Note iniziali: Intanto ciaaao! Questa storia partecipa al contest ''Let's cliché'' indetto da Ever_after (_Vintage_) sul forum di EFP, e il prompt selezionato è quello dell'amore a prima vista. Le note chilometriche me le risparmio per la fine, intanto però ci tenevo giusto a specificare che questa storia nasce come one-shot (unica), ma siccome il numero di parole sforava il limite previsto dal giudice per il contest, ho dovuto suddividere la fanfiction in due parti! E quindi niente, mi dispiace per l'interruzione che risulterà sicuramente un po' brusca, però il lato positivo è che ho pubblicato entrambi i capitoli insieme e quindi... uhm, non soffrirete? Insomma niente qualcuno mi tolga il computer e buona letturaaaa!
Il bar del sole
(Parte I)
Gentile. È tutto gentile, in quel bar senza nome incastonato
come una gemma preziosa fra un conbini e un negozio di abbigliamento.
La prima volta, Atsumu ci si ritrova dentro per caso, sorpreso da un
acquazzone che gli ha inzuppato la giacca di flanella e i libri di
economia sottobraccio nel giro di trenta secondi.
''Fanculo'',
pensa, schioccando la lingua con disappunto. ''Stagione delle piogge di
merda.''
Sospinge la porta del bar e ci si intrufola dentro, tirando un sospiro
di sollievo non appena il tepore gli abbraccia le guance, finalmente al
riparo dall’acqua e dal vento feroce.
‘’Buongiorno!’’ lo accoglie una
voce esuberante. Atsumu solleva il volto, ma le gocce di pioggia ancora
incastrate fra le ciglia gli impediscono una visione chiara, e tutto
ciò che riesce a discernere è una chiazza confusa
che somiglia a una pozzanghera, arancione e verde bottiglia. Dunque si
strofina la manica sugli occhi mentre è ancora impalato
sulla soglia, inveendo contro il maltempo, e quando li riapre, Atsumu
si sente un po’ come se fosse stato centrato da un palo
dritto in fronte. Poi la terra sotto i piedi comincia a tremare, infine
si strappa, si squarcia, e Atsumu si ritrova a precipitare in un
baratro improvviso, un po’ come i personaggi dei cartoni
animati che vedeva da bambino.
''Cazzo'', pensa. ''Cazzo merda cazzo merda cazzo
merda.''
Atsumu, nell’amore a prima vista, non ci ha mai creduto. Il
colpo di fulmine, secondo lui, è sempre stato un sogno, una
speranza, da ragazzine stupide e frivole. Le farfalle nello
stomaco? Il cuore che palpita impazzito nel petto? Che schifo, bleah,
stronzate da film spiccioli e traboccanti di cliché.
Riusciva a concepire, al massimo, l’attrazione fisica (lui
era il primo che calamitava su di sé i sorrisi smaliziati e
gli sguardi bramosi della folla), ma quello mica era
amore vero.
Tuttavia, in quell’istante, mentre fissa l’altro
dritto negli occhi (prima ci si perde e poi ci affoga dentro, e va
bene, va benissimo,
non si sta affatto lamentando) non ha certo bisogno delle
farfalle che iniziano a svolazzare impazzite nel suo stomaco
(è uno sciame di vespe, quello, altro che farfalle!), o
degli usignoli che gli cinguettano in testa neanche si stessero
esibendo sul palco di chissà quale teatro europeo, per
comprendere che, porca
di quella puttana ladra,
s’è appena innamorato.
*
Shouyou,
quel pomeriggio, non ha troppa voglia di recarsi a lavoro. Forse
è la pioggia che scroscia furiosa, o forse è il
vento che ulula e che piega i tronchi degli alberi, ma rimpiange con
amarezza il suo morbido futon e il kotatsu che condivide con i
coinquilini. Pensa a Yachi che farfuglia davanti ai libri di francese,
declamando tutti quei suoni nasali e quelle consonanti che frusciano e
che sibilano e che a Shouyou fanno venire una gran fame. Pensa a
Yamaguchi che scuote la testa affranto quando non riesce a eseguire un
calcolo, la matita sempre perfettamente appuntita e la gommapane sempre
a portata di mano. Pensa a Tsukishima che sottolinea i polverosi tomi
di storia con cui potrebbe tranquillamente spaccare il cranio a
qualcuno (ci ha provato con lui, una volta), mentre schiocca la lingua
infastidito quando sbaglia una data e sorseggia la sua tazza stracolma
di caffè. Il peluche a forma di tirannosauro che gli ha
regalato suo fratello per il compleanno gli tiene compagnia, poggiato
sulla scrivania vicino al portapenne.
