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Autore: Elsira    09/02/2021    2 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Pagina 9.

(I've seen you cry, I've seen you smile.
I've watched you sleeping for a while.
I'd be the father of your child.
I'd spend a lifetime with you.
I know your fears and you know mine.
We've had our doubts but now we're fine.
And I love you, I swear that's true.
I cannot live without you.
Goodbye my lover.
Goodbye my friend.
You have been the one.
You have been the one for me.)

Ti ho vista piangere, ti ho vista sorridere.
Ti ho vista dormire per un poco.
Sarei stato il padre dei tuoi figli.
Avrei passato una vita assieme a te.
Conosco le tue paure e tu conosci le mie.
Abbiamo avuto i nostri dubbi, ma ormai stiamo bene.
E ti amo, giuro che è vero.
Non posso vivere senza di te.
Addio mio amore.
Addio amica mia.
Sei stata l’unica.
Sei stata l’unica per me.
 

Goodbye my lover, James Blunt

 
 

 

“Oh Signore…”

Cam uscì di casa in un vestito estivo, lungo fino alle caviglie color acquamarina, i capelli legati alla nuca, poche ciocche più corte dovute alla scalatura che le incorniciavano il volto e le sfioravano le spalle scoperte. Ero senza parole, era bella da togliere il fiato. Nemmeno Afrodite in persona avrebbe potuto reggere il confronto.

“Col cavolo che ti porto fuori, così…” Mi ero perso un attimo, quando Cam mi mosse la mano aperta davanti agli occhi per farmi tornare presente. «Beh? Che ne pensi, come sto?»

«Onestamente?» 

Lei annuì.

«Sei così bella che vorrei chiuderti in una camera da letto e non permettere a nessun altro uomo di potersi rifare gli occhi col tuo splendore.»

Una risata le illuminò il volto. «E questa da dove viene, il manuale del playboy, dopo la tattica dell’usare il francese?» Mi sforzai di sorridere, lei mi superò e si diresse alla macchina. 

Rimasi un attimo fermo, sussurrando a me stesso: «Io ero serio…» Mi portai una mano all’altezza del cuore, stringendo la maglietta, come se avessi così potuto farlo smettere di battere con tanta irruenza. “Vedi di darti una calmata, bimbo… Torna lucido, non puoi mandare tutto a puttane.”

«Arkin, allora andiamo?» 

Riaprii gli occhi, voltandomi verso di lei e raggiungendola alla macchina. “È già il 18, vedi di darti una svegliata e godertela.”

 

«Sai, non mi hai ancora detto dove stiamo andando.» Dissi in un sorriso emozionato, mentre dondolavo appena le spalle, le ciocche dei capelli mossi che mi facevano piacevolmente un leggero solletico sulla pelle.

Arkin cambiò marcia senza staccare gli occhi dalla strada. «Un mio amico da una festicciola a casa sua stasera, volevo passare una serata con te e l’ho usata come scusa.»

“Mi vuoi presentare ai tuoi amici?” Non seppi perché, ma il pensiero mi riempì di gioia. Finché un altro non si fece spazio nella mia mente: «Ma, aspetta… e Manuela? Non dovresti andarci con lei a questa festa anziché con un’amica?»

Arkin si morse un attimo le labbra, imboccò la rotonda e non parlò finché non ne uscì. «Ci sarà anche Manu, ma lei ha la macchina e può andarci da sola.» Inspirò ed espirò a fondo, prima di continuare. «Tu no, quindi ti porto io.» 

«Sei… sicuro che vada bene?»

Semaforo, arancione. La macchina si fermò e Arkin si voltò verso di me, senza guardarmi negli occhi. «Te l’ho detto…» Mi prese la mano nella sua e intrecciò le nostre dita. «Voglio passare la serata con te.»

«Arkin…» Strinse la presa delle nostre mani, non distogliendo gli occhi dalla nostra unione. «Sei sicuro di stare bene? Sei strano…»

Aveva uno sguardo turbato, sembrava si stesse trattenendo da qualcosa e che facesse una fatica immensa nel farlo. “Se non fosse già fidanzato, o non lo conoscessi… Potrei quasi pensare che…”

Arkin lasciò la presa della mia mano, tornando a guardare la strada. «Tranquilla, sto bene. Scusami.»

«Non devi scusarti…» Borbottai. 

 

“Stai calmo, stai calmo, stai calmo, stai calmo, stai calmo, stai calmo… Più me lo ripeto e più mi agito, dannazione!”

