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Autore: Elsira    02/02/2021    2 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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09/02/2021

Siccome ho notato che questo capitolo è stato... stressante (ma sì, diciamo così) per buona parte che l'ha letto e mi ha recensito in esterna (che ringrazio, tra l'altro, non vogliatemela a male bimbi, era un complimento e vi voglio tanto bene), ora voglio mettere una premessa. A parte che io avevo avvertito sin da subito che non sarebbe stata una storia tutta fiorellini e farfalline, ma comunque. Quanto segue è il capitolo più... traumatizzante (?) per Cam. A me non piace, quindi capisco che possa non piacere, però era un passo necessario che la ragazza doveva e ha dovuto fare, quindi nel racconto ci andava, punto. Avrei potuto trattarlo in maniera diversa, più... serena, se così si vuol dire? Sì. E sarebbe anche stato molto più facile scriverlo, perché sarebbe bastato usare la prospettiva di Arkin. Ma invece no. Questo per più motivi: primo fra tutti, il racconto è principalmente di Cam. Il secondo è che temi del genere hanno bisogno ogni tanto di... un certo evento che dia la "scossa", se così si vuol chiamare, per poterseli mettere una volta per tutte alle spalle e poter andare avanti.
Comunque, accennato quanto sopra, io vi dico che questo capitolo tratta della morte dell'ex allenatore di Cam e Aurora, e del "funerale" che Arkin ha deciso di farle attendere. Se volete, passate al prossimo, senza problemi. Io non me la prendo, giuro. Anche perché, come già detto, nemmeno a me piace quanto segue. E sì, è vero che è un passo necessario per la ragazza, ma non è che sia necessario leggerlo perché altrimenti non si capisce nulla di quel che accade poi... Semplicemente si nota più il cambio del personaggio di Camilla, o almeno spero... E' quello che ho provato a fare lol

Pagina 6.


«Ma tu guarda quei du' 'mbecilli in mezzo al lago. Che so' a fa', 'na gara di nuoto? Ma un lo sanno che tra un'ora s'ha da inizia' le batterie della Nazionale? Che li pigli' un remo, va', coglioni...»

«Sergio... Guarda che quei du' 'mbecilli, come li hai chiamati te, sono i tuoi due ragazzi del 2-.»

«...»

 

A Sergio.

 

Un rumore familiare… È quello di… remoergometri?” Sbarrai gli occhi da dietro la benda che il mio amico mi aveva fatto indossare, mentre il cuore accellerava i battiti, terrorizzato. “No… Non è possibile… Lui… Non può conoscere questo posto… Però… Questo suono… Sono sicura…”

Lo presi per una manica con la mano libera e provai a chiedere, con voce tremante: «Arkin… cosa…»

«Aspetta, siamo quasi arrivati.» Mi interruppe lui, stringendo la presa dell'altra mia mano e dicendo, con voce accurata: «Attenta, adesso la discesa si fa ripida.»

Rimasi pietrificata al mio posto, incapace di muovermi di un solo altro passo. Se quelli che sentivo sotto le scarpe erano i sassolini di un ghiaino, se l'odore che sentivo era quella di erba bagnata… “Se c'è una discesa ripida, allora non mi ero sbagliata… Se quel rumore erano davvero remoergometri... Se sono davvero… No. No no no no no no no no…

«Coraggio, non temere. Non ti lascerò cadere, ci sono io a sostenerti.» La sua voce era rassicurante, ma in quel momento non sarei riuscita a fare un solo passo nemmeno se avessi voluto. Potevo quasi vederlo, davanti a me, che mi offriva la mano con un sorriso in volto. Ma non ce la feci, era troppo per me, semplicemente troppo.

«Riportami a casa…» Il mio fu più un sussurro che altro, ma Arkin riuscì comunque a sentirmi benissimo.

«No.» Rispose lui, in modo secco.

«Non sto scherzando... Il gioco è bello quando dura poco, Arkin. Riportami a casa o ci torno da sola!» Feci per torgliermi la benda, ma le mie mani vennero bloccate a metà strada dalle sue.

