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Autore: Elsira    05/02/2021    2 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Pagina 8.

Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po'.

E siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò.

Da quando sei partito c'è una grossa novità,

l'anno vecchio è finito ormai

ma qualcosa ancora qui non va.

L'anno che verrà, Lucio Dalla

 
 

«Mmmh… Non sono molto sicuro di questa cosa…»

«Andiamo, Arkin, lo stiamo facendo per Paolo. È importante.»

«Ma proprio stanotte dovevamo venire?»

«Quale notte migliore c’è di Halloween per parlare coi morti, scusa?»

Avevo guardato il mio amico che camminava pochi passi avanti a me. Paolo aveva lo sguardo puntato in avanti e il volto inespressivo, mentre procedeva con sicurezza verso il cimitero, appena fuori dal paese. Aveva da pochi giorni perso sua nonna e, visto la vicinanza con quella festa, avevamo deciso di provare a entrare in contatto con lei. Ci eravamo quindi vestiti per festeggiare halloween e avevamo detto che uscivamo a fare dolcetto e scherzetto.

Eravamo usciti da soli, senza accompagnatori nonostante la nostra età: eravamo stati abbastanza furbi da fare in modo di essere a casa mia e aspettare il momento propizio della serata in cui solo mio padre avrebbe potuto accompagnarci e… Beh, era semplicemente impossibile che accettasse di venire fuori con noi a fare una cosa infantile come dolcetto e scherzetto.

Era stato così che un pirata, un cavaliere medievale e una pellerossa, attraversavano il paese al calar del sole e arrivavano fino al cancello del cimitero.

«Eccoci qui…» Avevo sussurrato all’entrata, osservando il metallo. Un brivido mi aveva attraversato la schiena e avevo stretto istintivamente l’impugnatura dell’arco che avevo a spalla.

«E ora come facciamo a entrare?» Aveva chiesto Arkin, guardandosi scettico intorno. Io avevo storto la bocca, pensierosa: in effetti, era un punto a cui non avevamo pensato. Non avevo fatto in tempo a proporre nessuna idea, che Paolo si era avvicinato al cancello alto poco più di un adulto e aveva messo un piede in uno dei buchi che la struttura arzigogolata offriva, usandolo come appoggio. Si era voltato poi verso di noi e ci aveva detto, semplicemente, con una mano già stretta al ferro: «Lo scavalchiamo.» In silenzio e senza aspettarci, si era poi issato e nel giro di poco era già dall’altra parte. Io e Arkin lo avevamo seguito senza troppi problemi, nonostante la spada di lui e il mio arco e frecce fossero state un po’ di intralcio.

Ci eravamo diretti verso la cappella del mio amico, Paolo aveva tirato fuori le chiavi da una tasca del costume e aveva aperto, permettendoci di entrare nel santuario della sua famiglia. Ci eravamo seduti a terra, il marmo ghiaccio contro le schiene, di fronte alla tomba che portava su di sé la foto dell’anziana signora.

«Questo posto è inquietante…» Aveva sussurrato Arkin, ricevendo un mio scappellotto di conseguenza. «Porta un po’ di rispetto, scemo.» Lo avevo ripreso a bassa voce, mentre lui si massaggiava la nuca scoperta, visto che si era tolto il cappuccio di finta cotta di maglia appena eravamo entrati lì dentro.

Ignorandolo, avevo lanciato uno sguardo alla schiena di Paolo, in piedi di fronte a noi. Si era tolto il cappello da pirata ed era restato immobile a osservare la foto della nonna da quando avevamo varcato la soglia della cappella, in volto una maschera inespressiva che aveva indossato sempre negli ultimi giorni.

Eravamo andati lì perché lui potesse vedere il fantasma della nonna, ma dopo un paio d’ore e l’aumentare del freddo le mie speranze di poter davvero vedere un fantasma si erano andate a far benedire. Rannicchiata al fianco di Arkin per cercare di scaldarmi sfruttando il suo calore, continuavo a fissare con espressione sempre più triste la schiena del mio amico, ancora immobile di fronte a noi.