«Arrivati.» Imboccai l’ultima curva e parcheggiai davanti casa di Francesco, già si sentiva la musica provenire dal giardino. «Vieni.» Porsi la mano verso Cam con un sorriso, lei la prese contraccambiando e ci dirigemmo verso il cancello dell’abitazione. Non feci in tempo ad arrivare a cinque passi, che Mirko ed Emanuele erano già all’entrata, per aprirmi. 

«Che tempismo…» Sussurrai. «Mi avete sentito arrivare?»

«Abbiamo sentito le grida di guerra vichinghe.» Scherzò Ema, mentre apriva. 

«Che ‘mbecille che tu’ sei…» Dissi, soffocando una risata. «Mi pare che le casse funzionino alla grande, Jack sarà entusiasta.»

«Già, si è messo alla console e non se ne stacca più.» Mi rispose Mirko. Mi voltai verso Cam, sorridendole: «Vieni, ti presento tutti. Andiamo in giardino, almeno non dovrò ripetere il tuo nome trenta volte.»

«Non ti piace il mio nome?» Un finto broncetto apparve sul volto della mia amica, mentre ci dirigevamo dal gruppo. La presi sottobraccio, per avere l’illusione che in quel modo avrei potuto tenermela vicina. «Io adoro il tuo nome, ma non mi piace che gli altri ti ronzino troppo intorno. Quindi ti presento una volta sola e poi tutti se ne tornano ai fatti loro e io ti ho tutta per me senza altre interruzioni.»

Non appena Giacomo mi vide, esclamò da dietro la stazione musicale: «Oh bimbi! È arrivato l’ospite d’onore! Un applauso!»

Mi si gelò il sangue nelle vene.

«Ospite d’onore? Non mi avevi detto che la festa era per te.» Mi chiese Cam, in un mezzo sorriso. Feci un gesto come per minimizzare la cosa. «Non ascoltarlo, è un imbecille. Sta solo scherzando.»

Presentai la mia amica alle venti e più persone che erano radunate nel giardino, senza perderla d’occhio mezzo secondo. In un angolo vidi che c’era anche Tommaso, seduto vicino a Manuela; furono gli unici che non si alzarono per venirci a salutare. “Poco importa. Anzi, meglio così.”

«Hey Camilla, che musica ti piace? Ti faccio scegliere la prossima canzone.» Chiese Giacomo, sempre da dietro la postazione. «Non credo davvero che tu abbia le mie canzoni preferite lì dentro.» Rispose lei, in un sorriso di sfida. Sfida che lui accettò al volo, facendole cenno di andare a vedere coi suoi occhi i titoli sul monitor.

La lasciai andare, sentendo per un breve istante una stretta al cuore. Abbassai lo sguardo, trattenendomi dal portare la mano al petto e limitandomi a stringere i pugni. “Va tutto bene…”

«Arkin, puoi venire un momento con me?» La voce glaciale di Manuela mi fece riaprire gli occhi. “No, non va affatto tutto bene.” Tirai un sospiro, senza staccare gli occhi da Camilla, la quale era evidentemente sorpresa di ciò che stava leggendo. «Quello che vuoi dirmi, puoi farlo anche qui.»

La sentii sbuffare, ma non mi importava proprio nulla. «E sia. Perché hai portato anche lei?»

«È una cena tra amici, più siamo, più ci si diverte.»

«Non prendermi per il culo, Arkin.» Manuela mi si parò davanti, riuscii a vedere sul suo volto, attraverso il trucco, tutto il suo disappunto. «Cosa provi in realtà per quella ragazza?»

Sentii l’eccitazione di Camilla mentre indicava il titolo che aveva scelto sul monitor e pregava Jack di riprodurlo, gli occhi che le brillavano come fosse una bimba di cinque anni davanti a un negozio di caramelle. 

«Già. Lo immaginavo.» Manuela sbuffò, ma non la degnai di un ulteriore sguardo. Appena partì la musica, ero già di fronte a Cam che le offrivo la mano: «Mi concedi questo ballo?»

«Questa canzone non è ballabile.» Ribatté lei, divertita. 

«Vuoi vedere che ti smentisco?» Risposi io in un sorriso, tendendo la mano verso di lei. Cam la prese e si lasciò condurre sul prato. Me la portai vicina, sfiorandole i fianchi con le mani, mentre lei poggiava le sue sulle mie spalle.

«Perché hai scelto una canzone d’addio?»

Lei alzò le spalle. «Mi andava di ascoltarla. E poi non è una canzone d'addio, è una che racconta di un amore immenso.»

Tirai un sorriso, le feci fare una giravolta e intrecciai le nostre mani, non riuscendo a staccare lo sguardo da quell’infinità di colori che erano le sue iridi.

