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Autore: Moonfire2394    31/01/2021    0 recensioni
I genitori di Leona e Gabriel vengono uccisi brutalmente da un trio misterioso di vampiri in cerca delle mitiche "reliquie". Dopo il tragico evento, verranno accolti al campo Betelgeuse, un luogo dove quelli come loro, i protettori, vengono addestrati per diventare cacciatori di creature soprannaturali. In realtà loro non sono dei semplici protettori, in loro alberga l'antico potere dei dominatori degli elementi naturali: imedjai. Un mistero pero' avvolge quell'idilliaco posto e il subdolo sire che lo governa: le strane sparizioni dei giovani protettori. Guidata dalla sete di vendetta per quelli che l'avevano privata dei suoi cari, Leona crescerà con la convinzione che tutti i vampiri siano crudeli e assetati di sangue. Fino a quando l'incontro con uno di loro, il vampiro Edward Cullen, metterà sottosopra tutto quello in cui ha sempre creduto facendo vacillare l'odio che aveva covato da quando era bambina. Questo incontro la porrà di fronte a una scelta. Quale sarà il suo destino?
Una storia di avventura, amicizia e giovani amori che spero catturi la vostra attenzione:)
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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Hilde

A Hilde era stato ordinato di restare nascosta. Non poteva disobbedire al comando diretto di Leona, il loro legame non glielo consentiva. Non le andava proprio a genio, anzi, avrebbe preferito spazzolare i capelli della sua bambola piuttosto che farsi distrarre dagli orrendi suoni stridenti della guerra. Rintanata e protetta nella sua angusta spelonca infestata di rizomi, lasciò che la sua fantasia prendesse il volo associando ad ogni clangore di spada, una scena di battaglia diversa. Lei sapeva già che sarebbe accaduto, era tutto scritto nelle linee incise nel palmo della mano di Leona. Aveva letto la pelle della protettrice a sua insaputa, la pergamena su cui era stata abbozzata la sua storia per mano di qualche divinità. Attila non avrebbe approvato la curiosità della figlia, ma lei non aveva potuto fare a meno di sbirciare la linea della vita della ragazza, quella che s’interrompeva così bruscamente nel fiore dei suoi anni, quella il cui destino era stato eluso per ben tre volte. E s’interrogò sul perché anche quella del padre non avesse potuto scostarsi, deragliare dal fato che gli era stato imposto con la sua nascita.
 Le mancava così tanto, soprattutto intrecciargli quel guazzabuglio di capelli crespi, la sua barba spinosa e ruvida contro la sua pelle, le sue goffe risate che ricordavano isterici attacchi di tosse, l’imbevibile tè che le preparava tutti i pomeriggi e lo squittio che producevano le sue labbra sorseggiandolo quando ancora era bollente, e, ancora con più chiarezza, la sete impressa nei solchi del suo viso denutrito, i cerchi scuri sotto quegli occhi perennemente affamati, desiderosi di un liscio collo umano su cui affondare i denti e insoddisfatti dal fetido sangue di topo che  invece era costretto a ingollare per amore suo.
La storia lo aveva conosciuto come uno spietato sanguinario devastatore di regni, così terribile nella sua foga di distruzione da essere appellato flagello di Dio. Il suo papà non le aveva lesinato nessun dettaglio, desiderava che sapesse ciò che lui era stato perché era quello che lei non avrebbe mai dovuto essere. Per il suo ottavo compleanno aveva persino chiesto a Carlisle di regalarle una apologia interamente dedicata al suo turbolento passato. La piccola tracciava col suo ditino unto di pittura a olio - un generoso dono di Esme - il percorso invisibile dei suoi occhi che scorrevano frettolosi sulla pagina in cerca di un aggettivo o di un evento che combaciasse con l’immagine che lei si era fatta di suo padre, e si era sorpresa di come nessuno dei testi in suo possesso facesse cenno alla sua passione per i set da tè in ceramica o di come fosse praticamente imbattibile a giocare a nascondino. Gli storici che avevano scritto di lui non lo conoscevano affatto, quello di cui parlavano non poteva essere l’uomo che si era sempre preso cura di lei. Hilde non rimpiangeva nemmeno uno dei giorni della sua prigionia, le sue passeggiate fra le lapidi o le immaginarie chiacchierate con i morti che le tenevano compagnia persino nei giorni più piovosi.
Hilde era stata amata.
Da che aveva memoria, era sempre stato con lei e non perché fosse obbligato. Lui era morto con la consapevolezza di aver custodito il segreto, ma Hilde aveva scoperto da tempo che sua madre aveva creato la barriera per proteggere lei e che nulla di tutto questo avesse a che fare con suo padre. La barriera aveva lo scopo di tenere fuori i vampiri e trattenere Hilde al suo interno per impedirle di cacciarsi nei guai, ma se un vampiro si fosse già trovato dentro al momento dell’incantesimo, niente avrebbe ostacolato la sua evasione, nemmeno la barriera stessa. Era tutto un gioco fra loro. Attila era sempre stato libero di andare via, aveva semplicemente finto di essere il secondo detenuto di quella prigione pur di non abbandonarla alle fauci della solitudine e al silenzio spettrale delle tombe.  E  quando il destino di Hilde aveva preso in prestito le vesti di quella ragazza capace di far danzare le fiamme sul palmo della propria mano ed era venuto a scovarla perfino nel suo quieto cimitero, Attila aveva escogitato il suo piano più folle pur di consegnarle la chiave che l’avrebbe scagionata dalla sua cella. Nel momento in cui le aveva proposto di utilizzare il ciondolo del sole per scambiarsi d’identità, le era sembrato uno scherzo arguto e divertentissimo da fare ai due protettori che attendevano il loro ritorno, aveva capito troppo tardi che non si trattava dell’ennesima recita inscenata nel suo teatrino di burattini.
Quello da cui entrambi i suoi genitori aveva cercato di fuggire, nonostante i loro sforzi e il loro amore, alla fine li aveva colti in fallo. Non era possibile fuggire dalle profezie e sua madre, alla vista della luna sanguinante, avrebbe dovuto saperlo meglio di chiunque altro. Anche Ellak presto lo avrebbe saputo.
Hilde poteva sentire accrescersi in lei il richiamo del sangue, percepiva che suo fratello era vicino. Più vicino di quello che credeva. La banshee era nata per un motivo e non avrebbe lasciato che la profezia  restasse incompiuta. Era necessario o un giorno non sarebbe potuta divenire la Guardiana della medjai. Con la morte dei suoi genitori il suo potere si faceva sempre più intenso, sempre più difficile da contenere. Ma lo avrebbe tenuto al sicuro fino a quando le circostanze non avrebbero richiesto di metterlo al servizio della medjai dagli occhi blu. Una passo alla volta, Hilde, un passo alla volta, si ripeteva la ragazzina incessantemente. Adesso la sua attenzione era focalizzata sui passi che riecheggiavano nel suo piccolo rifugio. Tonfi leggeri che battevano sulla neve liberi dall’oppressione della gravità.
E poi lo vide nell’oscurità.
La sua vista si era affinata nel buio pesto che la circondava, perciò non fu difficile distinguere i bagliori bronzei della pelle del vampiro che la fissava con orrore. Gli mancavano tre dita alla mano destra.
Hilde osservò il fratello immortale che non solo l’aveva consegnata alla voracità delle fiamme e cancellato la sua bellezza; lui non l’aveva mai amata, il sangue che li univa non aveva alcun valore e Hilde non riusciva a comprenderlo visto che sentiva così chiaramente la sua presenza. Come non poteva essere così anche per lui?
Scorse lo stupore di Ellak in ogni suo minimo movimento nervoso, ogni lineamento corrucciato del suo viso che diventava sempre più umano. Azzardò un passo indietro e sbatté contro la roccia alle sue spalle. «Non può essere…» imprecò nella sua lingua madre. «Dov’è mio padre, piccola strega! Che ne hai fatto di lui?» le ringhiò.
 La bambina non si mosse dalla sua posizione accucciata, né fece scivolare le ginocchia raggomitolate contro il petto.
«Perché?» gli domandò lei sinceramente curiosa. La sua innocenza lo sferzò e lo fece barcollare, come se una lama invisibile gli avesse reciso le gambe. Hilde sentì la paura agitarsi dentro di lui quasi come se gli appartenesse. Il silenzio si prolungò a tal punto che la ragazzina dubitò della concretezza della creatura che le era davanti. Non poteva accettare che non esistesse alcuna risposta valida, non dopo che la mano di suo padre non era lì a rassicurarla. Doveva esserci una spiegazione…la rabbia che la stava soffocando si tramutò nel suono straziante che le uscì dalle labbra. Quando gli ripeté la domanda, le pareti rocciose tremarono e i frammenti presero a staccarsi dal soffitto. L’onda sonora fu così impetuosa che il vampiro fu costretto ad aggrapparsi alla roccia più vicina. I lunghi capelli gli si erano affollati sulla faccia, il ritmo incespicante del suo petto e il tremore delle sue mani la ingannavano sulla sua natura di Immortale.