Poi pensa a Kageyama, dall’altra parte del mondo, e qui lo
stomaco si stringe perché un pochino, forse, ma anche no,
gli manca, e si domanda se ci sia il temporale anche da lui.
Giunge finalmente al bar, saluta, indossa la divisa, dà il
cambio a Tanaka e prepara un caffè e un cappuccino per due
studentesse liceali, la divisa alla marinaretta che lascia scoperti i
polpacci sottili. Porge loro anche un piattino in ceramica con dei
pasticcini colorati alla crema, perché la gentilezza
è l’essenza di quel luogo senza nome in cui lavora.
Poi, d’improvviso, il tintinnio della campanella allacciata
alla porta lo spinge ad alzare lo sguardo.
‘’Buongiorno!’’ esclama
spumeggiante in maniera automatica, chinando la testa per accogliere il
cliente. Pare un ragazzo della sua stessa età, forse appena
più grande, ed è zuppo-fradicio
di acqua dalla testa ai piedi.
Quest’ultimo non ricambia il saluto, limitandosi a sibilare
imprecazioni a denti stretti, prima di strofinarsi la pioggia via dagli
occhi, con la manica della giacca - elegante, blu scuro,
Shouyou vorrebbe toccarla, perché sembra vellutata. Poi, i
loro sguardi si incontrano, si incastrano, si sciolgono l’uno
nell’altro.
''Oh!'',
esclama Shouyou, nella sua testa. Oh.
Shouyou, nell’amore a prima vista, ci ha sempre creduto.
Battito accelerato, terra che freme sotto i piedi, usignoli e farfalle
nello stomaco. È una tiritera che conosce a memoria.
Tuttavia, sebbene non sia scettico sull’argomento, non
pensava che un giorno gli sarebbe capitato davvero di
sperimentarlo in prima persona. E allora, oh!, rimane
pietrificato mentre l’epidermide s’arruffa come il
pelo d’un gatto, e i brividi gli scorrono lungo la schiena
come rivoli d’acqua ghiacciati, e il cuore, sovraeccitato,
accelera e accelera e accelera e fermati,
insomma, caspita, rallenta!
Ha gli occhi chiari, lucidi di pioggia. ''Oh'',
pensa un’altra volta, e poi lo pensa ancora, e ancora, e
ancora. E con la meraviglia che gli sboccia come un fiore gigantesco
nello stomaco, un bocciolo spontaneo di sorpresa, tale e quale alle
margherite che spuntano dall'asfalto, Shouyou si rende conto che sì, sì e
sì, s’è decisamente
innamorato.
Atsumu trova il coraggio di chiedergli come si chiama la quarta volta
che ci torna. Ovvero esattamente quattro giorni dopo, poiché
Atsumu ha deciso, sin dalla prima tazza di caffè che
l’altro gli ha preparato, che sarebbe diventato un cliente
fisso. Il miglior
cliente fisso.
Addirittura, Atsumu ha impostato la sveglia ben dieci minuti prima,
sforzo titanico che sino a quel momento non aveva mai compiuto per
nessuno, e nonostante non gradisca particolarmente la folla al mattino,
e preferisca di gran lunga la colazione tradizionale giapponese
composta da riso e pesce preparata da suo fratello, alle otto spaccate
Atsumu varca la soglia di quel luogo che trasuda gentilezza e buon
umore, come se fosse avvolto da una patina dorata e scintillante.
‘’Buongiorno!’’ lo saluta
l’altro non appena la campanella tintinna, lo stesso tono
spumeggiante di sempre. Atsumu ricambia, si controlla, e prende posto
al bancone, proprio davanti alla macchinetta del caffé.
