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Autore: SkyDream    05/02/2021    4 recensioni
[Ship!KageHina][Tematiche Delicate]
Tobio non vede Shoyo da quasi una settimana. Segue le lezioni ma non partecipa mai agli allenamenti, accampando scuse poco realistiche che non fanno altro che far storcere il naso al setter.
Tobio è preoccupato, ma non immagina nemmeno il fardello che Shoyo sta tenendo sulle spalle.
E lo fa per un motivo solo, che è solamente in parte legato alla pallavolo.
-
Dal testo: "Aveva perso tutto, per cui non si sarebbe stupito se non avesse trovato più motivi per sorridere.
L’unica cosa che poteva fare, in quel momento, era evitare che qualcun altro vi fosse coinvolto. Che si riducesse, come lui, ad un groviglio di sogni spezzati e terra bagnata."
Genere: Drammatico, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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~ Ciò che ho di più importante ~
[KageHina]


Miyagi.
Nel Settembre di una fine estate parecchio calda.
Le strade erano quasi vuote in quelle ore del primo pomeriggio dove gli uffici e le scuole avevano terminato la pausa pranzo.
L’aria frizzante avvolgeva gli edifici e si insinuava tra le foglie degli alberi ancora verdi e abbondanti. Le classi dei licei erano già colme di studenti che si dedicavano ai loro club con lo sguardo rivolto verso il cielo azzurro che, da dietro le finestre, sembrava ancora chiamarli.
Al Karasuno poi, dove la luce del sole creava lunghe ombre sul cortile interno, si potevano sentire le note della band scolastica che aveva ripreso a fare le prove, regalando un po’ di sollievo a tutti gli studenti dediti sui libri e sulle ricerche.
Un club in particolare faceva eccezione e, anziché perdersi ancora nella magia di fine estate, si era immerso in un allenamento intenso e - troppo - colmo di aspettative.
Infatti, all’improvviso, una voce squillante rimbombò tra le pareti di legno.
«Kageyama, non è da te essere così distratto! Mancano poche settimane alla partita, dobbiamo assolutamente allenarci bene! Coraggio!» Ennoshita, in veste di capitano, era decisamente cambiato.
Né i suoi kohai, né i suoi vecchi senpai sembravano riconoscerlo, aveva tirato fuori un’energia e un carisma non indifferenti che solo Daichi era riuscito ad intravedere per primo, cedendogli il posto.
Riusciva a sostenere i suoi compagni, ma anche a motivarli a dare sempre il massimo senza risultare pedante. Era entusiasta del suo nuovo ruolo e, doveva ammetterlo, in periodi di pace riusciva a gestire tutto bene.
Non poteva negare, comunque, che a volte - spesso - si rifugiava in una rapida telefonata al suo vecchio capitano per avere delle direttive e dei consigli su come gestire le situazioni più disparate: Tanaka litigava con i primini, Tsukishima battibeccava con Hinata e ora Tobio sembrava con la testa tra le nuvole.
Oltretutto, si accorse il nuovo numero uno, il setter non rispondeva a nessuna provocazione.
Da qualche giorno Tobio sembrava vivere dentro un sogno o, a giudicare dal suo sguardo perso, dentro un incubo. Effettuava i suoi servizi meccanicamente, senza il coinvolgimento emotivo e la passione che lo caratterizzavano da sempre, non si fermava mai per gli allenamenti extra e sembrava fissare perennemente la porta d’ingresso come se temesse, o aspettasse, l’arrivo di qualcuno.
Date le innumerevoli preoccupazioni che Ennoshita non mancava mai di elencare al vecchio vice-capitano - che sicuramente conosceva i suoi kohai meglio di qualunque altro -, Sugawara aveva deciso di andare personalmente a dare un’occhiata.
Le vacanze erano finite da poco, aveva già ripreso il ritmo all’ università e avrebbe potuto concedersi un pomeriggio per rivedere i suoi vecchi amici, dopotutto.
Suga, in jeans e camicia, dopo le sue lezioni si presentò al liceo Karasuno con un sorriso nostalgico sul volto. Quanto differiva la sua vecchia vita da quella nuova in veste di universitario!
Quei muri lo avevano visto piangere e ridere, perfino innamorarsi. Doveva essere grato a quel posto e a tutti quei rumorosi ricordi che avrebbe custodito per sempre.
«A proposito, perché c’è tutta questa calma?» pensò poi inarcando un sopracciglio.
Gli allenamenti che aveva seguito fino a qualche mese prima potevano essere considerati tutt’altro che pacati e silenziosi. Sembrava piuttosto che un ciclone volesse spazzare via la palestra.
«Comincio a capire le tue preoccupazioni, Enno-kun!» esclamò sottovoce il vecchio senpai mettendo piede su quel parquet così familiare. Vide i suoi kohai allenarsi in assoluta tranquillità, senza quelle urla e quelle risa che avevano colorato le sue giornate da liceale.
Tobio fu il primo a voltarsi nella sua direzione e a distrarsi - per l’ennesima volta - fino a beccarsi una pallonata sulla spalla. Sentì qualcuno chiedergli scusa, ma non vi diede molto peso.
Sugawara era lì e forse lo era perché sapeva qualcosa. Doveva assolutamente parlare con lui, in quel momento non vi era nulla di più importante.
 
