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Autore: PrincessintheNorth    29/01/2021    2 recensioni
Nuova edizione della mia precedente fanfic "Family", migliorata ed ampliata!
Sono passati tre anni dalla caduta di Galbatorix.
Murtagh é andato via, a Nord, dove ha messo su famiglia.
Ma una chiamata da Eragon, suo fratello, lo farà tornare indietro ...
"- Cosa c’è?
Deglutì nervosamente. – Ho … ho bisogno di un favore. Cioè, in realtà non proprio, ma …
-O sai cosa dire o me ne vado.
- Devi tornare a Ilirea."
Se vi ho incuriositi passate a leggere!
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Morzan, Murtagh, Nuovo Personaggio, Selena | Coppie: Selena/Morzan
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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MURTAGH
 
 
Non riuscivo a pensare.
Non riuscivo a parlare, né ad urlare.
Ogni singola fibra del mio corpo era bloccata nell’orrore e nella disperazione, fissata sulla scena che si stava dispiegando di fronte ai miei occhi.
Kate si era messa fra me e Galbatorix all’ultimo secondo, prendendo in pieno il colpo che era destinato a me. La spada del re l’aveva trapassata da parte a parte, e almeno venti centimetri di lama insanguinata le sporgevano dalla schiena.
Katie …
In lontananza, sentii i ruggiti di tre draghi, due di sfida ed uno di dolore: Maegor, Dracarys ed Antares.
Ce l’avevamo fatta. Galbatorix si era distratto e aveva perso il controllo sulle menti di Morzan e Derek, permettendogli di localizzarci. Sarebbero arrivati in pochi secondi, un minuto al massimo.
Ce l’avevamo fatta, al prezzo del sacrificio di Katherine.
Un sorriso perverso si disegnò sul volto del re, che con un unico movimento fluido tirò indietro la lama, aggravando ulteriormente e consapevolmente l’emorragia.   
Kate gemette per l’improvvisa e grave perdita di sangue e le gambe le cedettero, tremando e facendola inciampare in una roccia. Cadde di lato, atterrando sulle proprie ginocchia, reggendosi con un braccio e tenendo l’altra mano premuta tra il seno e la pancia, dov’era stata colpita.
 
«Bene» Galbatorix sorrise. «Eccola qui, la grande principessa e la Regina dei Pirati. Occupata a macchiare il terreno con il suo lurido sangue da troia. Pensavi davvero che ti avessi resa più potente di me? Che non mi fossi tenuto qualche asso nella manica? Mia cara, evidentemente sei molto più stupida di quanto immaginassi» ridacchiò e la pungolò al fianco con la punta metallica dello stivale. Nonostante ciò, nonostante fosse la mia Kate la donna che stava morendo di fronte ai miei occhi, io non riuscii a fare niente. Ero totalmente, completamente paralizzato, e non capivo il perché. Sapevo che era un fatto mentale e non una costrizione magica: ma allora perché non mi alzavo e non andavo ad aiutarla? Perché?
«Adulata ed idolatrata dal primo respiro, venerata, glorificata e temuta per dei poteri che non hai meritato. È così che cadono gli dei: per la troppa superbia».
Fu in quel momento che, finalmente, lo sguardo di Katie incrociò il mio: era colmo di dolore, e di rammarico, ma anche d’amore. Per un brevissimo istante, le sue labbra si curvarono appena in un sorriso.
Ti amo, sussurrò nella mia mente. Poi Galbatorix le diede una spinta, e lei scomparve oltre l’orlo del precipizio.
È morta. È morta, e con lei il bambino … è morta. È finita.
Non c’era alcuna possibilità che lei fosse sopravvissuta alla caduta: non con quella ferita, non stanca com’era.
Fino a quel momento non avevo davvero capito l’espressione “cuore spezzato”: ma ora, ora mi sentivo davvero come se qualcuno avesse spezzato il mio, in maniera così grave da non poter essere aggiustato. Mi sentivo spezzato io stesso. Vuoto, perso. Dilaniato dalla consapevolezza che Kate, l’amore della mia vita, non ci fosse più, e dalla speranza che forse, per miracolo, lei fosse riuscita a sopravvivere alla caduta e alla ferita.
«Bene. Un problema in meno» sentii Galbatorix dire. «Vorrà dire che dovrò trovare qualcun altro per resuscitare Jarnunvosk … e si dà il caso che l’abbia trovato». E così dicendo, si voltò verso di me con un sorrisetto. «Sai, non è troppo tardi, Murtagh. Puoi sempre unirti nuovamente al mio esercito, al mio sogno. Dopotutto, cosa ti è rimasto al mondo?»