Necessita di conoscere il suo nome. È proprio un bisogno
impellente, soltanto che non sa come diamine fare. Non può
continuare a rivolgersi a lui, nella sua mente, come ''il tizio stratosferico
incantevole mozzafiato meraviglioso dai capelli rossi e gli occhi
grandi che fa i caffè più squisiti sulla faccia
dell'universo''.
È un soprannome troppo lungo, e Atsumu è
decisamente troppo pigro. Di norma, non è solito crearsi
paranoie e turbe mentali su come, quando e soprattutto in che modo
presentarsi a qualcuno. Atsumu è consapevole di essere
affascinante, sa di possedere un sorriso in grado di sciogliere la
lingua. Quando intrattiene una conversazione da cui desidera ottenere
qualcosa, ha a disposizione una ricca serie di sguardi e di espressioni
da sfruttare al fine di piegare secondo la propria volontà
la persona a cui si sta rivolgendo. Sa se sia più giusto
sgranare o assottigliare gli occhi, se curvare o distendere le labbra,
scoprire i denti, sbattere o meno le ciglia. Capisce quando deve
esagerare con le moine, quando invece è più
conveniente mantenere un atteggiamento serioso, quando deve toccarsi il
collo, quando deve addolcire la voce come zucchero, quando deve
indurirla o farla divenire più roca. Atsumu flirta da quando
ha compreso il significato di quella parola. Gli piace farlo per gioco,
per scommessa, per mero appagamento personale. Ad Atsumu piace
rigirarsi le persone fra le dita come plastilina, adora vedere nei loro
occhi arrendevolezza e ammirazione, si sente un prestigiatore, un
manovratore di burattini. Si sente così potente,
così superiore. Flirtare è un passatempo che
appaga e nutre il proprio ego e che permette all’autostima di
gonfiarsi a dismisura, ebbra dalla facilità con cui le
persone scelgono di annichilirsi, ipnotizzate da lui. Il problema, in
quel caso specifico, è che per la prima volta in vita sua
non vuole incantare qualcuno per capriccio, ma per sincero interesse. E
questo lo inquieta, lo pietrifica, e lo rende incapace di snocciolare
due parole affilate. Da conquistatore avvenente, Atsumu
s’è trasformato in un ciocco di legno rigido,
indeciso e insicuro. Non riesce a decidere come agire, non riesce a
capire quale sia la cosa più giusta da dire. E lui non
è affatto abituato, a titubare così tanto.
Il tizio stratosferico incantevole mozzafiato meraviglioso dai capelli
rossi e gli occhi grandi che bla
bla bla, con
un sorriso perfetto (Atsumu adesso muore), gli porge il
caffè che ha chiesto - a quanto pare,
l’ordinazione è l’unica cosa che riesce
a soffiare via dalla bocca. Come risposta, Atsumu balbetta un mezzo
ringraziamento che gli s’affloscia in gola (scemo, scemo, testa di cazzo che
non sei altro, e vorresti chiedergli il nome?),
e si porta il liquido bollente alle labbra. È amaro,
s’è persino scordato di...
‘’Non lo zuccheri?’’ gli
domanda l’altro, sollevando le sopracciglia color carota.
È un pensiero stupidissimo, da quindicenne rincretinito, ma
Atsumu praticamente venera le
sue sopracciglia, perché sono color rosso pallido, sottili e
affusolate, incorniciano l’occhio come un arco a tutto sesto.
‘’Come?’’ sputacchia in
risposta, a scoppio ritardato. Quasi si strozza, e il caffè
gli cola lungo il mento. Afferra un tovagliolo e si pulisce il viso,
inveendo contro se stesso mentalmente e sperando di non avvampare -
tutto, tutto, tutto,
tranne
quello.
‘’Uhm’’ l’altro
appare a disagio, curva leggermente il collo in un tentativo di
guadagnare tempo, poi però scrolla le spalle e incatena il
suo sguardo al proprio.
‘’No, scusa, è che di solito lo
zuccheri! Ci ho fatto caso, ecco!’’
