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Autore: A_Typing_Heart    06/02/2021    0 recensioni
«Sto cercando un libro sui vampiri... qualcosa che parli di loro, della loro psicologia... qualcosa che non sia solo letteratura.» disse con una certa delusione interiore: nella sua testa suonava molto meno ridicolo. «Esiste qualcosa del genere?»
«Ovviamente esiste.» rispose lui, con uno sguardo che sembrava brillare di eccitazione. «Posso chiederti come mai ti interessa un argomento così singolare o è una domanda troppo intima per il primo incontro?»
«Mi interessano perché non ne so niente e ne devo prendere uno.»
Qualsiasi altra persona a quella frase avrebbe riso o l'avrebbe preso per matto, ma non quell'uomo, che sorrise se possibile ancora di più.
«Stai cercando quell'assassino, il Vampiro di West End.»
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Crowley Eusford, Ferid Bathory, Krul Tepes, Mikaela Hyakuya, Yūichirō Hyakuya
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La spada di Dio'
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Ferid guardò lungo la strada dal finestrino e notò le auto della polizia ferme in un altro posto di blocco. Negli ultimi dieci minuti ne aveva visti diversi e ogni volta Robert cambiava strada per allontanarvisi. Non fece eccezione neanche questa volta e svoltò in una stradina laterale.

«Maledizione… perché tutti questi posti di blocco per strada?»

Robert si mordicchiò il pollice facendo scorrere lo sguardo ai lati della strada come se sperasse di trovare la risposta scritta su qualche cartellone. Ferid era convinto di saperla ma ben deciso a non rivelargli le sue speranze: Mikaela aveva contattato Crowley e avevano mobilitato le pattuglie per trovare la macchina sulla quale si era allontanato.

Se riuscissi a distrarlo e a farlo incappare in un posto di blocco, sarebbe tutto finito…

Lanciò uno sguardo al viso identico al suo, riflettendo sulla strategia da adottare, ma prima che riuscisse a decidere quale argomento l’avrebbe maggiormente innervosito fu lui a rompere il silenzio.

«Non arriveremo mai a Holden con tutti questi blocchi… non ho scelta. Ti porterò dritto al laboratorio.»

«Laboratorio? Quale laboratorio?»

«Il mio laboratorio, Rid. Non fare domande imbecilli, sono già nervoso, e se mi irriti ti chiudo nel bagagliaio.»

«Chi pensi di essere per parlarmi così? Non sono uno dei bambini di nove anni deboli e narcotizzati dei quali hai potuto fare quello che ti pareva.»

«Non te lo dico di nuovo, sta’ zitto

«Non darmi ordini, Bobby, o ti garantisco che prendo quel volante e non m’importa dove andiamo a sfracellarci.»

Lo fulminò con un’occhiata e con un gesto collerico aprì il portaoggetti tra i due sedili e ne tirò fuori un piccolo asciugamano che emanava un odore pungente nonostante il sacchetto di plastica che lo conteneva.

«Sta’ zitto, Rid. Non posso farti tornare a nove anni ma ti posso narcotizzare come ho fatto con loro.» gli fece lui gelido. «Ma preferirei di no perché sei pesante da trasportare.»

Restare inerme e incosciente in presenza di Robert non era affatto una mossa saggia, quindi Ferid tacque mentre lui riponeva l’asciugamano e cambiava strada. Mentre prima erano chiaramente diretti verso Satbury – o piuttosto verso Holden, verso il quale la Queen Mary Avenue era certo la via più veloce – ora puntavano a nord, verso la contea di Dern o verso il North End.

In quella direzione presero tutte le vie meno pratiche e fecero un largo giro per evitare i posti di blocco; con profonda delusione di Ferid non ne videro nemmeno uno. A un certo punto per via del buio, delle vie secondarie e dei molti cambi di strada non sapeva più dire dove si trovassero. Tutt’intorno a lui vedeva lotti recintati con teli di plastica o pannelli di legno, qualche capannone, cantieri aperti. Le poche luci di quelle strade illuminavano asfalto umido e poco altro, niente panchine, marciapiedi, cestini per il pattume, nessuna linea per il parcheggio.

Sembrava una città ancora da costruire, o piuttosto una abbandonata da demolire.

«Dove siamo?»

«Ha importanza?» gli chiese Robert in tono annoiato.

Non replicò, anche perché la macchina girò bruscamente dentro uno di quei lotti ingombri di materiale edile e si fermò accanto a un’alta pila di blocchi in cemento. Il conducente gli ordinò di scendere e lui, con il cuore che iniziava ad accelerare, obbedì.

Non vedeva nessuna luce al di fuori di quella posta davanti all’ingresso dell’edificio. Robert tirò un telone di plastica verde sopra l’automobile con il chiaro intento di celarla agli occhi dei pochi che avrebbero potuto avventurarsi fino lì, poi arma alla mano afferrò il gomito di Ferid e lo trascinò attraverso il cortile.

Aveva creduto che lo volesse portare dentro l’edificio in costruzione, un edificio di cemento grezzo di dieci o dodici piani a una prima occhiata, ma passandovi davanti rimase sorpreso di notare che non c’erano ingressi. Le finestre e le porte erano state murate con mattoni cavi sui primi due piani. Strizzando gli occhi gli parve che anche le finestre del secondo piano fossero chiuse, ma era troppo buio per capire se fosse la stessa cosa anche più in alto.

«Cosa facciamo qui, Bobby? Mi sparerai e mi butterai sopra una colata di cemento, come nei più banali film con la mafia?»

«Se ti avessi solo voluto morto mi sarei risparmiato di rovinare la mia macchina. T’avrei ammazzato insieme alla tua amica strega.»

«Curioso, perché mi sembra che tu non abbia risparmiato le carte nei tuoi tentativi di uccidermi.» obiettò Ferid. «Hai quasi centrato il bersaglio quando mi hai avvelenato con l’aconito. È stato un miracolo che io sia sopravvissuto.»

«Una vera fortuna.» convenne lui con sua sorpresa. «Infilati qui dentro. Attento alla botola, non romperti il collo proprio adesso.»

Ferid, perplesso, osservò la grande catasta di quelli che nel buio gli parvero blocchi di pali da cemento armato legati insieme. Davanti ad essi erano appoggiati dei pannelli di lamiera. Incerto strizzò il suo corpo esile sotto di essi e scoprì a tentoni che la catasta aveva uno spazio vuoto all’interno. Non vedeva a un palmo dal proprio naso nel senso più letterale e trovò il buco nel terreno ispezionandolo con il piede.

«Sbrigati.»

«Non vedo niente!»

Sempre a tentoni si inginocchiò e provò a capire la conformazione della botola tastando con il piede; un lampo di luce che veniva dal cellulare di Robert illuminò la zona e poté vedere che era il tombino di accesso ai cavi della costruzione. O almeno avrebbe dovuto: al suo interno non c’era niente, solo alcuni pioli di una scaletta che scendeva in un passaggio pieno di foglie secche, terriccio e altri segni di inequivocabile abbandono.

Scese nel passaggio seguito da Robert, seguì la direzione indicatagli e poi risalì dove lui gli ordinò. Il luogo in cui emerse era buio pesto e ancora una volta usò il tatto per cercare di uscire dalla botola in sicurezza. Solo l’arrivo dell’altro uomo e del suo cellulare rischiarò l’ambiente a sufficienza da permettergli di capire.

Siamo dentro l’edificio!

«Di sopra, Rid, spicciati.»

Ferid individuò le grezze scale e iniziò a salirle con circospezione, una rampa dopo l’altra. Quando superò il terzo piano iniziò a scorgere qualcosa anche al di fuori della zona illuminata dal telefono, perché le finestre dei piani superiori non erano murate: erano davvero all’interno dell’edificio dalla porta sigillata. Intorno alla struttura intravedeva le ombre di tubi e pannelli dell’impalcatura che avvolgeva il palazzo come un guscio sul gheriglio.

