggiti al suo chignon malandato. Chissà che consistenza avevano quei capelli… aveva toccato solo i suoi in tutta la sua vita, non sapeva se quelli di una donna fossero diversi.
Di certo non era il suo pensiero prioritario, ma il fatto che gli venisse in mente una cosa simile in una situazione del genere era insolito e incoerente. E gli ricordò, in un certo qual modo, che doveva parlare con Ofelia a tu per tu e quella era quanto meno un’occasione. Non che se ne fosse dimenticato…
- Vogliate scusarmi – disse alle donne anziane voltandosi verso di loro, per quanto forse sarebbe stato meglio se fossero state loro a scusarsi. Se la vanità e l’altezzosità fossero stati dei peccati, quelle donne sarebbero state le più dissolute del Polo. Pose alcuni dei moduli che teneva sotto braccio sul tavolo. Doveva parlare con Ofelia, sì, ma nel pieno esercizio delle sue funzioni non era il caso di sprecare tempo. Era disonesto. – Potete intanto riempire i formulari, verrò a riprenderli fra cinque minuti.
Ci mise una frazione di secondo a rendersi conto che Ofelia avrebbe potuto rifiutarsi di appartarsi con lui. E non perché il loro chaperon fosse assente e lei temesse le malelingue, ma perché con ogni probabilità, visto il silenzio telefonico, era ancora arrabbiata. Lui però doveva parlarle. Era… una strana sensazione, quasi un bisogno fisico.
Così fece l’unica cosa possibile, un azzardo che gli fece provare una scarica lungo il corpo, molto diversa da quella provocata dagli artigli: le mise una mano sulla spalla. La indusse a seguirlo, praticamente spingendola, in un’anticamera vuota arredata in modo del tutto privo di gusto, pragmatismo e senso. Uccelli esotici finti. Se fossero stati edibili avrebbe censito anche loro.
Rendendosi conto che Ofelia non avrebbe parlato per prima, vista la sua evidente rimostranza anche nel seguirlo fin lì, prese lui la parola. Accantonò con decisione un filo di pensiero che saggiava l’aria, consapevole del fatto che erano da soli in una stanza e, per quanto non ci fossero dubbi circa il fatto che non sarebbe successo nulla, la cosa risultava intima.
- Bene. Quando la signorina vicenarratrice avrà onorato i suoi impegni con tuti gli abitanti del Polo accetterà di dedicarmi un po’ del suo tempo?
Se ne pentì subito. E lui non si pentiva mai di ciò che diceva. Ogni parola che usciva dalle sue labbra era prima pensata, ponderata, elaborata, confrontata con sinonimi che potessero renderne meglio il concetto e infine inserita in una frase dalla correttezza grammaticale ineccepibile e dall’eloquio fluido e limpido.
Invece in quella domanda c’era… emozione. Troppa. C’era una palese, vergognosa e ingiustificata gelosia, c’era sarcasmo tagliente nell’utilizzo metonimico del suo incarico al posto del suo nome, c’era desiderio di… C’era desiderio di non vedersi messo all’ultimo posto, come sempre. Di poter in qualche modo rientrare nell’agenda dei suoi impegni. Voleva che Ofelia… lo notasse, lo considerasse.
Ma non poteva più perdere in quel modo il controllo delle sue parole. Era inopportuno.
- Penso di potervi concedere un minuto, visto che mi avete aiutata a liberarmi.
Il tono di Ofelia non era particolarmente caloroso, per quanto lui non fosse molto ferrato in quella materia interpretativa. Il suo cervello però stava già contando il minuto. Era possibile che quello di Ofelia fosse un eufemismo, ma lui era preciso quando indicava una tempistica. Un minuto era un minuto, erano sessanta secondi, non uno di più.
Cinquantotto.
- Non qui e non ora – liquidò la questione. Non voleva che Ofelia gli dedicasse del tempo in quella stanza angusta e obbrobriosa. E un minuto non gli bastava. – Venite domani all’intendenza. All’ora che volete – concesse, rendendosi improvvisamente conto, in modo oltremodo patetico, di quanto fosse disposto a scombinare la sua intera giornata lavorativa per lei, - annullerò gli altri appuntamenti.
Cinquanta.
Ofelia sospirò. Sembrava in conflitto. – Ne parlerò con Berenilde. Cercheremo…
Il suo proposito di riacquistare il controllo delle sue emozioni venne brutalmente stracciato. E lui si atteneva sempre ai suoi propositi. L’effetto che Ofelia aveva su di lui era sconvolgente.
- Non voglio né mia zia né vostra zia – affermò categoricamente. L’immagine di lui e lei circondati dalle loro zie, incapaci di poter parlare liberamente… Ofelia probabilmente no, ma lui di sicuro avrebbe avuto difficoltà… - Questa situazione non può andare avanti ancora, esigo che vi riconciliate con me.
Quaranta.
Vide un’ombra passare negli occhi di Ofelia, anche se era difficile dirlo per via dei suoi occhiali. Non capiva perfettamente il meccanismo di quelle lenti animiste, che mostravano i sentimenti della sua padrona in base a varie sfumature di colore. Probabilmente non le piaceva l’idea di riconciliarsi. Ergo, era ancora arrabbiata. Ma non si rendeva conto di quanto fosse insensato rimanere arrabbiati? Non era lui il suo nemico, non potevano permettersi di tenersi il muso. E non solo perché sarebbero diventati marito e moglie. Sapeva elencare per data, coniugi implicati e amanti quanti fossero i matrimoni di facciata, stipulati per pura alleanza. Il loro era uno di quelli, in effetti.
Un piccolo spasmo, impercettibile, gli scorse sul braccio, come se il suo corpo si rifiutasse di vivere una simile situazione. Non voleva, si rese conto, che Ofelia lo considerasse un nemico. Non voleva la sua rabbia, per quanto fosse abituato a riceverla.
- Cosa stavate facendo, esattamente?
La domanda lo colse completamente impreparato. Non solo il buon costume, a cui non faceva grande affidamento, ma la logica stessa imponeva che a una domanda si desse una risposta chiara e precisa. Perché mai Ofelia gli aveva posto una domanda che non c’entrava assolutamente nulla con l’argomento?
Mentre si arrovellava sulla questione, Ofelia gli prese dalle mani i formulari, gentilmente, come per dargli il tempo di rifiutarsi o tirarsi indietro. Era troppo intento a pensare per farci caso.
- Stavo procedendo al censimento di tutte le Bestie domestiche – si ritrovò a rispondere. La sua voce suonò vuota alle sue stesse orecchie.
Ofelia parve, senza alcun senso, sul punto di ridere, ma poi inorridì. Sicuramente aveva capito lo scopo di quell’indagine, ma perché aveva voluto ridere, all’inizio?
E perché a lui interessava così tanto?
Le altre persone, con le loro abitudini e i loro usi, risultavano incomprensibili, ma lui aveva sempre agito secondo il buonsenso. Non era invece in grado di spiegare lo scombussolamento che Ofelia generava in lui. Doveva dipendere per forza di cose dal fatto che fosse più imprevedibile degli altri.
Ventidue.
- Non starete mica pensando di…
- Sto prendendo in considerazione tutte le possibilità per risparmiarci la carestia – la bloccò, perché evitasse di completare la frase. Quel compito non andava particolarmente a genio nemmeno a lui. Consultò l’orologio da taschino, calcolando quanto tempo poteva permettersi ancora di sprecare. No, non sprecare: sfruttare. – Se fosse per me sceglierei per primi i ministri più grassi, ma l’antropofagia è una pratica illegale persino al Polo.
Ofelia non rise della sua battuta. Eppure gli sembrava che fosse… chiara. Perché rideva alla prospettiva di un censimento, e non di fronte ad una sorta di… battuta veritiera che metteva di fronte alla nuda verità? Forse il cannibalismo non la divertiva. A lui dava solo la nausea, in effetti.
- Le signore sanno quel che vi aspettate da loro? – gli chiese guardando, attraverso lo spiraglio della porta, le signore in questione.
Zero.
- Lo sapranno appena avrò finito con voi – borbottò lui. Quella prospettiva non lo allettava. Né di finire con lei, né di dire alle signore imbellettate che intendeva servire come pasto i loro cani troppo cresciuti. – I cinque minuti sono passati, posso avere una risposta? – la sollecitò. Era in debito di sette secondi, ad essere precisi. La cosa non lo turbava come al solito, però. – Verrete a trovarmi o no?
Lo sguardo che Ofelia gli rivolse non gli piacque affatto. Era stato guardato in molti modi, nella sua vita, con rabbia e sdegno, ribrezzo e malevolenza, odio e disprezzo, ma Ofelia sembrava avere pietà di lui. O forse, ancora peggio, era pietà per lei, all’idea di doversi sposare con lui. Si rese conto con sorpresa che avrebbe voluto cambiare quel modo di essere guardato. Solo il suo. Degli altri non gli importava, e non gli era mai importato.