Al diavolo.
Fu quello il mio unico pensiero, in quel momento.
Al diavolo Derek, Morzan, la guerra, Galbatorix.
Al mondo mi erano rimasti tre bambini. Tre piccole vite che contavano su di me per proteggerle e guidarle nel mondo, per riportare loro la mamma.
Non potevo permettere che crescessero senza di lei … come ero cresciuto io.
Se Katherine era sopravvissuta, cosa molto improbabile, dovevo far sì che ritornasse dai nostri figli. Era quello il mio obiettivo, non sconfiggere Galbatorix.
Riunire la mia famiglia.
Se invece la caduta me l’aveva davvero portata via, quello che dovevo fare era tornare di corsa dai piccoli.
La decisione era presa.
Nonostante la fatica ed il dolore, e la disgustosa sensazione del sangue che fuoriusciva dalle ferite sull’addome e sulla gamba, mi rialzai, e mi avvicinai al precipizio. Il vento era terribile, e gli occhi mi lacrimavano troppo perché potessi vedere chiaramente fin laggiù: ma Kate era caduta proprio in quel punto, e dunque doveva essere là da qualche parte.
Senza degnare Galbatorix di una risposta, saltai giù, rallentando e guidando la mia caduta con la magia. Nello stesso momento, sentii il terreno che avevo appena abbandonato tremare e rimbombare. Dracarys e Maegor, intuii, erano atterrati.
Del bastardo si sarebbero occupati Morzan e Derek: io avevo altre responsabilità.
Toccai terra nel giro di venti secondi: tutti i muscoli mi bruciavano tremendamente a causa dello sforzo magico e dell’emorragia, chiedendo almeno un minuto di riposo, ma Kate probabilmente non ce l’aveva, quel minuto. Così mi asciugai rapidamente gli occhi ed iniziai a scandagliare l’area intorno a me.
Ero atterrato su una minuscola striscia di spiaggia dalla sabbia nera e gelida a causa dell’ombra che il promontorio gettava: il mare, di fronte a me, sembrava essere più calmo di prima.
«Kate?» la chiamai, stupendomi di essere riuscito a ritrovare la mia voce. Tuttavia, il suono uscì debole e tremolante, più simile al verso di una cornacchia che al suo nome. «Katherine?! Rispondimi!»
Non può essere lontana … non avrebbe senso …
Fu proprio in quel momento che notai dei movimenti nell’acqua. Due secondi dopo comparve una figura, fradicia ed insanguinata, che arrancava faticosamente per uscire dal mare.
«Katherine!»
Lei sollevò appena lo sguardo, incontrando il mio: l’attimo dopo, le gambe le cedettero nuovamente e finì carponi sul bagnasciuga prima che potessi prenderla. La raggiunsi e, non riuscendo a sollevarla, la trascinai all’asciutto, appoggiandola contro la parete rocciosa del promontorio.
È viva … sospirai. È viva.
Tuttavia, la felicità di saperla ancora con me si spense non appena vidi quanto sangue aveva perso nel brevissimo tragitto dal mare alla spiaggia.
«Katie …»
«Non … non credo di sentirmi molto in forma» sussurrò, sputando un coagulo di sangue che le macchiò le labbra e il mento, ma riuscendo comunque a fare un sorrisetto.
«È solo perché hai perso un po’ di sangue» mentii, provando a rassicurarla. Stava scherzando: aveva appena fatto una battuta di spirito. Non poteva stare così tanto male, no? «Ti riprenderai in un batter d’occhio, amore. Andrà bene».
Ma lei scosse lentamente la testa. «Murtagh, devi … devi salvarlo» mormorò.
Bastarono quelle parole per riempirmi d’angoscia.
Non poteva essere. Avevo fatto di tutto perché non accadesse … ma il mio incubo si stava compiendo.
Katherine era tra le mie braccia, ferita a morte, e mi chiedeva di salvare nostro figlio.
«Non … non dire così» scossi la testa. «Non stai morendo. Ti riprenderai. Non è necessario».
«Sì che lo è … non mi resta molto tempo» ansimò, stringendo gli occhi per un secondo a causa del dolore. «Non possiamo mettere a rischio la sua vita … ti prego …»
Sapevo, dentro di me, che lei aveva ragione. Il bimbo che aveva in sé doveva avere la precedenza su ogni cosa, anche sulla vita di sua madre. Ma l’operazione l’avrebbe uccisa.