Una volta arrivati in cima con il fiato corto e lo sgradevole contrasto tra il calore interno e l’umido, pungente freddo esterno, Ferid ebbe una risposta alle sue domande riguardo il misterioso laboratorio. Nel momento in cui Robert accese una serie di neon la luce rischiarò il suo covo e fece sentire a Ferid vertigini che non aveva mai provato.

Da un lato tre tavoli ospitavano una complicata attrezzatura da distillazione che ricordava quelle usate un tempo per la creazione dei profumi, ampolle, barattoli, becker e provette dal fondo curvo infilate su supporti di metallo. E ancora: pinzette, tappi, dosatori, contagocce, microscopi, vetrini, un leggio di legno e un grosso flacone di acqua distillata.

Dal lato opposto le cose erano ancora più strane e inquietanti. L’ampio tavolo di metallo era fornito di cinghie come un lettino per elettroshock, un carrello ospitava strumenti chirurgici e una macchina in un angolo dotata di molti sottili tubi e aghi portò Ferid a conclusioni così raccapriccianti che non poté fare a meno di stringersi le braccia.

Li porta qui… è qui che ha tolto il sangue ai bambini con quella macchina per la dialisi, e con quegli strumenti gli toglie il cuore!

I suoi occhi si posarono sull’angolo più distante dove regnava una vecchia stufa a carbone. Normalmente avrebbe potuto credere che serviva solo a riscaldare un ambiente grezzo che in inverno sarebbe stato gelido, ma qualcosa dentro di lui gli diceva che l’utilità di quell’oggetto non era così scontata: una stufa elettrica, dato che c’era corrente, avrebbe assolto il compito più agevolmente e discretamente della sua antiquata collega.

«Allora, Rid, ti piace il mio laboratorio alchemico? Personalmente ne vado molto fiero.»

«La… laboratorio alchemico?»

Robert fece un cenno compiaciuto alla libreria, che Ferid non aveva ancora notato accanto all’ingresso. In effetti scorrendo i titoli poté constatare che possedeva il meglio che l’editoria avesse offerto negli ultimi duecento anni sul tema dell’alchimia e della medicina officinale di stampo esoterico, ma questo non faceva che confonderlo ulteriormente.

«Sembri costernato.»

«Io… Bobby, ma che cosa significa questo…? Non capisco…»

«Tutto questo non sarebbe mai esistito senza di te… e ti giuro, quando ti ho incontrato nel giardino della tua casa tutto mi sarei aspettato tranne che avresti fatto di me uno degli alchimisti più esperti del secolo.»

Davanti alla sua perplessità Robert emise una risata flautata che imitava benissimo le sue, e questo lo urtò tanto da scrollargli di dosso parte dello shock.

«Puoi smetterla, per cortesia? So che non sei così e che non hai quei lineamenti. Ora nessun altro ci può vedere, togliti di dosso la mia faccia. Mi inquieta.»

Robert l’osservò con aria divertita, ma più lo guardava più i suoi tratti assumevano l’espressione di una fredda collera.

«D’accordo… dopotutto dobbiamo parlare. Tanto vale che tu veda il tuo capolavoro.»

Robert si staccò la parrucca, fissata alla fronte con l’apposita colla, e gettò la chioma argentata sul tavolo già ingombro. Una volta rimossa la retina Ferid notò la prima stranezza, perché i corti e radi capelli di Robert non erano biondo cenere come li ricordava, ma quasi tutti ingrigiti e striati da poche ciocche dorate.

Cosa… ma Bobby ha la mia età, ha appena un paio di anni più di me, come può avere già i capelli ridotti in quel modo?

Il vero shock però arrivò quando Robert si tolse di dosso una sottile maschera di quello che sembrava lattice. Nonostante le tracce di quel materiale rimasto sulla sua pelle e il trucco intorno agli occhi era già evidente che a Robert Warren era successo qualcosa di inspiegabile e terribile: il suo viso era segnato dalle rughe, con macchie e capillari rotti, come avrebbe potuto esserlo quello di un uomo con il doppio dei suoi anni.

Ferid si coprì la bocca con la mano e indietreggiò di un passo, disgustato e scioccato in egual misura, e la sua reazione innescò la rabbia di Robert.

«Un lavoro ben fatto, non è vero, Rid? Ne sarai orgoglioso!»

«Che… che cosa ti è successo, Bobby? Perché… perché sei invecchiato in quel modo?»

«Non prendermi per il culo!» sbottò lui, buttando a terra una pila di libri dal bordo del tavolo. «Sei tu la causa di questo! Che cosa volevi fare? Vendicarti? Costringermi a tornare da te? Per quale motivo mi hai rovinato la vita con questa crudeltà?!»

Quell’ingiusta accusa montò la rabbia repressa di Ferid come nemmeno l’aggressione a Krul aveva fatto.

«Tu… tu parli a me di crudeltà? Tu, che mi hai avvicinato e ti sei approfittato del… del mio bisogno di attenzione per ingannarmi… per portarmi via tutto… come osi accusarmi di essere stato crudele?»

Era spaventoso il modo in cui l’umore di Robert passava da un estremo all’altro: dal divertimento alla rabbia più violenta e di nuovo alla calma con lui era questione di attimi; Ferid non poteva fidarsi dell’apparenza, doveva tenere a mente che era sempre estremamente pericoloso. Indietreggiò ancora quando gli venne vicino, ma urtò la spaventosa macchina per la dialisi con un verso simile a uno squittio e si trovò incastrato tra quella, il muro gelato e la spaventosa maschera che era diventata il volto che un tempo aveva tanto teneramente amato.

Robert sorrise mentre gli sfiorava i capelli.

«Quando stavamo insieme ti dicevo che eri la mia musa… la mia musa con i capelli d’argento. Abbiamo passato una meravigliosa primavera, non credi?»

«Non siamo mai stati insieme. Mi dicevi tutte quelle belle cose per incantarmi e prenderti i miei soldi.»

Lui scoppiò in una risata secca.

«Ha funzionato, no? E siccome ha funzionato così bene ho deciso che lo avrei fatto tutte le volte che sarebbe servito, ogni volta che mi sarebbero serviti dei soldi... e l’ho fatto.» raccontò lui con orgoglio. «Ho incantato donne ricche e sole di ogni rango ed età… mi sono fatto ricoprire di oro, mi sono fatto portare in ogni posto splendido del mondo… ho fatto tutte le esperienze fantastiche che si potevano sognare. Tutte quelle che sognavamo di fare insieme, e altre cento ancora.»

«E cosa ti ha riportato nel West End a torturare bambini, se eri così ricco e così felice?»

Oscillando di nuovo da un estremo all’altro, l’uomo gli strattonò i capelli abbastanza forte da strappargli un gemito di dolore.

«La tua maledizione, Rid! È iniziata presto, anche se io non me ne sono accorto subito. Il mio corpo ha iniziato a invecchiare più velocemente di quello degli altri. Alle soglie dei trent’anni ne dimostravo almeno dieci di più… e da lì non ha fatto che peggiorare di settimana in settimana…»

Robert gli strinse il collo con quel fare minaccioso, come aveva fatto già a casa di Krul, con il pollice che affondava sotto il pomo d’Adamo.

«Mentre tu… guarda che splendido fiore in boccio sei ancora… così giovane, così bello… così perfetto…»

Ferid spostò la mano dal proprio collo e gli diede uno spintone abbastanza forte da farlo barcollare qualche passo indietro.