- Non mi piacerebbe proprio essere nei vostri panni.
Thorn trattenne il fiato. Quell’asserzione, più di ogni altra che avesse udito, lo colse di sorpresa. Gli mozzò il respiro. Nessuno l’aveva mai osservato così attentamente da rendersi conto di quanto fossero scomodi i suoi abiti, se era questo che davvero Ofelia insinuava. Ma lui era una persona pratica, i sensi occulti delle frasi sfuggivano alla sua comprensione. Esisteva solo il loro significato letterale. E, letteralmente, al di là dell’emicrania sempre latente o del dolore alle giunture, che per lo più ignorava, la giacca da intendente era rigida e troppo calda. Gli impediva i movimenti. La camicia era troppo piccola, come ogni indumento, e lo faceva innervosire e incurvare, aumentando il fastidio ai tendini.
Mentre una branca dei suoi pensieri analizzava il contatto della stoffa sulla pelle e un’altra si concentrava sul fatto che avevano esaurito il loro tempo da trentotto secondi, ormai, Thorn si rese conto di… apprezzare ciò che Ofelia diceva. Voleva parlare ancora con lei, voleva diventare capace di capire il suo linguaggio segreto, interpretarlo e prevederlo. Era un’equazione troppo allettante per lasciarla perdere. E più di tutto, non aveva pregiudizi su di lui. Non nutriva nei suoi confronti un odio irrazionale e privo di fondamenta. Era arrabbiata con lui per averle taciuto informazioni che la riguardavano, per averla manipolata. Quello, l’aveva capito, era ciò che Ofelia odiava davvero.
Significava, però, che se lui fosse riuscito a farsi perdonare, il suo parere nei suoi confronti sarebbe potuto migliorare? Avrebbe potuto… non odiarlo. Non come gli altri. Con lei aveva un’opportunità che non aveva mai avuto, perché lei era scevra di preconcetti, non era nata lì, non era cresciuta lì, non conosceva le loro abitudini e la loro storia: l’opportunità di farsi apprezzare, per quanto complicato potesse essere.
- Ammetto che non sono molto comodi. Anzi, peggio che scomodi – ammise dopo altri nove secondi, allungando così il ritardo. Non gli importava. Controllò meccanicamente di essere perfettamente abbottonato e in ordine. Forse l’interessamento di Ofelia derivava da una qualche piega fuori posto. Non voleva ammetterlo, ma mentre si pettinava e controllava l’orologio, stava solo cercando di prendere tempo. Di godere ancora di quella compagnia così inusitata. Piacevole a suo modo. Però non gli aveva ancora risposto. Si schiarì la gola, poco avvezzo a quel genere di conversazione. E al dover essere insistente, quando tutti scattavano e gli obbedivano nel suo lavoro. – Ne deduco che la vostra risposta è no. Permettete?
Si rese conto di quanto poco quella congettura lo soddisfacesse quando allungò la mano per riprendersi i formulari che Ofelia ancora stringeva. Che ridicolo era stato, a pensare che Ofelia potesse cambiare opinione su di lui. Non voleva nemmeno un incontro da futuro marito a futura moglie. Era palese che già quel breve colloquio le fosse costato.
Tutto quel suo arrovellarsi era inutile, improficuo e poco dignitoso.
Vide però l’espressione di Ofelia cambiare. La pietà parve rivolta più a se stessa che a lui, in quel frangente. Sembrava… pentita.
Poi si raddrizzò, inclinò il collo per riuscire a guardarlo negli occhi, e gli restituì i fogli. Perso in quelle iridi scure, fuori luogo al Polo, Thorn prese i fogli automaticamente. Non voleva perdere il contatto visivo, per qualche oscuro motivo.
- Avete ragione, non possiamo passare la vita a evitarci, dobbiamo trovare insieme un compromesso. Verrò all’intendenza domani, prima dei racconti. E verrò sola.
Thorn sentì il suo intero essere cedere, le ginocchia perdere la forza di tenergli ritte le gambe. Ma si impose la compostezza. Provava sollievo… e… trepidazione. E speranza. E si sentiva ridicolo, ma aveva sentito come un calore irradiarsi dal suo stomaco al resto del corpo. Come se le sue parole, il suo consenso, lo avessero scaldato dentro.
Aveva già sprecato abbastanza tempo, però.
- A domani, allora.
 
Le ore si protrassero con lentezza esasperante. Stava forse impazzendo? Ogni secondo era di durata identica ad un altro, come poteva anche solo pensare che il tempo fosse lento? Il tempo fluiva regolarmente, secondo i suoi ritmi.
Quei pensieri oziosi e futili lo accompagnarono da quando ebbe rimesso piede all’intendenza, dopo il censimento delle bestie domestiche, fino alla notte e alla mattina successiva.
Non avevano concordato un orario per l’appuntamento, e con grande sorpresa di Thorn la cosa non lo turbava. Per quel giorno non aveva visite programmate, solo lavoro cartaceo, quindi aveva lasciato l’anta dell’armadio dei cappotti aperta e aveva istruito il suo segretario di avvisarlo nel caso in cui ci fossero state richieste d’incontro.
Lavorò con un occhio puntato sull’armadio, controllando l’orologio da taschino ogni dieci minuti precisi, anche se sapeva benissimo discernerli anche senza quell’oggetto. L’ultima volta che aveva provato a dare un appuntamento ad Ofelia le aveva chiesto di vedersi tra le undici e mezzo e mezzogiorno. Il non riuscire a capire se avrebbe rispettato quell’orario, seppur in ritardo, lo faceva fremere d’impazienza. Accondiscendere alla sua richiesta non gli sembrava troppo incline al suo carattere… emancipatore. Sarebbe sicuramente andata in un altro orario. E se invece, proprio per ripicca, avesse deciso di presentarsi alle undici e mezzo?
Thorn dovette rassegnarsi all’idea che Ofelia sarebbe andata quando più le sarebbe aggradato, una preferenza che non aveva termini di calcolo. Non era prevedibile. Rimaneva solo l’attesa. Anzi, il lavoro.
Stava lavorando, non stava attendendo Ofelia, dovette redarguirsi Thorn. Stava lavorando e, nel mezzo di quel lavoro, Ofelia sarebbe andata a parlargli. Era lavoro anche quello. Lavoro di tipo… coniugale. Un’incombenza nuova, a cui non avrebbe pensato di doversi adattare, ma che gli toccava gestire. Che sembrava… impaziente di dover gestire. Non gli era mai capitato. Si rese conto con un lampo di fastidio che lui voleva vedere Ofelia. Al di là del bisogno di vivere rapporti civili, al di là del doversi assicurare che stesse bene, di sondare la sua incolumità, lui voleva vederla. Parlare con lei. Studiare le espressioni sul suo viso. Scoprire cosa avrebbe potuto conoscere su di lei.
Quella ridicola e illusa speranza di piacere a qualcuno si stava ripresentando.
Consultò l’orologio, si accese la pipa, e fumò mentre scriveva.
Passò mezzogiorno.
Passò l’una.
Thorn si riaccese la pipa. Non mangiò.
Continuò a lavorare.
Si concesse una pausa bagno purtroppo indispensabile e si scrutò il volto allo specchio mentre si lavava le mani. Non gli piacque ciò che vide. Quello strano sguardo di… aspettativa. Di speranza. Aggrottò le sopracciglia, disgustato, e si rimise al lavoro.
Saltò la cena.
Ofelia non andò a trovarlo.
Forse sarebbe andata più tardi. Forse era stata trattenuta. Aveva sicuramente una buona motivazione per il suo ritardo. Lui non le piaceva, lo sapeva. Non gli era concessa la sua grazia, ma Ofelia era una persona buona. Non ce n’erano come lei, al Polo. Era sincera. Non gli avrebbe dato appuntamento se non avesse avuto intenzione di rispettarlo. Era integerrima. Leale.
Il segretario passò per lasciargli una copia del giornale che sarebbe uscito l’indomani. Thorn non lo ringraziò e non rispose alla formula di commiato.
Squillò il telefono in quel momento. Sua zia lo informò brevemente, dopo che lui ebbe ignorato le domande di prassi circa la sua salute e cosa avesse mangiato, che Ofelia si stava recando da Faruk per la regolare storia, in qualità di vicenarratrice. E che nel pomeriggio era fuggita da Archibald. Fuggita, letteralmente, attraverso lo specchio.
Thorn non salutò quando rimise giù la cornetta.
Ofelia aveva avuto intenzione di presentarsi, il giorno prima. Lo avrebbe fatto, se non fosse stata trattenuta. Se qualcuno non l’avesse trattenuta. Se quel qualcuno non fosse stato così inconcepibilmente attraente per le donne. Non poteva credere che pure lei ci fosse cascata. Pensava fosse diversa.
Ma c’era Archibald.
Decine di diverse correnti di pensiero gli sfrecciarono nella mente caoticamente.