‘’Oh’’ risponde Atsumu, preso
in contropiede. Perché ci ha fatto caso? Perché
gli piace? Ha destato il suo interesse? O forse gira il
caffè in maniera stupida? Forse è ridicolo, forse
l’altro l’ha notato perché sembra scemo.
Deve agire nell’immediato, approfittando di quello spiraglio
di conversazione, aggrappandosi a esso con tutte le sue forze.
‘’Vuoi sentire una
barzelletta?’’ esclama allora, di punto in bianco,
sorprendendo persino se stesso. L’altro scopre i denti in un
sorriso e annuisce entusiasta. Atsumu ricambia il sorriso,
perché il suo senso dell’umorismo spacca
(è una bomba nel deserto, un fottuto
maremoto, reggetevi forte).
‘’Cosa fanno otto cani in un
mare?’’
‘’Non so, cosa fanno?’’
risponde l’altro, e Atsumu si scioglie e diventa una pozzetta
al suono della sua voce.
‘’Un canotto!’’ esclama Atsumu,
come se avesse appena mostrato una scala reale in una partita di poker.
Quello era il suo asso nella manica migliore.
‘’Can-otto! L’hai capita,
vero?’’
L’altro si concede appena un istante di
perplessità, prima di scoppiare a ridere sincero. Si porta
il braccio davanti al viso e la sua risata cristallina riecheggia fra
le mura dipinte di bianco, e allora scompare il rumore della pioggia -
perché sì, il temporale persiste da quattro
giorni - e le voci degli altri clienti. Nessuno, nessuno, ha mai riso
alle sue battute così di gusto. Nessuno ha mai riso alle sue
battute e basta, in effetti.
''Merda'', pensa
Atsumu, a metà fra l’ammaliato e lo sconvolto. Ha
voglia di mettersi in ginocchio e di chiedergli di sposarlo,
sinceramente.
‘’Ma com’è che ti
chiami?’’ gli chiede dunque, perché per
una proposta di fidanzamento è ancora un po’
presto.
‘’Io?’’ domanda
l’altro, soffocando la risata e indicandosi il petto. Atsumu
inarca le sopracciglia, scettico.
‘’Ma sì. Io, certo’’
aggiunge, passandosi una mano dietro il collo nervoso.
‘’Che scemo.’’
Oh no. Porco cazzo. Atsumu è spacciatissimo.
‘’Mi chiamo Hinata Shouyou!’’
‘’Shouyou-kun’’ ripete quindi
Atsumu, e un sorriso così spontaneo si allarga sul suo viso
come se fosse stato inciso con un coltello. ''Shouyou-kun'', ripete
nel pensiero. Shouyou,
Shouyou, Shouyou.
Ha un bel suono, pensa mentre finisce di sorseggiare il
caffè. Scivola via sulla lingua come il fruscio delle foglie.
‘’E tu?’’ domanda
l’altro, affrettandosi a
riporre via la tazzina, oramai vuota.
‘’Miya Atsumu.’’
‘’Oh, Miya-san, dunque!’’
‘’Atsumu va bene’’ risponde
l’altro, perché di Miya ce ne sono due, di Atsumu
ce n’è uno solo.
Shouyou sorride, arrossisce, e le farfalle nel suo esofago creano lo
spettacolo di danza più sfrenato e lascivo che sia mai
esistito. Praticamente fluttuando, Atsumu si dirige verso la cassa e
paga la colazione.
‘’Buona giornata, Atsumu-san!', lo
saluta l’altro, chinando la testa.
‘’Pure a te,
Shouyou-kun!’’
ribatte Atsumu, e sfodera il suo occhiolino migliore. Poi inciampa nei
lacci delle scarpe e finisce addosso a un cliente, ma non gliene
importa un fico secco (sta mentendo, vorrebbe che la terra lo
inghiottisse). Finalmente conosce il suo nome, ed è
abbastanza. Non gli importa che fuori piova, che si
infradicerà di nuovo dalla testa ai piedi. Se si ripete il
nome di Shouyou in testa, è un po’ come se
tornasse il sole.
*
Definire il nuovo cliente attraente, sarebbe
un eufemismo. Shouyou è completamente partito. È
alto, ha il naso perfetto, gli zigomi alti e i capelli fighissimissimi.