«Smettila con questa storia! Se qualcuno ha delle colpe quello sei tu! Sei stato tu a maledirmi, facendomi credere che in questa vita nessuno si avvicinasse a me in modo sincero! Che nessuno avrebbe mai visto in me altro che la mia bellezza e la mia ricchezza! Tu hai rovinato la mia vita in tanti di quei modi che ad elencarli non avrei ancora finito per Capodanno!»

«So quello che dico, e negare non serve.»

Non perse l’espressione glaciale mentre lo fissava con disgusto, scollandosi un pezzo di maschera da sopra l’occhio destro. Dava l’impressione che la faccia gli si stesse squagliando, con quei pezzi di finta pelle che si staccavano qua e là, ed era un’immagine rivoltante che Ferid faticava a identificare con lo splendido adolescente che Robert era nella sua memoria.

«La mia malattia è cominciata quando tu hai iniziato a lavorare in quel posto… non so se hai trovato il maleficio dentro uno di quei dannati libri o se è stata quella strega ad aiutarti, ma tu ti sei vendicato di quello che ti ho fatto. Mi hai maledetto, mi hai tolto la bellezza e la giovinezza che avevo ancora e te la sei presa.»

«Tu sei un pazzo squilibrato, e se lo dico io sta’ sicuro che non c’è da andarne fieri.»

Quando sollevò l’arma con un gesto improvviso Ferid alzò le braccia e chiuse gli occhi di riflesso, ma non venne sparato alcun colpo; Robert lo spinse violentemente contro la libreria e l’urtò con tanta forza da farlo cadere in ginocchio per terra insieme ad alcuni volumi piazzati in bilico sugli scaffali.

«Ti ho trovato proprio per via della mia malattia… nessun dottore sapeva come guarirmi né come rallentare l’invecchiamento, quindi mi sono convinto di trovare la risposta nelle scienze occulte… ho letto qualcosa in rete, comprato alcuni libri… poi ho saputo del Magick, il negozio specializzato più fornito del paese, quindi mi sono preso l’incarico di amministrare il settore turistico dell’azienda che ho ereditato dalla mia ultima moglie. Gli uffici sono qui a Holden.»

Ferid preferì scorrere lo sguardo sui libri di alchimia a terra che sul viso rovinato di Robert, cercando di ricordare un viso che avesse trovato simile al suo tra i molti clienti, ma non gli sopravvenne. Dopotutto era capace di cambiare il suo aspetto in modo così strabiliante che se non avesse voluto farsi riconoscere ci sarebbe di certo riuscito.

«Sei… venuto in negozio da me?»

«Molte volte, Rid. Tu non mi hai mai riconosciuto… ma era quello che volevo. Anche quelle volte indossavo maschere come quella che hai visto, o del trucco pesante… i miei primi anni da Dirk Todd sono stati passati in una compagnia teatrale. Sono stato fortunato a imparare a cambiare aspetto.»

«Dirk Todd?»

Questa volta Ferid incrociò i suoi occhi chiari.

«È così che ti chiami ora?»

«Sì. È il mio nome da oltre dieci anni ormai… ci ho costruito un impero, con tanta ricchezza da far impallidire anche il nome dei Cosworth…»

«Bobby… perché la povertà ti ha sempre spaventato tanto?»

La domanda parve sorprendere l’uomo, che lasciò che l’arma finisse puntata sul pavimento ruvido. Ferid si rialzò lentamente in piedi, ma non osò avvicinarsi per paura che non fosse distratto come sembrava.

«I tuoi genitori erano contadini… tu volevi venire in America e fare soldi, ma… non ti era mancato niente. I tuoi genitori ti amavano, rinunciavano a qualsiasi cosa per riuscire a farti avere vestiti nuovi, cose che andavano di moda tra ragazzi, uno scooter per andare a scuola, videogiochi…»

«Come puoi dirmi che non mi mancava nulla? Avevi cento volte di più di quello che avevo io! Migliaia di libri, cibo di lusso, cavalli, una villa intera con la servitù che faceva tutto quanto volessi!»

«E avrei dato via tutto per avere l’amore che i tuoi genitori ti davano… anzi, l’ho fatto. Io ho rinunciato a tutto questo per l’amore che tu mi promettevi.»

Il silenzio che seguì era carico di rabbia e di disagio, come se Robert si fosse accorto soltanto in quel momento di aver effettivamente fatto qualcosa di sbagliato per meritare la maledizione che nel suo delirio Ferid gli aveva lanciato addosso.

«Sono sempre stato arrabbiato con te, Bobby… perché hai fatto una cosa orribile a un ingenuo ragazzino di sedici anni… ma per quanto vale, non mi è mai importato di trovarti e di vendicarmi… tantomeno mi sarei preso la briga di scovare una maledizione. Per quanto ti sembri ridicolo, io non credo alla stregoneria.»

Mosse qualche passo esitante verso di lui, sforzandosi di ignorare tutto ciò che poteva fargli salire la rabbia verso quell’uomo: l’abbandono in America, i bambini uccisi, la trappola che aveva decimato la squadra omicidi… sigillò tutto là nel vecchio baule della memoria, dove non poteva essergli d’intralcio.

«Se fossi venuto al negozio e mi avessi detto che eri tu… io penso che sarei stato… felice di rivederti. Anche se di certo avrei gradito almeno delle scuse sentite…»

Bastò sfiorargli la mano sinistra perché la destra si sollevasse e gli puntasse l’arma contro, costringendolo a fare un passo indietro.

Pare che non sarà così facile persuaderlo.

«Non me la bevo! Questa malattia deve avere una ragione! Hai letto tutta quella dannata libreria, no? Devi saperne qualcosa!»

«Ah… è questo il motivo per cui non volevi ancora uccidermi? Volevi chiedermi se sapevo come guarirti… o toglierti la maledizione?»

«Tu lo sai?»

Ferid abbassò le mani lentamente, costringendosi a riflettere con attenzione. Paradossalmente convincere Robert di avere una sfortunata malattia rara avrebbe remato contro di lui, ma se avesse assecondato la sua follia, se gli avesse lasciato credere che lui era stato capace di maledirlo e che fosse il solo in grado di liberarlo… allora le carte si sarebbero ribaltate e il coltello l’avrebbe avuto lui dalla parte del manico.

«Hai rischiato grosso, Bobby. Mi hai quasi ucciso con il veleno. Perché l’hai fatto, se volevi chiedermi come potevi liberarti?»

«Quella… è stata la disperazione.» ammise lui, con una smorfia. «Pensavo che i bambini sarebbero bastati a guarirmi… ma non succedeva e ho pensato che forse uccidendoti la maledizione avrebbe smesso di consumarmi.»

«Che cosa intendi con “i bambini sarebbero bastati a guarirmi”?»

«Ho provato molte cose… magie, guarigioni… medicine di erbe a centinaia, sono stato in Messico da diversi stregoni della santeria… nel mentre ho studiato l’alchimia, che aveva i risvolti potenziali più promettenti, e ho preso anche molti preparati messi a punto da me… qualcuno ha alleviato i miei sintomi, ma niente fermava l’invecchiamento… poi un giorno mi sono imbattuto in un antico testo di Ermete Trismegisto.»

Il nome a Ferid disse tutto e nulla, poiché si trattava di una figura leggendaria, controversa, alla quale era stato attribuito un consistente numero di scritti filosofici ed esoterici che andavano dalle profezie all’evocazione di angeli e demoni, dalla magia rituale all’alchimia. Non sapendo in che direzione orientare le sue teorie attese che Robert si spiegasse da sé; cosa che invero sembrava impaziente di fare.

«Parlava di un rituale che permetteva di sconfiggere la morte… di ottenere poteri tali che avrei potuto spezzare la tua maledizione e riconquistare la giovinezza. Tutto ciò che mi serviva erano i cuori sani di ragazzini… di bambini, che non fossero ancora stati corrotti da droghe, alcol, e comportamenti dannosi… cuori perfetti…»

«Bobby. Che cosa diavolo hai fatto con i cuori di quei bambini?»