Guardò dentro i suoi occhi rossi e vide ricambiato il suo odio. «Io ti ho vista morire. Ho stretto il tuo cuore fra queste mani» disse osservandosele con rinnovato disgusto. Impallidì. La consapevolezza che si faceva spazio nella sua mente.
Hilde non lasciò che i suoi occhi s’inumidissero. Tirò su col naso e arricciò le labbra sulle gengive «Vuoi sapere dov’è papà? È proprio qui» gli disse senza smettere di fissarlo. «È nelle tue mani. Nei tuoi vestiti. Ce l’hai ancora addosso…non senti il suo odore?».
«Basta con queste stronzate! Sei un’allucinazione, non sei davvero qui» le gridò Ellak raschiando la roccia su cui aveva conficcato le dita. Hilde si nutrì del suo terrore, le piaceva questo gioco.
«Ti sei affannato così tanto nei tuoi tentativi di sviare la profezia che hai finito con l’assecondarla. Ti sei trasformato nel più fedele dei suoi servi. Sei stato tu lo strumento che ha reso tutto questo possibile. E papà lo sapeva. Papà sapeva ogni cosa» disse abbandonando la sua posa difensiva «Se solo Hilde…» sospirò e affondò le unghia nelle braccia per non inciampare nuovamente nei suoi tormenti. «Bè, prima o poi sarebbe successo…solo che non credevo che si sarebbe preso gioco di entrambi».
«Che cosa stai…».
«Papà ti faceva più astuto, lui…ti voleva bene e Hilde sente che anche tu gliene hai voluto, quindi come hai potuto non riconoscere il suo cuore».
Ellak si ammutolì all’istante e si trasformò nell’ennesimo sedimento roccioso che stipava la caverna. Il sangue che si era raggrumato sulla sua pelle abbronzata, fra le ciocche dei suoi capelli, lo spruzzo scarlatto che gli punteggiava l’addome nudo e scolpito, lo stesso sangue che macchiava l’orlo dei suo gilè e che per lui aveva rappresentato un trofeo da sfoggiare ai suoi nemici, improvvisamente assunse un significato del tutto diverso. Col dito percorse i tratti della sua mascella volitiva anch’essa colorata di rosso e una volta raccolto lo sporco sulla punta del suo polpastrello lo fissò. Le sue ginocchia sfregarono contro il pavimento, le sue mani si aggrapparono alla sua chioma e le sue urla fecero tremare il cuore di Hilde.
«Come? La stregoneria delle fate…L’ho ucciso…sono stato io» disse battendo i pugni a terra, la faccia che baciava la pietra fredda della caverna e soffocava la sua agonia. Hilde si sorprese a non nutrire compassione per lui o per il suo improvviso impeto suicida. Se un tempo lo avrebbe consolato, adesso sapeva che si sarebbe appellata solo all’odio che l’appagava. E ne fu ancora più convinta quando non provò altro che disgusto per il dolore di suo fratello. Era un bene che fosse incapace di piangere. Attila non avrebbe saputo che farsene del suo rimorso.
«Tu…Saresti dovuta bruciare quando ne hai avuto la possibilità, il dolore che patirai non sarà minimamente paragonabile a nulla che tu non abbia già provato».
La banshee gli sorrise «Hilde sa che non esiste più niente che possa ferirla». Ed era vero. Niente avrebbe potuto straziarla come l’assenza inquietante di suo padre. Nonostante questo, Hilde non smetteva di pensare che il vampiro le dovesse ancora una risposta.
«Se non ci fosse stata alcuna profezia a dividerci, avresti amato Hilde?» Il vampiro era incredulo e sollevò su di lei lo sguardo più truce e sgomento che avesse da offrirle, come se la disperata richiesta d’amore della bambina fosse qualcosa di talmente ridicolo anche solo per essere pronunciata ad alta voce.
A quel punto si sforzò di ricomporsi, nascondendo la sua furia dietro lenti sospiri e il distratto vezzo di sistemarsi una ciocca dietro l’orecchio. Ma Hilde aveva intravisto luccicare il veleno all’angolo della bocca. Aveva smascherato la sua prossima mossa con la stessa facilità di una bambina che aveva condiviso il cimitero con uno dei più temibili vampiri che erano mai esistiti. Indistinti latrati, simili a risa, si liberarono dalla labbra dischiuse in un ghigno e le disse: «Piuttosto avrei trangugiato verbena fino a che non mi fossi fatto squagliare la pelle addosso. Non importa quanto tu sia difficile da uccidere, adesso non ci sarà più nessuna barriera o maleficio che potrà mettersi fra noi. Avrai corrotto la mente di Attilius il sanguinario, ma io vedo ciò che sei. L’ho sempre visto. Quando rivedrai nostro padre, saprà che suo figlio gli ha reso giustizia e che non c’è nulla che potrà fermare la sua ascesa a Volterra. In realtà mi ritengo un uomo fortunato. Non mi dispiacerà smembrare il tuo cuoricino ancora una volta fra queste mani».
Era ciò che le serviva per far svanire ogni rimpianto. Il predatore si piegò per darsi lo slancio con le zanne in piena vista e trafisse l’aria come una freccia. Hilde però aveva già caricato i suoi polmoni ed era pronta al suo debutto.
E così cantò, o almeno è così che in futuro lei e Leona soprannominarono l’arma che risiedeva nelle sue corde vocali. Il “canto” della banshee. Un acuto inarrivabile, limpido ma modulato, indirizzato con spietata precisione verso il fratello. Ellak non ebbe nemmeno la possibilità di avvicinarsi abbastanza da poterla sfiorare che fu sbalzato via dalla sua vista. Aveva percorso a ritroso il corridoio che lo aveva condotto nella sua tana, intrappolato nei flutti dell’onda sonora scaturita dalla bocca della banshee. Rinvigorita da un inaspettato coraggio, uscì allo scoperto per affrontare il vampiro, disponibile a concedergli un bis delle sue straordinarie capacità di cantante. Ma ciò che trovò una volta fuori dalle tenebre della spelonca, la terrorizzò. C’era un corpo contorto in articolazioni innaturali. Era nudo, talmente nudo che era persino stato spogliato della sua bellissima pelle bronzea. Adesso era tutto un fascio vivo di nervi, tendini e muscoli. Soltanto gli occhi cremisi, privi di palpebre, guizzavano da tutte le parti come se volessero sfuggirgli dal cranio, la dentatura da vampiro snudata, spalancata in un urlo muto. Lo stomacò di Hilde protestò, ma s’impose di non vomitare. Si voltò da un’altra parte, non aveva alcuna intenzione di indugiare ulteriormente su ciò che era rimasto di Ellak. Poi strinse forte le labbra. Se quello era il prodotto della devastazione che albergava dentro la sua bocca, allora sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe aperta. Stanca di sostenere il proprio peso, cadde sulla neve e si appallottolò su se stessa. Aveva freddo, ma almeno le lacrime che le rigavano le guance l’avrebbero riscaldata. Suo fratello non aveva ancora smesso di soffrire. Una parte di lei sapeva che lo meritava, l’altra invece le rimproverava di non aver terminato ciò che aveva iniziato.
Si girò di soprassalto in direzione dell’ululato che le aveva assordato i timpani. C’era un enorme cane che si nascondeva fra gli arbusti. All’inizio aveva pensato che si trattasse di Edna, ma c’era qualcosa nel suo sguardo che non la convinceva. Lei e la lupa nera si scrutarono a vicenda per lunghi istanti, mari d’odio che fluivano nelle sue pupille color del carbone. Era maestosa, fiera e bellissima. Non si scambiarono una sola parola o guaito. Eppure quel silenzio fra loro fu più significativo di qualsiasi altra cosa avrebbero potuto comunicarsi. La lupa piegò la testa sul petto e spostò lo sguardo sulla carcassa fumante poco distante dalla bambina. Le mareggiate d’odio interrotte da quella breve tregua ripresero a scorrere violente nei suoi occhi assottigliati. Hilde avrebbe potuto risparmiarselo, ma prese la sofferta decisione di non voler dimenticare per il resto della sua vita l’immagine del licantropo che si avventava con ferocia sul vampiro trasformandolo in nient’altro che brandelli di carne informi. Ellak morì nella maniera più atroce che la piccola Hilde avesse mai visto, eppure non riuscì a trattenere un sorriso cupo e consapevole.
….sarà la causa della distruzione del sangue del suo sangue…
La profezia era compiuta.