Gli allenamenti finirono con un leggero anticipo in modo da permettere alle nuove matricole di studiare per gli esami di inizio corso che si sarebbero tenuti il giorno successivo.
Tobio, anziché dirigersi verso gli spogliatoi, approfittò di quel momento per avvicinarsi all’ ex-setter e chiedergli di scambiare quattro chiacchiere.
Non era da lui fare giri di parole, sarebbe stata una cosa breve, ma avrebbe preferito un luogo più discreto, dove nessuno avrebbe potuto sentirli. Così, con lo stupore del più grande, si avviarono verso il retro della scuola.
Suga fu il primo a parlare, si sentì quasi in dovere visto che i lineamenti del volto di Tobio si erano induriti conferendogli un’aria davvero tetra.
«C’è qualcosa che non va? Ennoshita mi è sembrato piuttosto preoccupato per le tue condizioni. Dì la verità, ti manca il tuo Sugawara senpai, ammettilo!».
Quella frase, dai tratti ormai nostalgici, riuscì a far sollevare - seppur per poco - le labbra del più piccolo.
«Hai notato che manca Hinata, non è vero?» Più che una domanda, quella di Tobio sembrava una richiesta. Shoyo non si presentava ormai da giorni, ma il resto della squadra non sembrava risentirne quanto lui, né si era mostrata particolarmente in ansia per quella sua improvvisa sparizione.
«Certo, quei muri non sentivano così tanto silenzio da più di un anno! - rise l’altro sperando di risollevargli il morale - Ennoshita mi ha detto che è a casa con l’influenza».
Il volto deluso di Tobio non sfuggì allo sguardo attento di Suga.
Il suo kohai si sedette su un gradino del cortile e sospirò pesantemente buttando via tutta l’aria che aveva nei polmoni.
«Non è a casa con l’influenza?» chiese quindi Suga, un po’ più sospettoso.
«Quattro giorni fa sono entrato nella sua classe per la pausa pranzo, ma non c’era. Ho chiesto ad un suo compagno e mi ha detto che aveva seguito le lezioni, ma che poi era andato via.» la voce tremolante di Tobio lasciava intendere che vi fosse dell’altro, così il suo amico lo invitò a proseguire con un cenno del capo.
«Il giorno dopo si è ripetuta la stessa scena, fino a stamattina. Hinata non mi risponde ai messaggi se non raramente e a monosillabi. Tu lo conosci, Suga, lui non salterebbe mai le sessioni di allenamento per un’influenza! Non per quattro giorni e senza farsi vedere solo da noi ma continuando a venire a lezione».
Tobio aveva il tono così colmo d’ansia, che l’altro non si sarebbe stupito se all’improvviso lo avesse visto correre verso le montagne di Miyagi, in direzione della casa del piccolo schiacciatore.
Dovette però constatare che il suo ragionamento non faceva una piega e che la situazione era comunque piuttosto sospettosa.
La vibrazione di un cellulare mise fine alla loro conversazione. Tobio cominciò a frugare dentro il suo zaino alla ricerca del telefono che sembrava trillare sempre con maggior intensità.
«Devo andare, i miei genitori mi stanno aspettando all’ingresso».
«Non preoccuparti, vai pure, anche io devo tornare a casa».
Suga gli regalò un piccolo sorriso, gli occhi del suo kohai, colmi ancora di apprensione, si sollevarono sui suoi fino ad inchiodarlo al muro.
«P-per favore, Suga, nel caso in cui tu scoprissi qualcosa, potresti dirmelo?».
L’ex setter lo guardò con un misto di preoccupazione e tenerezza. Non era da lui chiedere qualcosa così esplicitamente, men che meno un favore a qualcuno.
Scosse la testa e annuì.
Si chiese se Tobio avesse compreso qualcosa sui propri sentimenti. Sapeva bene quanto fosse legato a Shoyo e - in cuor suo - sospettava fin dall’inizio che vi fosse ben altro oltre la semplice complicità sul campo.
La sua preoccupazione ne era l’ennesima prova: Kageyama non aveva mai avuto quella faccia scura, nemmeno quando aveva perso ai nazionali.
 
Sugawara, anziché ritornare immediatamente a casa, si poggiò contro il muro sul retro della Karasuno e rimase lì ad ascoltare il piacevole fruscio del vento che, lieve, gli scompigliava i capelli fin sopra il naso.
Adorava quel punto della scuola, immerso nel silenzio e che dava dritto sul parco che si stagliava lungo il perimetro esterno.
Sarebbe volentieri rimasto lì, se dei rumori non avessero cominciato a insospettirlo.
All’inizio sembravano i lamenti di un gatto, anzi, erano piuttosto i gemiti di dolore di un gatto.
Suga decise di uscire dal cortile e fare il giro largo per entrare dall’ingresso del parco e dare un’occhiata. Tre ragazzi cominciarono a correre verso di lui alzando il cappuccio delle loro felpe, lo superarono senza degnarlo di uno sguardo e poi sparirono oltre la curva del marciapiede esterno.
«Ma che -?» Suga non ebbe il tempo di finire il pensiero che quel gemito di dolore cominciò a farsi più pronunciato, tese le orecchie e cercò di capire da dove provenisse.
«C’è nessuno?» chiese a voce alta, continuò a camminare finchè il suo piede non inciampò contro qualcosa di voluminoso.
Suga abbassò lo sguardo e per poco non urlò.
Aveva urtato contro una gamba umana. Ci mise qualche secondo abbondante per capire che la suddetta gamba non fosse amputata, ma fosse fisiologicamente attaccata ad un corpo ancora vivo e lamentoso.
«Lasciami stare qui.» pigolò il proprietario dell’arto accucciandosi in posizione fetale. Suga solo in quel momento riuscì a riconoscere la zazzera di capelli rossi del ragazzo sotto di se.
«Hinata? Sei tu?» esclamò accovacciandosi al suo fianco e, con non poca difficoltà, lo districò da quel cespuglio in cui si era incastrato.
«Sugawara? Che ci fai qui?» chiese flebile l’altro guardandolo dalle palpebre socchiuse. Sembrava avesse difficoltà a metterlo a fuoco.
«Potrei chiederti la stessa cosa. Guarda come sei combinato!».
Shoyo aveva la divisa scolastica stropicciata e sporca di terra, inoltre a livello della mandibola e dell’occhio sinistro sembravano ergersi dei lividi che - via via - si stavano estendendo sempre di più.
Il piccolo corvo riuscì a mettersi seduto, senza nascondere una smorfia di dolore, e si aggrappò alla spalla del suo vecchio senpai nella disperata ricerca di un respiro profondo che lo rigenerasse.
«Si può sapere cosa sta succedendo? Chi ti ha combinato così?» Suga non riuscì a nascondere la preoccupazione che continuava a trapelare dalla sua voce e dal suo sguardo, al tempo stesso carico d’affetto.
Shoyo riuscì a rimettersi in piedi e a spolverarsi gli abiti prima di raggiungere il suo borsone - anch’esso rovinato - e procedere verso la bici che lo avrebbe portato a casa.
«Non succede nulla, sono solo caduto.» Gli occhi lucidi del più piccolo sembravano però urlare una richiesta d’aiuto, motivo per cui Suga si frappose tra lui e la bici, impedendogli di raggiungere il mezzo.
«Non pensare di farla franca in questo modo, Shoyo. Ci è già bastato a tutti non essere riusciti una volta ad aiutarti in tempo!» Il tono di voce era dolce, come lo era sempre stato quello di Suga, e gli ci volle un bel po’ di coraggio per afferrare con decisione le spalle del suo kohai e costringerlo a sedersi sulla panchina al loro fianco.
Tutt’attorno aleggiava ancora il silenzio, seppur fosse un silenzio ora carico d’attese e di ansie.
«Promettimi che non lo dirai ad anima viva!» esclamò allora il più piccolo sollevando lo sguardo sull’altro. Suga annuì e lasciò che prendesse un paio di respiri profondi prima di riprendere a parlare.
Era titubante, le mani gli tremavano ma non dal dolore. Dalla paura.
«Qualche giorno fa dei ragazzi mi hanno fatto del male e mi hanno detto che avrebbero smesso solo se avessi lasciato la squadra di pallavolo. A me non importava, io volevo solo continuare a giocare, ma poi -» Gli occhi di Hinata si sgranarono e non riuscì ad evitare di stringersi tra le sue stesse braccia.
Corrugò il volto in una smorfia di preoccupazione che sembrava farlo soffrire molto più di quei ragazzi che lo avevano malmenato.
«Ma poi?» lo invitò il suo amico.
«Mi hanno detto che avrebbero preso anche Kageyama, allora ho deciso di lasciar perdere perché non voglio che gli facciano del male. Suga, io non voglio che gli facciano del male!» I singhiozzi cominciarono a risalire dal petto, Shoyo non riusciva a credere a quello che aveva appena fatto.
Aveva confessato tutto di fronte gli occhi severi del suo senpai e, appena aveva pronunciato quelle parole a voce alta, tutto era sembrato così tremendamente reale da mandarlo nel panico.
Shoyo stava tremando, non riusciva a far star ferme le mani, così le incastrò tra le ginocchia, ancora sporche di terra.
Suga, sconvolto da quella dichiarazione, gli strinse le spalle tentando di calmarlo. Doveva assolutamente fare qualcosa.
«Okay, ascoltami, Shoyo - sussurrò appena costringendolo ad alzare gli occhi e guardarlo -, dobbiamo assolutamente parlarne con il preside se si tratta di qualcuno della nostra scuola. E dobbiamo anche parlarne con i tuoi genitori per vedere se è il caso di sporgere den-».
«No! No, avevi giurato che non lo avresti detto a nessuno!» Shoyo tremava ancora, ma nonostante tutto riuscì ad alzarsi e afferrare la bici, rimasta poco lontano dalla panchina.
«Hinata! Aspettami, non puoi continuare così!».
«Non voglio che Tobio venga immischiato in questa storia!».
Sugawara non ebbe il tempo di afferrarlo dalla felpa, lo vide inforcare la bicicletta e cominciare a pedalare verso casa.
Rimase lì, ancora con le labbra schiuse dalla sorpresa.
Quale cavolo di fardello stava nascondendo quel ragazzo?
 