Sentivo gli occhi di tutti addosso, ma non mi importava nulla. In quel momento, per la durata di quella canzone, eravamo solo noi due.

«Non ti piace?»

«Affatto, anzi… Penso sia adatta a noi…» Le parole uscirono senza che riuscissi a fermarle. Quando mi accorsi di cosa avevo detto, la stretta al cuore si fece più forte. 

«Che intendi?» Lo sguardo confuso di Cam era più che giustificato, ma non volevo rispondere. Nessuna fibra del mio corpo, voleva rispondere. E allo stesso tempo, volevo gridare ciò che provavo per lei al mondo intero.

L’ultima nota del pianoforte riecheggiò dalle casse, e in quel momento Francesco uscì di casa per chiamare tutti a tavola: «Movetevi che chi prima arriva, meglio mangia!»

 

«Beh, per me e Arkin è arrivato il momento di andare. Domani parte e devo salutarlo come si deve, non è vero amorino?» 

Manuela, che non mi aveva rivolto parola per l’intera serata - cafona -, si era avvicinata non appena finita la pizza, poggiando le mani sulle spalle di Arkin.

«Parti?» Chiesi al mio amico, confusa. Notai che fosse rimasto di sasso, e non ne compresi il motivo. Finché Manuela, vedendo il mio sguardo, non venne in “aiuto” di entrambi: «Non lo sai, Camilla? Domattina Arkin deve tornare a casa sua, in Norvegia. Non te lo ha raccontato? Lavora come pizzaiolo da suo zio, torna in Italia per le ferie per un paio di settimane l'anno, solo che questa volta ha deciso di prolungare la sua vacanza qui… Chissà perché, Cam, non è vero?»

Il cuore mi mancò un colpo. 

«Manuela, sta’ zitta…»

«Tu... vivi in Norvegia?» Fu tutto quello che riuscii a dire, senza però ottenere risposta dal diretto interessato. 

«Sì, ha l’aereo domattina presto, perciò ci siamo trattenuti anche troppo.»

“Non l’ho chiesto a te!” Avrei voluto urlarlo, ma il nodo alla gola me lo impedì. Nella mia testa mi sfondai i polmoni, però.

«Ma davvero non sapevi nulla Camilla? Strano, dato che io lo so da quando ho iniziato a frequentarlo… Pensavo che, vista la vostra profonda amicizia, te lo avesse detto subito.»

“Okay, ora se non si zittisce giuro che le spacco la faccia.” 

«Oh, piccola stella… qui tutti lo sappiamo, abbiamo fatto questa cena apposta per dirgli "ciao, all'anno prossimo".»

Ma non dovetti preoccuparmi, perché Arkin scattò in piedi, una mano sempre poggiata al tavolo. «Manuela, ora basta, finiscila!»

Lei gli girò intorno con occhi socchiusi e sopracciglia alzate, le mani a sfiorargli le larghe spalle, un sorriso sarcastico dipinto sul volto. «Eh, perché ti arrabbi con me così, bambolotto? Non dirmi che glielo volevi tenere segreto, che senso aveva? Partire senza dirle nulla… non è maleducato? Non è forse una tua carissima amica di infanzia?»

«Sta’ zitta…» Mormorò lui tra i denti, chinando la testa.

«Oppure, è qualcosa di più?» Gli sussurrò all’orecchio lei, ma a voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti i presenti. Attese qualche istante, forse per avere una risposta che però non arrivò, dopodiché prese e uscì di casa, congedandosi con un secco: «Divertiti in Norvegia, Arkin.» Pochi istanti, e Tommaso le andò dietro, lasciandosi alle spalle una risata saccente.

Calò un silenzio assoluto, nel quale io cercavo solo di metabolizzare il fatto che da quella sera non avrei più rivisto Arkin.

«Wow… Che uscita di classe…» Commentò ironico Francesco, cercando di smorzare la tensione e invitando tutti quanti a fare una partita al biliardo che aveva nella stanza accanto. A dire il vero, ce li trascinò praticamente a forza…

Si avviarono tutti, tranne me e Arkin. Francesco ebbe il buon senso e il tatto di non richiamarci, ma spingere con più enfasi gli altri lontani, in modo da permettere a noi due di restare soli nel salone.

Passarono i minuti, riempiti solo dal suono ovattato delle sfere che correvano sul tappeto verde e che schioccavano tra di loro, nella stanza accanto.

