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Autore: whitemushroom    06/02/2021    3 recensioni
Un fratello non si sceglie. Ti arriva un bel giorno, senza che nemmeno tu possa accorgertene. Ti entra nella vita come un fulmine a ciel sereno, e non sempre sei pronto per dividere la tua stanza, i tuoi giochi, l'amore dei tuoi genitori. Cosa farne di questo nuovo arrivato, però, è una scelta che spetta soltanto a te.
Storia partecipante all'undicesimo anniversario del mitico thexiiiorderforum
Prompt:#orfano
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Jpib9cT s95q1Ep

Fandom: I Viaggiatori dell'Orizzonte (campagna di D&D)
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments
Rating: verde
Prompt: orfano
Avvertenze: nessuna. l'ho scritta un po' a velocità del fulmine considerata la scadenza del contest, avrei voluta farla venire meglio ma suppongo che dovrò accontentarmi.


The only brother I need

Eppure gli era sembrato di essere stato piuttosto specifico quando avevano chiesto la sua opinione al riguardo.
“Ma mamma, io avevo chiesto una sorellina”.
“Suvvia, Malachite, è la stessa cosa”.
No che non era la stessa cosa.
Una sorellina poteva portarla in giro in passeggino, proteggerla, farle vedere quanto fosse coraggioso e forte. Ad una sorellina poteva comprare le bambole e vestirla come una principessina, oppure dirle se qualcuno di malintenzionato ti si avvicina, tu chiamami e io lo faccio scappare a gambe levate. Inoltre con una sorellina si poteva senza dubbio parlare di fate e di fiori, due cose che facevano tanto ridere i suoi compagni di scuola.
Invece quel coso che avevano messo a dormire nella sua camera era un maschio e per di più di almeno tre anni più grande di lui.
E pure brutto.
Aveva provato a chiedere a suo padre se fosse possibile restituirlo -proprio come avevano fatto quando si erano accorti che il nuovo grimorio della mamma era stato venduto con l’interno della copertina tutto rovinato- ma l’enorme genasi aveva alzato gli occhi al cielo ed aveva continuato a rimestare tra gli attrezzi della fucina come se non lo avesse nemmeno ascoltato. Una reazione che Malachite aveva imparato a vedere in moltissime persone quando lui parlava, ma che non lo aveva mai dissuaso a perorare le proprie battaglie. E poiché le decisioni importanti passavano sempre per sua madre, Malachite aveva deciso di esporre il problema all’autorità competente. “Ma mamma, non vuole nemmeno giocare con me! I fratelli servono per giocare, giusto?”
Trotterellò sotto il naso di sua madre per farsi vedere meglio anche al di sotto della gigantesca pila di panni destinati al bucato che stava trasportando. “Vuol dire che è rotto!”
“No, tesoro, non è rotto …”
Obsidiana Snapdragon appoggiò la cesta a terra, fermando la sua andatura frenetica. Si abbassò nella sua direzione, sfoderando quel tono di voce che usava solo quando parlava con gli adulti. “È solo orfano. Lo sai cosa vuol dire, vero?”
“Certo che lo so. Ma che c’entra?” disse “Proprio perché è triste dovrebbe voler giocare un po’ …”
“Tesoro, la cosa è leggermente più complicata …”
L’ennesima risposta che usavano i grandi per chiudere un discorso. Solo che stavolta il discorso non riguardava i suoi giocattoli o lo scherzo che aveva fatto a quei pescatori nella Città Inferiore, ma una figura che avrebbe potuto rimanere nella sua stanza per sempre. E Malachite non avrebbe certo diviso la propria cameretta con un orchetto verde, puzzolente e pure con i denti in fuori.
“Non potete proprio adottarne un altro?”
“Certo che potremmo”.
Sua madre si avvicinò al tavolo su cui spesso preparava da mangiare. Con un sorriso gli porse il piccolo paiolo di bronzo, ed il piccolo genasi senza dire una parola andò nell’angolo dove i suoi genitori tenevano una grossa botte piena dell’acqua del pozzo. Riempì il paiolo e con un paio di saltelli fu subito da sua madre, osservando emozionato le dita della donna che presero a tingersi di rosso fino a riscaldare il contenitore e l’acqua al suo interno. Versarono il contenuto in due enormi tazze, e lei le mescolò con la polvere di mirto e cannella, quella che mandava un odore così speciale che la sentivano sempre anche i vicini. La bevanda calda si colorò di giallo, e sua madre le mise su un piccolo vassoio che gli fece atterrare tra le mani.
Con un colpetto di tosse Obsidiana indicò il piano di sopra. “Ma lui adesso ha bisogno di noi. E, non ci crederai, ha bisogno anche di te. Solo che ancora non lo sa”.
“E quand’è che lo saprà?”
Un tocco gentile di sua madre e Malachite si ritrovò con i piedi già sul primo gradino delle scale, il vassoio in mano ed entrambe le tazze che emanavano un aroma meraviglioso. “Questo, tesoro, dovrai deciderlo tu”.