«Non ha risposto nemmeno ai tuoi messaggi?».
«No, mi dispiace. Però, Kageyama, ti consiglio di insistere un altro po’. Non sarebbe male se tu andassi a trovarlo a casa, magari vuole dirti qualcosa ma non ne ha il coraggio. Non credi?».
Tobio sgranò gli occhi verso il poster della Karasuno che aveva appeso in camera, i suoi occhi avevano seguito il profilo snello e alto di Suga - intento a sorridere mentre con un braccio si teneva alle spalle di Daichi.
Se lo immaginava proprio quel sorriso gentile che doveva avere dall’altra parte del telefono.
«Grazie per il consiglio, Sugawara. Domani, dopo gli allenamenti, salirò da lui. Avevo comunque pensato di farlo, visto che continua a saltare solo gli allenamenti».
Tobio sentì una lieve risata dall’altro lato del telefono ma, giurò, era una risata triste.
«E’ bello vedere che ti preoccupi per lui, Tobio. Hinata ha bisogno di qualcuno che gli stia accanto».
Sugawara strinse il bordo della sua maglietta. Tecnicamente non aveva rivelato nulla, ma aveva dato al suo kohai tutti gli indizi per sospettare di avere ragione e che, ovviamente, quella dell’influenza fosse solo una gran bugia.
Tobio, intanto, appena chiusa la telefonata, non riuscì ad evitare di guardare nuovamente tutte le foto che aveva appeso in camera nel corso dell’ultimo anno.
Non aveva mai avuto amici veri e, da quando era entrato nella Karasuno, non aveva mai fatto una sola fotografia di sua spontanea volontà ma si era fatto passare tutte quelle scattate dai suoi compagni. Ed erano lì, tutte appese al muro accanto al suo letto, in un coloratissimo e brillante promemoria di quanto non fosse più solo.
Tobio si sentiva finalmente importante e apprezzato, sostenuto e non solo invidiato come lo era sempre stato nelle vecchie squadre.
I suoi occhi, poi, si erano fermati sulle ciocche morbide e rosse di Shoyo, su quelle guance piene e su quelle labbra sempre piegate in un sorriso così caldo da essere contagioso.
Shoyo amava la pallavolo più di qualunque altra cosa, avrebbe fatto di tutto per seguire il suo sogno. Cosa poteva mai averlo fermato?
Che vi fosse addirittura qualcosa che amasse più della pallavolo stessa?
 

Tobio si rigirò il brick di latte tra le mani. In quella pausa pranzo non aveva alcuna voglia di mangiare né di bere.
Era poggiato al muro di fronte la classe del piccolo schiacciatore, di cui ovviamente non vi era nemmeno l’ombra.
Aveva provato a mandargli l’ennesimo messaggio che, però, non aveva ricevuto alcuna risposta.
Aveva perfino tentato di placcarlo all’ingresso poco prima della fine delle lezioni, quando nei corridoi si riversava un’orda studenti, ma un suo compagno di classe gli aveva riferito che Shoyo non era mai entrato quella mattina.
Non solo, gli aveva confessato che da qualche giorno era sempre silenzioso e non toglieva mai né la giacca né la sciarpa, la lasciava ancorata al collo anche durante la lezione con la scusa dell’influenza.
“Chissà come fa visto le temperature alte di questi giorni!” aveva esclamato quello facendo spallucce e andandosene.
Fu in quel momento che qualcosa scattò nella testa del setter.
E si accorse, in un momento, poggiato al muro, che solo una cosa - o meglio, una persona - poteva essere in grado di fargli saltare un allenamento.
Ed era la stessa persona che era in grado di farlo allenare il doppio del normale.
Kageyama decise di non presentarsi in palestra e di prendere il primo bus per la zona di Miyagi nord, in periferia.
 