Con la sensazione sgradevole di aver avuto ragione riguardo alla sua inquietante premonizione Robert accennò alla stufa nell’angolo del laboratorio.

«Come dice lo scritto, l’ho estratto dai corpi vivi, l’ho ridotto in cenere, l’ho mescolato al vino rosso e l’ho bevuto… secondo un altro scritto alchemico, con il sangue ho preparato un unguento che avrebbe dovuto ringiovanirmi esternamente… era un peccato sprecarlo, io odio lo spreco. Tu lo sai.»

«Sei disgustoso, Bobby… come ti è potuto anche solo venire in mente di mettere in pratica una cosa simile? Erano dei bambini!»

Lui scrollò le spalle, innalzando a vette ancora più alte – se possibile – il suo disprezzo. Ignorando l’arma gli andò tanto vicino da prenderlo per il bavero, ma Robert per quanto sorpreso non era intenzionato a minacciarlo o ad allontanarlo.

«Bobby! Erano bambini con tutta la vita davanti! Bambini con delle famiglie, dei sogni e dei talenti! Come hai potuto fare loro qualcosa di così… orrendo, solo per salvare te stesso?!»

Gli afferrò il polso e lo torse con tanta brutalità da fargli produrre un tremendo rumore scrocchiante; la fitta di dolore fu tale che strappò a Ferid un gemito.

«Non accetto che mi critichi… tu hai causato questo. Tu e i tuoi giochetti con quella strega tua amica.»

«Non ti toglierò mai quella maledizione!»

Lo fissava negli occhi e tra la fredda analisi della situazione e la rabbia che ribolliva nelle viscere aleggiava una curiosa nebbiolina, dove la sua mente non faceva altro che ripetere “sono stato partorito da un topo blu su una mongolfiera in volo, sono stato partorito da un topo blu su una mongolfiera in volo” nella speranza di risultare sfingeo come era riuscito a essere davanti a un esperto lettore di linguaggio del corpo qual era Mikaela.

Ebbe successo, perché la faccia di Robert si deformò ulteriormente per la rabbia. Lo buttò faccia a terra con un calcio, gli pestò la schiena con il piede e posò la canna della pistola contro la sua tempia.

«Allora ti dovrò obbligare a farlo.»

Ferid forzò una risata.

«Provaci… ma stai attento, Bobby… se mi uccidi provandoci la maledizione continuerà finché non sarai una mummia vivente.»

«Accetto la sfida.»

L’afferrò per i capelli tirandoli con forza per costringerlo ad alzarsi, solo per sbatterlo con la delicatezza di una carica di rinoceronte sul tavolo con le cinghie. Non riusciva a spiegarsi come potesse avere tanta forza fisica in un corpo consumato da una simile malattia, ma non riuscì a opporglisi e finì legato polsi e caviglie al tavolo dalla sanguinosa storia.

Robert prese fiato dopo la breve lotta come se avesse solo portato in casa una pesante spesa e si mise tranquillamente ad accendere la stufa. Era evidente che non era affatto preoccupato che qualcuno potesse trovarli, o sentirlo se avesse gridato, e in effetti l’intera zona sembrava fatiscente e abbandonata a se stessa.

Ferid tirò le cinghie – con dolore del suo polso – solo per constatare che erano ben solide.

«Tira quanto vuoi, Rid… ho delle cose da preparare prima di dedicarmi a te.»

«Fa’ con comodo.»

Uno squillo di telefono prese entrambi di sorpresa. Un profondo disappunto dopo aver controllato il cellulare fu la prima reazione e dopo un sospiro rispose.

«Ciao, Justine, mia cara… perdonami tanto per la nostra cena, ma ho avuto un problema ai denti… sì, infatti, e sai la cosa peggiore? Mentre ero dentro lo studio mi hanno rubato la macchina! La Mercedes nera, sai.»

Justine…

Quasi avesse letto il pensiero di Ferid Robert gli lanciò un’occhiata provocatoria.

«Sai chi ho incontrato di sfuggita oggi, Justine? Oh, no, tranquilla. Non preoccuparti della macchina, torno a casa in taxi e uso la Toyota.» minimizzò in tono leggero. «Ti stavo dicendo, ho incontrato quel tuo amico, sai… quel professore che frequenta la biblioteca, quello con cui parli spesso… sì, ecco come si chiamava, Trobiano.»

Fu un piccolo shock aggiuntivo pensare che Justine, la cara ragazza della biblioteca, fosse legata a Robert. Questo gettava una luce diversa su tutto quanto e di certo poteva chiarire come Robert fosse riuscito ad arrivare a bambini di cui lui non sapeva neanche i nomi e che spesso non descriveva neanche fisicamente nei suoi diari.

Forse travisando la causa del suo sbigottimento Robert prese una strana strada in quella conversazione.

«Ovviamente stasera non me la sento di andare a cena, anche perché ho la gengiva gonfia, ma se rimandiamo a domenica ti prometto che sarò tutto tuo… per tutta la notte, e farò ogni singola cosa che ti piace. Che ne dici, tesoro?»

Sei uno schifoso, Bobby. La usi proprio come usavi me, come hai usato anche quelle poverette sole che hai derubato… le persone non sono maledetti giocattoli!

Ponderò di gridarle qualcosa, di farsi sentire… ma decise quasi immediatamente di non farlo. Se era come credeva, Justine non sapeva nulla del laboratorio e coinvolgerla come testimone nel rapimento era metterla in pericolo. Se era sua complice – seppure quella conversazione non dava appigli in tal senso – gridare era inutile.

Prese a tirare le cinghie con maggiore impegno, ignorando la sua conversazione al telefono, scrutando il cuoio alla ricerca di un punto debole. Per quanto osservasse non vedeva segni di logoramento o strappi che potessero aiutarlo. Tirò il più possibile e valutò la lunghezza massima e quanto il cuoio si tendesse: ogni dettaglio, ogni centimetro poteva fare la differenza in una simile situazione.

Appena un paio di centimetri, ma se…

Guardò la stufa, con il carbone ancora spento. Al momento non poteva contare sul calore. Abbassò lo sguardo sulle caviglie per scoprire quanto spazio di manovra aveva per muovere le gambe, ma il modo in cui lo guardava Robert, con quello strano sorriso storto, lo portò a fermarsi. La sua telefonata era finita senza che se ne accorgesse.

«Sai… ti trovo stranamente eccitante così legato, Rid.»

Ferid non rispose e cercò di indossare una maschera inespressiva: se soltanto gli avesse dato un minimo segno del fatto che quell’argomento poteva esercitare un potere su di lui Robert non avrebbe esitato a servirsene per obbligarlo a sciogliere una maledizione.

«Beh, per ora accendo la stufa… spogliarsi in una stanza fredda non è affatto piacevole.»

Si accovacciò lì davanti e prese a trafficare con il carbone e dei trucioli per accendere il fuoco. Ferid lanciò uno sguardo alla scaffalatura di barattoli di sostanze sconosciute, poi al carrello di strumenti chirurgici, e infine alla stufetta. Aveva a disposizione infinito tempo, braci ardenti, bisturi, chissà quali altri strani aggeggi, e sostanze di qualsiasi genere. Potenzialmente poteva torturarlo anche per giorni, riducendo un corpo bello e piuttosto funzionale a un relitto. Poteva anche renderlo cieco, zoppo, o inabile in vari modi pur senza rischiare di ucciderlo.

Serrò istintivamente occhi e pugni, pregando che la polizia di Satbury fosse capace di trovarlo prima che gli succedesse qualcosa di irreparabile, poiché al momento il solo miraggio di salvezza giaceva in quella vecchia stufa.