- Illuso – gli dicevano.
- Bastardo.
- Aberrazione.
- Inguardabile.
- Indegno.
- Inferiore.
Thor si lasciò divorare da quella rabbia, scatenata contro se stesso, perché non poteva essere diverso da ciò che era. Non poteva essere amato. E non poteva nemmeno sperare di poter cambiare quella condizione.
Sentì anche un’ondata di implacabile ribrezzo e odio nei confronti di Archibald; un uomo che aveva tutto, e non si accontentava mai. Avido. Sregolato. Dissoluto. Disordinato e sciatto.
Nobile, di sangue puro, amato, invidiato, bello e affascinante (a detta degli altri, lui ne era solo nauseato), piacente.
La finestra andò in frantumi.
Thorn teneva la pistola nel cassetto. Non l’avrebbe presa finché non ce ne fosse stato assoluto bisogno.
Quando vide le due figure scure e nerborute calarsi dentro la finestra dalla notte esterna (aveva atteso Ofelia per sedici ore e trentuno minuti quel giorno) sentì gli artigli scorrergli nei nervi, lasciandoli scoperti e smaniosi. Si vergognò per quello, ma non gli sarebbe dispiaciuto sfogare quella frustrazione su qualcuno. E quei due malcapitati sembravano il bersaglio perfetto.
 
Quando rimase solo, imbrattato di sangue suo e non, sporco, scarmigliato, vuoto, provava sentimenti contrastanti. Il suo buonsenso aveva prevalso sull’istinto, alla fine. Non aveva usato gli artigli se non per scopi necessari: prendere una traccia delle due canaglie per consegnarle alla giustizia in un secondo momento. Il luccichio della pistola aveva fatto il resto.
Non si sentiva un mostro tanto quanto si sarebbe sentito tale se avesse usato di più il suo mezzo potere familiare. Ma questo non significava che non si sentisse sbagliato, orribile, malvagio, demoniaco.
Diede un’occhiata al disordine, esacerbato dal vento freddo che pareva volesse prendersi gioco di lui e faceva volare fogli nel soqquadro generale. Aveva male dappertutto, ma i suoi sensi erano come annebbiati.
Rimase in piedi, immobile sotto la finestra in frantumi, impassibile di fronte ai fogli che si agitavano nel vento.
E non pensò a nulla. Consapevole solo dello scorrere dei secondi, regolari, calmi, sempre ordinati e inflessibili.
Non pensò ad Ofelia e Archibald, al disordine, al suo stomaco che, suo malgrado, brontolava di fame per essere stato costretto al digiuno dalla mattina, ai suoi artigli violenti e sanguinari, al suo occhio pesto, all’emicrania, al naso rotto, alla pistola fredda contro le sue dita ossute.
Fredda, e puntata verso lo scricchiolio che udì ventisei minuti più tardi.
 
Thorn si accorse della presenza di Ofelia quando era già uscita dall’armadio. Si rese conto che era lì perché calpestò i vetri della finestra frantumata, producendo un crepitio innaturalmente forte nel silenzio ovattato del suo ufficio.
Fu un riflesso quasi involontario quello che lo spinse a sollevare nuovamente la pistola per puntargliela contro. Fortunatamente aveva un ottimo controllo dei propri artigli: se li avesse scatenati erroneamente contro Ofelia non se lo sarebbe mai perdonato.
Lei aveva gli occhi strabuzzati e la bocca aperta, da cui uscivano nuvolette di condensa, contrasto tra il suo fiato caldo e la temperatura gelida (escursione termica di trentasette gradi, pressappoco). Sotto la vestaglia da notte sbucavano degli stivaletti, e la sua figura era talmente ingobbita e accartocciata che misurava quattro centimetri in meno del solito.
Lei non accennò a muoversi, rimase a fissarlo con espressione palesemente sconvolta.
Thorn si affrettò a riabbassare quell’arnese odioso. – Ah, siete voi. Dovreste annunciarvi quando arrivate, non vi aspettavo più.
Che bugiardo. La porta dell’armadio sarebbe rimasta chiusa se non l’avesse più attesa. Si rese conto in quel momento che, se lei non si fosse presentata quel giorno, avrebbe atteso la sua presenza anche il seguente. Si corresse: era già il giorno seguente, data l’ora. Era stata la feccia che aveva ridotto il suo ufficio ad un bordello a lasciare l’anta così spalancata, l’armadio depredato di tutti i suoi cappotti. Ma, anche se loro non l’avessero lasciato in quello stato, Thorn avrebbe probabilmente riposato qualche ora sul logoro divano sotto la finestra, con l’armadio sempre aperto. Non l’aspettava più, ma ancora ci sperava.
Anzi, vista la sciagura che sembrava seguirla contro ogni logica, si meravigliava che non fosse sbucata da quell’armadio proprio nel pieno dell’invasione di quei due energumeni di prima.
Il labbro spaccato gli lanciò una fitta quando lo mosse per parlare, ma era niente in confronto a tutto quello che provava in altre parti del corpo. O a quello che aveva dovuto sopportare in passato. Nulla era come quello.
Ruotò la pistola, affinché non puntasse più contro Ofelia, e gliela porse. Lui non voleva averci niente a che fare, nonostante fosse un utile strumento di difesa e non implicasse sfoderare il suo mostruoso potere, ma lei era completamente indifesa.
- Prendetela. Premete il grilletto solo se è strettamente necessario – aggiunse. Non sapeva quanta conoscenza la sua fidanzata avesse di quelle armi, e non voleva scoprire che aveva erroneamente sparato a qualcuno nel tentativo di capire come funzionasse. – Non credo che torneranno, ma è meglio restare vigili.
E una pistola poteva allontanare chiunque.
Ofelia, però, continuava a fissare lui, sbigottita. Di certo non aveva guardato Archibald con quell’aria fredda e distaccata. Doveva essere stata… premurosa, rilassata. Anche un po’ di più.
Ofelia parlò prima che lui potesse stringere più forte le mani sulla pistola fredda, innervosito. – Chi è stato?
- La domanda non mi preoccupa più di tanto. Hanno avuto il fatto loro. Piuttosto avrei apprezzato se avessero rovistato nel mio ufficio con più attenzione. Ci vorranno ore per rimettere a posto tutto.
Di fronte alla mancanza di iniziativa da parte di Ofelia, rimise la pistola nella cintura. Afferrò al volo un foglio che gli bloccava la vista, infastidito.
- Richiesta di sovvenzione per l’abbellimento esterno delle abitazioni. Questo va alla pila del telefono – disse al vento, rendendosi conto di quanto tempo avesse perso, immobile, senza fare nulla.
Fece tre passi in direzione del telefono divelto, sotto al quale infilò il foglio macchiato di sangue. Serviva più come fermacarte che come telefono. Avrebbe dovuto sostituirlo. L’intontimento che aveva provato fino a quel momento parve sollevarsi come un velo dalla sua testa, e finalmente vide il cataclisma che regnava attorno a lui. Il suo ufficio. Nel caos. Gli prudevano i nervi dal fastidio, l’emicrania si intensificò. Doveva riordinare, era prioritario.
Una piccola parte di lui (diciotto percento), avrebbe voluto stare a sentire cosa avesse portato Ofelia da lui nel cuore della notte. L’aveva attesa tutto il giorno e lei aveva preferito dare la precedenza ad Archibald, riservando a lui solo gli scarti del suo tempo. Era rimasta con lui fino a quel momento? La parte maggiore, però, irata e offesa, prevalse. Si erano dati un appuntamento, le aveva concesso ampia libertà, permettendole di presentarsi quando avesse preferito, e lui aveva atteso. Invano. Ora lei non aveva più la precedenza.
Sentì giunture, ossa, muscoli e tendini scricchiolare quando si sedette per terra, nel punto in cui si annidavano più fogli. Avrebbe cominciato a riordinare da lì. Iniziò a prendere al volo tutti i fogli che, volanti o posati per terra, gli capitavano a tiro. Di solito i gesti metodici che lo portavano a mantenere tutto perfettamente in ordine avevano l’effetto di calmarlo. Il mondo tornava al suo posto quando tutto era simmetrico. Il mondo era più logico, comprensibile, giusto e vivibile. Non in quel momento. Aveva in corpo troppi sentimenti ribollenti per permettersi di vedere l’effetto catartico del suo rimettere a posto.
Ofelia rimase immobile altri quindici secondi prima di cominciare a muoversi per la stanza. I vetri che calpestava davano a Thorn un’idea della direzione che prendeva; sembrava che non avesse intenzione di rinfilarsi nell’armadio e lasciarlo lì. Ma quello non significava nulla.