Era ormai pomeriggio, nonostante ciò, la luce del sole riscaldava ancora le strade, anche se dietro una coltre spessa di nuvole.
Kageyama aveva fallito miseramente nella sua missione “placcare Hinata a casa sua” e si era ritrovato sull’unico autobus che dalle montagne di Miyagi lo avrebbe riportato nella zona centrale.
Promise a se stesso di conciarlo per le feste non appena lo avesse visto. Come osava scomparire in quel modo e non dire niente né a lui né a sua madre? Tra l’altro gli aveva appena fatto fare una figuraccia, ritrovandosi davanti la signora Hinata che - ignara di tutto - credeva che suo figlio fosse a scuola.
Non solo, a Tobio era venuto istintivo coprirlo e inventare una scusa per tranquillizzarla, dicendole che doveva aver confuso lui i giorni degli allenamenti.
Ma Shoyo non era a scuola, men che meno in palestra.
“Spero per la tua pelle che tu abbia un buon motivo, Shoyo Hinata”.
Provò a chiamarlo per l’ennesima volta ma, dopo aver sentito nuovamente la segreteria telefonica, attivò il blocca tasti e abbandonò la testa contro il finestrino.
Basta. Non era assolutamente da lui essere assillante, e non sarebbe di certo stata quella la prima occasione.
Con i pensieri ancora confusi, Tobio si addormentò con una tempia appoggiata al finestrino.
 

«Non ho fatto nulla di male!» la voce di Shoyo si sparse tra gli alberi e i cespugli che lo circondavano. Strinse tra le mani la tracolla del suo borsone e si sforzò di mantenere lo sguardo alto.
Aveva ancora un briciolo di dignità da qualche parte.
«Ti avevamo detto di non avvicinarti più alla palestra, eppure sono giorni che ti ostini a gironzolare qui intorno.» spiegò un ragazzo decisamente più alto e massiccio di lui.
«I patti erano chiari. Se non vuoi che ci vada di mezzo il tuo amichetto, tu devi starne fuori. Se gironzoli vicino la palestra o ti vediamo allenarti, avrai il tuo ben servito.» specificò l’altro ragazzo avvicinandosi e sollevandolo per il colletto. Rideva divertito.
Shoyo strinse i denti e si sforzò di non mostrarsi debole, per quanto volesse semplicemente accucciarsi in un angolo e proteggersi da tutto quel dolore che da lì a poco avrebbe sentito sulla propria faccia.
Di nuovo.
«Mi sembrava di avertelo detto, Shoyo-chan*. Non c’è molto spazio nei posti della nazionale, e sicuramente non c’è spazio per te».
Già, per Shoyo non c’era più alcuno spazio. Aveva visto tutti i suoi peggiori incubi realizzarsi nell’arco di poco più di una settimana.
Si era ritrovato a far il conto con il suo piccolo corpo - per quanto fosse cresciuto negli ultimi mesi e avesse cominciato a mangiare e riposarsi correttamente - e ora ne piangeva le conseguenze.
Non era certo uno dallo spirito debole, inizialmente si era opposto, aveva tenuto la testa alta e si era presentato agli allenamenti ignorando bellamente qualunque tipo di minaccia.
Ma quando aveva cominciato a sentire in bocca il sapore del suo stesso sangue, quando aveva scoperto quanto facesse male sentirsi abbandonati a terra e circondati da estranei che vogliono solo prendersi gioco di te, non ci era più riuscito a ignorarli.
Aveva giurato a sé stesso di continuare, nonostante tutto, di perseguire i suoi sogni.
Perché lui amava la pallavolo più di qualunque altra cosa.
Ne era sempre stato sicuro.
Questo prima che quel trio dalle mani pesanti coinvolgesse Kageyama.
Quando aveva sentito il nome del suo amico sulle loro labbra, non ci aveva visto più e aveva reagito veramente male, ancorandosi al bavero di uno di loro fino a strapparglielo. No, Tobio non dovevano assolutamente toccarlo.
Non potevano togliergli la nazionale, la pallavolo e la libertà, proprio come stavano già facendo con lui e - soprattutto - non dovevano sfiorarlo nemmeno.
Il solo pensiero di vederli toccare il suo viso, gli faceva salire l’acido in bocca fino a fargli venire una nausea talmente potente da non poter essere paragonata al più forte dei pugni nello stomaco.
C’era qualcosa che doveva proteggere più della pallavolo.
«Pensate che potrebbe bastare? O ci tocca spiegare nuovamente l’argomento a questo scolaretto disubbidiente?» chiese retorico uno dei tre facendo sogghignare i suoi amici.
«Mi sembra parecchio perplesso, non trovi?» Il più grande, che teneva ancora sollevato Shoyo, lo fece ricadere malamente per terra, precisamente sul borsone.
Lì dove, nella tasca di fuori, vi era il telefono con le ultime chiamate ancora aperte.
Shoyo non si seppe mai spiegare, esattamente, come partì quella telefonata.
 
Tobio aveva aperto i libri di letteratura nel tentativo di concentrarsi sullo studio e dimenticare il motivo per cui quel pomeriggio aveva saltato gli allenamenti.
Si stupì di sé stesso quando riuscì addirittura ad arrivare al terzo rigo prima di afferrarsi la testa con le mani e maledire, per l’ennesima volta, quell’idiota del suo amico.
Non riusciva a stare tranquillo, non riusciva a pensare ad altro e le parole di Suga continuavano a rimbombare nella sua testa.
Fu proprio in quel momento che il telefono squillò. A dirla tutta, Tobio non avrebbe voluto rispondere - non subito almeno - e lasciarlo cuocere nel suo brodo esattamente come Shoyo stava facendo con lui.
L’unico motivo per cui fece scorrere il dito sullo schermo, accettando la chiamata, fu per placare quella tremenda sensazione che gli stava attanagliando le spalle.
«Finalmente ti sei deciso?!» urlò alzando un sopracciglio e portando il cellulare all’orecchio. Non vi fu risposta.
Tobio ebbe la sensazione di sentire un fruscio di foglie, il rumore di qualcosa che veniva buttato a terra e dei gemiti.
Vi fu perfino un colpo di tosse e delle voci lontane che continuavano a ridere. Nessuna di loro apparteneva al suo amico.
«Se non lo ripeti un’altra volta, ti farò assaggiare nuovamente la mia scarpa. Cosa non devi fare, Shoyo-chan?» chiese una delle voci con spregio.
Vi fu un altro colpo di tosse, poi una voce sussurrò appena «Niente allenamenti».
Tobio non ci mise più di un secondo per riconoscere quella voce.
Non si curò di nulla e, nell’ennesimo colpo di testa della giornata, scattò verso l’esterno.
«E non devi gironzolare attorno alla palestra, né rifugiarti in questo lurido parco. Ce la fai a ripeterlo? O ti abbiamo staccato tutti i denti per sbaglio?».
Tobio sentì un brivido lungo la schiena, avrebbe volentieri urlato ma era quasi sicuro che nessuno si fosse accorto di quella chiamata. Cominciò a correre in direzione della scuola, fortunatamente poco lontana da casa sua.