 

*

 

Crowley, a bordo della sua auto, stava facendo per la terza volta lo stesso giro. Proseguiva così piano che stava suscitando sospetto nei passanti, ma non se ne curava: era deciso a non farsi sfuggire neanche un buco dove quella dannata Mercedes potesse essere stata nascosta.

Alla radio un’altra pattuglia comunicò il nulla di fatto del loro posto di blocco. Nell’ultima ora non aveva praticamente sentito altro, nessuna delle Mercedes fermate aveva a bordo Dirk Todd o qualsiasi altro uomo sospetto.

Crowley sospirò e superato l’incrocio si diresse ancora più a nord, verso la contea di Dern. Il suo settimo senso gli diceva che la sua base doveva trovarsi in quelle zone, perché il fatto che Samara fosse stata lasciata nel bosco gli suggeriva che fosse un conoscitore del circondario.

Nel prossimo isolato.

Non faceva che ripeterselo, perché sapeva che se avesse ceduto solo per un momento, se si fosse messo a pensare che Ferid avrebbe già potuto essere un cadavere nascosto dove non l’avrebbero più trovato, o che l’avrebbe atteso la mattina dopo l’orrenda visione del suo petto squarciato derubato del cuore, non sarebbe più riuscito a cercare. Avrebbe ceduto alla disperazione, alla rabbia e a mille altre cose orrende che aveva dentro in un punto oscuro, come se avesse aperto il vaso di Pandora.

La suoneria del suo cellulare riempì l’abitacolo. Dapprima non avrebbe voluto rispondere, ma poi vide che il numero era quello di Gabriel Rogue. Accostò davanti a un minimarket e rispose.

«Eusford.»

«Signor Eusford, sono Gabriel.»

«Lo so, Gabe. Che cosa c’è?»

«Ecco, io stavo facendo una ricerca più approfondita e…»

«Cosa fai ancora in centrale? Il tuo turno è finito da un pezzo.»

«Chissene importa, santo cielo! Con quello che sta succedendo andare a casa è l’ultimo dei miei pensieri, le assicuro!» esclamò lui indignato. «Mi ascolti, per favore, l’ho chiamata per un motivo!»

«Dimmi.»

Non era davvero interessato, perché riteneva che le migliori chance le avessero i poliziotti in strada che potevano avvistare e bloccare il veicolo incriminato, e il curriculum di Warren o altre prove da ingrasso per il fascicolo non avrebbero salvato Ferid.

«Stavo indagando più a fondo su Dirk Todd. Gran parte delle sue proprietà personali sono in California e in Florida, possiede poi l’appartamento dove siete stati oggi con la ragazza di Todd.» snocciolò rapido Gabriel; continui click e ticchettii come sottofondo. «Ho iniziato a indagare nelle proprietà della sua holding e penso di aver trovato qualcosa di strano… non ne sono sicuro, ma… per trovare il suo partner un tentativo è da fare, non trova?»

Con le emozioni inibite dall’adrenalina Crowley ci mise un po’ a registrare e comprendere quella sensazione.

Gabe è rimasto in centrale a cercare nel modo in cui sapeva di rendere meglio… e l’ha fatto perché sapeva che l’uomo che è scomparso è il mio uomo.

Riuscì quasi a sorridere e mise l’auricolare per potersi rimettere in strada mentre parlava.

«Che cos’hai trovato?»

«Una vasta proprietà a Farmer’s Dry, nel North End. La holding ha comprato diversi piccoli lotti con l’idea di costruirci sopra un distretto commerciale autonomo, un grosso progetto… ma poco dopo l’arrivo a New Oakheart di Todd il progetto è stato sospeso per sua insindacabile decisione nonostante i cantieri fossero già stati aperti.»

«Questo è interessante, Gabe. Hai scoperto perché?»

Ripartì e fece inversione al primo spazio glielo permettesse, puntando dritto verso Farmer’s Dry, una zona lasciata a se stessa nel North End a seguito di una terribile vicenda di inquinamento delle acque potabili per colpa di tubature costruite con materiali scadenti.

Acquistare i terreni, risanare gli impianti e costruire edifici… è un grosso investimento da troncare a metà senza una ragione valida.

«Ho rintracciato qualcuno del consiglio di amministrazione per telefono, ma a quanto mi hanno detto il presidente ha deciso che non valesse l’investimento di denaro e ha dirottato i fondi su un altro progetto… ma i cantieri non sono stati smantellati.» fece Gabe dal telefono. «Ora… un cantiere abbandonato in una zona totalmente disabitata non le sembra un ottimo posto per detenere una persona sequestrata… o per eseguire una complessa procedura medica illegale?»

«Mi sembra eccome.» convenne Crowley, che schiacciò l’acceleratore oltre il consigliabile dalla prudenza. «Ottimo lavoro, Gabe. Guidami verso la zona dove doveva essere costruito questo distretto commerciale.»

Seguendo le sue indicazioni arrivò dieci minuti dopo in un luogo così buio, derelitto e inquietante che stentava a credere che potesse far parte del suo amato North End. Le stradine erano malridotte e strette, poco illuminate. Era di certo un ottimo posto per sbandati e traffici illeciti.

«Non vedo civici… quasi tutti gli edifici sono nascosti da recinzioni chiuse o reti di sicurezza.»

«C’è già dentro, signor Eusford… il suo cellulare è dentro la zona di proprietà della holding Lubetski.»

«È una zona enorme… Gabe, do un’occhiata in giro nel caso trovassi l’automobile.»

«Faccia attenzione… devo mandarle una pattuglia a supporto?»

«Onestamente quella che sto per fare è una violazione di proprietà privata, quindi contatterò io gli altri con la radio se trovo qualsiasi cosa che giustifichi la nostra presenza qui.»

«Continuo a cercare sul conto di Todd… io… faccia attenzione.»

«Non ti preoccupare. Non creperò prima di vederlo dietro le sbarre, puoi giurarci.»

Crowley chiuse la telefonata e proseguì lentamente, guardandosi intorno alla ricerca di segni di vita, ma non una luce tradiva la presenza di qualcuno negli edifici. Poi, mentre passava davanti a un palazzo inglobato in un’impalcatura e alla gru che un tempo doveva aver contribuito a costruirlo, inchiodò. Scese dalla macchina incespicando per la fretta e non chiuse nemmeno lo sportello.

Per terra c’erano dei segni di pneumatici.

Non è possibile che questi segni siano qui da anni… e nei giorni scorsi ha piovuto molto. Sono recenti…

Crowley accese la torcia del suo cellulare e seguì le tracce dentro il cortile. Seppe che erano molto recenti quando lo fece, perché anche i suoi passi lasciavano una leggera impronta nel terreno umido e morbido.

Le tracce lo portarono dritto a un telone verde di plastica. Al tatto era umido, ma non c’era traccia di acqua nelle pieghe. Con il cuore che batteva più forte del normale lo sollevò e la luce illuminò parafango, carrozzeria nera, una targa che iniziava per ottantasei e lo stemma della casa Mercedes.

Ti ho trovato.

Con un misto di entusiasmo e terrore scrutò l’oscurità del cortile, ma non vide nulla e non udì alcun rumore. Era surreale un tale silenzio in una città come New Oakheart. Con circospezione sollevò il telo facendosi strada verso l’abitacolo, che però trovò vuoto. Non sapeva se essere deluso di non trovarci Ferid o se essere felice che non fosse lì dentro già morto.

Quindi chiunque fosse in macchina è sceso…

Diresse la luce per terra e individuò impronte di stivali molto leggere. Le seguì per qualche metro, trovandole accompagnate da altre suole di stivali con un tacco largo, ma purtroppo la promettente pista lo lasciò a metà nel senso letterale: metà del cantiere era coperto di ghiaia grossolana sul terreno più compatto e non scorgeva più tracce. Non sapeva dove fossero andati.