Di colpo, quando ormai stavo per addormentarmi, avevo visto Paolo sfiorare con una carezza la foto della nonna e rimettersi il cappello del costume. «Addio nonnina…» Aveva sussurrato flebile, voltandosi poi con un sorriso raggiante dei suoi e dire, pieno d’entusiasmo: «Solo io inizio ad avere freddo? Dai, torniamo a casa!» Si era poi diretto all’uscita e aveva riaperto la porta della cappella, aspettandoci con un sorriso. Prima di alzarci, io e Arkin ci eravamo scambiati uno sguardo che valeva più di qualsiasi parola potessimo pronunciare: Paolo aveva le guance percorse da numerose linee di sale, tracce secche delle lacrime che, in silenzio, aveva versato per tutto il tempo. Senza dire nulla, però, ci eravamo alzati dall’angolino di marmo ormai non più così freddo ed eravamo usciti dal cimitero, percorrendo la via di casa in silenzio, con il sorriso di Paolo che era tornato al suo posto sulle piccole labbra.

Durante la marcia però, Arkin si era fermato e ci aveva chiesto se avessimo dei soldi con noi. Ai nostri sguardi confusi, il mezzo norvegese aveva indicato il supermercato alle sue spalle, il quale aveva deciso di fare apertura fino a tardi, affermando: «Io non ho punta voglia di fare dolcetto e scherzetto, ma se rientriamo senza nulla non sarà puzzosa per gli adulti?»

Paolo si era messo a cercare nelle tasche, ma io avevo già tirato fuori cinque fogli da mille lire. «Con queste qualcosa lo ricaviamo, no?» Avevo chiesto, mostrando loro la faccia di Maria Montessori.

«Fisherman’s!» Aveva esclamato Arkin, con gli occhi che già scintillavano. Giusto un istante prima che potesse togliermi le banconote di mano, Paolo lo precedette, mettendole al sicuro nella tasca della sua giacca: «Niente da fare, dobbiamo prendere qualcosa di più piccolo, in modo da prenderne tanti diversi.» Si era diretto poi verso l’interno del negozio e, prima di aprire la porta, si era voltato verso di noi con un sorriso e ci aveva detto: «Haribo e Goleador, che ne dite?»

«Sì! Orsetti! Orsetti!» Avevo trillato io, mentre lo raggiungevo saltellando felice, mentre Arkin già sorrideva per i Goleador.

 

“Sempre gentile e altruista, il mio Paolo…” Sfiorai con una carezza il freddo del marmo della tomba, accanto alla foto che ritraeva il mio amico. Sorrideva, in foto. Sorrideva sempre, lui.

«La notte prima di sentirsi male… di morire, Paolo mi disse che ti aveva sognata.»

Mi voltai verso Arkin, che si trovava un passo dietro di me, i suoi occhi fissi in quelli della foto del nostro vecchio amico. «Mi disse che voleva ritrovarti, che l’amicizia di noi tre gli mancava… Mi fece promettere che, se avessimo vinto la coppa, allora ti saremo venuti a cercare e saremmo tornati a essere felici come da piccoli.»

Abbassai il capo, le lacrime caddero sulle mie braccia, avvolte attorno al ventre, e sul marmo ai miei piedi. Avrei voluto dire qualcosa, ma il nodo alla gola me lo impedì.

Arkin fece un passo avanti, poggiò la fronte e la mano chiusa a pugno sul marmo gelido della tomba. «Non so nemmeno io quante volte ho preso a pugni questa bara, sperando in una risposta…» Chiuse gli occhi, con rabbia. «Ma è sempre stato zitto.»

L'istinto mi disse di alzare lo sguardo, e le vidi. Quelle gemme, quegli zaffiri, stavano piangendo. Non seppi dire perché, ma quella visione mi si incise nel cuore, la trovavo meravigliosa. 