 
Shoyo si sentiva sporco, ed era quasi certo non dipendesse dalla terra che gli aveva annerito il volto, né dal sangue che fuoriusciva dalle sue labbra colorandogli le dita di un vermiglio scuro.
Non solo, si sentiva totalmente vuoto.
La pallavolo aveva sempre riempito le sue giornate, fin da piccolo, e ormai da un anno aveva qualcuno con cui condividere quella passione che lo infiammava, che lo teneva in vita come nessun’altra cosa poteva fare.
E aveva perso tutto. Aveva perso perfino lo sguardo fiero e complice del suo migliore amico, che incrociava continuamente il proprio sguardo con il suo durante le partite.
Gli mancava percorrere la strada insieme, fargli i dispetti negli spogliatoi e chiamarlo sul campo per far sì che potesse schiacciare.
Quanto gli mancava vedere il sole tramontare mentre loro continuavano, imperterriti, ad allenarsi anche fuori dall’orario scolastico.
Aveva perso tutto, per cui non si sarebbe stupito se non avesse trovato più motivi per sorridere.
L’unica cosa che poteva fare, in quel momento, era evitare che qualcun altro vi fosse coinvolto. Che si riducesse, come lui, ad un groviglio di sogni spezzati e terra bagnata.
Una mano gli afferrò il polso, trascinandolo al centro del gruppo, ma poi lo lasciò andare. Shoyo sollevò lo sguardo e, solo in quel momento, capì perché non aveva sentito alcun colpo arrivare.
«Cosa state facendo?!» Tobio, dal volto pallido e ancora con il fiatone per la corsa estenuante, si era appena parato di fronte a loro. Shoyo trattenne il fiato.
“No. No. No. Lui no.” pensò posando gli occhi sui tre ragazzi che avevano già spostato la loro attenzione sul nuovo arrivato.
«Tobio Kageyama, che bella sorpresa vederti! Ci hai addirittura facil-». Il ragazzo fu bloccato da una mano, salda e decisa come non mai, che si ancorava al suo polso.
«Avevate giurato!» esclamò Shoyo con tutta la forza che ancora aveva.
«Non possiamo di certo farlo andare adesso!» spiegò con una risata uno dei tre ragazzi mentre si avvicinava al setter.
«Avevate giurato! Avevate giurato!» le urla si fecero talmente potenti da mettere in allarme perfino il capo della banda. Se avesse continuato, sicuramente qualcuno avrebbe potuto chiamare la polizia.
Diede un’ultima spinta al piccolo schiacciatore, facendolo nuovamente rotolare a terra e, approfittando dello stupore di Tobio - proteso in avanti per afferrare il suo amico -, cominciò a correre verso l’esterno, seguito immediatamente dagli altri due.
«Dove credete di andare?» Tobio si voltò verso di loro per tentare di raggiungerli - e conciarli per le feste - ma una mano si ancorò alla stoffa dei suoi pantaloni, costringendolo a stare sul posto.
Shoyo era rannicchiato su sé stesso, il volto ancora abbassato per la vergogna per lo stato in cui si trovava. Non voleva mostrarsi debole davanti il suo miglior rivale - nonché amico -, ma non voleva neanche rimanere nuovamente solo.
In quella settimana così complessa e pesante, Tobio gli era mancato terribilmente.
«Resta con me.» sussurrò appena smuovendo l’animo del setter.
Al diavolo l’orgoglio. Quanto poteva rimanergliene dopo essersi fatto pestare in quel modo?
Shoyo sollevò lo sguardo - disperato - su quello di Tobio che si accorse del labbro sanguinante e del livido nero che spiccava su un occhio. Quello che lo ferì di più, però, fu lo sguardo afflitto e sconfitto del suo amico, che sembrava supplicarlo di stringerlo in un abbraccio che non tardò ad arrivare.
Tobio scivolò al suo fianco e non riuscì ad evitare di sfiorare quel livido e quel labbro gonfio e violaceo.
«Si può sapere che cosa ti è successo? Chi erano quei tizi?» gli chiese poi, con tono falsamente calmo.
E, c’è da dire, Tobio si sforzò tantissimo per non urlargli addosso “Perché diamine mi hai nascosto tutto questo?!”. Shoyo sembrava già abbastanza ferito.
«Uno di loro è un pallavolista che punta a vincere i nazionali per poter essere chiamato alla V-League. A quanto pare ha supposto chi potrebbe soffiargli il posto e ha deciso di prevenire il problema».
«Pestandoti?!» rispose con tono ora più alterato.
«Impedendomi di allenarmi. Io ho provato a resistere, credimi, ma poi la posta in gioco si è fatta troppo alta.» Shoyo sentì un fazzoletto tamponargli le labbra, solo in quel momento si accorse di quanto bruciava la ferita e si lasciò scappare un piccolo lamento.
Tobio continuava a fissarlo in silenzio tra il preoccupato e il fortemente incazzato. Con lui per non avergli detto nulla, con quei tre per averlo ridotto in quello stato e con sé stesso per non aver capito assolutamente nulla.
Shoyo sentiva le mani dell’altro ragazzo su di sé e, giurò, non sentiva dei tocchi così leggeri ormai da settimane.
Si vergognò da morire quando, dopo aver sentito le dita di Tobio carezzargli il livido con delicatezza e premura, un singhiozzo gli salì dal petto.
Spostò lo sguardo, non avrebbe di certo pianto come un bambino davanti il suo rivale. No. Non lo avrebbe fatto.
«Non stai bene.» constatò l’altro, fregandosene altamente degli occhi lucidi di Shoyo e delle lacrime prepotenti che non avrebbero tardato a fuoriuscire.
«Ho avuto paura.» ammise lo schiacciatore con voce tremolante.
Paura. Che parola spaventosa. Quante altre volte poteva dire di essersi sentito così terrorizzato?
Tobio allungò un braccio fin dietro la sua schiena e lo attirò verso di sé offrendo l’incavo del suo collo come rifugio. Fu proprio lì, quando Shoyo sentì il calore della pelle dell’altro sul proprio volto, che non riuscì più a trattenersi.
C’era qualcosa che amava più della pallavolo stessa, e l’avrebbe protetta con le unghie e con i denti. Ma non poteva ammetterlo.
Tobio si sarebbe arrabbiato tantissimo e si sarebbe esposto decisamente troppo, finendo col farsi del male.
Shoyo singhiozzava così rumorosamente che non avrebbe comunque sentito le parole pronunciate dal suo amico, che tra l’altro non erano mai state soffiate via.
Tobio avrebbe voluto davvero rincuorarlo e fargli capire che non era solo, promettergli che avrebbero risolto tutto e che sarebbe tornato immediatamente sul campo.
Ma non ci riuscì. Così, come unico segno d’affetto, aveva preferito tenerselo lì sul petto mentre gli bagnava la maglietta di lacrime, con i capelli appiccicosi di terra che gli sfioravano la guancia.
E l’unica cosa che riuscì a pensare fu “Finalmente”.
Finalmente, dopo tanti giorni, lo vedeva e lo sentiva tra le sue braccia. Finalmente la sua preoccupazione trovava un senso.