I fogli smisero improvvisamente di agitarsi senza ritegno, piombando al suolo privi di vita. Probabilmente Ofelia aveva trovato il modo di bloccare l’entrata del vento dalla finestra distrutta. Sì, sarebbe stato più facile riordinare in quel modo, ma il vento gli aveva dato in qualche modo la forza di cui aveva bisogno. Si sentiva stanco. Aveva anche fame. Non prediligeva nessun cibo in particolare, ma era consapevole dei limiti del suo corpo, del fatto che avesse bisogno di nutrimento per poter sintetizzare lipidi, proteine, vitamine e…
- Thorn – mormorò Ofelia con una voce appena udibile. Se il vento avesse ancora imperversato per la stanza sarebbe stato impossibile distinguere le sue parole. Il rumore del termosifone che si avviava e l’aumento della luminosità gli fecero capire che aveva cercato di rischiarare e scaldare l’ambiente. Le battevano i denti, il rumore era appena udibile, ma lui non avrebbe alzato lo sguardo su di lei. Non era sicuro di poter nascondere l’ira e il resto delle emozioni caotiche che provava. Il suo ufficio ben rispecchiava quello che sentiva dentro di sé: desolazione, disordine, sangue, rotture, violenza.
- Non vorrei allarmarvi, ma non… ehm… non avete un gran bell’aspetto.
Nessuno gliel’aveva mai detto con tanto tatto. Ma non serviva tutta quella pacatezza: sapeva esattamente di non avere mai avuto un bell’aspetto. Che differenza faceva un po’ di sangue?
- Taglio in fronte, frattura del naso, due molari rotti e qualche stiramento muscolare. Non fatevi impressionare dal sangue, è solo il mio.
- Avete una cassetta di pronto soccorso?
Thorn cerò di non irrigidirsi. – Ce n’era una. Ultimo cassetto della scrivania.
Che volesse curarlo? Oppure, visto che aveva già contribuito a rendere l’ambiente un po’ meno freddo, aveva intenzione di dargli la cassetta e andarsene?
Sentì un trambusto nel punto in cui aveva detto ad Ofelia di cercare, ma non si arrischiò a guardare cosa fosse successo. Era maldestra, lo sapeva. Non gli interessava. Gli bastava evitare di guardare altro disordine.
Ofelia armeggiò ancora un po’ con altri cassetti, poi tra i vetri. Probabilmente era tutto rotto e inservibile. Avrebbe dovuto far pulire anche i tappeti.
- Dovreste farvi vedere da un dottore – diagnosticò lei dopo aver appurato che, in effetti, era tutto devastato e inutilizzabile. Thorn sentì rumore di passi e di fogli raccolti.
- No, devo mettere a posto i documenti – rispose. Aveva sopportato di peggio, non disse. – L’intendenza riaprirà alle otto in punto, non un minuto più tardi.
Ofelia si inginocchiò di fronte a lui porgendogli quello che aveva raccolto strada facendo. Non aveva mai avuto nessuno che lo aiutasse a… in niente, a dire il vero. Lei, invece, non se ne stava andando, lasciandolo al lavoro sporco. Che si sentisse in colpa per qualcosa? Che alla fine, con Archibald, avesse davvero…
Non si arrischiò a guardarla.
- Come volete – liquidò la faccenda, quasi irritata. – Ma ora ditemi: che è successo esattamente?
Thorn alzò un foglio particolarmente imbrattato di sangue alla luce della lampada più vicina: pila del telefono, anche quello.
Le rispose senza smettere di lavorare, mostrandole anche il naso e il mignolo, i segni distintivi che lo avrebbero aiutato ad inchiodare i due aggressori. Almeno così anche lei sapeva di doversi tenere alla larga da due individui mutilati di un mignolo e un naso.
Ofelia lo incalzò con le domande, ferma di fronte a lui. Non gli sarebbe stata utile a riordinare, dal momento che non sapeva di cosa trattassero i fogli che lui stava sistemando in pile ben distinte e simmetriche. Non gli rallentava il lavoro, per cui tollerava la sua presenza lì. Però sembrava sinceramente interessata.
Quella donna era incomprensibile. Lo ignorava, lo evitava, e poi faceva quanto era in suo potere per aiutarlo. Ma nel contempo, saltava l’appuntamento con lui per stare con Archibald. Cercò di non stropicciare un foglio di carta.
Sentiva i suoi occhi addosso, insistenti e scrutatori, mentre lui si muoveva per sistemare tutto e intanto rispondeva alle sue domande, spiegandole cosa fosse la riabilitazione dei decaduti. Tirò addirittura in ballo la Costituzione e si rese conto che Ofelia era più ricettiva, curiosa e predisposta all’apprendimento di quei burocrati pingui e pigri con cui aveva a che fare di solito. Se i membri della corte di Faruk e i legislatori fossero stati tutti come lei, il suo lavoro sarebbe stato dimezzato, oltre che velocizzato del quaranta percento. E probabilmente la situazione del Polo sarebbe stata anche più giusta ed equa.
Ofelia gli fece molte domande, e dato che nella sua vita Thorn non aveva ottenuto nulla per nulla le permise di porgliele. In cambio, le avrebbe chiesto la stessa cosa: risposte.
Per cui la lasciò continuare, anche se sperò avesse finito quando colse in lei un’esitazione.
- Che sono gli stati familiari? Non ne ho mai sentito parlare – lo incalzò lei invece, ancora.
Mentre le spiegava accuratamente cosa fossero, e quale fosse la sua posizione in merito, la percepì incassare il collo nella sciarpa e stringersi nella vestaglia per il freddo. Non disse altro, e regnò il silenzio. Probabilmente non aveva finito con le domande, sembrava non esaurirle mai, ma se aveva freddo non voleva che si prendesse un malanno, cagionevole com’era.
Così prese il suo orologio da taschino (erano trascorsi diciannove minuti dall’arrivo di Ofelia), e valutò quanto tempo avesse per finire di sistemare prima dell’apertura. L’orologio era sporco di sangue, avrebbe dovuto pulirlo.
- Avete finito con le domande? Bene – la incalzò, senza darle il tempo di ribattere. – Ora tocca a me.
Si fermò, lasciando i fogli dove stavano, lasciando che il caos regnasse ancora un po’. Aveva bisogno di vedere Ofelia in viso per valutarne le reazioni. I bugiardi si smascheravano facilmente, e Ofelia era molto espressiva. Si appoggiò le mani sulle ginocchia, e le spalle ringraziarono per quel riposo.
Quando sollevò lo sguardo su di lei era consapevole di non essere riuscito del tutto a nascondere il malcontento. Meschinamente, voleva trasmetterle ciò che provava, ossia nulla di positivo.
Ofelia infatti si irrigidì.
Invece di compiacerlo, quella reazione lo… intristì.
- Che siete andata a fare da Archibald, oggi?
La sua voce risuonò più pesante del previsto. Fredda e distaccata, quasi ferita. Eppure non aveva voluto assumere quel tono. Ofelia apparve colpita da quella domanda. Non sembrava tanto colta in flagrante, quanto più… sorpresa che lui lo sapesse. Ma non colpevole.
- Oh, sarebbe lungo da spiegare – lo liquidò.
Quella risposta lo fece infuriare. Non ne capì il motivo.
- Avevamo un appuntamento – scandì, questa volta con l’intenzione di calcare bene ogni parola, come per imprimergliele nella mente. – Perché siete andata da Archibald invece che venire da me?
E poi, senza quasi rendersene conto, sputò: - Cos’è che lo rende più frequentabile?
Gelosia. I sentimenti che si erano agitati come i fogli nel suo ufficio parvero quietarsi, calmarsi. Avevano trovato il loro posto, la loro forma.
Gelosia. Era geloso di quel buono a nulla di Archibald. Del fatto che Ofelia lo avesse preferito a lui, come chiunque altro.
- No, non è questo il punto – balbettò Ofelia. Qual era la natura della sua agitazione? Colpevolezza? – C’è stato un imprevisto, ecco tutto.
Ma Thorn ormai era implacabile, e alla gelosia si era affiancata la furia. Verso Archibald, verso Ofelia, ma soprattutto verso se stesso, che provava quei ridicoli sentimenti e addirittura si illudeva di poter avere una possibilità. Per quale motivo si ostinava a voler cambiare il risultato che i calcoli probatori avevano già evidenziato?
- Insomma, - sbottò, - che devo fare perché mettiate fine alla punizione che mi state infliggendo?
Ofelia si seppellì nella sciarpa, come a volersi schermare. L’accusa era dunque fondata, oppure la intimidiva il suo tono?
- Non era premeditato – si giustificò. – In realtà mi ero dimenticata di voi – aggiunse, come se quell’ammissione potesse sistemare le cose.
Thorn la fissò in silenzio, a lungo.
Si era dimenticata di lui. Valeva così poco, ai suoi occhi, da passarle addirittura di mente. Avevano preso appuntamento il giorno prima. Era consapevole della fallacità della memoria di chi non ne possedeva una come la sua, da Storiografo, ma dimenticarsi un appuntamento fissato il giorno prima non era una questione di mente, di cervello. Era completa, totale, profonda indifferenza. E l’indifferenza era il contrario dell’amore. Non l’odio. L’indifferenza.