“Sono… un mostro? Il mio amico soffre e io… lo trovo bellissimo…” 

«Però.» La sua voce mi distolse dai miei pensieri, facendomi cacciare il senso di colpa. «Ora ti ho ritrovata…» La mano si aprì e il braccio si tese, facendo allontanare il volto dal materiale gelido. Arkin si voltò verso di me, regalandomi un’espressione di pace, di realizzazione, che non credevo potesse esistere. «Sono davvero felice, perché ho realizzato il suo ultimo desiderio.»

Distolse di colpo lo sguardo, si asciugò le lacrime con l’avambraccio e si diresse verso l’uscita. «Andiamo?»

Rimasi un attimo paralizzata al mio posto, incapace di muovermi. “No, non sono un mostro… Io… voglio conoscere di più di questo Arkin… Voglio conoscere di più su di lui, sui suoi sentimenti…” Mi osservai i palmi delle mani, meditabonda. Era strano, avevo voglia di dipingere. Dopo anni, avevo voglia di prendere in mano pennello e colori, trasmettere su tela quelle emozioni che stavo provando. Una parte di me sapeva che non sarebbe riuscita a dormire quella notte, se non avessi tirato fuori il cavalletto e non mi fossi sfogata.

Sentii battere due leggeri colpi sull’inferiata che dava l’accesso alla tomba di Paolo: era Arkin, che mi aspettava sulla soglia. Si voltò appena e mi fece cenno di seguirlo. Mi voltai un’ultima volta verso la foto del mio amico e sussurrai: «Grazie…» 

Mi feci il segno della croce, baciando il lato dell’indice a gesto concluso e dirigendomi all’uscita camminando all’indietro; da bambina mi stata insegnato di uscire di Chiesa in quel modo, perché era irrespettoso dare le spalle al crocifisso, io lo pensavo anche per le cappelle.

Una volta fuori dal cancello del cimitero, entrambi ci fermammo dopo pochi passi. 

Fui io a rompere il silenzio. «Ti ringrazio.»

Arkin mi guardò interrogativo, io gli sorrisi: «Per avermi portato da Paolo. Non credevo, ma ne avevo bisogno.»

«Sì beh… Era da un po’ che non lo andavo a trovare… Ha fatto bene anche a me.» Sussurrò, dando un calcio al terreno. 

«Senti, ti offro un gel…» Mi interruppi, le mani sulle tasche dei jeans stranamente piatte. “Il portafoglio… L'ho lasciato sulla scrivania da mamma! Ma che cavolo!”

«Tutto okay?» Gli occhi interrogativi di Arkin mi scrutano per un attimo, facendo aumentare il rossore sul mio viso in modo esponenziale.

Stavo per aprire bocca per una qualsiasi giustificazione, quando il rumore dell’elicottero che sorvolò le nostre teste ci fece alzare lo sguardo.

«Che succede?» Sussurrai, seguendo il volo del veicolo, che si dirigeva verso il centro del paese. 

«Deve aver preso fuoco qualcosa… È un elicottero antincendio.»

«Pensi che abbia preso fuoco qualcosa in paese?» Non riuscii a nascondere il nervosismo nella voce, quando le voci di un paio di signori anziani alle nostre spalle mi fece gelare il sangue nelle vene.

«Di’ono che gl’è esplosa ‘na bombola del gas al barre.»

«Mh. L’esplosione un gl’è stata troppo soda, ma l’ha dato foo alla valle.»

“La valle… Se prende fuoco, casa di mamma rimarrà in un vicolo cieco…” In quel momento, in casa non c'era nessuno. Ma c'era una cosa che dovevo a tutti i costi salvare, che non potevo in alcun modo rischiare di perdere. Non doveva esserci nemmeno lo 0,01% di possibilità che potesse abbracciare le fiamme. 

Il mio corpo si mosse prima che la mente potesse ragionare, facendo muovere le gambe come nemmeno se in pericolo ci fosse la mia vita. 