 
- Casa Kageyama. Dieci giorni dopo. -
«È stato complicato?».
«Meno delle mie aspettative». Tobio riuscì perfino a sollevare le labbra in un tiepido sorriso mentre constatava, al telefono con Sugawara, dei progressi fatti in quella settimana.
«Scommetto che il vicepreside ha cominciato a strillare nel corridoio».
«Ma anche il vicepreside della Takai non scherza. Quando gli abbiamo detto che alcuni dei suoi alunni avevano preso di mira un ragazzo, finendo con l’alzare le mani, ha davvero dato di matto! Mi sono venuti i brividi».
Suga sorrise, stavolta meno triste, e sospirò sollevato nel constatare che Shoyo non avrebbe dovuto più vivere nel terrore.
«E tu, Kageyama, come ti senti adesso?». Colpo basso! Ma Suga ne era perfettamente consapevole e aspettò solo che dall’altro capo del telefono arrivassero le parole che aspettava ormai da tempo.
«Ho intenzione di fargli recuperare tutti gli allenamenti persi».
«Non avevo alcun dubbio a riguardo, ma non mi riferivo a questo».
Tobio arrossì, sapeva benissimo a cosa alludesse.
 
Sugawara non aveva mai detto nulla di esplicito, soprattutto di fronte i loro compagni, ma quelle volte in cui si sentivano - per messaggi o per telefono - non mancava mai di chiedergli come si sentisse. Le domande si facevano un po’ più curiose in particolar modo dopo una vittoria o dopo un allenamento dove lui e Shoyo sperimentavano un tipo di coordinazione sempre più precisa e affiatata.
Una volta, colto dall’ispirazione causata da una cotta madornale per Shimizu, Suga gli aveva rifilato una paternale sull’amore e sulle anime gemelle.
Per tutta la telefonata, Tobio aveva pensato alla pallavolo e al suo destino perennemente legato a quel pallone in aria che tentava di oltrepassare la rete.
Per cui, Suga lo potè immaginare bene, Tobio cadde letteralmente dalle nuvole quando il suo amico fece il nome di Shoyo chiedendogli se - secondo lui - fossero anime gemelle in campo.
La risposta arrivò dopo parecchi secondi, balbettata in tutta fretta prima di staccare la telefonata con una pessima scusa.
Da quella volta, Tobio aveva cominciato a vedere quel piccoletto con occhi diversi, si era perfino scoperto preoccupato per la sua salute e per come metteva perennemente sotto sforzo quel piccolo corpo che si ritrovava.
 
«Non riesco a togliermi dalla testa il motivo per cui non mi abbia detto nulla. So che mi vede ancora come un rivale, ma credevo che in certi contesti avrebbe accantonato un po’ l’orgoglio.» confidò giocherellando con l’orlo della felpa, le labbra si arricciarono in un’espressione risentita.
«Kageyama?».
«Suga-san?».
«Credi davvero che Hinata abbia abbassato la testa perché tre ragazzini gli hanno detto di non giocare più a pallavolo?».
«Suona strano anche a te, vero? Conosco benissimo Hinata, per la pallavolo darebbe la sua stessa vita, avrebbe lottato davvero con tutte le sue forze per continuare a seguire il suo sogno!» Tobio si sollevò dal letto, le mani e i piedi cominciarono a prudergli come succedeva sempre quando aspettava una notizia importante. Finì perfino per mordersi il labbro inferiore.
C’era qualcosa sotto allora!
«Secondo me, Hinata ha cercato di proteggere qualcosa o qualcuno. Magari non era l’unico ad essere preso di mira».
Solo in quel momento, Tobio si immobilizzò e fissò il muro di fronte a sé.
Gli tornarono in mente quelle parole che, lì per lì, aveva ignorato a causa della tensione e della confusione del momento.
 
«Avevate giurato!».
 
Perché dirlo solo in quel momento e reagire solo davanti a lui?
Se lui davvero non si era allenato e si era tenuto a distanza dalla palestra, ma era comunque stato preso di mira nuovamente, perché sottolineare quel patto in quel momento?
«Volevano prendere di mira me?» chiese sottovoce udendo appena la risposta dall’altro lato del telefono. Come aveva fatto a non capirlo subito?
 
«Ho avuto paura».
 
Non era spaventato solo per la sua condizione, Shoyo aveva paura che quei ragazzi infrangessero anche i suoi sogni.
«Ehi, Kageyama, perché non lo chiedi direttamente a lui?».
«Cosa?!».
«Ormai ha vuotato il sacco con te, non vedo perché non dovrebbe ammettere di averti nascosto anche un altro piccolo dettaglio. Anche perché, nel caso in cui avesse protetto un’altra persona, sarebbe bene avvertirla di stare attenti, nel caso in cui qualcuno dovesse provare a minacciarlo. Non credi?».
Lungimirante Sugawara, come avrebbe fatto senza di lui?
Aveva perfettamente ragione - come sempre - anche se aveva bellamente evitato le decine di motivi per cui Shoyo avrebbe evitato di ammettere di averlo protetto davanti un gruppo di bulli.
«Domani glielo chiederò, va bene».
«Perfetto, aspetto trepidante degli aggiornamenti allora!».
Tobio abbassò le sopracciglia in un’espressione un po’ arresa. Quando voleva, Suga riusciva benissimo a somigliare ad una vecchia pettegola.