«Se lo faccio morirai» feci, con un terribile peso sul cuore. Fino a due minuti prima credevo di averla persa per sempre; ed ora, toccava a me essere il responsabile della sua fine. «Katie, non … forza, ti porto alle tende dei guaritori. Faremo in tempo …»
Ma non appena lo dissi, capii che non era vero. Castigo non sarebbe mai riuscito ad atterrare lì, ed io non avevo abbastanza forze per guarirla. 
«Murtagh …» mi pregò di nuovo.
 Lei stava morendo, e se non avessi fatto nascere il piccolo, avrei perso anche lui insieme a lei.
«Va bene» decisi, ed estrassi un pugnale dalla cintura. Sapevo che, con quella mia scelta, l’avevo condannata, ma non potevo tirarmi indietro. Potevo leggerle negli occhi che dare la propria vita per quella del nostro bimbo era il suo ultimo desiderio, e salvare lui era la nostra responsabilità di genitori.
Non potevo fare altrimenti.
Tagliai rapidamente gli strati di tessuto che coprivano l’addome, ma una volta di fronte alla sua pelle non riuscii a proseguire.
Sapevo di doverlo fare, ma non ce la facevo.
Era Katherine … la mia Katherine.
Non potevo ucciderla.
Di nuovo, gli occhi mi si annebbiarono di lacrime, ma stavolta non erano causate dal vento.
«Murtagh».
La mano di Kate sfiorò appena la mia, e vidi che stava piangendo, come me.
«Non … Katie, non posso …»
«Devi» sussurrò. «Non avrei mai voluto metterti in questa situazione, davvero … ma devi salvarlo».
«Non posso! Senza di te non ce la faccio!» urlai.
Che cosa pretendeva? Che potessi davvero ucciderla a cuor leggero? Che potessi davvero poter andare avanti dopo una cosa simile? Sapeva che, senza di lei, non ero niente. Per un momento, un brevissimo attimo, la odiai, perché con quella sua scelta mi avrebbe lasciato per sempre; poi ricordai la vera natura della sua decisione, il donare la propria vita a nostro figlio: stava facendo la cosa giusta, la cosa che in fin dei conti, in quanto padre, avrei fatto anche io, e odiai me stesso per quel momento di rabbia.
«Sì, invece. Amore … amore» insistette appoggiandomi una mano sulla guancia. «Se dovrò morire per questo bimbo, allora così sia. Non hai bisogno di me per essere il miglior padre che un figlio possa sognare» sorrise. Se possibile, riuscì solo a rendermi più disperato. Non sentivo altro che dolore, un immenso e terribile dolore. «Ma dobbiamo fare quel che è giusto … per il bambino. Dobbiamo».
Né io né lei sapevamo come praticare un cesareo, ma ormai, a quel punto, non importava. Dovevo solamente far nascere il piccolo nella maniera più facile e sicura possibile. Quello era il mio dovere, nei confronti del bambino e di Katherine. 
Rapidamente mi tolsi il mantello, per avere qualcosa in cui avvolgere il bimbo una volta nato; poi, visto che la pesante armatura mi impacciava troppo i movimenti, me la tolsi, rimanendo protetto solamente dalla cotta di maglia, dai bracciali e dagli schinieri. Una volta libero da ogni impedimento, ripresi in mano il coltello.
Era ora di procedere.
Katie, mi dispiace tanto …  sussurrai nel privato delle nostre menti, e spinsi la punta della lama nella sua pancia. Se il sangue prese a scorrere, mi fu impossibile notarlo: a causa della ferita al petto, ormai non c’era praticamente nemmeno un centimetro di pelle pulita.
Lei non gridò.
Era talmente esausta dalla lotta contro Galbatorix e contro la sua stessa morte da non avere più nemmeno voce per gridare. Rimase lì, fra le mie braccia, con le lacrime come unico sfogo per il dolore che le stavo infliggendo.
Sto facendo nascere un bambino che non vedrà.
Kate perse i sensi qualche momento dopo: la sua testa, fino a pochi attimi prima appoggiata al mio petto, scivolò oltre il mio braccio, con una cascata di boccoli scuri.
Mi sentivo un macellaio, nel dover squartare mia moglie in quella maniera: strato dopo strato, pelle, muscoli … utero. La mano mi tremava così tanto da rendere difficile controllare la lama, e soprattutto la forza del taglio. E se avessi ucciso il bambino per errore? Se avessi tagliato troppo in profondità?