«No, devi fare questa cosa. Ne hai bisogno.» Sentii il suo fiato fresco che sapeva di menta sulla pelle del volto, il calore del suo corpo che si era avvicinato. Alzai lo sguardo bendato, come gesto automatico, come potessi puntare i miei occhi nei suoi. Con voce tremante tanto da suonare estranea persino a me stessa, sussurrai: «Non voglio... ti prego... Portami a casa...»

Sarei scoppiata a piangere, se avessi avuto un cuore. Peccato che avessi appreso la verità, due anni prima: io non avevo nessun cuore. Ero una scatola vuota, capace solo di provare emozioni flebili e superficiali, sentimenti per i quali bastava un alito di vento leggero per spazzarli via senza che lasciassero traccia. Un essere incapace di piangere, anche quando aveva il petto trafitto da una lama che affondava sempre più a fondo, lacerando la pelle e i tessuti, tagliando il sangue, ma trovando al posto del cuore solo una pompa meccanica, completamente priva di sentimenti.

Cominciai a non riuscire più a controllare il mio stesso corpo, ritrovandomi a tremare visibilmente da capo a piedi, tanto che restare sulle gambe era diventato quasi impossibile. «Ti prego... Portami via da qui...» Aggiunsi, supplichevole.

Lo sentii sospirare pesantemente e, dopo qualche istante di silenzio, con tono arreso, disse: «E va bene...» Feci appena in tempo a tirare un sospiro di sollievo, che un paio di braccia mi presero per la vita e il secondo dopo mi ritrovai sulla spalla del mio amico, nemmeno fossi stata un sacco di patate. Iniziò poi, con mio sconcerto, a scendere per la ripida discesa asfaltata che conoscevo sin troppo bene. «Visto che tu non hai intenzione di muoverti, ti faccio muovere io.»

Al limite della sopportazione, iniziai a prenderlo a calci e pugni come meglio potevo, gridandogli contro che doveva mettermi a terra. 

Cristo, Dio, Buddha, Babbo Natale, Goku, Satana… Non mi importa chi, ma che qualcuno mi salvi! Vi preg…” Sentii il rumore del legno del pontile muoversi sotto i piedi di Arkin e zittii di colpo perfino i miei pensieri, pietrificandomi.

«Ora ti metto giù e ti tolgo la benda, okay?» Domandò con tono dolce, aspettando immobile per pochi secondi, forse per fare in modo che il piccolo pontile placasse il proprio ondeggiamento leggero.

«No...» Sussurrai appena. L'istante successivo, ero con tutte le mie forze aggrappata a Arkin che gridavo: «No! Non voglio scendere! Non voglio toccare nulla, non voglio vedere nulla! Portami subito via da qui!» Sapevo benissimo di essere ridicola, ma non mi importava. Quel giorno di due anni prima avevo giurato a me stessa che non sarei più andata in quel posto, che non avrei più guardato l'acqua di un fiume o di un lago, che non avrei mai più sfiorato un remo o una barca.

«Mi spiace stjerne, lo faccio per il tuo bene.» Sussurrò dolcemente, ma con tono fermo, facendomi scendere dalla sua spalla. 

«Se tu ci tenessi al mio bene, allora mi porteresti via da q...» Non appena le mie scarpe sfiorarono le assi di legno del pontile semimobile, il cuore smise di battere. Non so se fosse possibile, ma tremai ancora più di quanto non avessi fatto fino a quel momento. Incapace di reggermi in piedi, mi aggrappai al mio amico, stringendo la sua maglietta tra le mani in modo insano e nascondendo il volto nel suo petto.

Non riuscivo a pensare nemmeno di voler andare via, in quel momento la mia mente era in totale blackout.

Dopo non so quanto, le dita di Arkin mi sfiorarono la nuca, iniziando a sciogliere il nodo che mi teneva la benda sugli occhi. Strinsi le palpebre prima che potesse liberarmi lo sguardo, in modo da non vedere nulla, tenendo il volto sempre il più nascosto possibile sul suo petto.