Se l’avesse odiato, almeno avrebbe provato qualcosa per lui.
Capì in quel momento di essere indissolubilmente innamorato di Ofelia. Lo comprese quando si rese conto che lei, ovviamente, non provava nulla. Accanto alla gelosia e all’ira si frapposero un sentimento strano, caldo, mai provato prima e… un’angosciante delusione. Si era davvero innamorato della sua fidanzata. Avrebbe davvero voluto sposarla. Avrebbe davvero voluto averla al suo fianco. Non gli dava fastidio, non lo disgustava, non lo infastidiva.
Aggrottò le sopracciglia tanto da ridurre il suo campo visivo. Si sentiva attratto da Ofelia. Voleva… passare del tempo con lei. Conoscerla. Capire come funzionavano i suoi meccanismi mentali, quale passato l’avesse portata ad essere quella che era. Con le sue innumerevoli qualità, la forza inusitata e imprevedibile in una persona così piccola e apparentemente fragile, la volontà di ferro e la bontà innata, il senso di giustizia, scevro di pregiudizi, il candore di chi non ha visto di quali orrori è capace il mondo ma sarebbe comunque in grado di affrontarli. Voleva proteggerla, tenerla stretta a sé. Anzi, voleva affrontare con lei quello che si sarebbe presentato loro davanti. Anche un po’ di più.
L’amava.
E lei… - Proprio non mi amate.
Ofelia rabbrividì e un’espressione di orrore comparve sul suo volto. Se lo coprì con le mani, terrorizzata… da lui.
Thorn sentiva che, se non avesse già avuto le braccia abbassate, la forza le avrebbe abbandonate, facendogliele ricadere lungo i fianchi. Ofelia… aveva paura di lui. Ofelia aveva pensato che lui volesse… che volesse… attaccarla. Non riusciva nemmeno ad immaginarsi scenario più grottesco. Se c’era una cosa che avrebbe voluto fare prima, era abbracciarla. Non sfoderare i suoi artigli su di lei.
Come aveva potuto pensare che lui volesse…? Cosa l’aveva spinta a crederlo possibile?
I pensieri gli vorticavano di nuovo, tumultuosi, nello stomaco e nella testa. Non si era mai sentito più orribile di così, nemmeno quando aveva ucciso quel decaduto per legittima difesa. Mai.
Si sentiva svuotato, arido, irrecuperabile. Cosa aveva pensato di meritare? Quel matrimonio era combinato. Nessuna donna avrebbe mai voluto sposarlo. Ironico a dirsi, ma se l’era dimenticato. Doveva cercare di tenerlo sempre bene a mente, o sarebbe finito a sperare nel nulla.
Come si era ridotto…
- Allora siamo a questo punto? Diffidate così tanto di me?
Ofelia si tolse le mani dal viso, piano, come se in realtà temesse lo stesso un attacco. – I miei nervi sono stati messi a dura prova, oggi – si giustificò. Era stanca, provata. La corte non le faceva bene. Il Polo non le faceva bene. Lui non le faceva bene. – E poi dovreste guardarvi allo specchio quando fate quella faccia, anche voi vi trovereste spaven…
- Io non vi farò mai del male.
La vide vacillare, colpita da quelle parole sincere. Si sentì vacillare lui stesso. Erano solo parole, sì, ma erano tutto ciò che aveva. Non aveva onore, un retaggio di sangue puro, non aveva fascino, bell’aspetto, modi garbati, non aveva interessi al di là del lavoro, solo un gran senso del dovere che ad una donna, ad una moglie, sarebbe servito ben poco, ma… aveva le parole. Aveva la possibilità di fare promesse che non si sarebbe dimenticato neanche volendolo. E aveva la sincerità. Forse l’unica qualità che avessero in comune. Era onesto.
Non le avrebbe mai, mai e poi mai fatto del male. Avrebbe ferito se stesso, piuttosto. Ma non lei.
Non gli interessava cosa Ofelia avesse pensato di lui fino a quel momento. Voleva che, da quell’istante preciso, da quell’ora che avrebbe ricordato per sempre, quel minuto, quel secondo, lei gli credesse. E capisse che per lui era… importante.
- Ci sono molti modi di fare del male a qualcuno – prese la parola lei dopo quattordici secondi. Il tono era… come di resa. – Io do la mia fiducia a pochissime persone, e per il momento né voi né Archibald siete tra queste.
La gelosia lo rese felice che Archibald non godesse della fiducia di Ofelia. Il sentimento che provava per lei, invece, lo rese consapevole di chi era, cos’era, e come appariva ai suoi occhi. Gli sembrava che finalmente Ofelia avesse messo fine al rancore che gli portava, che finalmente avesse deciso di cancellare i passi che li avevano condotti fino a quel punto per ricominciare di nuovo, con il piede giusto. La prima volta avevano preso strade diverse, sbagliate. La seconda, Ofelia non era nemmeno partita, lui era andato per la sua strada da solo. Ma quella volta, la terza, sapeva che sarebbero partiti insieme. Esitanti, ma insieme. E lui avrebbe fatto il possibile per spianarle la strada affinché lei potesse prendere fiducia in sé, in lui, in loro, e lo raggiungesse.
Non era fantasioso, era una persona pratica; metafore, allegorie e tutto ciò che riguardava la letteratura non lo aveva mai interessato, ma quell’immagine si stagliava nitidamente nella sua mente, come se avesse davvero vissuto quell’istante, camminato insieme ad Ofelia.
Prese coscienza delle sue mani, così grandi in confronto a quelle piccole, delicate e inguantate di Ofelia, così insanguinate. Di sangue nuovo, di quella sera, e vecchio, di quando non era stato degno di lei. Non era sicuro di essere degno di lei nemmeno in quel momento, ma ci voleva provare. Provò stupidamente di pulirsi dal sangue strofinandosi le mani sulla camicia, ma ormai era secco, rappreso, e il suo tentativo fu inutile.
Ofelia continuava a guardarlo. Non sembrava più spaventata, ma Thorn sapeva che l’immagine del suo volto terrorizzato l’avrebbe perseguitato per molto, molto tempo.
Era andata da lui, alla fine, si rese conto. Si era scordata di lui, era stata con Archibald per motivi non sentimentali, a quanto pareva, e appena si era ricordata del loro appuntamento era andata da lui. A quell’ora tarda. Thorn cercò di concentrarsi su quello sforzo. Doveva essere esausta, ma aveva comunque deciso di raggiungerlo.
Non si illudeva che non ci fosse un motivo, ma gli si scaldò un po’ il petto.
- Ho già parecchi nemici – esordì, accigliato. – Non voglio più considerarvi tale, quindi ditemi che devo fare. Siete venuta qui per questo, no? Avete un accordo da propormi, vi ascolto.
E seppe che avrebbe acconsentito a qualsiasi richiesta, pur di ingraziarsela. Lui, integerrimo, giusto, inflessibile e incorruttibile, stava cercando di scendere a compromessi con la sua fidanzata, per rendersi più… approcciabile.
Ofelia lanciò una breve occhiata a lui e all’ambiente. Chissà cosa stava pensando.
- Voglio un lavoro.
- Un lavoro -. Tra tutte le richieste… Thorn sospirò mentalmente. Era chiaro che non gli avrebbe chiesto nulla di usuale, cosa si sarebbe potuto aspettare da lei? – Ne avete già uno.
- Non sono tagliata per fare la vicenarratrice – ammise Ofelia senza vergogna. In effetti, era già un miracolo che fosse riuscita a farsi sentire da tutti la prima volta a teatro, con la voce sottile e flebile che aveva. Anche se sembrava un ruggito rispetto a quella che aveva esibito appena si erano conosciuti, non era un baritono. – Lo spettacolo di stasera è stato un disastro ed è finito come peggio non poteva. Non credo che Faruk vorrà ancora ascoltarmi.
La mente di Thorn si divise in due correnti: una contrariata, e l’altra sollevata. Contrariata, perché in quel modo Ofelia avrebbe potuto perdere la protezione di Faruk, che teneva a corte sotto la sua ala protettrice solo chi gli tornava utile. Sua zia era… non voleva nemmeno pensare a cosa fosse sua zia per lo spirito di famiglia, o a cosa facessero insieme, anche se i fatti lasciavano ben poco spazio all’immaginazione dato che era incinta. Dentro di sé nutriva il puro e agghiacciante terrore che Ofelia potesse fare la stessa fine. Del resto, cosa se ne sarebbe fatto Faruk di una donna? Il sollievo era dato dallo stesso motivo: era contento che Ofelia non dovesse più dipendere da lui, dai suoi ordini e dai suoi capricci. E che lui non potesse più nuocerle. Aveva visto gli effetti della sua presenza su di lei, sulla sua mente, e vederla soffrire aveva fatto soffrire anche lui, sebbene all’epoca avesse dato la colpa a un’emicrania particolarmente forte. Invece era già innamorato di Ofelia, e non aveva voluto ammetterlo.