Smettila! Katherine ti ha chiesto una cosa sola! Salva il bambino!
E così procedetti ad incidere l’utero. Quando lo feci, però, mi ritrovai davanti ad un ulteriore strato. Non ne sapevo molto di anatomia femminile, a parte le ovvie differenze da quella maschile. Sapevo che i bambini rimanevano nell’utero fino alla nascita, ma che all’interno di questo ci fosse un’altra sorta di bolla protettiva? Non ne avevo idea.
Eppure, attraverso quel sottile strato di tessuto, potevo intravedere mio figlio. Era raggomitolato su sé stesso, e nel vederlo capii perché la posizione rannicchiata fosse definita “fetale”. Kate e Killian dormivano proprio in quella posizione, tutti appallottolati come dei gatti.
Con la punta del coltello ruppi quell’ultima membrana, stando attento a non ferire il piccolo, ed un rivolo di liquido simile ad acqua iniziò a fuoriuscire.
Infilai attentamente le mani all’interno della cavità … e qualche secondo dopo avevo una bimba fra le braccia, che urlava come se ne andasse della propria vita.
Nonostante l’orribile situazione, non potei non sorridere. Ero diventato padre di nuovo, e per giunta di una creatura splendida come lei. Ero riuscito a farla nascere, a darle la vita.
Smise di piangere non appena la avvolsi nel mio mantello: a quel punto si decise ad aprire gli occhi, mostrandomi un meraviglioso paio di iridi castano dorate identiche a quelle di Katie. I capelli invece li aveva presi da me: e ovviamente, le ricadevano sulla fronte proprio come facevano quelli di Kate, Killian e Belle.
«Ciao, piccolina …» mormorai sfiorandole la guancia liscia ed immacolata.
Fu in quel momento che Kate riprese coscienza. Doveva aver sentito le urla della bimba, ed aver usato le sue ultime energie per riuscire a vederla.
«Che … che cosa …» sussurrò, ma la sua domanda venne interrotta da un colpo di tosse pieno di sangue.
«È una bimba» le dissi porgendola. «Una bimba meravigliosa. Piccola, guarda, lei è la tua mamma …»
«Lord Murtagh».
Sia io che Katherine rimanemmo congelati al suono di quella voce: lei perché non la riconosceva, ed io perché sapevo benissimo a chi apparteneva.
Cercando di fare il più piano possibile, misi giù Katherine e la nostra bambina. Le forze l’avevano completamente abbandonata, e silenziose lacrime le ripulivano le guance dal sangue e dalla sporcizia, ma riusciva comunque a tenere la piccola vicina a sé, sebbene non in braccio. La bimba, grata del calore che sua madre le offriva, si accoccolò meglio al suo fianco, stringendo nella sua manina l’indice di Katie.
Dietro di noi c’era Cìrdan, l’elfo che mi aveva sfidato ad Ellesméra per ripagarsi della morte di Oromis e Glaedr. Sul volto aveva un sorriso cattivo, ed una lunga e sottile spada elfica gli pendeva dalla cintura.
«Sono venuto per il nostro duello» dichiarò.
«Ora non …»
«Sbaglio o hai detto tu stesso che era nelle mie facoltà scegliere il momento della sfida?» mi ricordò. «Ebbene, ho scelto che si terrà adesso. Raccogli la tua spada».
«Mia moglie e mia figlia stanno …»
«Non m’interessa. Se ti rifiuti di combattere, la riterrò una sconfitta e ti ucciderò comunque. Ora, raccogli la tua spada».
Persino un cieco si sarebbe accorto della disparità di quella situazione: tanto per cominciare, lui era un elfo ed io un uomo. Lui aveva addosso un’armatura completa, io no; le mie difese erano andate a farsi benedire durante lo scontro con il re, che tanto per cambiare si era preso tutte le mie energie; e ovviamente, io ero ferito in più punti, mentre lui sembrava essere appena uscito da un bagno ristoratore.
Ma quale altra scelta avevo? Se non avessi combattuto, mi avrebbe ucciso. Forse, in uno scontro, nonostante la mia situazione, avrei avuto qualche chance.
Dovevo combattere. Per Kate, per la mia piccola appena nata, per i bimbi che mi aspettavano ad Osilon.
«D’accordo» dissi dunque. «Concludiamo questa storia».