*********

Leona

Seppur nella sua breve vita, Leona ne aveva commessi parecchi di errori. Scegliere di inghiottire un amuleto leggendario rientrava sicuramente fra quelli, anche se chiamarlo errore probabilmente era indiscriminatamente riduttivo. Aveva comunque imparato una lezione importante da quella castroneria madornale: i gioielli non sono commestibili e mangiarli per tenerli al sicuro dal tuo nemico è una pessima idea.
Per lo meno adesso la furia delle sosia di Sara era tutta puntata su di sé e non su coloro che amava. Se lo sarebbe fatta andare bene se solo non avesse dovuto difendersi da ben dieci paia di flamberghe con una spada che sapeva a malapena reggere fra le mani. I palmi sudati non aiutavano affatto a non farsi sfuggire l’elsa dalla sua presa. Per di più aveva lasciato suo fratello disarmato. Un termine del tutto inadeguato, a ben rifletterci, se riferito a un dominatore degli elementi e nonostante questo non poteva smettere di preoccuparsi per la sua incolumità. Dopo quello che aveva cercato di fare, Leona era restia a restituirgli Symphony, ma in fondo erano pari. Lei lo aveva ingannato con quel trucchetto dello scambio dei ciondoli, lui, credendo di aver spezzato il loro legame, aveva progettato di sacrificare la sua vita.
Qualcuno ululò, ma Leona non gli diede molto peso, erano circondati da un branco di licantropi dopotutto. Ciò che più le premeva invece, era la punizione di Gabriel. Si era appena guadagnato una bella strigliata da parte sua, ma al momento era troppo occupata a schivare un fendente piuttosto tagliente per pensare prematuramente a come gliela avrebbe fatta pagare.
Ad ogni parata, Symphony non si risparmiava di cantare. Quello scampanellio le scuoteva le ossa, doveva concentrarsi con tutte le sue forze per non ripensare a quello che era successo nella stanza degli specchi, al dubbio che si era insinuato dentro di lei quando aveva visto…
No, non era il momento di perdere la testa. Avrebbe preferito che lo facesse qualcun altro, come ad esempio la Sara numero cinque che le stava dando filo da torcere. E questo le dava tremendamente sui nervi. Ma fu quando piroettò per piantare un calcio volante su una delle sue avversarie che vide Norman. Le palpebre chiuse, la smorfia sulle sue labbra, la sua immobilità innaturale, il colossale lupo nero che gli leccava la faccia uggiolando e lui che glielo lasciava fare senza indignarsi della sua saliva.
Il lupo ululò ancora e, scoperchiando le zanne con un ringhio, si lanciò all’inseguimento del vampiro che sfrecciava nel bel mezzo della battaglia. Leona non capiva.
Il suo sguardo tornò sull’amico sdraiato in un lago di sangue e fango e per poco non si fece infilzare il fianco dalla spada che le sibilò accanto. Si sentì proprio come se l’avessero afferrata per le caviglie e capovolta a testa in giù per svuotarle le tasche di tutti i sorrisi dolci che le aveva regalato quel ragazzo, della sua tenera timidezza e modestia, di tutte quelle volte che avevano riso a crepapelle per la stramba collezione di dentifrici di Fabrizio o per la sua ossessione per l’igiene orale,  del suo sogno di dimostrare l’esistenza degli unicorni, di tutte quelle volte che aveva preso le sue difese o che si era schierato dalla sua parte quando nessuno le credeva, della loro meravigliosa amicizia, dei suoi sentimenti per lei…
Non poteva credere che tutto questo fosse stato spazzato via, che fosse stato distrutto senza che lei avesse potuto fare qualcosa per impedirlo. Desiderava urlare fino a farsi esplodere i polmoni, piangere istericamente fino all’ultima delle sue lacrime, disintegrare tutto quello che le stava attorno, non sapeva bene in quale ordine e comunque nessuna di quelle follie avrebbero cambiato i fatti. Ma lei conosceva perfettamente il modo migliore per canalizzare il dolore che le pressava sulla gabbia toracica per filtrare dentro il suo cuore. E così nello stesso istante in cui scagliò Symphony verso suo fratello, ritrovò il gelido piacere delle sue kopis fra le mani. Poi urlò, pianse e distrusse. Tutto nello stesso confuso turbinio di attimi.
Il mana le scorreva fluente nelle vene, i suoi sensi erano talmente acuiti da non lasciarsi sfuggire nemmeno il più flebile ronzio. Le kopis attraversavano i corpi come una lama che fende l’acqua, le sue nocche s’infrangevano sulle mascelle come se volessero passarci attraverso, le teste delle sue avversarie esplodevano in fontane di sangue e le sue gambe danzavano svelte a ritmo di quella melodia di puro odio che le echeggiava nelle orecchie. Avrebbe potuto sbarazzarsi delle replicanti semplicemente accendendo una bella pira, ma per una spadaccina come lei era una questione di orgoglio. Le avrebbe sconfitte facendo affidamento unicamente sulle sue capacità. Non poteva farsi battere una seconda volta. E adesso ne rimanevano solo due. Il fatto che il suo nemico portasse la faccia della cognata non era granché come deterrente per smaltire la collera. Mentre affondava una ginocchiata nello stomaco di una di loro e le disegnava con il filo della lama un tetro sorriso sulla gola, era conscia del fatto che il piacere che ne traeva non fosse dovuto alla sua momentanea perdita di lucidità. Quel volto era la causa di tutti i tormenti di Fabiano ed era troppo poco razionale in quel momento per giustificarla con tutte le attenuanti del caso. Sapeva che era ingiusto nei suoi confronti, sapeva che anche lei aveva sofferto, ma niente le sembrava più giusto da quando i suoi occhi si era posati sul cadavere del suo amico. Quell’immagine terribile pareva che le fosse rimasta appiccicata all’interno delle sue palpebre e che ogni dannata volta che chiudeva gli occhi fosse costretta a rivivere quel momento all’infinito. La rabbia continuava a cuocere a fuoco lento nel suo stomaco e questo non faceva che rendere più inesorabile ognuno dei suoi affondi. Ma quando si stava per preparare a sferrare il colpo definitivo, si aggiunse un terzo partecipante dai scarmigliati capelli biondi alle ultime battute di quella danza sanguinaria.
«Volevi prenderti tutta la gloria, stronzetta? Lasciala a me, me lo devi» sentì dire a una sarcastica  Marlena alle spalle dell’abominio. L’ultima gemella di Sara si voltò verso la protettrice nello stesso momento in cui Leona rinfoderò le sue spade e con una falciata bassa fece impattare lo stinco contro le sue gambe. L’abominio incespicò in avanti genuflettendosi involontariamente ai piedi di Marlena. A quel punto la medjai le acciuffò un braccio e glielo ripiegò dietro schiena compiacendosi del suo rantolo di dolore e proprio mentre le immobilizzava la testa strattonandole i lunghi capelli umidi di sudore, la sciabola di Marlena si fece strada attraverso il suo collo. La testa di Sara penzolò dalle sue mani per qualche istante prima di disintegrarsi seguendo l’esempio del suo corpo decapitato.
Leona e Marlena, entrambe doloranti, ricoperte di sangue fresco e senza fiato, si squadrarono a vicenda, una più accigliata dell’altra. Nonostante tutti i tagli profondi disseminati per la sua pelle, la tenuta di combattimento lacera in più punti e la massa pagliosa color granoturco che le incorniciava il viso in una acconciatura tutto fuorché all’ultimo grido, Leona provò un profondo rispetto per il coraggio che ancora ardeva negli occhi verdi della sua acerrima nemica. La bionda si fece raschiare i polmoni dal gelo prima di avvertirla che «Questo non fa di noi amiche per la pelle, continui a farmi schifo, e il solo pensiero che un giorno potremmo scambiarci i vestiti e spettegolare sui ragazzi mi fa vomitare».
«Non essere ridicola Marlena» disse Leona sorridendole «scambiarci i vestiti? E cos’altro? Metterci lo smalto alle unghie?». Scosse la testa mentre si riappropriava delle kopis.
«E poi il mio guardaroba non è affatto della tua taglia. No, questa amicizia fra noi non può funzionare». Marlena fece roteare gli occhi, ma non avrebbe preso in giro nessuno con la sua falsa arroganza. Non aveva fatto in tempo a nasconderle che aveva ricambiato il suo sorriso. 
«Attenta!» le gridò poi Marlena.
Leona aveva già notato l’abominio che le stava venendo contro dal fianco sinistro, ma non il nerboruto vampiro che si era gettato su di lei con tutta la sua mole spaventosa di muscoli. Aveva battuto la testa ed era rimasta senza un briciolo di fiato. Questo però non le impediva di scalciare, graffiare e spingere sotto il suo peso che la schiacciava contro il terreno umido e vischioso, poco le importava se fosse come picchiare i pugni su una roccia. Si fermò soltanto quando scorse le iridi dorate dei suoi occhi, gli stessi che tentava di cavargli dalle orbite. Aveva ancora le unghie conficcate su metà della sua faccia quando gli domandò  «Sei un Cullen?».