Dopo un tempo infinito, Arkin fece per pronunciare il mio nome, ma lo interruppi ancora prima che potesse dire la seconda sillaba, con un grido che penso mi abbiano sentito dall’altra parte del mondo: «Come cazzo sarebbe a dire che tu vivi in Norvegia?»

Si voltò verso di me, una mano a tapparmi la bocca, dicendo con tono pacato, ma che sapevo perfettamente nascondere tutta la sua rabbia e il suo nervosismo: «Punto primo, non ti azzardare mai più ad attaccarmi in questo modo, non ne hai il diritto. Secondo, non ti devo nessuna spiegazione. Terzo, non è questo il luogo per discutere, quindi prendi la tua roba e andiamo a salutare tutti che ti riporto a casa, non abbiamo più niente da fare qui dato che la serata è stata rovinata a tutti e due.» Andò nella stanza accanto ad avvisare che stavamo andando via, dopodiché tornò da me e mi superò senza degnarmi di uno sguardo né di una parola, dirigendosi direttamente alla porta.

Presi la borsa e lo seguii, senza alcuna intenzione di lasciar correre quella storia e pretendendo delle spiegazioni più che esaurienti per il suo comportamento.

 

«Scendi.» Esordì secco, fermando la macchina su uno spiazzo di ghiaia. Guardai appena fuori dal finestrino, con ancora il volto furioso e le braccia incrociate sotto il seno. La luce era poca, ma riconobbi che non ero assolutamente a casa mia, ma al parco vicino a dove facevamo catechismo da bambini.

Mi voltai verso di lui, che aveva gli occhi puntati in avanti. Strizzai i miei, proclamando: «Te lo scordi di lasciarmi qui, di notte. Tu mi porti a casa adesso, o quanto meno in un posto dal quale non mi ci vogliano due ore e mezza a piedi in mezzo ai boschi per raggiungerla!»

Lo vidi stringere le mani sul volante, il volto storpiato in un ghigno furioso. In quel momento, ebbi davvero paura di lui. Chiuse gli occhi con forza, probabilmente in un ultimo tentativo di calmarsi, sibilando a denti stretti: «Non ho intenzione di guidare in queste condizioni, potrei andare ad abbracciare un pino volontariamente a causa della rabbia, quindi ora scendiamo tutti e due e concludiamo questa storia una volta per tutte.»

Non risposi, scesi dalla macchina e mi diressi in automatico all’altalena. Vederla lì, immobile e per nulla cambiata in tutti quegli anni mi fece stringere il cuore. Avevo sempre adorato quell'altalena, avevo sempre creduto fosse fatta apposta per noi tre. Non era a coppia come la maggior parte di quelle che si trovano nei parchetti, aveva quattro sedute ma, una di esse noi non l'avevamo conosciuta, probabilmente si era rotta prima che vi approdassimo. 

Ne accarezzai appena il legno delle gambe, mentre nelle orecchie mi risuonavano le risate di quei tre bambini che giocavano allegri. Quanto avrei voluto tornare indietro a quei momenti. Chissà se Arkin si era reso conto di aver guidato fin lì.

«Si può sapere cosa avevi da incazzarti tanto?» Mi chiese in un grido, sbattendo la porta della macchina e venendomi incontro a passi furiosi.

Accigliai lo sguardo, tornata al presente, per voltarmi verso di lui e gridargli contro: «Hai davvero il coraggio di chiedermelo? Domani tu parti, te ne vai in un altro Stato, dove c’è casa tua e io lo vengo a sapere per puro caso da una che conosci solo perché te la scopi! Lo hai detto a lei e non lo hai detto a me, che mi conosci da una vita!» Gli puntai il dito al petto, con la rabbia che mi traboccava dagli occhi e che non riuscivo più a trattenere. «Ecco perché sono arrabbiata! Perché non mi hai mai detto nulla? Come pensavi di fare? Sparire nel nulla, da un giorno all’altro? Aspettare che ti chiedessi di uscire a prendere una coca cola al bar? E magari rispondermi con un messaggino che non potevi, perché eri tornato a casa tua, a più di duemila fottuttissimi chilometri di distanza!»

Lo vidi abbassare lo sguardo, portare le braccia lungo i fianchi e serrare i pugni fino a far diventare bianche le nocche. Riuscivo a intravedere i tendini sui polsi e sul collo, parevano star per esplodere. «Io… con te è difficile.»

«Perché?» Chiesi esasperata.