Le sopracciglia scure e folte gli incorniciano le iridi chiare, ma sono
le mani ad averlo stregato. Ha le dita lunghe e affusolate, senza
neppure l’ombra d’una pellicina tirata, e Shouyou -
senza esagerare - potrebbe fissarle per ore e ore. E difatti,
è proprio quello che tenta di fare durante quei giorni, non
appena l’altro s’accomoda al bancone e ordina il
suo caffè. Persino il modo in cui apre la bustina dello
zucchero è ipnotico e aggraziato. E, sebbene
l’espressione del viso sia arrogante, Shouyou ha la
sensazione che sotto sotto sia burro e miele.
Vorrebbe chiedergli il nome, ma Daichi lo disintegrerebbe se lo
scoprisse. Insomma, in quanto cameriere non gli è mica
permesso flirtare sfacciatamente con un cliente. Però se
fosse l’altro, a fare il primo passo, allora la storia
sarebbe diversa!
Quando gli porge il caffè, e l’altro lo ringrazia
(fra l’altro, Shouyou immolerebbe l’anima anche
alla sua voce, il dialetto del kansai è troppo
sensuale), Shouyou si volta e serve gli altri
clienti che sono in attesa. Mentre prepara caffè e
cappuccini, sbircia con trepidazione, aspettando il momento in cui
l’altro prenderà le due bustine di zucchero dal
recipiente e girerà col cucchiaino per farlo
sciogliere.
Però, l’altro salta completamente questo
passaggio, e si porta direttamente la tazzina alle labbra, Shouyou si
sente quasi tradito, come un bambino a cui gli è appena
volato via il palloncino.
‘’Non lo zuccheri?’’ domanda
dunque, senza riuscire a trattenersi.
L’altro lo fissa sbigottito, e Shouyou s’affretta a
spiegarsi: ‘’No, scusa, è che di solito
lo zuccheri! Ci ho fatto caso, ecco!’’
Spera che non gli chieda perché. Non può mica
dirgli che si è preso una sbandata colossale per la forma
delle sue dita e per il modo in cui regge il cucchiaino.
‘’Oh’’ risponde
l’altro. Shouyou si sente scemo, perché non
avrebbe dovuto fare quell’osservazione inquietante, ma
proprio mentre si concentra alla ricerca di qualcosa di sensato da
dire, l’altro gli propone una barzelletta, di punto in
bianco. Sollevato, Shouyou annuisce con un entusiasmo esagerato, e
l’altro soffia via una freddura agghiacciante (davvero,
atroce)
su otto cani.
''Burro e miele'',
pensa Shouyou, soddisfatto. ''Proprio come avevo previsto.''
Ride di gusto comunque, perché obiettivamente è
una battuta così stupida che gli fa venire le lacrime agli
occhi.
‘’Ma com’è che ti
chiami?’’
Shouyou impiega qualche istante a comprendere, a processare, le parole
dell’altro. Gli ha davvero domandato il suo nome?
È come se l’avesse letto nel pensiero!
‘’Hinata Shouyou!’’ gli dice,
quasi urlando. Poi si calma (respira,
Hinata, respira).
‘’E tu?’’
‘’Miya Atsumu.’’
Miya Atsumu. Spera
di non dimenticarselo. È un po’ una frana, con la
memoria.
‘’Oh, Miya-san, dunque!’’
‘’Atsumu va bene.’’
A Shouyou si mozza il respiro. Gli ha davvero (davvero? davvero?
davvero?)
chiesto di chiamarlo per nome? Le guance prendono fuoco, e mentre lo
osserva alzarsi per pagare, il cuore pulsa così forte nelle
costole che è certo che anche gli altri lo sentano.
‘’Buona giornata, Atsumu-san!'' dice,
perché vuole provare immediatamente il sapore del suo nome
sulla lingua. E scivola così bene, sul palato.
‘’Pure a te, Shouyou-kun''
risponde l’altro, e poi gli fa l’occhiolino.