Infatti, prevalse il sollievo. Faruk era una mina vagante, molto meglio averlo lontano dalla sua fidanzata, tanto più se, grazie alla sua lacunosa memoria, era chiaro che si sarebbe ben presto scordato di lei. E con buona probabilità, le attenzioni che sua zia gli riservava avrebbero coperto anche Ofelia, risparmiandola.
Due secondi dopo rispose: - Non vi toglierà la protezione, siete troppo importante. Dimenticherà. Finisce sempre per dimenticare.
Ofelia parve calmarsi un pochino alle sue parole, e Thorn sentì una strana sensazione. L’idea di essere riuscito a confortarla lo faceva sentire… bene. Per un attimo non provò nemmeno dolore per via delle contusioni.
- Ci ho pensato su – spiegò allora lei, senza tentennamenti. Thorn era intrigato dal suo essere così diretta, così sicura di ciò che voleva. Non faceva che rammentargli, però, che abbaglio avesse preso all’inizio quando credeva che non sarebbe sopravvissuta, che fosse debole. – Potrei aprire uno studio di lettura, fare perizie per autenticare oggetti di famiglia o…
- Concesso – la interruppe. Era un lavoro sicuro, nessun tipo di pericolo, lontano dai riflettori. Era ragionevole.
Ofelia sollevò le sopracciglia, sorpresa. Ne fu… compiaciuto. Non era l’unica a poter prendere alla sprovvista gli altri.
- Evitate solo di esibirvi davanti a Faruk – si raccomandò, memore di quanto aveva analizzato poco prima. Non solo perché lei si tenesse alla larga dal raggio d’azione, e dalla memoria caduca, di Faruk, ma anche per la questione del Libro. Non dubitava assolutamente delle doti di lettura di Ofelia, era stata accuratamente selezionata da sua zia come fidanzata anche per quello, ma se avesse letto per Faruk lui avrebbe potuto ritenere nullo il loro contratto, o scordarselo, e tutto il lavoro, tutti i sacrifici fatti fino a quel momento sarebbero stati vani. – Potreste fargli venire l’idea di mettervi alla prova sul Libro, e il Libro è affar mio. C’è altro?
Ofelia parve ancora più sicura di sé con la sua ulteriore richiesta. Il suo benestare doveva averla resa più fiduciosa. O almeno così sperava. E sperava anche che, da quel momento in poi, Ofelia gli si rivolgesse anche per altro, non solo per ottenere qualcosa, per il proprio tornaconto. Non era un uomo paziente, ma si rendeva conto che per quelle questioni di… fidanzamento (non voleva pensare alla parola “coppia”) la pazienza era l’unica cosa che serviva davvero.
- Ho assunto un assistente, ma al momento non ho modo di pagarlo. Ho poca familiarità con le questioni di soldi. In attesa che sia in grado di retribuirlo potreste fargli avere un salario per i suoi servigi?
Un assistente. Per cosa? Chi? Preferì non fare domande, avrebbe giovato alla sua causa.
- Concesso. Altro?
- Ehm… sì – balbettò Ofelia, di nuovo sorpresa di fronte alla sua disponibilità. Bene. – Temo, alla lunga, di non essere più capace di distinguere le illusioni dalla realtà. Voglio rivedere il momento esterno.
Ragionevole. – Concesso. La notte polare è terminata e le temperature stanno risalendo – anche se non velocemente come nelle stime degli ultimi quindici anni, avrebbe voluto aggiungere, - presto potrete stare all’aria aperta. Altro?
- Da quando sono arrivata non ho fatto altro che vivere tra le sottane di vostra zia. Voglio un domicilio mio, non importa dove e quanto grande sia.
- Concesso. Altro?
Ofelia lo osservò con attenzione, riflettendo e al tempo stesso valutandolo. Sperava di essere riuscito a fare buona impressione su di lei, per quanto ritenesse poco encomiabile riconciliarsi sulla base di favori concessi o meno. Gli sembrava di essere uno di quei cortigiani che pagavano mazzette e si assicuravano i servigi di altri membri influenti tramite concessioni. Era arrivato a quel punto, pur di rendersi più… avvicinabile da Ofelia. Il fatto che non le avesse offerto nulla ma fosse stata lei ad avanzare richieste non lo aiutava a sentirsi meno imbroglione.
Ofelia si sciolse la sciarpa, come per aprirsi un po’ a lui, rischiarò gli occhiali (di umore alquanto tetro, presunse) e si sistemò i capelli. Alla meno peggio. Sistemarli era un’iperbole: i capelli di Ofelia sembravano ingestibili. Lui li avrebbe tagliati a zero, se fossero stati i suoi. Ma… gli piacevano. Addosso a lei.
Si impose di concentrarsi.
- Ho un ultimo favore da chiedervi, il più importante. Promettetemi di essere onesto, in futuro. Il fatto che per voi io sia soltanto un paio di mani non è più un problema – spiegò, aprendo e chiudendo i pugni come a voler utilizzare il suo potere. – Assumerò questo ruolo, dal momento che è chiaramente stabilito fra noi e che ognuno ci trova il proprio tornaconto. Sono anche pronta a insegnarvi a leggere quando avrete ereditato il mio animismo, dopo la cerimonia del Dono. E voi mi insegnerete a tenere sotto controllo gli artigli. Sarà il nostro unico dovere coniugale – mise in chiaro, articolando bene ogni parola, sottolineando il senso di ciò che stava dicendo. – Ma ecco, perché mi fidi nuovamente di voi non dovrete più nascondermi niente che mi riguardi direttamente.
I pensieri di Thorn esplosero, ripercorrendo ogni singola frase e parola di ciò che Ofelia aveva detto. Così tante cose avrebbe voluto correggere… altrettante avrebbe voluto cambiarne.
Essere onesto con lei. Sì, l’avrebbe fatto. Nei limiti del possibile. Aveva ormai capito che l’onestà e la trasparenza erano le uniche cose che per Ofelia contavano davvero. Non era interessata alla ricchezza, alla corte, alla vanità, all’opulenza, voleva solo onestà da parte di chi la circondava. E che non le venisse negata la sua libertà. Thorn era disposto a concederle tutto quello senza ritenute. Sarebbe stato onesto, e la cosa forse non le sarebbe piaciuta, ma glielo aveva chiesto espressamente. Quanto alla sua libertà… gli sembrava di essere già sulla buona strada.
Il fatto che però lei credesse di essere solo un paio di mani, per lui… All’inizio di sicuro. All’inizio, se ci fosse stato un modo per prendere il suo dono familiare e usarlo a proprio piacimento, non avrebbe esitato. E avrebbe risparmiato ad entrambi quell’unione forzata. Ma ora… anzi, fin dal momento in cui l’aveva vista… Si era invaghito da lei sin da subito, ma aveva avuto la forza di ammetterlo solo pochi minuti prima (otto, per la precisione). Non voleva che lei si considerasse solo un paio di mani per lui. Voleva che cambiasse quella concezione, perché forse, a quel punto, avrebbe capito cosa lei rappresentava per lui e avrebbe cambiato la sua attitudine. Si sarebbero potuti avvicinare. La matematica però non era molto dalla sua parte in quella questione, e lui la rispettava come se contenesse le regole del funzionamento del mondo.
Quanto al loro unico dovere coniugale… Si sentiva grato nei suoi confronti, per essersi resa disponibile ad aiutarlo a leggere. Si considerava una persona ragionevole (la cui definizione era “dotato di facoltà razionali; ispirato a un giusto criterio di valutazione”, quindi sì, lo era), molto ragionevole, e si rendeva conto che sarebbe stato impossibile padroneggiare il dono di Ofelia senza una guida. Lei aveva impiegato anni a sublimare l’utilizzo del suo potere familiare, non si aspettava certo di essere in grado di esercitarlo alla perfezione come lei dopo solo tre mesi dall’acquisizione del dono. Ed era ben disposto a ricambiare il favore insegnandole ad usare gli artigli. L’ultima cosa che voleva era che li usasse incautamente o inavvertitamente contro qualcuno, ferendo, e ferendo di conseguenza se stessa. Aveva cominciato a conoscerla abbastanza da intuire che non tollerava la violenza, e non si sarebbe perdonata di fronte alla prospettiva di aver nuociuto fisicamente a qualcuno.
Però…
Unico dovere coniugale. Non aveva mai pensato all’aspetto fisico delle relazioni. O meglio, ci aveva pensato, ma quando l’aveva fatto gli era salita una tale ondata di disgusto e nausea che si era imposto di controllare i suoi pensieri in quell’ambito. L’idea di… toccare una persona in quel modo… e… l’intimità, il mettersi a nudo, il mostrarsi completamente… i germi e i batteri… il rischio che la donna rimanesse incinta, dando così alla luce un… bambino urlante.