«Perché…» Diede un potente pugno al pino che aveva al fianco, facendomi fare un piccolo salto e con tanta forza che avrei giurato di veder tremare l’albero, per poi rialzare orgoglioso lo sguardo e accanirsi: «Senti, tu non hai alcun diritto di attaccarmi in questo modo! Sei stata tu la prima ad andartene e io sono venuto a saperlo a cose già fatte, all’ultimo minuto. Sei l’ultima persona sulla faccia della Terra a potermi rinfacciare il mio atteggiamento! Te ne sei andata senza dire nulla, adesso ti senti come mi sono sentito io in quel momento!»

Aprii la bocca, sorpresa e incredula, per poi rispondergli per le rime: non riuscivo a credere che tutto quello che stava accadendo fosse una ripicca. «Ma ti ascolti quando parli? Ti rendi conto di quanto sei assurdo? Quindi questa sarebbe la tua vendetta per quel che è successo quando eravamo bambini? Avevamo 8 anni, adesso ne abbiamo 23! Ci sono 15 anni di differenza in cui si dovrebbe essere maturati! Maturati, cazzo! Sai cosa significa questa parola, eh Arkin?»

«Maturati? Proprio tu mi vieni a dire una cosa del genere, Camilla? Tu che sei venuta al funerale di Paolo e te ne sei stata tutto il tempo in un angolino della chiesa!» In quel momento, il tempo mi parve fermarsi. “Allora mi aveva riconosciuta…” Il ricordo di quella giornata mi riempì la mente e le lacrime iniziarono a farsi prepotenti dietro gli occhi, mentre lui continuava a gridarmi contro: «Non hai nemmeno detto una parola ai suoi genitori, sei sparita non appena lo abbiamo sotterrato senza dire una parola a nessuno! Nemmeno a me, cazzo! E adesso mi vieni a rinfacciare qualcosa sulla maturità?»

«Io…» Alzai le spalle, nel vano tentativo di nascondermici in mezzo, abbassando il volto e facendo una fatica immane a trattenere le lacrime, mentre serravo i pugni per farmi forza. «Beh, mi spiace di non esserci stata, okay? È ancora una cosa che mi fa stare male, nonostante siano passati anni! Hai idea di come mi sia sentita io, in quel momento? Ho scoperto che è morto per un articolo sul giornale! E sono scappata, in tutti i sensi, nemmeno i miei sanno che sono venuta alla funzione, ma non riuscivo a credere che fosse morto! Anche oggi ho fatto una fatica immane a credere che fosse dietro quella parete di marmo!» Mi voltai, per non fargli vedere che le lacrime avevano vinto. «Però… ora non sto più scappando… E io non voglio che tu te ne vada… Non voglio perderti di nuovo… Perché è così che finirà, se parti. Lo sappiamo entrambi!»

Mi superò, con la mano sana nella tasca dei jeans e quella dalle nocche insanguinate, a causa del pugno al pino, ad accarezzare la catena dell’altalena. Quella di Paolo, quella dove si sedeva sempre il nostro amico. Andò poi a raggiungere la propria, per sedercisi e iniziare a dondolare appena, senza staccare mai i piedi da terra.

«Cosa devo fare con te?» Sospirò, cacciando indietro la testa rassegnato, dopo un tempo che non seppi quantificare.

Lo guardai asciugandomi gli occhi con il dorso della mano, dopodiché, a vederlo così, mi scappò un sorriso che non riuscii a trattenere.

«Che c’è da ridire?» Chiese lui, guardandomi confuso e con il broncio che aveva sempre da bambino dopo un litigio.

Risi ancora per un istante, dopodiché iniziai a canticchiare.

Qui nella nostra classe abbiamo un gruppo di ragazzi
che trattan gli insegnanti come fossero pupazzi...

Lo vidi iniziare a ridere di gusto, sereno. Bastò per farmi tornare definitivamente il sorriso. In effetti, quella canzone doveva aver riportato anche lui un poco indietro nel tempo, a quando veniva a casa mia e costringevo lui e Paolo a vedere l’anime di Kodomo no omocha. Mi era sempre piaciuto, ma vederlo assieme a loro era qualcosa di speciale.

«Forza! Lo so che te la ricordi!»

Lui mi guardò con un sopracciglio alzato, ancora senza riuscire a smettere di ridere: «Cosa? No, no, no… Scordatelo! Non ho la minima intenzione di mettermi a cantare qui fuori come un ubriaco! Sei impazzita per caso? E se ci sentisse qualcuno?»

«Eddai! Ma chi vuoi che ci senta, siamo in mezzo ai lupi. E poi chissenefrega!» Gli feci gli occhi dolci, andandogli di fronte, per poi poggiare le mani sulle sue ginocchia, sorridere raggiante e ricominciare:

Qui nella nostra classe abbiamo un gruppo di ragazzi
che trattan gli insegnanti come fossero pupazzi...