 

Vidi Camilla scattare come un razzo, dirigendosi verso il paese, verso il fuoco. Provai a chiamarla, ma non mi rispose. Probabilmente, non mi aveva nemmeno sentito. Le corsi dietro, ma era troppo veloce per me. E io ero decisamente fuori allenamento. “Dannazione… Ma che le è saltato in mente…”

Mentre cercavo di riprendere fiato, mi si accese una lampadina: casa di sua madre. “È impazzita, se la valle ha preso fuoco, sta andando dentro a una conca di fiamme!” Mi guardai un attimo intorno, e mi venne in mente una scorciatoia. Tagliando per i campi di girasoli, anziché fare il giro lungo per il centro del paese, sicuramente avrei fatto prima. 

Quando arrivai all’imbocco della via, la vidi che saliva a corsa le scale esterne di quella che un tempo era stata casa di suo nonno.

“Ma che… Quella non è casa di sua madre.” Le andai dietro, sentendo le grida della gente che se la stava rifacendo con lei per non so quale motivo. Provai a chiamarla, ma non ottenni risposta. Salii le scale e seguii le voci a me estranee, gli insulti che volavano e che mi facevano calare un velo rosso davanti agli occhi, finché non la intravidi: stava sorreggendo una vecchia zoppa, aiutandola a stare in piedi, quando una donna la spinse via, strappandole l’anziana e facendola risedere sul letto.

«La prossima volta, e in cuor mio spero tanto ci sarà, io non muoverò un ciglio per aiutarvi, né tantomeno avvertirvi.» Alzai lo sguardo, guardando negli occhi coloro che consideravo la feccia peggiore della Terra, ma che, nonostante tutto, avevo accettato ad aiutare per il bene di mia madre. Perché lei, nonostante tutto quello che le avevano fatto, li considerava ancora parte della sua famiglia. «Sarò più che felice se le fiamme vi bruceranno anche l’anima che non avete.» Lo schiaffo arrivò quasi atteso, ma non mi importava. Ciò che avevo detto era la pura verità. E quella gente non poteva farmi più male di quel che aveva già fatto.

Ciò che non era atteso, era la reazione di Arkin. Si frappose fra me e l'uomo, stringendo il polso della mano che mi aveva colpita con tanta forza da bloccarne probabilmente la circolazione. «Osa solo avvicinarti a lei a meno di tre metri e giuro su quanto di più caro ho a questo mondo che sei un uomo finito.»

Arkin faceva paura da arrabbiato. Era massiccio, ma non era solo quello. Gli occhi gli diventavano come le acque dei fondali marini, i tendini si gonfiavano tanto che parevano voler esplodere. E, cosa ancora più importante, le sue minacce non erano mai a vuoto.

Mi prese delicatamente per mano e mi accompagnò fuori da quella casa. Appena allontanatici di qualche passo, si voltò verso di me e mi tastò delicatamente la guancia percossa, che riportava il segno evidente della manata. «Andiamo a prendere un po’ di ghiaccio, okay?»

«No.» Risposi, prima ancora di guardarlo negli occhi. Poggiai la mano sulla sua, ancora a sfiorarmi il volto, e lasciai che la determinazione che avevo fosse lampante nella mia voce e nel mio sguardo. «Voglio andare in paese, voglio aiutare la gente a domare le fiamme.»

«Ci sono i pompieri per questo.» Cercò di ribattere lui. Io scossi la testa, decisa: «E sono d'accordo a lasciare il grosso del lavoro a loro, ma ci sono anche piccoli fuochi che si accendono qua e là. Conosci anche tu il paese, è pieno di persone anziane. I pompieri devono fermare l'incendio maggiore, non possono tenere d'occhio anche tutti i fuocherelli più piccoli che scoppiano qua e là, nei giardini della gente, portati da questo vento.»

Rimase un attimo in silenzio, mi scostai dal suo tocco e mi avviai verso il paese, stringendo nella mano il mio portafoglio, ciò che ero tornata a prendere. «Non ti ho chiesto di venire con me. Ti ho solo detto ciò che ho intenzione di fare, tu esci da questa conca, mi basta questo.»