Ragiona, sospirai fra me e me, prendendo Varya e facendole fare un paio di giri di polso. Con tutto il sangue che stavo perdendo, dalla gamba e dall’addome, ragionare non era esattamente la cosa più facile da fare, ma mi sforzai di farlo comunque. Molto probabilmente questo duello non durerà più di un minuto, un minuto e mezzo. Posso darmi trenta secondi per comprendere la sua tecnica e …
Tutti i miei ragionamenti vennero bloccati dal suo attacco, violento, silenzioso ed incredibilmente rapido. Con un unico movimento sollevai Varya, bloccai la sua lama e lo spinsi indietro.
Non ero in condizioni di attaccare: potevo solo giocare in difesa e sperare che si esponesse così tanto ed in maniera così stupida (cosa praticamente impossibile per un elfo addestrato da un maledettissimo Cavaliere) da potermi permettere di sferrare un colpo semplice ed efficace.
Nonostante la mia spinta fosse stata piuttosto forte, Cìrdan fece appena due passi indietro, senza perdere l’equilibrio nemmeno per un attimo: con un sorrisetto sardonico sulle labbra, caricò di nuovo, con una tale grazia e rapidità che, più che un attacco, sembrava un waltzer.
Continuammo con quello schema per una trentina di secondi: lui attaccava, io respingevo. Riuscii a farlo sanguinare un paio di volte, ma erano tagli di poco conto, che non inficiavano nemmeno le sue abilità: dall’altra parte, io ormai ero un ammasso di ferite gravi e lividi, che andavano a sommarsi a quelle gentilmente regalatemi dal re.
Lui mulinò la spada oltre la sua testa, con un’angolazione che non potevo non sfruttare: se gli avessi dato un’altra spinta, sarebbe caduto all’indietro, dandomi una piccola possibilità di vittoria. E così, facendo perno sulla gamba ferita per usare tutta la forza di quella ancora integra, feci per sferrargli un calcio sull’addome.
Il colpo non andò mai a segno.
L’elfo si spostò indietro all’ultimo secondo, chiaramente colto di sorpresa: visto che la maggior parte del mio peso era spostata all’indietro, la gamba malandata mi tradì, cedendo e mandandomi rovinosamente a terra.
Improvvisamente, un terribile e bruciante dolore mi esplose nello stomaco, una, due, tre volte: quando mi resi conto che c’era qualcosa di freddo e rigido che continuava ad uscire e rientrare, capii cosa stava accadendo.
Cìrdan si stava assicurando che non uscissi vivo da quello scontro.
Si ritenne soddisfatto solamente alla sesta pugnalata: a quel punto, liberò una risatina e si rialzò, lasciandomi a terra, boccheggiante, nemmeno in grado di urlare a causa del dolore.
«Giustizia è stata fatta» commentò scrollando le spalle. «Oromis e Glaedr sono stati vendicati, e la morte di Lady Katherine riporterà l’equilibrio nel mondo. Darò ordine ai miei contatti di finire anche i vostri figli, per la sicurezza di tutti. La neonata è già condannata: non sopravviverà al freddo e alla marea».
E così dicendo se ne andò, dandomi le spalle ed incamminandosi verso l’accampamento.
Mossa sbagliata.
Potevo permettergli di uccidere me; potevo permettergli di lasciare Kate a morire, persino. Ma ordinare l’assassinio di Killian, Belle ed Evan? L’abbandono volontario della bimba, che l’avrebbe uccisa?
Mai.
Era privo di difese magiche, e per giunta non mi stava neanche fronteggiando: era l’occasione perfetta. Ignorando il dolore all’addome e le enormi quantità di sangue che stavo perdendo, tirai fuori un pugnale dalla cintura e lo lanciai nella sua direzione.
Non potevo permettermi di sbagliare mira o che il colpo non fosse sufficientemente forte, così sfruttai l’energia delle pochissime creature che c’erano nel mare: erano più che altro piccoli pesci e molluschi, e dovetti sterminarli tutti per essere sicuro che il colpo, l’unico a mia disposizione, fosse mortale.
Questa volta lo presi.
La lama tagliò l’armatura di cuoio e la cotta di maglia come se fossero fatte d’acqua e penetrò perfettamente nel minuscolo spazio fra la scapola, le vertebre e le costole, sul lato sinistro, colpendo sia il polmone che il cuore.  
L’elfo rimase immobile per un secondo: poi cadde a terra, a faccia in giù, e da quel punto non si mosse.
Nonostante avessi, definitivamente, vinto, non riuscii a sentire un briciolo di felicità per quello. Potevo percepire solo la dura sabbia bagnata sotto di me, il sangue scivolare via rapidamente dalle ferite, e la sensazione di annebbiamento e sonno causata dalle emorragie.