La prima cosa che aveva infastidito Malachite era che quell’orchetto avesse subito chiuso le tapparelle della stanza e serrato le tende; a dispetto di quello che credevano molti suoi compagni di classe, i genasi della terra come Malachite non vedevano affatto bene al buio, anzi. Così per poco non mandò un urlo quando aprì la porta della sua cameretta e pestò inavvertitamente qualcosa che poteva essere o il suo pigiama o la sacca in cui metteva i libri. Tenne stretto a sé il vassoio e si mise in equilibrio cercando di rinvenire nella penombra la sagoma del fratello abusivo, che dopo una bella strizzata d’occhi rinvenne seduto ai piedi del letto, con la schiena rivolta contro lo stesso e le gambe incrociate davanti a sé; aveva la testa china, ma a quella distanza non riuscì a capire cosa stesse facendo. Qualcosa da orchi, in ogni caso.
“Mamma ha detto che devi bere questo”
“Non ho sete”.
Ecco il primo motivo per cui non voleva un fratello grande. I fratelli grandi erano quelli che davano gli ordini, e Malachite non aveva alcuna intenzione di obbedire a quel parassita con le zanne lunghe e gli occhi che ricordavano quelli di un maialino.
“Se mamma dice che devi fare una cosa, tu la fai. È la prima regola in questa casa, se proprio devi stare qui” disse il piccolo genasi senza fare un passo avanti. Quel nuovo fratello non poteva certo aspettarsi che lui gli portasse la tazza a comando!
L’altro sollevò la testa, e Malachite capì perché nelle storie c’erano sempre gli orchi cattivi che spaccavano tutto e venivano abbattuti dagli eroi: anche nel buio della stanza gli occhi risplendevano come se qualche mostro stesse prendendo possesso della sua anima, e persino le zanne brillavano della pochissima luce che traspariva dalle tapparelle. Sua madre gli aveva detto che i genitori di quell’orchetto avevano lavorato per il Trono di Ferro, un’associazione di persone molto, molto cattive, e che questo Trono di Ferro (qualsiasi cosa fosse, perché le gemme sulla schiena di suo padre diventavano sempre più scure quando lo si nominava) li aveva puniti perché avevano fatto degli errori. Quel fratello brutto doveva essere felice di vivere con dei nuovi e bravi genitori come Obsidiana e Corniolo, invece la sua faccia sembrava dire l’opposto.
Certo, un po’ di voglia di andarsene da lì e correre a chiamare sua madre la aveva, ma Malachite aveva già sei anni e non sarebbe di certo corso dai suoi genitori per un orchetto furioso: aveva ascoltato tantissime storie sugli eroi, e sapeva benissimo che gli orchi non si sconfiggevano con la forza, bensì con il coraggio e dimostrando la propria autorità. Senza mollare la presa sul vassoio diede un calcio al misterioso oggetto per terra -sì, decisamente il suo pigiama- ed assunse la faccia più cattiva che potesse fare un vero genasi della terra. “E sappi che se devi diventare mio fratello … dovrai giocare con me. Tutti i giorni!”
“Non mi piace giocare”
Probabilmente andare nel tempio di Pelor e gridare “Porco Pelor” avrebbe avuto risultati meno devastanti.
Che gli orchi fossero incivili e sapessero solo combattere lo dicevano tutti, ma l’idea di avere un fratello che non giocasse nemmeno ai birilli lo colpì come un fulmine.
“E … andare a pescare?”
“Non mi piace”.
“Andare a nuotare?”
“Non so nuotare”
“Giocare alla guerra?” mormorò Malachite disperato, cercando disperatamente qualcosa che si potesse fare con un fratello orco non richiesto “Tu fai il malvagio re orco Uruth Ukrypt e io il sacro cavaliere Heruil Silvershard che lo sconfigge con la spada donatagli dalla principessa delle fate?”
“Non mi va di combattere”.
“E allora cosa vuoi fare?”
Era chiaro che il coraggio e la determinazione dei grandi eroi non erano ancora alla sua portata, perché si rese conto che il suo tono intimidatorio di qualche secondo prima si era trasformato in un verso un po’ troppo lamentoso per essere il grido di battaglia di Heruil Silvershard. E la prova fu il fatto che l’orchetto abusivo si alzò di scatto dal suo nascondiglio e venne verso di lui con soli due passi: a quel movimento per poco Malachite non fece cadere vassoio, tazze e tisane a terra, fisso su quella figura che era alta una testa più di lui ed aveva una mano grande almeno due volte la propria. “Vorrei leggere in pace. Senza fratelli rompiscatole che mi interrompano” disse, e stavolta il piccolo genasi riuscì a vedergli bene le sopracciglia strette color verde scuro ed un leggero velo lucido al lato di entrambi gli occhi. “Io ed i miei libri stiamo bene da soli”
“Lo sanno tutti che gli orchi non sanno leggere”.
“Perché, tu ci riesci?”
“Che c’entra? …” mormorò Malachite, alzandosi sulla punta dei piedi per fargli capire chi fosse il capo “… io sono ancora piccolo. Ma sto imparando”.
“Quindi per ora sono più bravo io”.
Qualcosa cambiò lungo le dita di Malachite. Non se ne accorse subito, preso com’era a fissare l’orchetto e le sue bruttissime zanne, ma quando abbassò lo sguardo si accorse che il vassoio non era più nelle sue mani. O meglio, le proprie dita erano ancora aggrappate ai bordi del vassoio, ma questo non era ancora caduto a terra con tutto il proprio contenuto perché l’orco aveva appoggiato le sue dita simili a dei salsicciotti e lo aveva afferrato da sotto impedendone di fatto il crollo sul pavimento. Con un sussulto Malachite lasciò la presa, osservando stupito come l’altro adesso stesse prendendo una delle due tazze e la stesse annusando, stringendo però il manico col pollice e l’indice come facevano soltanto gli elfi e le fate. Il gesto raffinato sulla mano dell’orchetto era così strano che il piccolo genasi si ritrovò a fissarlo senza sapere se trattenere il fiato per l’ammirazione o mettersi a ridere. Dopo qualche istante l’altro smise di annusare la tazza e ne bevve il contenuto. “Ora potrei tornare al mio libro?”
“Certo che no!” rispose, puntando i piedi. “Se non vuoi giocare, dovrai almeno leggere il libro che dirò io!”
“Possiamo trovare un accordo …”
Stupito da quel repentino cambio di voce, Malachite troncò a metà la lunga sequenza di attività alternative che stava per esporre. L’orco appoggiò di nuovo il vassoio tra le sue mani, ma stavolta prese la tazza ancora piena e la avvicinò nella sua direzione. “… ti leggerò un libro a tua scelta. Uno. E poi mi lascerai in pace finché non finirò il mio”.
Un sorrisetto balenò sulle labbra del piccolo genasi.
“Va bene. Solo uno”.
Era proprio vero che gli orchi erano stupidi come si diceva in giro.