Presi a correre e, tempo zero, me lo ritrovai al fianco. «Te lo scordi che ti lascio andare da sola.»

 

«Hai detto delle cose parecchio pesanti, lo sai.» Mi disse, passandomi la bottiglietta d'acqua fresca. Era ormai il tramonto, l'incendio era stato quasi completamente domato e la situazione era sotto controllo grazie alle linee tagliafuoco e gli elicotteri. Io e Arkin ci stavamo godendo un poco di riposo, seduti sul muretto dell'ultima casa cui abitanti avevamo dato una mano. Alla fine dei conti non avevamo fatto chissà che, solo aiutato a spegnere un paio di fuocherelli sparsi qua e là e tranquillizzato qualche nonnina. Ciononostante, mi sentivo bene e soddisfatta di aver dato, seppur nel mio piccolo, una mano, per quanto inutile essa potesse essere stata.

Avevo, in fin dei conti passato una bella giornata, soddisfacente. Quindi perché ora Arkin voleva rovinarmela parlandomi di quella gente?

«Non ho detto nulla che non fosse vero.» Mi sfiorai leggermente la guancia, ancora leggermente arrossata e mi parve di sentirla ricominciare a pulsare. «Quella gente merita il peggio che c’è nel mondo.» Sussurrai a denti stretti, sentendo l'ira tornare ad attorcigliarmi lo stomaco. Lui mi guardò con un misto di pietà e sorpresa; percepii che stesse per ribattere, ma il mio sguardo assassino bastò come muto cenno per zittirlo.

 

Uno dei più grandi difetti di Cam, se non il peggiore, era che era una persona estremamente vendicativa, ma selettiva. La sua ira non era mai infondata e non era mai indirizzata a un torto che aveva subito lei in prima persona. Il peggio di sé lo tirava fuori quando si osava toccare persone a cui lei teneva, valori che le erano cari. C’era poco su questa Terra che potesse farle scattare un rancore tale, la forma di odio per eccellenza: ferire, sia a parole che a gesti, una persona a cui voleva particolarmente bene, distruggere quello che lei chiamava il suo “patrimonio”, ovvero le forme d’arte, storia e la cultura italiana, oppure infrangerle davanti agli occhi uno dei valori nei quali credeva di più, come l’onestà. Erano sempre stati questi i tre pilastri della sua vita e, se qualcuno osava anche solo smuoverli, Cam mostrava il lato peggiore di sé.

Era capace di nutrire rancore per anni e anni, lasciare che l’ira prendesse il controllo di ogni più piccola sua azione o pensiero, ma, almeno questo, non avrebbe mai fatto del male a chi non era l’artefice stesso di quel sentimento. Quella stessa scintilla, però, era anche in grado di tramutarsi e darle una forza e una tenacia fuori dal comune. Se impegnava quel fuoco interiore in qualcosa di positivo, non c’era nulla che non potesse riuscire a fare. Ma, allo stesso tempo, se lo impegnava in qualcosa di negativo, c’era seriamente da preoccuparsi per la vita di chi l’aveva aizzata e alimentata.

Non ho mai creduto sarebbe arrivata ad uccidere in prima persona, quello no. Ma allo stesso tempo non dubitavo che, se si fosse realmente ripresentata la disgrazia di un incendio e quelle persone, che le avevano evidentemente fatto un torto per lei imperdonabile, si fossero ritrovate intrappolate in casa, lei sarebbe stata immobile, senza muovere un dito, a bearsi delle fiamme che facevano il lavoro per lei.

Quel pensiero, quella certezza, mi fece avere paura della mia amica, di ciò che sarebbe potuta diventare. “Non te lo posso permettere.” L'odio e la rabbia erano ancora palpitanti nel suo sguardo, tanto forti che avrebbero potuto incenerire una persona semplicemente con un'occhiata. Non mi piaceva. Quei sentimenti negativi così forti erano pericolosi, deturpavano il multicolor dei suoi magnifici occhi.