 
Shoyo aprì gli occhi e si perse a contemplare le immense finestre della palestra, la polvere che sembrava volare sospesa nell’aria, la rete ben tesa sopra la sua testa e il legno freddo e duro sotto la sua pelle.
La palestra della Karasuno gli era mancata tremendamente e gli sembrava di essere tornato a casa dopo un lunghissimo viaggio. Si voltò alla sua sinistra, vide una figura avvicinarsi al portone d’ingresso e squadrarlo contrariato.
Quanto gli era mancata anche quell’espressione così peculiare. Sorrise senza nemmeno volerlo.
«Si può sapere che cavolo stai facendo?» Tobio lasciò la propria borsa all’ingresso e si premurò di richiudere la porta. Fece scorrere il chiavistello di sicurezza senza farsi vedere, voleva evitare di dover interrompere una conversazione che non era nemmeno troppo convinto di voler sostenere.
Shoyo, per tutta risposta, sorrise mentre osservava il suo amico raggiungerlo sotto la rete. Tobio si sedette e alzò la testa verso il soffitto.
In lontananza si sentiva solo il vociare degli altri studenti in pausa pranzo, mentre all’interno della palestra vi erano solo loro due e quella rete che - in apparenza - sembrava solo l’intreccio di alcune corde bianche.
Quante volte si erano aggrappati, con disperazione, a quelle maglie tirandole verso il basso. Quante volte avevano sognato mentre guardavano il campo oltre il limite che, rigorosa, ergeva ad ogni partita e ad ogni allenamento.
Tobio si ricordò, in un lampo, della prima volta in cui aveva parlato con Shoyo. Aveva afferrato la rete con la mano sinistra e l’aveva fissato attraverso i fori delle maglie, lo aveva osservato con invidia e - doveva ammetterlo - anche una punta di disprezzo. Nessuno lo aveva mai incantato come Shoyo durante quella partita delle medie.
Sempre da quei fori aveva visto come fosse in grado di saltare, di correre veloce e di entusiasmarsi. Seppur quell’indole non fosse sufficiente per vincere una partita, Tobio aveva pensato di volerla tutta per sé.
Non aveva mai sorriso come Shoyo durante una schiacciata, e moriva dalla voglia di provare quella sensazione.
Così, lì alla Karasuno, si era davvero lasciato contagiare da quella testolina rossa. D’altronde, se non fosse stato per lui, di certo non si sarebbe mai sdraiato sul parquet della palestra a fissarne il soffitto.
«Mi era mancato il campo.» confessò Shoyo candidamente, gli occhi ancora incantati verso le finestre semi aperte.
Tobio abbassò lo sguardo sul suo viso, ancora leggermente livido. Si chiese se la cicatrice sulle labbra sarebbe rimasta lì, a sfregiare quel viso sempre sorridente.
«Che fai?» Shoyo sentì un calore sulla mano e vide il suo amico sollevarla e studiarla attentamente, come fosse un reperto storico d’immenso valore.
«Ti fa ancora male? L’altro giorno non era ben messa».
«Posso giocare, anzi, ti va di cominciare adesso a riscaldarti?» Shoyo si era illuminato in viso e stava quasi per mettersi seduto quando lo sguardo dell’altro lo inchiodò - letteralmente - a terra.
Tobio gli aveva lasciato la mano e gli aveva rivolto un’occhiataccia folgorante. Era il suo modo per metterlo a tacere, aveva bisogno di silenzio per fare quella domanda un po’ scomoda.
«Hinata, per caso quei ragazzi della Takai ti avevano detto qualcos’altro?» chiese un po’ vago senza distogliere gli occhi, come se quello fosse l’unico modo per non permettere al suo amico di fuggire.
«Qua-qualcos’altro? Non so proprio a cosa tu ti riferisca!» mentì spudoratamente lo schiacciatore con un mezzo sorriso che lasciava trapelare l’immenso disagio.
«Sei sicuro che non vi fossero coinvolte altre persone della nostra squadra? Perché, se così fosse, le cose cambierebbero notevolmente, Hinata».
Shoyo pensò di non aver mai sudato freddo come in quel momento, avrebbe voluto solo scappare urlando.
«O-okay, potrebbero avermi detto che avevano intenzione di parlare con qualcun altro, ma ora sono stati denunciati e sono tenuti d’occhio, non li rivedremo mai più e non vi è alcun problema! Evviva!». Se Shoyo avesse steso un po’ di più le labbra in quel sorriso inquietante, probabilmente gli si sarebbero contratti i muscoli del viso.
Era davvero pessimo a mentire, motivo per cui preferiva semplicemente ometterle le cose e scappare. Di solito.
Che poi in quella frase, vi erano almeno un paio di menzogne. Non solo era stata coinvolta un’altra persona, ignara di tutto, ma non era nemmeno certo che non li avrebbe più rivisti e a volte aveva ancora una paura marcia di scontrarsi nuovamente con loro.
Non era bastato denunciarli per tornare a respirare, il percorso sarebbe stato più lungo del previsto ma, doveva ammetterlo, non essere solo facilitava le cose.
«Hinata» la voce di Tobio si fece profonda, come se stesse enunciando una condanna.
«S-sì?».
«Chi è?» la voce non lasciava spazio ad esitazioni, così come il suo sguardo sarebbe stato capace di tenerlo piantato là fino a fargli sputare il rospo.
Shoyo non ci mise molto a cedere, come poteva di fronte quegli occhi blu che lo fissavano così intensamente?
«Tu.» sospirò socchiudendo le palpebre e girando la testa dall’altro lato del campo. Era sicuro che gli sarebbe arrivata un’altra sfuriata e non era sicuro di poter reggere. Prese un profondo respiro.
Tobio, dal canto suo, vide tutti i suoi dubbi sparire e tutti i tasselli prendere posto, ricomponendo un puzzle che fino in quel momento era incompleto.
«Cosa ti hanno detto di preciso?» chiese avvicinandosi un po’ di più e osservando, con maggior attenzione, il livido che ancora gli colorava lo zigomo.
«Quando mi hanno cercato le prime volte, io li ho sempre ignorati e ho continuato a giocare, ma quando hanno detto di voler coinvolgere anche te, non ci sono più riuscito e ho ceduto» Shoyo riuscì a sedersi, piantando gli occhi su quelli dell’altro.
«Hinata…».
«Kageyama, io non volevo che ti togliessero la pallavolo come avevano fatto con me e non volevo nemmeno che ti picchiassero. Lo so che ho sbagliato, ma avevo-» Shoyo si bloccò con le parole ancora in bocca.
Aveva avuto paura, glielo aveva confidato quella volta al parco, ancorato alle sue spalle, perché non avrebbe dovuto ammetterlo un’altra volta?
Tobio trattenne il fiato: nessuno si era mai preoccupato per lui - non che qualcuno avesse mai pensato di prenderlo a pugni, sia chiaro -, e soprattutto nessuno aveva mai rinunciato alla propria libertà e ai propri sogni per proteggerlo senza dirgli nulla, tra l’altro.
Sentì un peso poggiarsi sul petto e lo sguardo colpevole di Shoyo non faceva altro che renderlo ancora più pesante.
«Ora nessuno vuole più ostacolarti, no?» chiese senza distogliere lo sguardo.
«Giusto!».
«Quindi potrai continuare ad allenarti e recuperare tutti gli allenamenti saltati».
Shoyo annuì, inarcò un sopracciglio con aria confusa non capendo dove l’altro volesse andare a parare.
«Per cui non c’è alcun motivo per cui tu non debba venire qui in palestra».
«Non voglio lasciare il campo mai più! E poi io e te abbiamo ancora una sfida in corso, per cui-».
Shoyo non finì mai la frase.
Tobio si era abbassato fino a far scontrare le sue labbra con quelle dell’altro e finendo per costringerlo sul parquet, mentre gli avambracci poggiavano a terra e lo sostenevano.
Shoyo si inarcò leggermente per la sorpresa finendo per far scontrare i loro corpi e ad entrambi sfuggì un piccolo sospiro. Tobio esitò ancora un momento sulle sue labbra e le carezzò con le proprie prima di sollevarsi e voltarsi dal lato opposto.
Cosa cavolo aveva appena fatto?! Baciare Hinata così, all’improvviso?
Lo schiacciatore era rimasto immobile a terra, sconvolto quanto attratto da quell’inaspettata novità.
«Kag-».
«Non farlo mai più. Non permettere mai più a nessuno di mettersi tra te e i tuoi sogni. Soprattutto non permetterlo solo perché coinvolgono anche me, sono perfettamente in grado di difendermi.» Tobio si sollevò in piedi, ignorando volutamente quel gesto così intimo e spontaneo. Il ricordo delle labbra morbide di Shoyo gli sarebbe rimasto impresso a fuoco, soprattutto quel piccolo rilievo a destra che doveva essere la cicatrice che si era procurato solo qualche pomeriggio prima.
«Aspetta!» Shoyo, ripresosi dallo stupore del momento, scattò in piedi raggiungendolo e strattonandolo per un polso fino a costringerlo a voltarsi e a guardarlo negli occhi.
Tobio avrebbe preferito scappare dalla finestra piuttosto che guardarlo in faccia e prendere coscienza di quei sentimenti che non aveva fatto altro che calpestare per un anno e mezzo.
«Kageyama, io non volevo che ti facessero del male! E non dirmi che avresti saputo difenderti perché - perché».
Perché non è facile come sembra. Niente affatto.
Non è solo il livido in faccia, non è il sapore del sangue in bocca.
E’ il terrore di sorridere, di essere felici, perché qualcosa da lì a poco potrebbe buttare a terra te e i tuoi sogni. Potrebbe calpestarli.
«Perché?».
«Volevo solo proteggerti, mi dispiace.» Shoyo non voleva perderlo per una cosa simile, soprattutto dopo quel bacio che doveva ancora metabolizzare. Che significava?!
«E se io avessi voluto fare la stessa cosa? Non ti è passato per la mente?!».
Tobio strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche e prese un profondo respiro senza smettere di guardarlo bene in faccia, per quanto fosse sicuro di essere ormai arrossito.
«Non hai minimamente pensato a come io avrei voluto proteggerti e tu non me lo hai permesso? Non mi hai risposto per giorni interi al telefono, non ti sei fatto vedere, campando in aria scuse su scuse quando io avrei voluto soltanto-».
Averti in campo.
E - per inciso - tra le sue braccia.
Shoyo arrossì vistosamente, quella frase lo aveva scosso molto più dello scontro tra le loro labbra e aveva un significato fin troppo esplicito per poter essere interpretato male.
Si avvicinarono ancora, senza smettere di guardarsi ma con la costante voglia di voltarsi ai lati opposti.
«Sono qui grazie a te, che ti importa del resto?» riuscì a dire lo schiacciatore con un filo di voce, troppo preso dal ricordarsi di non smettere di respirare per rimanere in vita.
Tobio non ci vide più per la seconda volta e liberò il polso intrappolato nella mano dell’altro per poter portare le lunghe dita sul suo volto caldo e scendere nuovamente in un bacio. Se lo sarebbe stampato bene in mente, avrebbe potuto essere l’ultimo e voleva davvero goderselo perché prendere coscienza in quel modo dei propri sentimenti era a dir poco devastante.
Shoyo invece portò le mani sulla maglietta leggera di Tobio, attirandolo di più verso di sé e schiudendo le labbra per approfondire il bacio.
Tobio sentì nuovamente la cicatrice mentre passava la lingua su quelle labbra morbide, e pensò che - anche se sarebbe rimasta lì a sfregiarlo - lui l’avrebbe amata. Come avrebbe amato quegli zigomi ancora lividi su cui, inconsciamente, aveva spostato la propria bocca in un piccolo bacio.
Avrebbe amato quei polsi che lo avevano difeso, e quelle gambe che avevano tremato di fronte la paura.
Tobio fece scivolare le mani lungo il corpo di Shoyo fino a stringerlo in un abbraccio, quando le loro labbra si separarono, lo schiacciatore si ritrovò nuovamente nell’incavo del collo del suo setter, lì dove gli aveva permesso di piangere e di sfogarsi solo qualche pomeriggio prima.
Si aggrappò alla sua maglietta, senza avere il coraggio di parlare.
C’era qualcosa che entrambi amavano più della pallavolo, e l’avrebbero difeso con le unghie e con i denti. Ora ne erano entrambi consapevoli, potevano proteggerlo insieme.