«Cam, apri gli occhi...»

Scossi il capo, in segno di negazione, gli occhi strizzati più che potevo e le sopracciglia che facevano male da quanto corrucciate.

«Stjerne, apri gli occhi e dammi le mani. Devo darti una cosa importante.»

Non avevo idea di che cosa stesse parlando, ma non mi importava nemmeno. In quel momento tutto il mio impegno era nell'evitare alla mia memoria di mostrarmi immagini del passato che mi avrebbero solo fatto soffrire, nonché andarmene da quel luogo il prima possibile, il più velocemente possibile; e non tornarci mai più, stavolta per davvero.

Arkin mi prese il volto tra le mani, alzandomelo appena. Si sciolse poi dalla mia presa e andò a posizionarsi dietro di me, parlandomi con tono dolce: «Stjerne, lo so che è difficile... Lo so che vorresti essere in qualunque altro posto che qui... Ma hai davvero bisogno di affrontare questa cosa e io non posso più permetterti di scappare.» Si allontanò un breve istante, per poi avvolgermi in un tenero abbraccio da dietro, poggiando la testa sulla mia spalla. Intrecciò le dita della sua mano destra con quelle tremanti della mia, sussurrandomi all'orecchio: «Sono al tuo fianco, non ti lascio sola. Però adesso, ti prego, apri gli occhi.»

Scossi ancora la testa, tentando di voltarmi dall'altra parte, ma lui me lo impedì. «Ti fidi di me?»

«No.» Risposi seccamente, quasi non riuscendo a credere che avesse avuto davvero la faccia tosta di chiedermelo. Come potevo fidarmi di lui dopo che mi aveva portata in quel posto? Ad affrontare i miei demoni? Era tanto sbagliato non volerli combattere? Ero vissuta tanto convivendo con loro e facendo finta che non esistessero, perché mai avrei dovuto cambiare? Tanto tutti hanno dei problemi, quindi che differenza facevano quelli degli altri dai miei? Loro con i problemi ci campavano, perché io non potevo?

Lo percepii trattenere un moto di stizza, fare un sospiro profondo per calmarsi e, alla fine, sussurrarmi nell'orecchio con tono tranquillo, mentre stringeva la presa sulla mia mano: «Vær så snill, min lille stjerne. For meg også. (Per favore, mia piccola stella. Anche per me.)»

Non so in quel momento cosa mi convinse davvero. Era vero che da quando ero stata a casa sua avevo iniziato a studiare il norvegese, ma in quel momento non capii assolutamente nulla di quello che mi disse. Nemmeno la parola “stella”. Non so perché riuscì a convincermi, forse era semplicemente il tono con cui aveva parlato, fatto sta che aprii gli occhi e, non appena lo vidi, non riuscii più a richiuderli.

Erano anni che non guardavo il mio fiume da quella prospettiva e quella vista mi fece tanto male che non riuscii più a respirare.

Dopo un tempo che potevano essere pochi secondi come interi anni, mi accorsi di ciò che teneva Arkin nella mano libera: una lanterna di carta bianca, di quelle usate durante le feste di capodanno. Il mio amico tirò fuori un accendino e fece prendere fuoco alla candela rossa, per poi posizionarla al suo interno e mettermela tra le mani.

«Devi immaginarti che la fiamma che brucia all’interno di questa lanterna sia la sua anima.» Sussurrò Arkin alle mie spalle, con un sorriso che vidi con la coda dell'occhio. «Quando ti sentirai pronta a separarti da lui, devi lasciarla volare via e dirgli addio.»

Strinsi un poco la presa sulla carta che avevo tra le mani, immaginandomi davvero che nello spazio all’interno di quelle pareti fragili e sottili ci fosse la sua anima. 

La candela era arrivata a metà, quando riuscii a lasciar andare la lanterna, osservandola mentre si alzava in cielo e spariva nella volta celeste.