«Nessuno mi aveva avvertito che avrei avuto a che fare con un micetto inselvatichito» sospirò il vampiro mentre le sganciava uno ad uno gli artigli dalla sua fronte «E comunque mi chiamo Emmet, e non sono sicuro che sia un piacere conoscerti».
«Per me potrebbe esserlo se non stessi cercando di soffocarmi».
«oh, scusa!» esclamò l’omone lasciandola aggrappare al suo possente braccio per tirarla su con sé. Per la repentinità del gesto le vennero le vertigini e andò a sbattere contro il suo petto marmoreo, cosa che la intontì ancora di più. Reggendosi a lui mise lentamente a fuoco il vampiro che con quel ghigno fuorilegge si stava prendendo gioco di lei. Avrebbe voluto acciuffargli quei riccioli neri dalla testa e strapparglieli uno ad uno ma dovette rimandare perché qualcosa di freddo e metallico le pizzicò la parte interna del braccio.
Sta volta perse davvero la capacità di respirare.
Aveva creduto che non sarebbero mai stati nient’altro che linee di un disegno su vecchie pergamene ammuffite o grafiti sulle cavità rocciose delle caverne. Solo dei sussurri tramandati dai suoi antenati. Una succulenta diceria per i più superstiziosi. La medjai sfiorò con polpastrelli incerti il parabraccio ambrato che aderiva alla sua pelle dal polso fino all’incavo del gomito, seguì i rilievi geometrici sulla sua superficie liscia, priva di ammaccature, come se non avesse mai visto nemmeno una battaglia, scavò dentro i due bulbi vuoti che li rendevano così disadorni, incompleti. 
«Dove sono le gemme?»
«Non guardare me, non sono stato io» disse il vampiro sollevando le mani in alto.  In quella sinistra stringeva il pezzo mancante delle reliquie, quello che avrebbe dovuto appartenere a suo fratello. «A dire la verità, non ricordo bene se avrei dovuto darvelo prima o dopo…» disse perdendosi in qualche complicato calcolo mentale «tuo figlio non ci ha dato molti dettagli».
«Mio figlio» sbottò Leona increspando le sopracciglia.
«Suo figlio?» s’inserì Marlena nella discussione col viso pallidissimo dall’incredulità.
«Roar!» ruggì la tigre albina che zoppicava verso di loro.
«Edna, ferma! É dei nostri. O almeno credo. E no, se avessi appeso il fiocco azzurro alla mia porta saresti stata la prima a saperlo, fidati mia cara». Emmet guardò il felino senza nascondere la sorpresa o il suo interesse. Leona ne aveva abbastanza dei suoi sorrisetti saccenti. Il vampiro parve accorgersi dell’ostilità della ragazza e le lanciò la reliquia pochi attimi prima che due suoi simili gli arrivassero alle spalle. Emmet scrocchiò le ossa del collo con fare disinvolto, prendendosi tutta la calma che aveva a disposizione. Poi si girò e torreggiò sui due mal capitati che avrebbero dovuto temere quella montagna di muscoli. Non ebbero nemmeno la possibilità di urlare che le teste dei due Drakulia finirono per spappolarsi l’una contro l’altra. Il gigante si asciugò con disgusto il loro sangue nauseante sulla sua camicia e grugnì per la frustrazione.
«Dannazione Jasper! Avresti potuto avvertirmi!».
«E allora dove stava il bello?» sghignazzò il vampiro dalla capigliatura leonina volteggiando abilmente fra tre abomini.
«Ops, non è la camicia che ti ha regalato Rose?» ridacchiò Alice.
«Infatti» disse, digrignando i denti, la vampira bionda più bella che avesse mai visto. Non pensava fosse possibile intravedere il terrore nella faccia dell’energumeno che spostava nervosamente il peso da un piede a un altro, ma dall’altra parte la ferocia nello sguardo della bionda intimorì persino lei.
«Suvvia, puoi sempre comprargliene un’altra, ormai dovresti esserti abituata alla velocità con cui le riduce a brandelli». Quella voce le fece mancare un battito.
«Edward» disse senza fiato. «Sei… sei tornato».
«Sai com’è, ho sentito dire che ti eri cacciata in un bel guaio e ho pensato che ti avrebbe fatto piacere se avessi fatto un salto da te» terminò disintegrandole definitivamente il cuore col suo sorriso sghembo. Aveva bisogno di quel sorriso.
«Be’ se per guaio intendi che casa mia è stata invasa da una setta di sanguinari, dal suo folle capo che ha disseminato la morte fino ai confini del mondo, e se aggiungi una fatina dispotica, crudele e assetate di potere e le sue graziose adepte intessitrici di incubi al calderone…oh quasi dimenticavo il pezzo forte! Non so se hai notato la fiumana di protettori traviati che ci sta massacrando. Allora in quel caso possiamo concordare sulla stessa definizione di guaio universalmente conosciuta».
«Posso constatare che la tua lingua funziona ancora benissimo»
«Nemmeno la morte può ridurmi al silenzio, prima o poi se ne farà una ragione» disse schiacciandogli l’occhiolino. Improvvisamente s’incupì «Dove sono Carlisle e…».
«Sono qui, Leona» la rassicurò Esme «Carlisle si sta occupando dei feriti a riparo nel bosco».
«Cristo, Esme…» disse cercando di reprimere il magone in gola «mi dispiace così tanto che…tu…io».
«Shhh. Non hai nulla di cui scusarti bambina mia» le soffiò accarezzandole la guancia scottante. Stavolta Leona lasciò che il ghiaccio e il fuoco si toccassero senza alcuna barriera a dividerli. Scoprì che non vivevano per distruggersi a vicenda, ma che miracolosamente in qualche modo potevano coesistere.
«Leona, si può sapere che cazzo stai facendo?».
Le si gelò il sangue. Gabriel non stava guardando lei, forse era troppo nauseato per farlo. Symphony sudava gocce scarlatte sulla neve e il suo padrone era impegnato in una lotta furibonda di sguardi con la famiglia di vampiri dagli occhi dorati. Il silenzio di Fabiano, teso al suo fianco, non era dei più incoraggianti.
«Io ci ho provato, giuro che l’ho fatto, ma non riesco a capirti. Saranno civilizzati come dici, ma allora perché i suoi occhi sono rossi come gli altri?» domandò indicando Edward, la voce incrinata dalla rabbia «e non venirmi a raccontare stronzate. Come puoi aver dimenticato quello che hanno fatto a papà…sono stati quelli della loro razza ad uccidere la mamma».
«No, questo non è vero» disse la sorella senza riflettere.
«Cosa hai detto?» tuonò lui. Una lieve sfumatura d’incertezza s’insinuò nel suo tono già di per sé incrinato.
«Non è stato un vampiro a uccidere la mamma…» borbottò piano. La vergogna le colorò le guance.
«Leona non è il momento» li interruppe bruscamente Edward «devi dare a Gabriel la reliquia ades…».
«Sto parlando con mia sorella, dannata sanguisuga! Non intrometterti più di quanto tu non abbia già fatto».
«Ringrazia il tuo Dio per la connessione che condividi con Leona o non potresti reggerti sulle tue gambe» gli ringhiò Edward.
«Questo è tutto da vedere. E comunque non ho alcuna intenzione di torcerti un solo capello dal quel cespuglio informe che ti ritrovi in testa. No, so essere molto paziente sai, e non ci troverei gusto nel fare a modo mio, adesso e ora. Farei un bel macello e non sono sicuro che di te rimarrebbe nulla e non voglio rischiare che mia sorella mi odi per tutta la vita. Aspetterò. Aspetterò che lei si stufi di te, che capisca quale sadico demone nascondi dietro quel patetico faccino da perbenista, quale schifoso assassino immeritevole di esistere tu sia. E allora sarà lei stessa a sbarazzarsi di te, nel modo più cruento che conosce, sarà lei a seppellire le tue ceneri e quando accadrà sarò ben felice di svuotarti il contenuto della mia vescica sopra».
«Adesso basta. Basta con tutto questo!» esclamò Fabiano. La sua espressione era un intricato grumo d’ira, gli occhi incavati nelle orbite erano esausti e straziati dal susseguirsi degli eventi che correvano a mille lasciandolo indietro. Prese suo fratello per un lembo della giubba per farlo voltare verso di lui con un’irruenza che non gli aveva mai riservato.