Obsidiana Snapdragon finì di preparare la cena che il sole era tramontato già da qualche ora. Quella sera suo marito non sarebbe rientrato, dunque ne aveva approfittato per rassettare con calma la casa e mettere sul fuoco un pasto non molto impegnativo. Gettò lo sguardo alla sacca che Malachite aveva buttato in un angolo della stanza con tutte le pergamene, le penne ed i contenitori dell’inchiostro che avrebbe dovuto portare a scuola il giorno successivo ed iniziò a raccoglierli, appuntandosi mentalmente che avrebbe dovuto fare con suo figlio un lungo discorso sull’ordine e la pulizia dei propri strumenti da lavoro. Mentre cercava di levare le pieghe alle pergamene gettò un’occhiata alla clessidra posta sul tavolo, e si accorse dello strano silenzio nella casa e del fatto che l’ultima volta che avesse visto Malachite era stato oltre due ore prima, quando era sceso dalle scale quasi sotto un incantesimo di Velocità ed era risalito ansimando sotto il peso dell’enorme libro illustrato sulle fate del Faerun che Corniolo aveva fatto rilegare in cuoio proprio per evitare che il piccolo lo distruggesse per tutte le volte che li aveva costretti a leggerglielo.
Nell’innaturale silenzio della casa riempì un paio di piatti e salì le scale, scivolando da un gradino all’altro per non farsi sentire. La porta della stanza di Malachite era solo accostata, ma invece della solita voce inarrestabile di suo figlio ne uscì un altro tono, più basso e sommesso.
Con un leggero sorriso guardò nello spiraglio, osservando Erland, il piccolo mezz’orco che avevano deciso di accogliere in casa solo due giorni prima, seduto al centro della stanza con l’enorme libro delle fiabe sulle ginocchia, intento a cambiare il tono della voce mentre interpretava l’arcifata Titania mentre benediva il resto della sua corte.
Sdraiato davanti a lui, con la pancia a terra e le mani avvinghiate al tappeto, un Malachite fin troppo silenzioso osservava la scena, intento a non perdersi nemmeno una frase.
Guardò i piatti che aveva in mano e con un sospiro scese le scale, appoggiandoli su un tavolo ed assaporando per un istante il meraviglioso silenzio che dalla nascita di Malachite sembrava aver abbandonato quella casa.
Sì, quel piccolo orco silenzioso avrebbe reso perfetta la loro famiglia, ne era certa.
  
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