Note esplicative:
  1. I bulli si rivolgono ad Hinata come “Shoyo-chan” in senso dispregiativo. In Giappone, infatti, non ci si rivolge mai con il suffisso “-chan” se non si ha confidenza, in particolar modo se ci si sta rivolgendo ad un ragazzo.
  2. Sugawara decide di non aiutare direttamente Shoyo per paura di perdere la sua fiducia, e nella speranza che piano piano possa confidarsi.
  3. Nella realtà dei fatti non è così facile “denunciare” un bullo, sia che si parli di denuncia alla polizia o semplicemente parlarne con il preside o i propri genitori.
Non è facile, ma è importante per ritrovare la propria autostima e la propria libertà. Anche quando pensiamo di voler proteggere gli altri da una situazione così delicata, dovremmo ricordarci del fatto che gli altri – allo stesso modo – magari vogliono proteggere noi.
 
Angolo autrice: Salve a tutti!
Finalmente riesco a pubblicare questa OS sudatissima, mamma mia!, per fare la revisione ci ho messo quasi un mese. Non volevo banalizzare il tema e sono entrata in errore!
Mi tocca ripetervi, purtroppo, che non sarò molto presente a causa degli esami (che mi terranno impegnata fino a metà Marzo), ma che di tanto in tanto mi farò sentire con le OS non ancora pubblicate.
Invece ho una NOVITA’ per tutti! Ho creato un profilo fake su facebook “SkyDream Efp”, potete ovviamente mandarmi la richiesta e se vi va di fare quattro chiacchiere non esitate <3
Vi chiedo solo, nel caso in cui mi cercaste con i vostri profili reali, di mandarmi un messaggino per dirmi il vostro nick su Efp. Più che altro perché così posso ricollegare con chi sto parlando ^-^
 
A prestissimo!
 

 
   
 
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