Ben lungi dal darsi per vinto si guardò intorno e rimase stupito di trovare ingressi e finestre murate al piano terra dell’edificio. Dettaglio che infiammò il suo settimo senso. Fece più rumore del consigliabile, ma pistola alla mano e cellulare nell’altra per la luce fece tutto il giro del palazzo alla ricerca di un punto di accesso, inutilmente.

Non so come siano entrati, ma sono qui dentro… possibile che…?

Crowley ripose la pistola sotto la giacca e si portò in un punto promettente: un cumulo di macerie offriva un possibile trampolino per aggrapparsi all’impalcatura ed eventualmente issarsi al piano superiore. Mise il telefono tra i denti per poter avere luce e le mani libere, ma quando spiccò il saltò andò a vuoto e atterrò sul terreno compatto.

Non ci siamo… io sono parecchio alto, ma ci mancano ancora venti o trenta centimetri per aggrapparsi… dovrebbe essere un ginnasta per fare di meglio, e anche se potesse, come avrebbe potuto portare Ferid lì sopra?

Riprese a cercare con gli occhi, ma doveva esserci qualcosa che non vedeva. Un passaggio celato, un accesso sotterraneo o qualcosa che permettesse di accedere dall’alto. Forse una scala poteva essere stata fissata per salire e poi lasciata sull’impalcatura superiore per servirsene al momento di scendere.

Non mi arrendo, Warren. Augurati di non avergli ancora fatto nulla di grave, perché giuro su Dio che non ho la minima esitazione a piantarti un proiettile in testa.

Mentre la sua anima immortale si dibatteva tra la furiosa sete di giustizia e i cattolici sensi di colpa, iniziò a controllare che i mattoni che chiudevano finestre e porte fossero cementati oltre ogni ragionevole dubbio.

 

*

 

All’ultimo piano il ronzio delle luci, il crepitio della stufa e delle fiammelle e il ribollire di liquidi in pentolini e fialette erano i soli rumori udibili. Qualsiasi cosa Robert stesse facendo la stava facendo in silenzio, molto concentrato. Dal canto suo Ferid era altrettanto silenzioso e concentrato, ma non su quello che il suo aguzzino stava preparando per lui: cercando di soffocare il fiato corto e i fruscii stava muovendo ritmicamente braccia e gambe da diversi minuti che gli parevano ormai ore. Si fermò un attimo per rifiatare e tirò al massimo la cinghia della mano sinistra per capire a che punto fosse il suo piano, e con enorme stupore si accorse che procedeva meglio di quanto credesse. Tirò con forza, ignorando il dolore e senza emettere fiati, finché la pelle resa più scivolosa dal sudore non scivolò via dalla cinghia.

A fatica contenne la gioia e l’adrenalina, quel geyser misto di emozioni gloriose che gli eruttò in corpo a quel fortunato giro di vento, e fu con forzata calma che si liberò l’altro polso.

Probabilmente il fatto che narcotizzasse i ragazzini gli ha impedito di immaginare che la vicinanza del lettino alla stufa potesse aiutarli a liberarsi rendendo più facile sfilarsi le cinghie… e di assicurarsi che fossero molto strette.

Una fitta di dolore che non era fisico lo attraversò quando si rese conto che tutti bambini che aveva incontrato erano tutti spirati su quel tavolo, e si ritrovò a sperare che nessuno di loro avesse mai ripreso conoscenza per provare l’orrore di vedere un folle dissanguarli con una macchina e aprire il loro torace.

Si liberò le caviglie senza che Robert accennasse a voltarsi verso il tavolo, preso com’era a mescolare una sostanza incolore con l’attenzione che avrebbe riservato a un acido. In effetti Ferid non aveva alcun indizio per escludere che di ciò si trattasse davvero.

Tuttavia, la parte facile era passata: per uscire dal laboratorio avrebbe dovuto passargli alle spalle e raggiungere una porta che rientrava nel suo campo visivo pienamente ogni volta che posava o prendeva uno strumento dal carrello, e a sua volta questo silenzioso assistente ingombrava l’uscita. Ferid guardò le finestre, coperte da specchi neri dei quali non capiva l’uso.

Con le finestre in questo lato che cosa voleva controllare? Per quanto ne so gli specchi neri sono usati in chiaroveggenza e stregoneria, ma in alchimia… a che potrebbero mai servire?

Allora capì il motivo per il quale collocare un laboratorio illuminato in cima a un palazzo anziché in un piano più basso che desse meno nell’occhio: i vetri dipinti di nero da fuori riflettevano l’interno e impedivano alle luci artificiali di tradire l’alchimista assassino.

«Ehi!»

Ferid vide l’alchimista guardarlo dal riflesso e si voltò per fronteggiarlo. Non c’erano parole per descrivere quanto fosse stupito di vederlo libero, neanche per un vorace divoratore di libri come lui.

«Come ti sei liberato?»

«Sarai il più grande alchimista del secolo, Bobby… ma io resto il miglior mago del secolo.» fece lui, enigmatico, con un accenno di sorriso. «Vuoi mettermi alla prova?»

Non avrebbe potuto sperare in una congiunzione astrale – nel suo vocabolario, coincidenza – migliore: nel momento in cui sollevò la mano verso di lui una delle provette che aveva lasciato sulla fiammella scoppiò spargendo il liquido e schegge di vetro ovunque. Quel gesto e quell’avvenimento, quasi concomitanti, produssero un impatto duro su Robert.

«Ma che cosa sei tu?»

«In verità… solo un umile libraio, ma molto agguerrito.»

Prima che Robert potesse ricomporsi dal turbamento e recuperare l’arma dal secondo tavolo Ferid raccolse l’oggetto più pesante a portata di mano – un paiolo in ghisa adatto a tollerare bene fiamme e braci – e lo scagliò contro il vetro nero; lo sbriciolò come un cracker calpestato da un cavallo da tiro.

Mentre udiva il tonfo assordante dell’oggetto sul pannello dell’impalcatura Ferid scavalcò la finestra incurante dei vetri taglienti: Robert si era lanciato verso l’arma e non poteva permettersi di restare nella sua visuale.

Crowley, dieci piani più sotto, allo schianto del paiolo si buttò per terra sulla schiena e puntò l’arma in alto, ma non vide nulla. La pioggia di vetri infranti si abbatté a un paio di metri da dove si trovava.

Si allontanò rapidamente dall’edificio, inciampando perché teneva lo sguardo in alto seppure la debole luce del telefono non gli permettesse di vedere i piani alti dello scheletro del fabbricato. Sentì i passi di qualcuno che correva sul metallo delle impalcature e a seguire un grido rabbioso.

«Rid, dove pensi di scappare, eh?!»

Per quanto strizzasse gli occhi non vedeva nulla se non una luce apparsa a una finestra dell’ultimo piano.

«FERID!»

I passi si fermarono, in un attimo di silenzio angosciante. Ferid, che da lassù poteva vedere una figura vagamente familiare nella luce del cancello e riconoscerne senza dubbio la voce, si aggrappò a una sbarra dell’impalcatura e agitò il braccio, nella speranza di farsi notare.

«Crowley! Sono quassù!»

Per un attimo Crowley si sentì sollevato di poter sentire ancora la sua voce, ma poi esplose un colpo con una fiammata che conosceva molto bene. I passi ripresero e capì che Ferid stava scappando da chiunque fosse – Warren, ne era intimamente certo – a tenere l’arma da fuoco.

Mentre Ferid si lanciava nel più atletico e disperato degli esercizi ginnici della sua vita per scendere al piano inferiore senza usare le scale interne, il suo compagno si precipitò all’auto agguantando la radio.