«Odio quella gente, vorrei che sparisse da questo mondo, cancellare tutto ciò che sono e hanno fatto. Far dissolvere nel nulla la loro stessa esistenza.» Lo sguardo di Cam si posò sulle mani, intrecciate sulle gambe, le nocche bianche. «Ma non prima di averli fatti soffrire. Devono patire le pene dell'inferno, prima di svanire nel nulla.» Per un istante, ebbi davvero paura che Cam potesse fare qualcosa di orribile. 

Posai una mano sulle sue, sentendone la presa alleggerirsi appena. Non sapevo cosa dire, perciò rimasi in silenzio. Le avvolsi un braccio attorno alle spalle e la abbracciai.

Non avevo mai percepito quel corpo così teso. Solo dopo alcuni minuti la sentii iniziare a rilassarsi. Si scostò da me quel tanto che bastava per guardarmi negli occhi e mi sorrise, semplicemente. Le sue iridi erano tornate normali, e ciò era più che sufficiente. Le sfiorai la fronte con la mia, mantenendo il confortevole silenzio e immergendomi in quelle iridi tornate limpide e pure, un braccio sempre a circondarle le spalle.

Cam aprì la bocca per dire qualcosa, ma la nonnina alle nostre spalle la interruppe: «Che begli sposini che siete, bimbi!» Ci allontanammo l'uno dall'altra con quello che pareva un salto, voltandoci verso l’anziana signora. Cam tentò subito di precisare che eravamo solo amici e che lei aveva, evidentemente, frainteso tutto. “Anche se…” Un pensiero poco piacevole tornò a farsi prepotente nella mia mente, facendomi fermare dal terminare la frase nella mia testa.

«Non è vero, Arkin?» 

Mi ero un attimo distratto e non ero certo di cosa avesse detto precisamente, ma mi ritrovai comunque a rispondere un pacato: «Mh. Sì.»

Cam sorrise raggiante alla vecchina, che ci guardò borbottando un debole, ma sincero, “che peccato però”.

“Già… Ma è meglio così.” La nonnina ci offrì dei biscotti fatti in casa e della spremuta di arancia per ringraziarci dell'aiuto contro le fiamme, Cam cercò di ribattere, ma… Beh, la vecchina era nonna e ho già esposto come funziona con le nonne, no? Ci invitò in casa, ma almeno quello riuscimmo ad evitarlo. Entrambi eravamo sudati, puzzavamo di fumo come delle ciminiere e le nostre scarpe non erano certo pulite, dopo tutta la cenere e l'acqua che avevano visto quel pomeriggio.

Ci ritrovammo perciò entrambi a mangiare degli ottimi biscotti al cioccolato con spremuta sul muretto di quella casa, chiacchierando di tutto e nulla, come fosse la cosa più spontanea del mondo.

“È il massimo a cui posso aspirare, per noi.” 

Una volta finito lo spuntino, ringraziammo ancora la signora per quest'ultimo e tornai con Cam a casa di sua madre. 

«Guarda che non c'è bisogno che mi fai da guardiano ora.» Disse lei in un sorriso, varcando il porticato.

«Sono o no il tuo skystangel?» Risposi io, a meno di un passo di distanza. Mentre attraversavamo il viale avevo lanciato occhiate fugaci al piano superiore dell'abitazione e avevo notato la sagoma dietro la finestra appena accostata. La persiana di quest'ultima era stata chiusa con forza non appena avevamo messo piede sul piazzale.

Arrivata davanti la porta di casa, Cam si voltò verso di me con una giravolta e mi mostrò il suo sorriso più sincero. «Sì, lo sei.» 

Dio, quanto avrei davvero voluto esserlo.

Poggiai una mano sulla sua nuca e la avvicinai a me, sfiorandole appena la fronte con un lungo bacio. «Vi ser deg, lille stjerne.»