Quando ormai non si vide più nulla, Arkin parlò: «Non avevo davvero idea di come riuscire a fare un saluto del genere... Alla fine mi è venuto in mente che le torce di carta possono essere simili, in qualche strano mondo parallelo, a delle anime che salgono nel cielo... Ho proposto l'idea ai ragazzi della palestra e mi hanno dato il permesso di “noleggiare” pontile e fiume, anche grazie all’aiuto di Aurora, restando ad allenarsi sul remoergometro. Per fortuna che nessun pesce ha rovinato l’atmosfera, visto i mostri che si nascondono in quest'acqua... Ma sul serio voi ci facevate il bagno, spontaneamente, d'est...» Fermò la propria parlantina quando mi girai e gli circondai il dorso con le braccia, sempre in silenzio.

Mentre nascondevo per l'ennesima volta in quella giornata il volto sul suo petto, lo percepii circondarmi la schiena e accarezzarmi i capelli con la mano libera, restando anche lui in silenzio.

Mi diede un bacio leggero sulla nuca, prima di iniziare a parlare con tono basso e serio, quasi preoccupato: «Mi hanno raccontato molto di lui... Ho capito che è stato una persona fenomale. Solo un uomo fenomenale può riuscire a farsi amare tanto da un intero gruppo di ragazze e ragazzi contro le cui schiene ha spaccato più bastoni. Per non parlare di quando ha preso quei due a sassate...»

“Però poi la gara l'hanno vinta...” Mi scappò un sorriso triste, ricordando anche la fine dell'ultima “arma”. «Lo faceva solo per il nostro bene... E in caso estremo... E solo ai ragazzi più grandi e che erano in grado di sopportarlo... A tutti noi è sempre andato più che bene così...»

«Lo so...» Un altro piccolo bacio sulla nuca, appena dopo il passaggio della carezza leggera. «E so anche quanto gli hai voluto bene te, quanto ti ha aiutato e quanto sei stata male. Ma, Cam, sono passati due anni... E tu ti sei privata di ciò che amavi più al mondo... So che ti allenavi minimo due volte al giorno, tutti i giorni. So che davi tutta te stessa sia in allenamento che nelle gare, che sorridevi sempre, che potevi stare ore a parlare di canottaggio e giorni ad ascoltare storie e aneddoti vari dei più grandi. So che saresti dovuta entrare a far parte delle Fiamme Oro, che miravi a gareggiare con Aurora alle prossime Olimpiadi. Come hai potuto permettere che ti portassero via tutto questo? Che ti portassero via la tua stessa gioia? Cos'è successo?»

Silenzio.

Non ebbi il coraggio di rispondere. In realtà, non sapevo proprio cosa rispondere. Quelle che mi stava porgendo Arkin in quel momento erano le stesse domande che mi porgevo io dalla bellezza di tre anni e mezzo. Il fatto era che il mio crollo psicologico era iniziato prima della morte del mio allenatore, pressapoco con la fine delle superiori ad essere onesta, e quest'ultima perdita era stata solo la fantomatica goccia che faceva traboccare il vaso.

Avrei davvero voluto rispondergli, perché avrei davvero voluto avere una risposta a quei quesiti, ma non ce l'avevo. Strinsi allora di più Arkin nel mio abbraccio, nascondendo ancor di più il volto.

Silenzio, per non seppi quanto. Sapevo solo che iniziò a salire l'aria fredda della sera.

«Ho un'altra cosa da chiederti, prima di riportarti a casa.» Disse Arkin, di punto in bianco. Poggiò le labbra per qualche lungo secondo sulla mia nuca un'ultima volta, prima di distanziarsi da me e alzarmi il volto in modo da guardarmi negli occhi. I suoi zaffiri erano profondi, penetranti e, così come la sua voce, terribilmente seri: «Devi dire “Sergio è morto”.»

Carogna.

Era l'unico modo con cui lo potevo descrivere in quel momento. Una carogna della peggior specie. Lui sapeva benissimo che non avevo mai accettato la sua morte, sapeva benissimo che mi ero sempre rifiutata di accettarla e che per questo mi ero categoricamente espulsa definitivamente dal mondo che poteva ricordarmi che non era più in vita.