«A tutte le unità ai posti di blocco, qui Eusford! Convergere a Farmer’s Dry al cantiere del palazzo più alto nella proprietà Lubetski! Ho un contatto visivo con il sospettato, è armato e ha un ostaggio, ho bisogno di rinforzi subito!»

Dopo qualche secondo ricevette una prima risposta da un’unità della stradale; seguì la conferma della destinazione dall’unità di Rachel e subito dopo da Harry. Chiesti i rinforzi non restava che una cosa da fare.

Tornò al cortile, arma in mano, ma da lì sotto non poteva fare niente per Ferid. Sussultò ai due spari successivi, ma sentiva due diverse serie di passi e seppe che Ferid non era stato colpito.

Lassù c’è luce… e anche le luci dell’ingresso sono accese… c’è ancora corrente, quindi…

Ci mise poco più di trenta secondi a seguire il cavo dal faro dell’ingresso fino alla centralina della corrente, ma gli parve comunque un’eternità. Sollevò tutti gli interruttori: la recinzione e tutti i fari piazzati sulle impalcature si accesero intorno al triste scheletro di cemento e metallo e con un certo sollievo vide Ferid scavalcare il davanzale di una finestra del penultimo piano e accucciarsi al di sotto.

Ferid si chiedeva se ci fosse un modo sicuro per farsi vedere da Crowley senza entrare nell’area di tiro di Bobby, ma la sola cosa che gli veniva in mente era scendere aggrappandosi all’impalcatura. Non gli sembrava sicuro e così restò raggomitolato lì a tirare il fiato più silenziosamente potesse.

Crowley voleva correre lassù a salvarlo, a costo di scaricare l’intero caricatore su quel ripugnante individuo, ma non sapeva come raggiungerlo e si sentiva impotente.

Devo salire lassù a prenderlo… ma come sono entrati? Se glielo chiedessi e mi rispondesse Warren capirebbe dove si trova…

Fuori dal campo visivo del fuggiasco ma dentro quello del poliziotto un altro uomo, che non aveva i capelli lunghi di Ferid ma aveva un’arma altrettanto argentata, girò l’angolo.

«WARREN! Arrenditi, non puoi più scappare!»

L’uomo si bloccò e guardò in giù, ma non prestò la minima attenzione al suo avvertimento. Di certo pensava che se fosse riuscito a mettere le mani su Ferid avrebbe avuto un’efficace moneta di scambio per scappare; questo ammettendo che il passaggio per entrare nell’edificio murato non fosse abbastanza sicuro da permettergli anche una sicura fuga.

Lo sguardo che freneticamente cercava una soluzione si posò sulla gru, il cui basamento era vicino alla Mercedes. Ne percorse l’intera altezza, tutto il braccio, e vide che arrivava molto vicino al tetto del fabbricato.

Devo essere pazzo anche solo per pensarlo… ma…

In un attimo decise, ripose la pistola e alzò gli occhi appena in tempo per vedere che Ferid lasciava il suo posto per lanciarsi di corsa dietro l’angolo, al riparo dal suo aggressore. Il suo avvertimento l’aveva allarmato sulla sua vicinanza o Warren aveva fatto rumore camminando?

«RESISTI, FERID! VENGO A PRENDERTI!»

Così detto prese il coraggio tra i denti in senso quasi letterale, perché il solo pensare di arrampicarsi su una gru alta trenta metri gli suscitava un tale senso di vertigine che digrignare i denti gli veniva spontaneo, e iniziò a salire la scala a pioli interna alla struttura il più in fretta che poteva. Teneva gli occhi fissi sul piolo successivo e le orecchie tese a sentire urla, spari e passi, in attesa delle sirene dei colleghi, almeno finché non sentì un altro schianto e rumore di vetri.

Ferid infatti aveva schiantato un’altra finestra per rientrare nel laboratorio dopo aver riconquistato il piano superiore. Si trovava già vicino alla stufa con la paletta per la cenere tra le mani quando rivide il suo piano originale.

Se brucio qualcosa per attirare i soccorsi qui… potrei distruggere tutto il laboratorio. Potrei distruggere tutte le prove.

«Basta giocare, Rid!»

A quell’urlo trasalì, perché capì che era molto vicino al laboratorio e stava per varcarne la porta dopo essere risalito dalle scale: abbandonò la pala di ferro e uscì dalla prima finestra che aveva rotto, deciso a fare la sua parte per la risoluzione del caso guadagnando la maggior quantità di tempo possibile.

«Se non torni immediatamente qui ti taglio i tendini appena ti ripesco, mi hai sentito?!»

Devi solo provarci, bastardo schifoso, dammi un solo motivo per spararti in testa!

Da quel lato Crowley non poteva vedere dove Ferid si trovasse, quindi sentire Warren imprecargli contro era comunque una splendida sicurezza.

Arrivare fino in cima gli costò fatica e apparentemente un’infinità di tempo, ma purtroppo si rendeva conto di aver superato solo la parte più facile: avrebbe dovuto camminare lungo tutto il braccio della gru, con la consapevolezza di un vuoto abissale sotto i suoi piedi, e solo il guardare quel miglio verde che era il braccio della gru si sentiva le gambe irrigidite dalla paura.

Dopo qualche secondo però puntò gli occhi dritto davanti a sé dandosi uno schiaffo sonoro su entrambe le cosce.

Se non per lui, per chi altro?

Con il punto più equilibrato tra rapidità e prudenza si avviò lungo il braccio metallico. Lentamente si avvicinava e Ferid entrò di nuovo nel suo campo visivo, ma non fu una visione confortante: Warren era poco dietro di lui e afferrandolo per i capelli riuscì a trattenerlo e a bloccarlo passandogli il braccio intorno al collo. Non gli puntò l’arma addosso come credeva che avrebbe fatto.

«Fine dei giochi! Ora dentro!»

«Col cavolo!»

Ferid si aggrappò con le mani a uno dei pali dell’impalcatura e resistette a diversi robusti strattoni e feroci tirate di capelli che lo fecero lamentare per il dolore.

«C-Crowley!»

Quando lo sentì chiamare il suo nome con quella disperazione nella voce Crowley si sentì come spezzare il cuore, soprattutto perché non riusciva ad arrivare da lui: le gambe gli si erano completamente bloccate, non riusciva a proseguire. Il fiato era corto come se avesse corso per chilometri. Era arrivato al limite invalicabile della sua fobia e imprecò a voce alta, furioso perché quella sua stupida paura gli stava impedendo di aiutare la persona più importante per lui.

Ferid cedette la presa a un nuovo violento strattone; non si sentiva più le dita delle mani se non per un intollerabile dolore. Crowley alzò lo sguardo assistendo alla sua convulsa lotta per liberarsi dalla stretta di quell’uomo sul suo collo.

Aiutami…

Crowley forzò le gambe e piegò la sua stessa mente rimettendosi in piedi sul braccio della gru; fissò gli occhi blu sui due uomini così vicini ed estrasse la pistola afferrandola saldamente con entrambe le mani. Purtroppo non aveva la fama di un grande tiratore e non per candida modestia, ma se Warren fosse riuscito a immobilizzare Ferid o a tramortirlo nulla gli avrebbe impedito di tornare a finire il poliziotto che li stava infastidendo per poi darsi alla fuga, e non era detto che non uccidesse anche Ferid prima di battersela.

Signore, lui è la tua spada… ma… per favore, non portarmela via così presto!

Stranamente, il solito tremore che accompagnava la sua folle fobia del vuoto non si era manifestato. La mano era ferma, il vento debole, la visuale libera, la distanza accettabile. Le circostanze erano a suo favore… se non fosse che aveva paura di sparare. Non aveva abbastanza fiducia nella sua capacità di tiratore.