Lui mi guardò cercando di trattenere le risate, così io alzai un sopracciglio e sogghignai: «Posso continuare tutta la notte, lo sai.»

Qui nella nostra classe abbiamo un gruppo di ragazzi
che trattan gli insegnanti come fossero pupazzi...

Feci cenno di proseguire, mentre lui si passò una mano sul volto, dopodiché si arrese e, sorridendo, iniziò a venirmi dietro: 

Ragazze state buone, altrimenti la pagate.
Perché a noi piace far così, perciò non vi impiccate.

No, noi non stiamo zitte
e prendiamo la parola,
per dire a tutti quanti
che non vi vogliamo a scuola.

Potete dirlo e poi ridirlo
ma noi continuiamo,
sì continuiamo a fare in classe
quello che vogliamo.

Ci allontanammo dalle altalene e iniziammo a girovagare, a pochi passi di distanza l’uno dall’altra, intorno ai diversi giochi del piccolo parco che ci aveva visto divertirci tanto da bambini, con solo le stelle e lo spicchio di Luna alto in cielo a fornirci la luce.

Ogni giorno è sempre peggio con quei ragazzacci,
che durante le lezioni ci disturbano.
Sono rozzi, impertinenti,
proprio dei maschiacci.
Ma cosa possiamo fare se non cambiano?

Rossana dai pensaci un po' tu,
perché così non se ne può più.
Sappiamo che non ti arrendi mai
e provi e riprovi finché ce la fai.

Rossana il tuo cuore palpita,
ma la tua pazienza scalpita.
Con tutta la tua vitalità,
Rossana sei proprio una piccola star!

Salii sulla spalliera a pioli della palestrina unita allo scivolo, per poi mettermi a cavalcioni sulla trave della cima e guardarlo dall’alto.

Quante volte il nostro cuore va per la sua strada…
Incurante dei problemi e delle priorità.
Se c'è confusione o no, l'amore non ci bada
e Rossana ha già scoperto questa verità.

Lui mi guardò sorridendo, mostrandomi quel blu intenso dei suoi occhi che non ho mai dimenticato in tutti quegli anni. Lo vedevo perfettamente, nonostante fosse buio: era come se per quei due zaffiri non esistesse luce esterna, se la creavano da soli, in base allo stato d’animo che aveva il loro padrone. Non cambiava nulla che ci fosse un sole abbagliante o si trovassero nel buio più scuro: Arkin con quegli occhi poteva illuminare qualsiasi cosa, se solo lo voleva.

Salì facilmente, anche perché alto com’era gli bastava salire due pioli per raggiungere la cima, di fronte a me. Si mise anche lui a cavalcioni, mostrandomi il sorriso più bello che avessi mai visto.

Rossana dai pensaci un po' tu,
perché così non se ne può più.
Sappiamo che non ti arrendi mai
e provi e riprovi finché ce la fai.

Rossana il tuo cuore palpita,
ma la tua pazienza scalpita.
Con tutta la tua vitalità,
Rossana sei proprio una piccola star.

Scese dalla trave con un salto, per poi voltarsi nuovamente verso di me e porgermi la mano. Gliela strinsi, sorridendo, per poi saltare giù e appoggiarmi a lui, che mi fece fare un giro sostenendomi sotto le braccia prima di farmi ritoccare terra.

Con il cuore in gola, continuai la canzone, alzando lo sguardo e immergendolo in quelle gemme.

Se guardo gli occhi tuoi…
Nei quali poi si specchiano i miei...

La mia mano destra e la sua sinistra si cercarono, intrecciando le dita delicatamente.

Vuoi dirmi quel che vuoi?
Sei magica così come sei...

Le nostre fronti si unirono, sfiorandosi l’un l’altra, mentre sentivo il cuore che sembrava volermi uscire dal petto.

Non ce la potevo fare, stavo per cedere. Perciò chiusi gli occhi, perché sapevo che se lo avessi guardato anche solo un altro secondo non avrei resistito al desiderio di baciarlo.

Se chiudo gli occhi penso a te,
perciò vorrei sapere se pensi a me…
Perché sei tu la cosa più importante,
la più importante che per me adesso c'è

Feci per cantare la strofa seguente, ma mi trovai le labbra di Arkin sulle mie.

Mi portò la mano libera al volto, una leggera carezza sulla guancia, mentre l’altra si sciolse dalla presa con la mia e si posò sulla base della schiena, tirandomi a lui, probabilmente perché si era accorto che se non mi avesse sorretta, mi sarei sciolta a terra come nulla.