«I nostri fratelli stanno morendo e voi perdete tempo in sterili minacce che non portano a nulla. Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile! Lo capite? E se questo è tutto quello che abbiamo, non me ne starò di certo qui a interrogarmi se sia moralmente giusto accettarlo o meno. La nostra disperazione è il muro su cui si schianta l’etica delle scelte che stiamo per prendere, ma abbiamo tutto il tempo di saldare i conti dopo se adesso ci buttiamo alle spalle questa inutile faida che non ha motivo di esistere. Oppure vuoi che tutti questo finisca, eh? Perché se è così non vedo perché dovrei considerarti diverso da quelle bestie!» disse riferendosi agli abomini. Anche se il rimprovero era indirizzato tutto sul fratello, Leona non poté fare a meno di sentirselo rimbalzare addosso. Fabiano allentò la presa e lo spinse via privo di qualsiasi delicatezza per poi andare alla ricerca dell’elsa dell’arma che gli ballonzolava in vita. Leona osservò il ragazzo che per la prima volta era riuscito ad ammutolire l’irrefrenabile chiacchera di suo fratello mentre si avvicinava ad Edward con il filo della spada rivolto di fronte a sé. Deglutì il veleno amaro secreto dai profondi dubbi che infuriavano dentro di lui e gli domandò «Che dobbiamo fare?».
Fabiano era ancora lì a demolire mattone dopo mattone le impenetrabili difese che si era costruito attorno. Allora Leona si rese conto del perché lo amasse così tanto.
Lei sapeva che era saggio abbastanza da farsi da parte quando le circostanze lo richiedevano, nonostante l’orgoglio che era stato instillato in lui fin da bambino continuasse a ricordagli che stava tendendo la mano al peggiore dei suoi nemici.  Lui però aveva ignorato l’umiliazione di quella resa per il bene del suo popolo e Leona per un attimo se lo immaginò sul serio con una fascia da Sire a circondargli il busto e si riempì la vista di quel sogno.
«Per prima cosa sarà bene che tu consegni quell’affare a tuo fratello, Noah è stato molto convincente su questo punto» suppose Emmet grattandosi distrattamente la nuca. Leona annuì e fece segno a Gab di avvicinarsi.
«Spero che tu abbia il vaccino contro la rabbia, a quanto pare morde» commentò causticamente Edward.
Leona fu costretta a lanciarsi per frenare l’impulsività del fratello e non perse l’occasione di scoccare un’occhiataccia al vampiro. Gli avvolse le braccia attorno alle spalle per tenerlo fermo.
«Edward, no» lo redarguì con tono perentorio con l’aria di una che non aveva la minima intenzione di ripetersi. Poi si dedicò nuovamente al suo gemello, cercando anche solo un appiglio di buon senso nei suoi occhi.
«Guardami, guarda me» gli ripeteva dolcemente raschiando la sua fronte contro quella di lui non facendo minimamente caso al sudore che gliela imperlava. Gliela baciò delicatamente, la sua pelle che portava in sé il sapore del mare, la salsedine che le rimaneva appiccicata sulle labbra.
«Devi fidarti».
Gab si accigliò.
«Ultimamente non mi hai dato molti motivi per farlo».
«Nemmeno tu se è per questo. Ma sta volta è diverso. Niente più bugie fra noi, te lo prometto e se me ne darai la possibilità te lo dimostrerò, costi quel che costi. Solo…fidati di tua sorella».
Gab si morse un labbro e sospirò «Spero che questo non abbia niente a che fare con i tuoi insoliti appetiti…non sapevo che andassi ghiotta di pietre preziose».
«Credimi non è qualcosa che muoio dalla voglia di rifare. E se dovessi ricadere in tentazione, posso contare sulle sberle del mio fratellino?».
Le sue labbra s’incurvarono in un sorriso «Di quelle ne ho quante ne vuoi».
«Bene» disse seccatamente. Poi lo afferrò per il gomito e gli chiuse senza tanti complimenti la reliquia dei medjai attorno al braccio opposto a dove teneva la sua controparte.
«Ahi! Mi hai fatto male!» piagnucolò il ragazzo.
Leona tirò su col naso con alterigia «Questo è per aver provato a spezzare il nostro legame, per aver tentato di…» strinse gli occhi per non ripensare al suo scampato suicidio. Quando li riaprì, lui era lì a fissarla con aria di sfida.
«Ti odio!» sputò fra i denti.
«Il nostro odio è reciproco, mia cara coccinella» le disse Gab non riuscendo ad esprimere il vero significato della parola ‘odio’ nel suo tono mieloso, come se intendesse tutt’altro.
Una volta indossate le reliquie, Leona sperava segretamente che accadesse qualcosa che avrebbe cambiato per sempre le loro vite, qualcosa di talmente epico da essere ricordato nei secoli avvenire. E invece si ritrovò a domandare al gemello «Senti qualcosa di diverso?».
«Dovrei?» si giustificò Gab facendo spallucce.
Alice si schiarì la voce dietro di loro «Non è così che funziona, almeno non senza le quattro gemme degli elementi».
«Fantastico quindi questa ferraglia è inutile!» dedusse Gabriel.
«Forse non del tutto» suppose Fabiano accogliendo il mento fra le sue dite. Con quell’aria meditabonda Leona lo trovava fatalmente irresistibile e dovette pizzicarsi per non smarrirsi fra i suoi pensieri. Solo lei poteva scartarsi i momenti meno opportuni per lasciarsi travolgere dall’attrazione che provava per lui.
«È solo una supposizione» continuò il protettore ignaro delle fantasticherie che Leona si era fatta su di lui «ma le reliquie fungono da amplificatore dei vostri poteri e come suggerisce la compartimelizzazione dei vari alloggi per le gemme ognuna ha una specifica funzione. Vedete questo simbolo quassù, sì proprio quello sopra il ghirigoro di foglie di acanto, è scritto nella lingua antica, ma ogni buon protettore sa riconoscerne la traduzione».
«L’akasha» lesse automaticamente Leona. Fabiano le abbozzò un sorriso invece di annuire.
«Non potete condividere il potere elementale con tutti i protettori ma potreste infonderci la vostra forza, condividere i vostri pensieri, accordarci tutti sull’unico obiettivo che conta…».
«Fabiano ha ragione ma…». Leona avvertì l’esitazione di Alice.
«Ma…» la incoraggiò la ragazza.
«Alice, no!» tuonò Edward.
«Di cosa state parlando?»
«C’è un modo per salvarli» disse infine. «Gli abomini. Quale è stato l’ultimo desiderio che hai espresso al ciondolo prima di ingoiarlo? Le parole esatte».
Il cuore di Leona cominciò a pomparle nel petto come una furia, le vene le pulsavano visibilmente sulle tempie «Io…io credo…Dona il potere alle miei mani di farli tornare come erano prima, donami il privilegio di annullare il sortilegio, o qualcosa del genere». 
«Be’ adesso la mia visione acquista un senso. Credo ti abbia proprio preso alla lettera, Leona. Nella mia visione tu…li toccavi e loro guarivano quasi istantaneamente, ma non sai quello che ti aspetta dopo…»
«Non m’importa» disse frettolosamente, fregandosene delle conseguenze «Qualcosa non torna, ho combattuto contro gli abomini però…Ma certo!».
«Non so, vuoi rendere partecipi anche noi della tua illuminazione?» le domandò Rosalie fingendosi zuccherosa e accondiscende in un modo che alla medjai fece prudere le mani «Ho capito perché ti piace tanto, Edward. È insopportabilmente sibillina proprio come te». Lui si limitò a roteare gli occhi al cielo. Leona ignorò entrambi.
«Tecnicamente credo che non sia mai entrata a diretto contatto con loro perché le mie kopis intermediavano fra me e le loro. Dio, se solo lo avessi saputo prima, avremmo potuto salvarne molti di più!».
«Dove stai andando?» chiese un preoccupatissimo Fabiano.
«Be’ non mi resta che provare, no?».
«Aspetta, non fare precipitosa…ah! come non detto». Leona era già corsa ad infiltrarsi nel fitto assembramento della battaglia seguita a ruota da suo fratello.
«Non avresti dovuto dirglielo» sibilò furioso Edward a sua sorella.
«È così che devono andare le cose» disse semplicemente lei.
«Non era obbligata a farlo!».
 
Era vero. Non aveva vincoli. Lei lo voleva comunque e più di ogni altra cosa.