Se solo sapessi sparare come George… lui avrebbe sparato questo colpo a occhi chiusi…

Fu allora che gli parve di sentire davvero la voce del suo caro amico direttamente da una memoria dei tempi dell’accademia: gli aveva spostato la cuffia protettiva per strillargli nell’orecchio di mirare con tutti e due gli occhi aperti e di sparare solo dopo aver espirato.

«Ferid, non muoverti!»

Ferid l’aveva sentito. Dopo averlo visto sulla gru restò sorpreso, ma poi abbassò la testa quanto riuscisse e strinse gli occhi in attesa del colpo. Non solo, afferrò il braccio di Robert come a volergli impedire di muoversi tanto da evitare il colpo. Dal canto suo Warren non si sottrasse, forse convinto che non avrebbe osato sparare da quella distanza rischiando di colpire il suo ostaggio.

Crowley soffiò fuori l’aria dai polmoni prendendosi quel secondo in più per farlo, fissò entrambi gli occhi sull’uomo dai capelli corti e senza esitare oltre esplose un unico colpo che riecheggiò nel cantiere deserto in maniera innaturale.

Ferid cadde in avanti, inginocchiandosi con un tonfo metallico sull’impalcatura. Warren, colpito alla spalla, lanciò un grido cavernoso di dolore lasciando cadere l’arma di riflesso.

Istintivamente l’uomo dai capelli lunghi si sporse per recuperare l’arma prima del suo aggressore, che intuendo la sua intenzione si affrettò a fare lo stesso. Accadde in un attimo, tanto che Crowley non riuscì a pronunciare un avvertimento: Robert Warren barcollò verso la pistola, mise il piede sul sangue che gli era fuoriuscito dalla spalla e scivolò. Fatalmente vicino al bordo cadde contro la sbarra che fungeva da parapetto, troppo corrosa dalla ruggine per sostenere il suo peso, e grattò il pannello in cerca di un appiglio mentre soccombeva alla forza di gravità.

«NO!»

Ferid lasciò l’arma sulla quale aveva messo le mani e afferrò la manica di Robert prima che cadesse. Lui, nonostante avesse tentato di torturarlo e ucciderlo senza alcuna pietà, si aggrappò disperatamente a quella di un uomo che aveva ancora in mente un’immagine di lui difficile da cancellare anche con tutto quel rancore.

«Tieniti… non mollarmi il braccio!»

Ferid lo disse d’istinto, ma come avrebbe potuto sollevare un uomo pesante quanto lui da solo da una posizione tanto scomoda non lo sapeva davvero. La spalla sembrava avviarsi inesorabilmente verso la dislocazione nella migliore delle ipotesi e nella peggiore… si rendeva perfettamente conto che il peso di Robert lo stava facendo scivolare; non trovava appigli solidi e aveva metà del petto già oltre il bordo dell’impalcatura.

«Ferid! Ti tirerà giù!»

Lo so… lo so, maledizione, ma…

«Non lasciarmi!»

Ferid fissò gli occhi sul volto invecchiato e spaventato di Robert, ma se questi si aspettava un incoraggiamento si sbagliava.

«Puoi giurarci che non ti lascio.» sbottò lui, digrignando i denti per lo sforzo e il dolore. «Non scapperai… è troppo facile… questa volta ti prenderai le tue responsabilità, Bobby! Risponderai davanti a mortali e profani di quello che hai fatto a quei bambini!»

Gli occhi di Robert si spalancarono, ma non rispose. Nel momento in cui si aggrappò al braccio di Ferid con entrambe le mani Crowley fece per gridare un avvertimento mentre invece Ferid si lasciò scappare un grido di dolore; afferrò una sbarra sentendosi scivolare pericolosamente oltre il bordo a causa di quel peso.

Si trovò a pochi centimetri dal volto sfigurato dalla malattia.

«Durante quella primavera… in certi momenti ho creduto davvero di amarti.»

Robert alzò le gambe con un grande sforzo addominale, ma non si puntellò sulle sbarre: senza il minimo preavviso delle sue intenzioni mollò la presa sul braccio di Ferid.

Sotto gli increduli occhi celesti spalancò le braccia anziché tentare di difendersi il volto, e con un grido agghiacciante precipitò fino a terra con uno schianto umidiccio da far accapponare la pelle.

Crowley sfidò il suo stesso terrore per guardare giù. Il corpo di Dirk Todd, un tempo Robert Karson Warren, era là sotto; le gambe con strane angolazioni e una stella rossa a segnare il punto d’impatto della sua testa sulla terra compatta e i sassi.

Un singhiozzo secco gli fece alzare gli occhi su Ferid, che si era aggrappato alle sbarre fissate in colonna verticale. Nascondeva gli occhi nell’incavo del gomito.

«Ferid… stai bene…?»

Non ottenne altra risposta se non le sirene della polizia che si avvicinavano. Gattonando lentamente si avvicinò alla punta del braccio, ma a meno che un colpo di vento – quella sera praticamente inesistente – non l’avesse avvicinato al palazzo non aveva modo di raggiungerlo. Tese il braccio pur consapevole che svariati metri li separavano.

Ferid non se ne rese neanche conto: un turbinio di emozioni forti e contrastanti lo stava flagellando, ma una cosa, una sola cosa era ben chiara in quel miasma.

Non mi prenderai in giro di nuovo, Bobby… so che questa voleva essere la tua ultima, eterna maledizione. Non è mai stato vero che mi amavi.

«Ferid… Ferid

Solo quando lo chiamò una terza volta lui sollevò la testa per guardarlo. Era evidente anche a quella distanza che era in lacrime e in completa onestà non si sentiva di biasimarlo. Doveva aver avuto così tanta paura e quell’ultimo volo, quell’intenzionale suicidio, avrebbe turbato anche tempre più forti della sua.

«Sei ferito?»

Ferid scosse la testa. A quanto poteva sentire era ferito soprattutto dentro… o almeno, gravemente sconquassato dagli avvenimenti di quella giornata lunghissima. Ma quanto a ferite fisiche, non credeva di aver riportato più di qualche escoriazione.

«Sto bene.»

Crowley sospirò e abbassò il braccio. Parte del suo sollievo era anche dovuto ai lampeggianti rossi e blu che risalivano la strada.

«Grazie a Dio.»

Entrambi tacquero per due lunghi minuti, restando lì fermi dove si trovavano, finché non arrivarono due volanti a sirene spiegate. Quattro agenti si precipitarono nel cortile e uno si avvicinò al corpo di corsa. Crowley riconobbe Rachel, che sollevò lo sguardo verso di lui e su Ferid.

«State bene, lassù?!»

«Veramente io scenderei volentieri, se potessi.» fece Crowley in un tentativo di ironia. «Ma siamo tutti interi, questo sì.»

Ferid emise una risatina breve e stridula, più frutto dello strascico dell’adrenalina che da un reale divertimento. La voce di un agente che non gli era familiare avvisò Crowley di tenersi saldamente e pochi secondi dopo la gru girò lentamente verso il palazzo, poi il braccio si allungò in avanti per coprire i tre-quattro metri che lo separavano dall’impalcatura.

Ancora uno sforzo…

Prima che riuscisse a fare più che raddrizzarsi Ferid si lanciò di corsa verso il braccio che toccava il muro a pochi metri da lui, vi si arrampicò sopra e gli andò incontro destreggiandosi senza alcuna paura di cadere come avrebbe fatto la sua gatta su cornicione qualsiasi. Un po’ per il freddo, un po’ per la paura che aveva avuto di non vederlo mai più, poterlo stringere tra le braccia lo fece sentire infinitamente meglio. Nessuno dei due parlò, ma non ce n’era bisogno.

Giù nel cortile Rachel li guardava con un piccolo sorriso. Il suo collega invece era meno propenso al romanticismo.

«Teoricamente, doveva essere Eusford a scendere dalla gru…»

   
 
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