 

La sentii tremare tra le mie braccia, trattenere il respiro come se credesse che così sarebbe stata in grado di fermare il tempo in quell’istante. 

Stavo per allontanarmi, ma Camilla dischiuse le labbra. E allora anch’io trattenni il fiato. Perché anch’io avrei voluto che il tempo si fermasse. Anch’io avrei voluto poter rimanere così per sempre. Anch’io avrei desiderato con tutto me stesso non doverla lasciare mai, poterla tenere fra le mie braccia e non dirle mai più addio.

Ma il tempo non si ferma per nessuno, perciò mi feci coraggio e mi separai da quelle labbra così dannatamente morbide.

Ricordo ancora benissimo il dolore, fisico, che provai in quel momento. «Questo è… stato un errore.» Scostai il volto, incapace di sopportare quegli occhi meravigliosi, preferendo guardare a terra. Non la vedevo, ma la percepii comunque sgranare lo sguardo che era sul punto di riempirsi di lacrime, mentre mi davo del vigliacco e la lasciavo andare. «Io sto per ripartire, una relazione a distanza sarebbe impossibile. Io per primo non sarei mai in grado di gestirla.»

Decisi che, a quel punto, tanto valeva finirla da stronzo, almeno lei avrebbe fatto prima a dimenticarsi di tutto. Le sorrisi e mi portai la mano ai capelli: «Per un attimo, pensavo tu fossi Manu e quindi mi è venuto spontaneo baciarti. Mi dispiace, dev’essere l’alcool di stasera che ha fatto effetto a scoppio ritardato, che vuoi farci… Sono un po’ brillo, meglio rientrare.» Lo dissi divertito, con il tono di un pagliaccio. Uno stronzissimo pagliaccio che aveva appena ferito la persona a cui teneva di più sulla faccia della Terra.

Mi diressi alla macchina, il falso sorriso che si spense non appena superai Cam.

«Bugiardo…» La sentii sussurrare singhiozzando, nel tentativo estenuante di trattenere le lacrime. Sempre orgogliosa e fragile, la mia Camilla. 

E come darle torto, eravamo stati vicini tutta la sera, sapeva benissimo che non avevo bevuto un goccio. Anche perché era stata lei a fulminarmi non appena Daniele mi aveva offerto la birra con la pizza, costringendomi a farmi optare per la coca cola…

Tirai un respiro, raccolsi tutte le mie forze e, atono, dissi senza voltarmi e riprendendo a camminare verso la macchina: «Vieni, ti riporto a casa.»

Inutile dire che il viaggio sia stato nel più assoluto silenzio, c’era una tensione tra noi come non mai. Le lanciai ogni tanto qualche occhiata, vedendola sempre con la fronte poggiata al finestrino e gli occhi spenti. Mi faceva male vederla così, ma ciò che faceva ancora più male era sapere che stava così per colpa mia.

«Lasciami qui.» La sentii dire, quando arrivammo all’inizio del viale che conduceva poi a casa di sua madre.

«Sicura? Non è un problema portarti almeno davanti casa.»

«No, lasciami qui. Non voglio che mi vedano arrivare con te.»

«Sono le due di notte passate, chi vuoi che…»

«La vuoi smettere di fare lo stronzo? Ti ho rotto così tanto mezz’ora fa, quando ti sei fermato al parco? No, quindi adesso lasciami all’inizio del viale e basta!» Mi rimbeccò lei, con la voce tremante che ne tradiva il dolore.

La guardai, fermando la macchina all’imbocco della via. Non perse tempo e scese ancora prima che la vettura si arrestasse completamente, per poi chiudere la portiera e dirigersi a casa. Senza una parola, senza un gesto.

Strinsi le mani sul volante, il cuore a mille, aprii la portiera e mi appoggiai al tettuccio: «Stjerne!»

Lei si fermò, si voltò dopo qualche secondo, salutandomi con la mano, le guance rigate dalle lacrime e mi sorrise. Un sorriso triste, ma pieno d’affetto. Il cuore si frantumò a quella vista.

«Farvel, beste venn! (Addio, amico mio!)» La vidi voltarsi e proseguire verso casa, allontanarsi nella notte, da me e da tutto ciò che rappresentavo. Quell’ultima frase che mi aveva detto, significava tutto. Ero solo un amico, per lei, non più il suo angelo. E quello era un addio, non un arrivederci. Era meglio così, per entrambi.