Era una fortuna che, proprio mentre sgomitava nella calca, il vento avesse cominciato a soffiare trascinandosi via il terribile tanfo di carogna e sangue. Le sue mani smaniavano come fringuelli desiderando di aggrapparsi al gelo familiare delle sue kopis. Le sue mani, però, servivano ad altro. Individuò in mezzo alla baruffa un interessante duello fra un meta-vampiro e un protettore inglese di cui non ricordava il nome. Il meta-vampiro era aggressivo e ringhiava come una belva della selva, il protettore aveva un serio problema con la gestione della paura. Leona attribuì l’inesperienza del protettore ai suoi lineamenti giovanili, a quell’accenno di peluria che gli punteggiava la mascella a chiazze disomogenee. Da come impugnava la spada, temette che il ragazzo non avrebbe mai raggiunto la virilità. Infatti non passarono nemmeno dieci secondi da che aveva formulato quel pensiero, che la spada roteò in area conficcandosi nel terreno lasciando il giovane protettore disarmato. Quando fu più vicina ai due, poté sentire i balbetti del giovane che imploravano la creatura di ricordarsi chi era, cosa erano stati loro due, quanto si erano amati. Il meta-vampiro non accennava a ricordare da come si era fiondato sulla sua giugulare.  Fu allora che Leona s’interpose fra i due e strinse le dite attorno al polso dell’abominio. Non appena la sua pelle entrò in contatto con l’inchiostro magico scarabocchiato sopra il vecchio simbolo dell’occhio vigile e delle spade incrociate, il meta-vampiro si contorse urlando. Una luce blu si espanse dal petto di Leona, lì dove c’era stato il pendolo. L’incantesimo del linckage intrappolato sotto la carne dell’abominio prese lentamente a coagulare come un grumo nero di pittura a tempera schizzato distrattamente su una tavolozza. Quello che però non si aspettava, è che quel grumo prendesse vita traslando da un punto a un altro della pelle del mostro fino a che non s’infiltrò dentro quella della medjai. La punta delle sue dita si macchiarono di nero. Fu tremendamente doloroso per lei ma trattenne quella cosa dentro il suo corpo. Quando il dolore smise di assillarla, si accorse che l’abominio non gridava più. Sotto la sua morsa il battito si regolarizzò. Allora sollevò lo sguardo su di lui e lo lasciò andare. Per un attimo ebbe paura che non avesse funzionato. Le sue fattezze da vampiro non avevano subito alcuna mutazione e il simbolo dei protettori era andato perduto per sempre. Ma dentro i suoi occhi…tutto era cambiato.
L’ex-protettore prese un lungo respiro come se fosse il primo della sua vita, si scostò le ciocche nere madide di sudore dalla fronte e i suoi caldi occhi marroni si spostarono da Leona al protettore inglese alla sue spalle. La ragazza che lo aveva salvato smise di esistere per lui quando lo riconobbe.
«Connor?» gracchiò con voce incerta. Sulle loro facce esplose la gioia, una gioia così travolgente che Leona dimenticò quanto le facessero male le dita. Non voleva rovinargli il momento, così si fece da parte e lasciò che le loro labbra si trovassero e che i loro corpi esplorassero l’uno quello dell’altro.
«Tocco da cupido?» ci scherzò su Gab appoggiando un gomito sulla spalla della sorella «Potremmo diventare ricchi».
«Sta zitto!» gli disse burbera, ma niente avrebbe potuto strapparle il sorriso dalla faccia.
O quasi.
«Cos’hai alla mano?» le chiese Gab accigliandosi.
«Non è nulla» mentì. «C’è ancora molto da fare» e corse alla ricerca di un altro abominio. Gab le copriva le spalle, lei diffondeva il suo tocco miracoloso fra i meta-vampiri. Per i meta-lupi il processo era un po’ più complesso avendo subito una stato di mutazione avanzato. Di quello se ne sarebbero occupati dopo.
Vedere riaffiorare nei loro occhi l’umanità era grande motivo di soddisfazione per la medjai. Un polso dopo l’altro stava in buona parte estirpando alla radice quell’antico sortilegio fatato che li aveva soggiogati, restituendo alla natura l’equilibrio che era stato scombussolato. Ma per ogni simbolo che disfaceva, c’era un prezzo da pagare. Era ancora a metà dell’opera e il dolore diventava sempre più annebbiante e le macchie nere che prima si erano limitate a localizzarsi sulla punta delle dita adesso le avevano raggiunto il metacarpo. E nonostante le lancinanti schegge dolorose che le immobilizzavano la mano, non aveva alcuna intenzione di fermarsi. Il tributo che il ciondolo le chiedeva era davvero irrisorio in cambio del potere di guarigione che le aveva conferito. E non vedeva l’ora di sperimentarlo su un abominio in particolare.
Lei e Marlena avevano fatto letteralmente a pezzi le sue sette replicanti e per almeno un paio di ore Sara non avrebbe avuto forza a sufficienza per generarne delle altre. E questo era un vero peccato: se fosse riuscita a guarire la sorella di Fabiano, altre sette letali assassine come lei le sarebbe fatto comodo.
Ma come in uno degli antichi proverbi che la sua saccente nonna soleva ripeterle nel suo tagliente dialetto siciliano, non si può avere “a vutti china e a mugghieri ‘mbriaca”, ovvero non poteva avere entrambe le cose, c’era sempre qualcosa da sacrificare.
Quando pensava che più niente potesse sorprenderla, scovò padre e figlia impegnati in una contesa all’ultimo sangue. Reprimendo un po’ di stizza, dovette riconoscere che Tiziano sapeva il fatto suo e che le voci sulle sue eccelse qualità di spadaccino non esageravano affatto. Qualità però che entrambi i suoi discendenti avevano ereditato. Lo stile, le movenze, le spazzate e gli affondi erano straordinariamente somiglianti fra i due e danzavano come se uno fosse lo specchio dell’altro.
Era stato un maestro fin troppo severo e la sua allieva fin troppo lesta a far suoi quegli insegnamenti. Quindi non sgomentava il fatto che gli si stessero ritorcendo contro. Sara era in netto vantaggio non solo per le sue capacità potenziate da abominio, ma soprattutto perché, al contrario di suo padre, non aveva alcuna remora nel vederlo sanguinare per mano sua. E quell’unica debolezza lampeggiava sul viso di Tiziano come un faro che illumina il porto.
Tiziano fendette il vuoto con la spada.
Sara si dileguò fin troppo velocemente dalla sua offensiva, poi si ripiegò con una mezza piroetta e lo mandò gambe all’aria piazzandogli una gomitata sul mento. Leona si ritrovò a parare il colpo che discese dall’alto.
«Hai bisogno di una mano?» domandò al Sire rispondendo alla forza bruta di Sara con le sue kopis incrociate nel punto dove la flamberga dell’abominio si era fermata.
«Non il tuo» le ringhiò con disprezzo.
«Oh, andiamo, è questo il modo di trattare tua nuora? Pensavo che potessimo…» s’interruppe per respingere un altro temibilissimo dritto sgualembro «riappacificare i rapporti» riprese ansando «dopotutto un giorno potrei cominciare a chiamarti paparino». Quella provocazione gli diede la spinta giusta per rimettersi in piedi e trasformare il duello fra le due in un triangolo di spade. Fra clangori, dritti, rovesci e schivate i tre si affrontarono senza esclusione di colpi.
Leona inarcò la schiena all’indietro fino a quasi toccare terra per scansare un’insidiosa imbroccata alla gola «Non è certo l’incontro che avevo sperato con la famiglia del mio ragazzo ma…» disse ruotando alla sua destra col bacino e facendo sforbiciare le gambe per aria.
«Che cosa vuoi medjai? Sei venuta qui solo per gongolare?» latrò abbassando la guardia all’altezza delle ginocchia usando la posa del dente di cinghiale. Poi respinse un montante «piccolo patetico scarafaggio che non vuole scollarsi dalla suola della mia scarpa…».
«Ahi, questa ha fatto male!» mugolò la medjai «Oh, non tu, Sara, continua pure a giocare a mosca cieca, tesoro» rassicurò l’abominio che non sembrava avesse preso bene la battuta.
«Senti, so perché mi odi…ho saputo dei tuoi gemelli…» disse abbandonando l’atteggiamento di scherno.
«Non so chi te lo abbia raccontato, ma ti assicuro che il mio disprezzo per te è del tutto puro e disinteressato. Sai, dovresti cominciare a pavoneggiarti di meno. Ci sarà sempre qualcuno che non riuscirai ad ammaliare coi tuoi trucchetti e che ti vedrà per quello che sei…un’irritante, indisciplinata, inetta, infantile, insolen…».
«Ehi, avvertimi quando stai per finire gli insulti con la i, esiste un ampio vocabolario che potrebbe fare al caso tuo…».
«E tu dovresti stare al fianco di mio figlio? Deliri come una che ha sbattuto la testa!».