Sto per morire, pensai, ma stranamente quella consapevolezza non mi diede alcuna ansia o preoccupazione, diversamente da tutte le altre volte in cui l’avevo affrontata solamente negli ultimi venti minuti. Al contrario, mi lasciò completamente indifferente.
Dopo tutto, quello che dovevo fare l’avevo fatto: avevo protetto Belle, Killian ed Evan dal complotto di Cìrdan, e sarebbero cresciuti con i loro nonni e zii, amati e coccolati. Insieme a Katherine avevo privato Galbatorix della fonte del suo potere, e sapevo che Derek e Morzan si stavano occupando di lui. Avevo fatto nascere mia figlia …
La bambina. Merda, la bimba.
In quel momento la sentii: piangeva disperata, urlando e sgolandosi.
Non potevo lasciarla lì, in quelle condizioni.
Quando iniziai a trascinarmi per raggiungere lei e Katherine, il dolore tornò: improvvisamente divenni perfettamente consapevole di ogni singolo granello di sabbia che si incastrava nella mia carne, che graffiava, che strappava minuscoli brandelli di muscolo e pelle. Lo ignorai e, alla fine, arrivai da loro.
Kate aveva perso nuovamente i sensi, e la terra sotto di lei era ancora più rossa di sangue; la piccola era rannicchiata contro il suo fianco, ma il mantello in cui l’avevo avvolta si stava rapidamente inzuppando di sangue. Per fortuna, a distanza di braccio c’era la mia placca pettorale, così la afferrai e ci misi dentro la bimba.
Mi venne da ridere al pensiero che, se me la fossi messa addosso, probabilmente non sarei stato conciato in quella maniera. Più morto che vivo.
Così, quella era la fine.
Sarei morto lì, su una spiaggia, accanto a Kate. Senza mai più rivedere nessuna delle persone a cui volevo bene. Infrangendo la promessa che avevo fatto ai bambini, di ritornare da loro insieme alla loro mamma e alla sorellina.
La stessa bambina che non avrei mai visto crescere.
Ma quella era una costante, nella mia vita, no? In fondo, non avevo visto crescere per un bel pezzo nemmeno gli altri figli che Katie mi aveva dato.
«Mi dispiace tanto, amore …» sussurrai. La piccola mi guardò con quegli enormi occhi dorati, che scintillavano nella calda luce del mattino, e poi tese un braccio nella mia direzione, afferrandomi l’indice e stringendolo. Fu a quel punto che persi ogni controllo e scoppiai a piangere come non facevo da anni, con lacrime, singhiozzi e tutto il resto. «Non doveva andare così … saresti dovuta nascere al sicuro, circondata da tutta la tua famiglia … da tutte le persone che ti vogliono bene … non così».
Il dolore si fece ancora più insopportabile e crollai a terra, il tocco di mia figlia l’unica cosa che mi manteneva legato al mondo dei vivi. Tutto, intorno a me, iniziò a farsi scuro, e sentii la mia coscienza scivolare nel vuoto.
Sentii il ruggito vittorioso di un drago, ed istintivamente seppi che Galbatorix era morto, e che la piccola ed i suoi fratelli sarebbero vissuti in un mondo più sicuro e libero dal male.
Che io non potessi farne parte, ormai, non era più tanto importante.
Fu in quel momento che me ne accorsi: Kate, di nuovo, era di nuovo sveglia. Sembrava più o meno nello stesso stato in cui ero io, praticamente del tutto morta, scivolando da uno stato di veglia ad uno di sonno, ma almeno era lì, con me. 
Almeno non saremmo stati soli nella morte. 
Ti amo, mormorai nello stesso attimo in cui lei lo diceva a me. Mi dispiace, Katie ...
Va tutto bene, sussurrò e sorrise appena. Abbiamo vinto. Lei è viva. Solo questo importa. 
Tese una mano a sfiorare i capelli della piccola, le sussurrò un "ti voglio bene", e poi crollò di nuovo. Questa volta, capii che era per sempre. 
Se possibile, il dolore che quella consapevolezza mi diede accelerò ancora di più la mia fine: il sonno si fece sempre più profondo, così tanto che sentii ogni singolo muscolo del mio corpo scivolare nell'oblio.
«Ti voglio bene, piccola mia» riuscii a dire, guardando per l'ultima volta la piccola, e poi mi addormentai.
 
   
 
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