Quelle immagini erano intollerabili. I baci, non li aveva mai desiderati. La fisicità con qualcuno tanto meno. Era rivoltante, declassava l’umanità, la rendeva simile ad animali. Nella prima giovinezza, quando era sbocciato come uomo, con pulsioni e desideri annessi, se ne era sentito attratto per un po’ di tempo. Non tanto. Solo due mesi, a dire il vero. Poi aveva capito la portata di ciò che desiderava, e se n’era vergognato. E una sera, durante un ricevimento a corte a cui sua zia lo aveva costretto a prendere parte, aveva sorpreso diverse coppie in atteggiamenti lascivi. La cosa lo aveva talmente impressionato che una volta rincasato aveva svuotato lo stomaco per tutta la notte. Berenilde aveva dato la colpa ad alcune tartine scadenti, ma lui non aveva mangiato nulla. Aveva capito in quel momento che la vita da uomo sposato non faceva per lui. La vita da uomo non faceva per lui. La vita stessa non faceva per lui, si era reso conto da tempo, ma non per quello vi avrebbe rinunciato.
Forse, semplicemente, capì in quel momento, non aveva ancora trovato la persona che rendesse quegli atti tollerabili, desiderabili. Che facesse apparire il bisogno di un contatto come una cosa naturale, non come una vergogna. Che trasformasse un bacio in un gesto di affetto e comunione, invece che un mero scambio di germi (la cavità orale era tra i posti più prolifici di batteri dell’intero corpo umano). Che gli facesse riaccendere la scintilla di attrazione per una donna non come inclinazione dovuta alla giovane età, ma come atto d’amore, di vicinanza.
Ofelia, però, aveva già messo in chiaro che non sarebbe mai successo. E se lui all’inizio si era trovato concorde (anche se non completamente, nonostante non ne avesse compreso il motivo), in quel momento non poteva che esserne più contrariato.
Magari Ofelia la pensava come lui quando aveva accantonato quell’idea (cinque anni e tre mesi prima). Magari, come lui, ci avrebbe ripensato con il tempo.
Si mise a calcolare le probabilità che una donna come Ofelia provasse attrazione per lui e gli si volesse concedere. O che, testarda com’era, cambiasse idea. Le cifre non erano dalla sua parte.
Si accigliò ancora di più. Non poteva che andare incontro anche a quella richiesta. Parlarle di quello che stava macchinando era un grande azzardo, dal momento che Ofelia era lì per riconciliarsi con lui, e dirle che non gli sarebbe dispiaciuto, un giorno, adempiere del tutto a quei doveri coniugali… pessima idea.
- Concesso – borbottò, per mettere fine ai suoi pensieri raminghi.
Ofelia non aggiunse altro. Rimase in silenzio a fissare lui allo stesso modo in cui lui fissava lei. Solo che, ne era certo, quello che stavano pensando era del tutto diverso. Lei probabilmente era a disagio. Lo vedeva dalla postura rigida, pronta a muoversi, a scattare, a fare qualcosa. Imbarazzata, anche. Lui, invece, cercava di non fissare la sua bocca. Si stava domandando come sarebbe stato baciare qualcuno. Baciare lei. La vicinanza, la composizione cutanea delle sue labbra, il loro calore…
Trascorsero diciannove secondi.
- Voi contate sulla vostra personale memoria per amplificare la lettura del Libro. È dunque così eccezionale?
Un cambio repentino di argomento. Un argomento su cui non voleva che Ofelia si immischiasse, per proteggerla. C’era da aspettarselo.
Mostrò la sua contrarietà storcendo il naso. – Anche un po’ di più.
- E alla cerimonia del Dono oltre gli artigli erediterò anche la memoria?
Quanto curiosa poteva essere una persona? Nessuno gli aveva mai posto così tante domande. Si prestò all’interrogazione per buona creanza, per mostrarsi disponibile. Affabile.
Ofelia gli confermò quanto fosse stato difficile e lungo il suo percorso di miglioramento e affinamento del suo potere da lettrice, anche se “anni” non era un ottimo indicatore temporale. Impreciso al massimo, a dire il vero.
Quella discussione parve quasi preoccuparla, soprattutto di fronte all’eventualità di un insuccesso.
- Che succederà se dopo tante promesse deluderete Faruk? Credete che vi farà nobile nonostante tutto?
Avrebbe voluto spiegarle che non voleva diventare nobile per il rango, per il titolo, per la fama o chissà che altro. Avrebbe voluto dirle che era una rivincita personale, una dimostrazione al mondo di ciò che era capace di fare, della sua determinazione, della sua forza; del fatto che aveva la possibilità di arrivare dove voleva, ma quello che voleva se lo sarebbe sempre guadagnato, al contrario degli altri. Al contrario dei suoi mezzi fratelli, che avevano ottenuto tutto per diritto di nascita, e senza quello non erano nulla. Non sarebbero stati nulla, dal momento che erano morti.
Morti.
Ma avrebbe deviato troppo dal discorso principale e avrebbe mostrato ad Ofelia troppo di sé. Per quanto… provasse quel che provava, per lei, non era disposto a mettersi a nudo in quel modo. Quella parte della sua vita non voleva condividerla. Con nessuno.
- Non penso proprio – rispose fermamente. Poi aggiunse di slancio: – Semplicemente, vi sarete sbarazzata di un marito scomodo.
Non seppe per quale motivo avesse pronunciato quella frase infelice. Forse per mettere alla prova Ofelia. La guardò attentamente. Il non vedere traccia di sollievo sul suo volto all’idea di una sua prematura dipartita, o di non vederla sorridere, prendendo alla leggera quel commento che in realtà era macabramente serio, lo rassicurò un po’. Non lo amava, ma almeno non lo odiava al punto da volerlo vedere morire subito dopo il matrimonio.
Al contrario, si sperticò in recriminazioni sul perché non fosse saggio prendere alla leggera l’apprendimento del suo potere. Gli parlò di una lettera e di un possibile disturbo arrecato a qualcuno di imprecisato, ma passarono in secondo piano rispetto all’ostinazione con cui Ofelia tirava fuori il Libro. Più lui si affaccendava per tenerla lontana da esso e dal rischio che comportava, più lei si accaniva per saperne di più. Sembrava davvero in cerca di problemi, di difficoltà, e sapeva che se le avesse detto come stavano sul serio le cose ci si sarebbe buttata a capofitto. Era stancante cercare di proteggere qualcuno che non voleva essere protetto.
Non riuscì a trattenere un sospiro esasperato, che gli fece dolore le costole. Gli servì per rimanere lucido. O tornare lucido, dato che non si sentiva molto presente a se stesso.
- Smettetela di parlare sempre del Libro – le intimò, fregandosene del tono minaccioso che gli uscì dalle labbra. Era meglio se si spaventava. Preferiva apparire cattivo che prendere la questione alla leggera e vedere poi Ofelia… finire male. Raccolse alcuni fogli. – E se non è troppo pretendere, smettetela di attirare l’attenzione su di voi. Ora, con il vostro permesso, vorrei riprendere la cernita.
In realtà, avrebbe voluto rimanere ancora lì. Con lei. La posizione non era delle più comode, però era… piacevole parlare con Ofelia. Starle accanto. Si rendeva conto, però, che la mancanza di sonno e di un’adeguata alimentazione lo stavano rendendo impreciso, azzardato e irrazionale. E doveva assolutamente sistemare il disordine prima dell’apertura dell’intendenza. Il che, ragionò, gli avrebbe richiesto quasi tutta la notte rimanente, anche un po’ di meno se metteva in conto la colazione, che avrebbe obbligatoriamente dovuto fare. Il suo corpo aveva dei limiti, per quanto gli seccasse doverlo ammettere e sottostare a quei bisogni. Uno spreco di tempo.
Invece, con suo sommo stupore, Ofelia non accennò ad allontanarsi. Non si affrettò ad alzarsi per tornare in camera sua, per andarsene da lì, da lui. Thorn non voleva darsi false speranze, per esempio che la sua compagnia non le dispiacesse. Piuttosto, si chiedeva se non dipendesse dalla sua volontà un po’ ribelle, dal suo desiderio di affrancarsi dagli ordini che le venivano imposti. Lui la mandava via, lei si ostinava a rimanere lì.
- Oggi ho visto il cavaliere. Mi ha confessato tutto – esordì infatti, chiaramente non intenzionata ad andare via.
Il suo corpo si contrasse. L’algebra era chiara, la geometria anche, le cifre non mentivano. I sentimenti, invece, erano così imprevedibili, così difficili da interpretare. Il suo corpo si contrasse quando udì quelle parole. Non gli mancavano i suoi fratellastri, la famiglia sanguinaria e violenta del padre. Era sollevato all’idea di non vederli più, sollevato dalla certezza che non avrebbero potuto procurargli una cinquantasettesima cicatrice. Il fatto che però il cavaliere avesse causato la loro morte… una carneficina simile… lo destabilizzava. Non sosteneva che non se lo meritassero, non avevano fatto del male solo a lui nella vita. Ma erano pur sempre…
Era stanco. Non controllava più i pensieri. Doveva ordinare, ordinare e basta. Mangiare, chiudere gli occhi qualche minuto, e poi mettersi al lavoro.