«In effetti, quando eravamo piccoli Gabriel mi ha fatto cadere dalla culla». Tutto a un tratto delle radici affiorarono dal terreno come gli artigli arcuati e ritorti di un mostro. Strisciarono silenziosi fino al loro bersaglio e le immobilizzarono le gambe avvinghiandosi attorno ai suoi polpacci. Sara era letteralmente fuori di sé. Sbuffava, ringhiava, si dibatteva come una forsennata e tranciava i rami che le aveva raggiunto metà coscia con colpi violenti di spada. Ogni volta che ne distruggeva uno, Leona lo rimpiazzava con altri tre. Da quando indossava il parabraccio la differenza nell’attingere il potere elementale era nettamente più immediato, più amplificato. Lasciò sfogare le sue urla strepitanti e si rivolse ancora una volta al Sire «Io posso guarirla». La ragazza allungò il braccio verso il polso dell’abominio ma fu bloccata a mezz’aria. Le dita del Sire la strinsero così forte che sicuramente dopo sarebbe stata ricompensata con dei lividi.
«Padre, lasciala fare!».
Entrambi si voltarono verso la voce di Fabiano ma si fermarono solo per poco su di lui. Dopo aver sbirciato la mano chiazzata di nero fin oltre le nocche della medjai, il Sire se ne compiacque. Le labbra del Sire si accostarono piano al suo orecchio e il bisbiglio che le confidò a voce così bassa che solo lei poté sentire la fece rabbrividire.
«Lui sa che questo ti porterà alla morte?».
Annuì comprensivo al figlio come se non avesse pronunciato quella sentenza e la liberò dalla sua presa. Gli occhi blu di Leona, dentro cui per un attimo era lampeggiata indisturbata la paura, lo sfidarono. E non si tirò indietro. Non di fronte alla sua vecchia amica.
Non riuscì  comunque a toccare quel polso.
La terra stava tremando. E questa volta né lei né suo fratello avevano causato quel terremoto.
I tremori le stavano squarciando il ventre facendola gemere dalle profondità degli abissi. La faglia si estese fin oltre il confine visibile. Chi in quel momento ci si trovò sopra cadde dentro la sua bocca socchiusa. Un pennacchio fumoso denso di cenere e scorie incandescenti s’innalzò dal cratere della montagna evaporando in una spirale grigia verso il cielo. Seguì un esplosione che fece fremere ogni singola foglia del bosco. Uno stormo si alzò in volo, avvertendoli dell’imminente catastrofe. Pochi si erano accorti che l’eruzione era tanto bella quanto pericolosa.
Il vulcano si era destato dal suo lungo letargo e la lava zampillava copiosa dal suo covo infuocato. La lingua di lava che colava dal fianco della montagna era uno spettacolo stupefacente di cui né protettori, né vampiri, né abominio e fate si vollero privare. Le scosse però non diminuivano d’intensità e si facevano sempre più frequenti  mano a mano che l’enorme frammento roccioso rotolava giù dal pendio del vulcano.
Leona e Gabriel si guardarono per un lungo momento: provarono lo stesso nodo alla bocca dello stomaco. Qualcosa si stava risvegliando in loro come il vulcano dormiente. Un qualcosa che si stava avvicinando a grandi passi, qualcosa che fendeva in due il sentiero di abeti proprio come un pettine forma la riga al centro del cuoio capelluto, qualcosa che faceva agitare il placido letto del fiume con i lucci che saltellavano fuori dalla superficie, qualcosa che aveva fatto infuriare i venti che si rincorrevano rocambolescamente facendogli schioccare le vesti, qualcosa da cui i gemelli si sentivano terribilmente attratti come falene in balia della luce. Fuoco, aria, terra e acqua si sprigionarono involontariamente dalle loro mani. I due, più che sconvolti, non avevano intenzione di evocare alcun elemento, eppure eccoli lì, levitare indisturbati sui loro palmi senza alcuna possibilità di disfarsene o di esercitare un controllo su di essi. Erano così spaventati che sembrava quasi che i loro due cuori facessero a gara a chi palpitasse più velocemente. Poi il vulcano eruttò una seconda volta in un boato silenzioso che solo i medjai poterono cogliere. Il cielo si oscurò a tal punto da imitare la notte e qualcosa tracciò un arco fra le nubi cariche di zolfo e solforati tossici la cui traiettoria era riconducibile al cuore della montagna.
Leona percepì il calore del magma ancor prima che il bolo di fuoco si abbattesse sul campo e sollevò in alto le mani in un gesto disperato. L’involucro magmatico restò sospeso fra il cielo e la terra ma ardeva troppo voracemente per restarsene sotto di esso a rimuginare su cosa stesse accadendo o sul senso della vita. Leona avrebbe voluto urlare a tutti di allontanarsi, ma lo sforzo di sostenere quel peso e il contenimento di millequattrocento gradi Celsius ad un’area circoscritta le strappavano la forza e la volontà di parlare. Faceva troppo caldo persino per una divoratrice di fiamme come lei, non voleva pensare a cosa stessero provando gli altri. Avvertì molto più chiaramente la presenza della reliquia sul suo braccio e rammaricandosene si rese conto che senza di essa non sarebbe riuscita a fermare l’impatto e a far guadagnare un minuto in più alla sua gente e alle persone che amava.
Perché se ne restavano tutti così immobili? Pensò. Le sue energie non era inesauribili, lei non era invincibile, da un momento all’altro avrebbe potuto cedere. E Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto lasciarla andare…Il senso di colpa la schiacciò più della palla di magma di cui sopportava il peso.
Non può finire così, dannazione!, urlò interiormente, non dopo tutto quello che aveva fatto per arrivare fin lì. Che senso avrebbero avuto allora la morte di suo zio, di Romeo, di Carlotta, di Norman e del resto degli altri martiri di quella schifosa guerra? Che senso aveva avuto il sacrificio dei suoi genitori? Non voleva accettare che tutto riconducesse a quel momento, che alla fine sarebbe state lei a distruggere tutto per non essere stata abbastanza forte, la medjai che i protettori si meritavano.
Qualcosa le sfiorò la spalla…
«Prendi la mia forza, usa l’akasha» le diceva Fabiano.
No, lei non poteva, non voleva… se non avesse saputo gestire il travaso, avrebbe potuto prosciugare fino all’ultima goccia del suo mana vitale, avrebbe potuto ucciderlo. Non se lo sarebbe mai perdonato. Utilizzò gli ultimi residui della sua connessione per dirgli…
È troppo pericoloso.
Tutto quello che facciamo è pericoloso, controbatté la sua voce nella testa.
Ogni singola parte del suo corpo urlava di dolore per gli effetti della disidratazione, ma era conscia della sua presenza accanto a lei.
Te l’ho già detto Leona, non ho alcuna intenzione di guardarti morire. Non puoi farmi questo.
Se non te ne fossi accorto, non credo che riuscirà a sopravvivere qualcuno…
No, se non ti servirai dei mio mana. Prendilo, è tuo. Sarò sufficiente a respingerlo?
Sì, ma…Potrei ucciderti.
Non lo farai.
Come fai ad esserne così sicuro?
Non è la prima volta che metto la mia vita nelle tue mani e non mi hai mai deluso, e non lo farai nemmeno se non…dovessi farcela.
Non posso farlo.
Vuoi condannarci tutti? Non sarò una grande perdita.
Non sarai…Fabiano. Se ancora non ti fosse chiaro, per me sei Tutto. Tu sei il mio tutto. Farei in briciole la Terra per te, farei esplodere le stelle e l’intera galassia se servisse a salvarti la vita…
Non ti facevo così romantica e fatalista.
Sentii la mano di Fabiano scivolare dentro la sua. Il suo tocco fu rigenerante come una boccata di aria fresca, un tocco gentile che anestetizzava il suo dolore e glielo rendeva sopportabile. Le sue scintille di mana si riversavano dentro di lei, il flusso era intenso e regolare.
Avevi detto che fra noi non poteva funzionare, riprese lui conversando tranquillamente come se lei non gli stesse prosciugando la linfa vitale.
E non avevo ragione? Ci si è messo in mezzo pure un enorme ammasso di lava, mi sembra che l’universo ci stia inviando un messaggio molto chiaro.
Credo proprio che l’universo una volta ogni tanto debba andare a farsi fottere.
Fabiano! Hai detto una parolaccia?
E da quando è una prerogativa di Gabriel?
Be’ non so, è lui il sovrano delle cafonerie…
I suoi muscoli dapprima afflosciati dallo sforzo, adesso erano tesi e turgidi, traboccanti di acido lattico, galvanizzati dalla quantità supplementare di mana che si riversava dentro di lei eccitandole le cellule. Da un lato la temperatura stava lentamente calando mentre il bolo si restringeva. Dall’altro le particelle del mana di Fabiano stavano rallentando la corsa, il flusso si faceva via via sempre più intermittente, perdeva sempre più di fluidità.
Leona.
Non voleva sentire oltre, non se utilizzava quel tono di voce con lei…
Leona, ripeté lui cosciente che lei lo stesse ignorando volutamente.