«Vi ser deg, skystangel.» Mi sorrise un'ultima volta ed entrò in casa, allorché mi diressi alla macchina. Durante il tragitto, mi morsi le labbra e vi sentii il sapore del fuoco, ma anche un vago sentore dolce. Mi ricordai del sogno di qualche notte prima e mi maledissi un'ulteriore volta. Con un sospiro frustrato detti una testata al volante, restando con la fronte poggiata su di esso. “Perché non riesco mai ad accontentarmi di quel che ho? Perché devo sempre volere di più da lei, dannazione…” Chiusi le palpebre, stanco. “Sono un completo imbecille.”

Il cellulare sul sedile del passeggero iniziò a squillare. Diedi un'occhiata veloce allo schermo illuminato e vidi il nome di Manuela. Mi venne spontaneo alzare gli occhi al cielo; spensi il telefono e girai le chiavi. Avevo bisogno di una lunga doccia.

 

Avevo ancora l'asciugamano a tamponarmi i capelli a mo’ di turbante, quando udii squillare il cellulare e vidi il numero di Arkin sullo schermo. Non feci in tempo a rispondere, né a richiamare, che mi arrivò il suo messaggio. 



Non fece in tempo ad apparire la spunta blu, che il telefono squillò di nuovo. Prima che potessi anche solo dire “pronto”, la voce eccitata di Arkin arrivò nel mio orecchio: «Hai detto che sei appena uscita di doccia, vero? Quanto ti ci vuole per asciugarti i capelli e sistemarti?»

«Ehm… un… oretta? Più o meno, perché?»

«Tra quaranta minuti sono da te, non ti truccare e metti un bel vestito.»

«Che?»

«Mi piaci di più al naturale.»

«Aspetta un…»

«A tra poco!»

«Arkin!» 

“Che hai in mente stavolta…”

 

Per chi non riuscisse a caricare le foto, la chat tra Cam e Arkin è la seguente:
 

Ti prego dimmi che non sei corsa di nuovo in mezzo alle fiamme. Non ne hai avuto abbastanza per oggi?

Per tua informazione, ero in doccia.

Mi sono lavata i capelli, e non ho sentito la chiamata

Che odore ha il tuo shampoo?

…?

Rispondi e basta.

Prova a indovinare, ragazzone. Sei tu quello che mi annusa sempre i capelli lol

Forse, ma sei tu il cane da tartufi.

Ah ah ah

Facciamo così: se indovini ti do un premio

Interessante. Che premio?

Esaudirò un tuo desiderio :)

...qualsiasi?

Certo! Se è qualcosa nelle mie possibilità, ovvio.

Oh tranquilla, lo è. 

Dammi un minuto solo per pensare.

Hai tre possibilità

Il tempo scorre 

tic tac tic tac 

Tanto so che non indovinerai mai :3

Lime.

...come cazzo hai fatto. 

Semplice. Sei sempre stata attratta dai profumi degli agrumi, anche se non ne mangi uno nemmeno sotto tortura. Ti sanno di freschezza.

._.

Bene, ora. La mia ricompensa 😏

Ti prego sii misericordioso…

 

No, la ricompensa non è niente di sconcio. Purtroppo.

Siamo a metà storia trallalalala, me felice. 
E un'altra cosa di cui sono estremamente felice è Febbraio. Ma vi rendete conot che quest'anno Febbraio riempie PERFETTAMENTE 4 settimane?? NO, PARLIAMONE. Io tutte le volte che ci penso sorrido ocme una bimba scema. Sì, mi basta così poco per essere felice. Potessi immergermi in una vasca di pulcini e piccoli di germani e coniglietti e gattini appena nati e cagnolini ancora con il primo pelo e la rosichina, sarei la persona più felice del mondo. Probablmente non riuscirei nemmeno a contenere tanta gioia, perciò da una parte è meglio che non accada... anche perché sono allergica a 2/3 di quanto nominato sopra, ma non mi importerebbe.

Bon, a martedì, bye bye!


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