Non avevo mai detto quella frase, mai una volta. Mi ero persino impedita di pensarla, per timore che potesse in qualche modo diventare realtà. Volevo vivere in un mondo dove quella frase non aveva nessun senso, così come non lo aveva per me dalla prima volta che l'avevo udita. Volevo che continuasse a vivere, che quel dannato animaletto marino color del fuoco non fosse mai riuscito a frantumare con le sue chele quell'impenetrabile scoglio. Il mio era davvero un sentimento così sbagliato?

Scossi la testa, sostenendo a fatica lo sguardo di Arkin, più perché incapace di distogliere gli occhi che non volerlo fare.

«Dillo. Sergio è morto. È la verità e la devi accettare.»

“No, inutile. Puoi ripeterlo all'infinito, tu e chiunque altro. Non ci crederò mai.”

«Sergio è morto.»

“Non è vero. Non può essere morto. È un'assurdità. Non sta né in cielo né in terra.”

«Sergio è morto.»

“È solo una bugia, una bugia cattiva. Non è vero. Si è solo addormentato... Tutti sanno com'è fatto, si addormenta mentre ancora sta parlando. È solo stanco, ma tra poco si sveglia. E allora tu e tutti quelli che hanno insinuato una tale menzogna, dovrete ricredervi.”

«Sergio è morto.»

“No... Non è vero... Devo continuare a credere con tutta me stessa che non sia vero... In questo modo... Forse... Forse se ci credo con tutta me stessa, riesco ancora a cambiare la realtà... Forse...”

«Sergio è morto.»

“Forse proprio nulla... Lui... Lui davvero non c'è più... E io sono un mostro... Solo un mostro...”

«Sergio è morto.»

“Non ho versato nemmeno una lacrima per lui, sono un mostro senza cuore...”

«Ser...gio... è... mor...to...» Dissi alla fine, con voce tremante talmente alienata dal dolore che sembrava non appartenermi nemmeno.

Da quando avevo iniziato a piangere? Non ne avevo idea, nemmeno mi importava. Non riuscii ancora a pensare lucidamente che mi trovai a piangere disperata come una bimba sul petto di Arkin, ridotta in ginocchio sul pontile di legno davanti alla scarpiera vuota e al catamarano. Piansi per non so quanto, piansi lacrime che non sapevo nemmeno di possedere tanto erano dolorose. Esplosi, semplicemente. 

Quando riuscii a calmarmi, ormai la Luna era alta nel cielo notturno, circondata dalle sue damigelle brillanti. Arkin era rimasto tutto il tempo ad abbracciarmi, accarezzarmi i capelli e sussurrarmi all'orecchio che andava tutto bene, che potevo finalmente essere libera da quel peso che mi ero portata dentro per anni, che lì non c'era nessuno e che non dovevo nascondere le mie lacrime né la mia sofferenza, perché eravamo solo noi due.

Rientrammo in macchina, restando in silenzio e il mio amico imboccò la strada che portava a casa di mia madre, mentre io non riuscivo a distogliere gli occhi dal cielo notturno.

Quando eravamo ormai a metà strada, la mia voce tremante ruppe il silenzio rispettoso che vi era tra noi: «Sorrideva…»

Percepii lo sguardo confuso di Arkin su di me, feci un profondo respiro e, non distogliendo gli occhi dal cielo stellato che vedevo oltre al finestrino della macchina, spiegai con voce tremante: «L’ultima volta che l’ho visto… È stato alla braciata societaria di due anni fa, pochi giorni prima che morisse… E Sergio stava sorridendo. Rideva e scherzava… Ero felice… Anche se si stava prendendo gioco di me…» Un sorriso, che era da anni che non riuscivo a fare pensando al mio allenatore, si dipinse senza fatica né rimorso sulle mie labbra. «Sono contenta che questo sia l’ultimo ricordo che ho di lui in vita.»

 

 
 


 


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