Non ti azzardare a dirmi addio, non ne abbiamo già avuto abbastanza?
Giurami che starai bene, giurami che vincerai questa guerra. Devi farlo per Gabriel.
Bastardo, pensò lei. Sapeva esattamente che nominare il fratello fosse la leva giusta per renderla schiava di tutte le sue volontà.
Posso concederti solo il secondo giuramento. Niente di più.
Un giorno incontrerai una persona che…
Smettila con queste stronzate, sai benissimo che non me le bevo. Sappiamo entrambi che rimarrò difettosa, non proverò mai più qualcosa di paragonabile a quello che ho provato per te, per il resto dei miei miseri giorni. E poi non capisco perché devo essere l’unica qui a fare promesse…
In effetti posso fartene una anche io
E quale sarebbe?
Ti amerò in ognuno dei singoli miseri giorni che ti restano, ogni giorno sempre di più. Amerò ogni tuo gesto, ogni tua parola, ogni tuo battibecco affettuoso con Gab, ogni tuo successo, ogni tuo fallimento, ogni tua scelta, ogni errore, ogni volta che inciamperai per rimetterti in piedi più forte di prima…
Di la verità, ti mancheranno i miei litigi con quella testa di rapa di Gab più di ogni altra cosa, eh?
Non puoi minimamente immaginare quanto…
C’è qualcosa che vorresti in questo momento? Sì, insomma, un ultimo desiderio…
Dall’altra parte non ricevette alcuna risposta.
Fabiano? Lo chiamò con strazio, come se una tenaglia le stesse avviluppando il cuore.
Sono… qui, disse l’eco lontano della sua voce.
Vuoi del tempo per pensarci?
No, so cosa voglio. É che…
Dai non essere timido, sai che non potrei mai giudicarti
Vorrei baciarti.
Stavolta fu lei a restare in silenzio. La tenaglia si era addentrata troppo in profondità e la stava facendo sanguinare.
Sì, credo che le tue labbra saranno la seconda cosa che mi mancherà di più.
Solo la seconda? Gridò lei indignata.
I litigi con Gab hanno la precedenza, mi dispiace
Anche io vorrei baciarti, più di qualsiasi altra cosa.
SE AVETE FINITO CON QUESTO MELODRAMMA, IO AVREI UN’IDEA DA PROPORVI, COSÍ POI SARÓ LIBERO DI ANDARE A VOMITARE DIETRO QUEL CESPUGLIO
Quella terza voce fuori dal coro li fece sobbalzare, tanto che per poco Leona non mollò la presa sul magma. Nessuno dei due seppe che replicare.
VA BENE, HO CAPITO. CI PENSA IL VOSTRO EROE A SISTEMARE LA SITUAZIONE.
Leona ebbe pochi attimi a disposizione per chiedere spiegazioni a Gab, ma rimase così interdetta che se li lasciò sfuggire. Il gelo e l’umidità che subito dopo le penetrarono dentro le ossa, bè quelli erano davvero complicati da ignorare.
Si rese conto di essere bagnata fradicia dalla testa ai piedi. I lunghi capelli le si erano incollati alle guance e i vestiti grondavano acqua sul terriccio fangoso dove i suoi stivali squittivano con un risucchio. Non poté negare l’improvviso sollievo che provò e il piacere che ne trasse la sua pelle inaridita dal calore, ma nemmeno la rabbia aveva molta voglia di rimanersene in disparte.
Che diamine aveva combinato questa volta quel mentecatto?
Sollevò lo sguardo su quello che era stata la massa incandescente che incombeva minacciosa su di loro pronta a ridurli in mucchi di ceneri e vi trovò un mastodontico frammento lavico di pura ossidiana dalla conformazione amorfa. Sentiva lo sciabordio del fiume che si ritirava all’interno degli argini… Poi guardò suo fratello.
«Cosa c’è? Ho sbagliato qualcosa?» le disse.
 Come aveva potuto non pensarci? Il segreto stava proprio nell’idratazione e nel raffreddamento rapido! Uno dei possibili modi per solidificare il magma vulcanico stava proprio nell’abbassare il suo punto di fusione attraverso il contatto con l’acqua grazie alla quale la temperatura scende fino a raggiungere il valore inferiore critico. La cosa che però le premeva di più non era tanto il fatto che lei non se ne fosse ricordata, ma piuttosto che suo fratello, quell’essere che allevava soltanto una manciata scarsa di neuroni dentro il suo cranio, ci fosse arrivato prima di lei e che fosse completamente asciutto!
«Bè che cosa aspetti, distruggilo».
Se Gab avesse continuato a rimarcare l’ovvio prima che lei lo battesse sul tempo, era sicura che sarebbe scoppiata a piangere per la frustrazione. Comunque non aveva argomentazioni abbastanza valide per contraddirlo e procedette con la polverizzazione della roccia che si disperse nel vento.
«Fabiano!» urlò poi suo fratello.
Aveva completamente dimenticato delle loro mani ancora intrecciate e del flusso di mana che non era stato interrotto. Lei si sottrasse subito dalle sue dita e fece appena in tempo ad afferrare il ragazzo, zuppo d’acqua tanto quanto lei, che le sveniva tra le braccia. Lei e il fratello lo fecero sdraiare per terra in una pozza di fango, non avendo un posto migliore dove soccorrerlo, e procedette col massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. Il respiro era assente tanto quanto le sue pulsazioni e Leona temette che il protettore avesse ingollato troppa acqua al momento dell’esondazione. La ragazza gli spostò i capelli bagnati dalle tempie e vi posò delicata i polpastrelli in ciascun lato adoperando il processo inverso di trasfusione del mana mandando impulsi diretti al cervello.
E pregava. Pregava senza sosta desiderando di poter rivedere quel magnifico azzurro dei suoi occhi. Sul suo viso era impossibile distinguere le lacrime del fiume da quelle che sgorgavano agli angoli degli occhi.
Soffocava le urla, non poteva accettare che rimanesse così maledettamente immobile. Si piegò su di lui e pigiò le labbra su quelle del ragazzo, ma quelle non rispondevano alla passione del suo bacio come avevano fatto in passato. Poi lo mise seduto e se lo strinse al petto come se potesse riparare il danno irrimediabile che le aveva provocato. Il suo nemico non ingaggiava più battaglia, come se di fronte a quel dolore persino il mondo intero non avesse più ragioni di girare attorno al sole. Non le importava molto della loro finta pietà, non era abbastanza forte da pensare a nient’altro che al cuore fin troppo silenzioso del suo Fabiano.
Non si rese conto per quanto tempo rimase lì avvinghiata al suo corpo che andava raffreddandosi, ma ricordava perfettamente quanto fossero stati interminabili gli attimi che precedettero il sollevamento impercettibile delle spalle del ragazzo che si cercava di aggrapparsi con tutto se stesso alla vita.
Vomitò un bozzo d’acqua dalla bocca e prese a tossire fuori tutti i residui del fiume che gli avevano allagato i polmoni mentre Gab imprecava in tutte le lingue a lui conosciute. Leona rideva e lo baciava da per tutto senza nemmeno dare il modo al ragazzo di riprendersi.
«Gab…» fu la prima parola che disse. «Non dirmi che stai piangendo per me?». Gab si affrettò a tamponarsi le guance con la manica della giubba.
«Non ci penso nemmeno fratello, la tua ragazza mi ha fatto andare la cenere negli occhi. Brucia sai?».
Mentre i tre si godevano quella breve tregua, il vento riprese a sferzare irruento ululando come se al suo interno trasportasse i gemiti delle anime dannate, dal fiume si contorsero verso l’alto tentacoli d’acqua che terminavano con delle chele, la terra prese a crivellarsi di crateri da cui fuoriuscivano sbuffi caldissimi di vapore cinereo. Al confine est delimitato dall’annosa quercia rugosa che portava i segni dei secoli impressi nel suo poderoso tronco, una catasta di rocce male assortite brulicante di arbusti e gocciolante di lava li osservava paziente frugando pensierosa tra le foglie e i rami dell’anziano albero. Un osservatore più attento avrebbe sicuramente notato le braci che ardevano dentro le cavità vuote dei suoi occhi, i rivoli d’acqua che scivolavano dall’incavo fra le rocce vaporizzandosi istantaneamente a contatto con l’aria per celare la creatura alta cento piedi all’interno di una densa coltre di nubi. Nubi che però non lesinavano di diffondere il terrore in chi aveva la sfortuna d’incrociare il suo sguardo pregno di un odio antico tanto quanto il mondo.
La creatura urlò sradicando con rabbia la grande quercia che non gli raggiungeva nemmeno metà bacino e gliela scagliò contro.
Leona non gli permise di essere travolta.
   
 
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