Rimasi immobile con mezzo corpo fuori dalla macchina ben oltre il tempo che le ci volle per venir inghiottita dalle tenebre, incapace di rientrare e con un disperato desiderio di andarle dietro, abbracciarla, baciarla, dirle che non volevo andarmene, che volevo stare con lei. Solo con lei.

Ma non feci niente. 

Alzai appena la mano in un cenno di saluto e sussurrai: «Farvel… Min kjærlighet… (Addio… Amore mio…)» Rientrai in macchina, il cuore assente, e tornai a casa dei miei genitori, dove mi aspettavano ancora le valige da fare prima di prendere l’aereo l’indomani mattina, per tornare a casa mia.

 

Stetti tutta la notte con la spalla poggiata alla finestra della mia stanza, guardando fuori il cielo scuro, in attesa dell’alba. Non volevo più dipingere, e mi sentii una stupida per averlo desiderato così intensamente solo qualche ora prima. 

Non sapevo a che ora fosse il volo di Arkin, sentivo di volerlo e non volerlo sapere allo stesso tempo. Tanto, anche se lo avessi saputo, cosa sarebbe cambiato? Sarei comunque rimasta tutta la notte a osservare il cielo, sarei rimasta comunque con il biglietto a forma di cuore in mano. "E io che son pure tornata a corsa a casa per salvarlo da delle ipotetiche fiamme… Che imbecille che sono…" 

Una parte di me avrebbe voluto piangere, mentre l’altra si stava ancora maledicendo per essere scoppiata in lacrime quando lo avevo salutato, ma al suo richiamo non ero più riuscita a trattenerle. Perché lo sapevo, che mi aveva vista, che aveva visto le mie lacrime. Le aveva viste… e non si era mosso di un passo.

Fino a che non ero entrata in casa, avevo sperato che mi avrebbe seguita, che mi avrebbe abbracciata e sorriso, guardata con quelle due gemme blu e detto che, anche se partiva, avremmo trovato il modo per restare in contatto. Avevo sperato, ma lui non mi era venuto dietro e io avevo chiuso la porta alle mie spalle.

Un sorriso amaro mi si dipinse in volto: ero una cretina, speravo in qualcosa che accade solo nei film. 

La gatta mi venne a grattare sulla finestra, così le aprii e Grugra non perse tempo, saltandomi sulle gambe e mettendosi comoda, acciambellandosi. Pochi secondi e la sentivo già russare.

Dovevo dimenticarlo, dovevo assolutamente togliermi quegli zaffiri e quel sorriso da schiaffi dalla testa. E sapevo bene come fare: dovevo buttarmi anima e corpo in qualcosa, qualsiasi cosa. Lo studio universitario era un'ottima idea, ma avrei finito per non uscire più di casa e impazzire. “Ho bisogno di qualcosa di più leggero e più… pratico.”

Mi guardai un attimo attorno e vidi la costola del libro per la patente. “Ma sì, in fondo perché no.” Allungai la mano quel tanto che bastava per prenderlo. “Ma prima…” Tirai fuori il cellulare e mandai un singolo messaggio, prima di aprire il libro di testo e iniziare a studiare.

 
 

Ci tenevo a precisare una cosa. Siccome ho notato uno… strano, diciamo così, aumento delle visualizzazioni del racconto durante i giorni di martedì e giovedì (ovviamente intendo prima dell’effettiva aggiunta del nuovo capitolo), volevo solo precisare che prima dell’ora di pranzo non esce nulla. Quindi state tranquilli e ci si vede nel primo pomeriggio, okay? Per l’amor del cielo, non è assolutamente una colpa, ci mancherebbe anche. Anzi come autrice fa pure piacere, da un certo punto di vista. Uno è liberissimo di andarsi a vedere tutti i capitoli che vuole, quando vuole, quante volte vuole. Solo che… Non mi fate smattare il contatore delle visualizzazioni per favore, perché davvero… mi fare credere che siate davvero tanti a leggere. E non è carino. 

E poi boh, io reputo un atteggiamento del genere un po’ ansioso (perché lo facevo anch’io, a suo tempo, lo ammetto) e so cosa si prova a non vedere l’aggiornamento quando ti aspetti che ci sia. Sfava. E tanto, anche. Quindi, vogliamoci bene a vicenda, okay che ho detto che pubblico il martedì e il venerdì, però sappiate che tanto prima dell’ora di pranzo solitamente non c’è nulla. Grazie dell’attenzione, e alla prossima!

No, ‘sto capitolo non lo commento. Si commenta da solo. E poi al prossimo c’è Aurora che ci pensa lei a commentare, quindi io non ho altro da dire lol



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