Però parlò ancora con Ofelia, che gli diede alcune dritte interessanti.
Non voleva essere maleducato e scostante, non con lei almeno, ma doveva davvero allontanarla. La sua maschera di tranquillità apparente non avrebbe retto ancora per molto, e non voleva che lei fosse lì ad assistere nel momento in cui sarebbe crollato.
La percepì indugiare. Capì anche che era contrariata, sorpresa, quando smise di darle corda per sistemare un catalogo. Ma non poteva più trattenerla. Doveva mandarla via.
Alla fine, con un misto di gratitudine e delusione (contraddizioni; la matematica non era mai contraddittoria, e le contraddizioni davano origine a situazioni illogiche, incontrollabili e difficilmente risolvibili), Ofelia si alzò faticosamente. Doveva essere stato scomodo, per lei, stare ferma al freddo così a lungo. Sperava che non si prendesse qualche malanno. Il suo carattere era forte quanto il suo corpo era debole. Ma chi era lui per giudicare il fisico altrui, visto che sua madre lo aveva abbandonato anche per la sua salute cagionevole, da infante?
- Vado a dormire – si congedò infine. – Non dimenticate le promesse.
- Non le dimenticherò.
Un lavoro, uno studio di lettura.
Un salario per l’assistente.
Rivedere il mondo esterno.
Un domicilio personale.
Non nasconderle niente che la riguardi direttamente.
- Non dimentico mai niente.
Lei, invece, sì, come il loro appuntamento. Chissà cosa voleva dire dimenticarsi di qualcosa.
Si sentì osservato da lei, ma si costrinse a non alzare gli occhi per guardarla. Ancora non accennava a ad andarsene in fretta.
- Dovreste lavarvi via il sangue e riparare la finestra, prima di ricevere qualcuno. Evitate di fornire alla gente ulteriori motivi di trovarvi ambiguo.
Quelle parole si fecero strada nella sua mente annebbiata, colpendolo così a fondo che dovette farsi forza per continuare a lavorare come se nulla fosse. Fu come una rivelazione, come giungere alla soluzione di un complicato problema algebrico.
Ofelia non lo trovava ambiguo. Ofelia non si interessava granché delle sue abitudini, di che aspetto avesse, perché non lo condannava per quello che era. Però voleva che facesse bella impressione; o, anzi, che non facesse un’impressione troppo cattiva. Perché lei… aveva capito che lui non era ciò che gli altri dipingevano. Aveva capito che c’era altro, di più, in lui.
Sentiva che era così, come se quelle due semplici frasi fossero state un discorso e non un criptico consiglio.
Thorn tirò fuori l’orologio da taschino, prendendo una decisione che avrebbe creduto impossibile. Ma Ofelia riusciva a fare anche quello, a distruggere le sue certezze, colpirlo nel profondo e fargli fare cose che non avrebbe mai, mai e poi mai pensato, men che meno fatto.
Non voleva sposarsi, ma lei lo aveva spinto a desiderare quell’unione con lei.
Non aveva mai creduto nemmeno che una cosa tanto irreale e fantasiosa come l’amore potesse esistere, ma il suo intero essere lo portava ad ammettere l’evidenza dell’esistenza di quella forza.
Non aveva mai desiderato toccare qualcuno, eppure non solo lui voleva toccarla, voleva anche baciarla, abbracciarla, spogliarla…
Non si sarebbe mai separato dall’unico oggetto che considerava importante, ma la volontà di farsi accettare da lei, di darle un pezzo di sé, letteralmente, prevalse.
Strinse con forza il suo orologio, riversando in quel tocco tutte le emozioni, le rivelazioni di quella sera. Se Ofelia lo avesse toccato, sarebbe stata risucchiata nel suo delirio personale, nella sua mente iperattiva, stanca e ferita, ma avrebbe inevitabilmente percepito, al di sopra di tutto, ciò che lui provava per lei.
Avrebbe scoperto quanto poco le sue mani gli interessassero, in confronto a tutto ciò che lei rappresentava.
Avrebbe compreso, toccato letteralmente, quanto lui l’amasse. Quanto quel sentimento lo destabilizzasse, ma al contempo lo facesse sentire vivo. Umano e uomo per la prima volta. Individuo, non solo oggetto per raggiungere qualche scopo.
Non sapeva davvero se voleva che Ofelia lo leggesse, ma quella per lui era una formale dichiarazione d’amore, un’esposizione, una messa a nudo. Quell’orologio era stato con lui durante il settantotto percento della sua vita attuale, lo aveva toccato nei momenti più bui e in quelli più sereni, durante le crisi, la crescita, quando era preda dei dubbi e non sapeva chi fosse, quando aveva capito cosa voleva essere e si era chiuso al mondo per non soffrire più.
Ofelia gli aveva chiesto onestà sulle questioni che la riguardavano. Lui era una questione che la riguardava, dato che sarebbe diventato suo marito. Dato che lo voleva diventare.
Era giusto che niente di lui le fosse taciuto. La cosa lo spaventava, anzi, lo terrorizzava, ma l’impulsività lo spinse per un istante a credere che lei forse avrebbe compreso. E avrebbe guarito.
Lo avrebbe guarito.
- Avete voluto che sia onesto con voi. Imparerete quindi che per me non siete soltanto un paio di mani – sbottò. Quale eufemismo… - E me ne infischio altamente che la gente mi trovi ambiguo, visto che pe voi non lo sono. Me lo renderete quando avrò mantenuto tutte le promesse – bofonchiò poi, esaurendo la carica, porgendole l’orologio. Non la guardò in volto, però, temendone la reazione. Non le stava consegnando un orologio, le stava consegnando il suo cuore, la sua essenza, tutto se stesso. – E se in futuro avrete ancora dubbi su di me, leggetelo – le spiegò, perché lei capisse che era autorizzata a violare l’intimità più profonda di lui, quell’oggetto che lui le stava affidando come le avrebbe affidato la sua stessa vita.
Era giunto al limite, lo sentiva nelle ossa, che quasi non volevano più muoversi e sembravano aver acquistato un peso specifico a dir poco insolito per la sua struttura muscolare. Ofelia doveva andarsene subito.
- Vi telefonerò presto a proposito del vostro studio -  aggiunse poi, più per dare a se stesso occasione di richiamarla e parlare di nuovo con lei che per rammentarle l’impegno preso.
Ofelia se ne andò in silenzio, sparendo nell’armadio, e lui si immobilizzò.
Fece per prendere l’orologio e controllare con precisione quanto tempo gli rimanesse, ma le mani non incontrarono la sua forma familiare (diametro di sette centimetri, larghezza di due centimetri e mezzo, peso di ventisette grammi). Restò fermo lì, bloccato come un automa rotto, incapace di reagire.
La sua mente febbricitante implorava il riposo del sonno, ma anche se avesse ignorato il caos che regnava nel suo ufficio non sarebbe stato in grado di dormire. Non quando si era azzardato a prendere un rischio così grande. Come aveva potuto pensare che Ofelia, scoprendo tutto, tutto, tutto di lui, non sarebbe scappata via orripilata e spaventata, ma anzi gli si sarebbe gettata tra le braccia?
Perché la vita non era un’unica equazione matematica piena di variabili certe, che facevano ciò che dovevano e rimanevano al loro posto, si facevano calcolare in silenzio?
Perché quella ragazza, quella donna così bassa e piena di vita e spirito combattivo era entrata in quel modo nella sua vita, sovvertendo ogni regola, riplasmando le fondamenta del suo mondo e rendendolo così simile ad ogni altro uomo confuso e innamorato che non rispondeva delle proprie azioni?
Così lavorò. Lavorò. Lavorò finché non mancarono trenta minuti precisi alle otto. Allora si lavò nel bagno, velocemente ma con precisione, si cambiò, si pettinò e si rase, ignorò gli occhi rossi e le occhiaie, bevve due caffè forti e fumò la pipa prima di aprire l’ufficio. Cercò di non immaginare Ofelia profondamente addormentata nel suo letto, con il suo orologio stretto tra le mani, i capelli sparsi sul cuscino e un’espressione serena sul volto. Cercò di non immaginare come potesse essere stare lì accanto a lei, a condividere il suo calore e la sua vicinanza, a scrutare il suo viso al mattino, ad ascoltare il suo respiro.
Ricevette il suo segretario e accantonò tutto.
Non poteva sapere che, nella sua camera, Ofelia non aveva chiuso occhio, e fissava il suo orologio come lui si era immaginato di osservare lei.
  
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > L'Attraversaspecchi / Vai alla pagina dell'autore: MaxB