Shouyou sarebbe morto sul colpo, se Atsumu non fosse inciampato. Con un
sorriso chilometrico, lo osserva uscire dal bar. Fuori piove, scroscia,
e Atsumu (Atsumu-san,
Atsumu-san, Atsumu-san) è di nuovo senza
ombrello. Ora che ci pensa, non se lo porta mai dietro.
''È un tipo strano'', pensa Shouyou, ponendo
via le stoviglie sporche.
''E difatti mi piace un casino.''
*
Gentile.
È tutto gentile, lì dentro, a cominciare dal modo
in cui Shouyou inclina la nuca e scopre i denti nel sorriso
più largo del mondo, per accoglierlo al mattino non appena
Atsumu varca la soglia. Lo trova sempre dietro al bancone, la divisa
verde bottiglia che gli fascia le braccia, i riccioli che si curvano
morbidi dietro le orecchie come la lana delle pecore - il sabato e la
domenica, sono più arruffati del solito.
'‘Buongiorno Atsumu-san!’’ esclama
sempre, non appena Atsumu accosta la porta alle spalle. Persino
quest’ultima è gentile, accompagnata dal suono
della campanella che tintinna ogni qualvolta che entra un nuovo
cliente. È un suono appropriato, che s’amalgama
bene all’atmosfera luminosa, all’odore del
caffè, alla macchinetta che sbuffa. È un suono
gentile, che s’allaccia alla perfezione alla sua voce
cinguettante. È un suono che, senza volerlo, suo malgrado,
Atsumu ha iniziato ad associare alla felicità. E
sì, Atsumu è perfettamente consapevole che
‘felicità’ appaia come una parola
grossa, e che rischia di utilizzare in maniera esagerata - ma,
dopotutto, Atsumu
è
esagerato - tuttavia non
c’è termine più adatto.
‘Confortevole’ potrebbe andare, tuttavia Atsumu si
ritrova a sorridere un po’ troppo spesso affinché
una parola come ‘confortevole’ basti a giustificare
quella sensazione di tepore che gli sboccia nella pancia, nelle cosce,
sotto le unghie. Sino a qualche settimana fa, ritrovarsi a sorridere
prima delle undici del mattino non era neanche
un’eventualità ponderabile. L’unica
parola che riusciva a soffiare via, da appena sveglio, era un vaffanculo rivolto
a suo fratello - ricambiato con gli interessi. E adesso invece deve
sforzarsi per costringersi a reprimere quel desiderio inarrestabile di
piegare le labbra in un sorriso a qualunque ora del giorno -
è così patetico, ma è pure
così felice. Persino Osamu, mentre si lavava i denti, gli ha
detto che sembrava 'un
po' meno coglione' (ma
pur sempre un coglione). È quanto di più vicino a
un complimento ci sia mai stato, da parte sua. E un altro cambiamento
altrettanto importante, è che Atsumu ora deve trascorrere
ben dieci minuti in più davanti allo specchio - si aggiusta
i capelli, i pantaloni, la felpa - no,
un momento, forse è meglio quella nera?.
Lui ha sempre tenuto alle apparenze, ma durante quei giorni la sua
arroganza è stata sostituita dal timore di non essere bello
abbastanza. Insomma, non è che lui non sia consapevole di
non essere affascinante, Atsumu
splende come il fottuto sole,
però poi pensa a Shouyou e d’improvviso ha voglia
di fare di più, dare di più, essere
più che perfetto.
‘’Ciao, Shouyou-kun’’ risponde
allora Atsumu, sfoderando il sorriso più affascinante di cui
dispone.
Shouyou brilla ogni volta che Atsumu pronuncia il suo nome. Sgrana gli
occhi e, se possibile, il suo sorriso diviene ancora più
largo, come se sul viso si riversasse tutto ciò che
c’è di buono al mondo. Le iridi ambrate pulsano
come la luce delle lucciole, e non importa se fuori piova e faccia
freddo, poiché non appena Atsumu varca quella soglia trova
un tepore ad accoglierlo che gli scioglie il cuore e gli fa distendere
la fronte. E, all’improvviso, Atsumu scopre il desiderio di
voler dare senza il secondo fine di ottenere qualcosa in cambio, come
se trovasse un diamante nella polvere. Ed è una sensazione
inaspettata, per uno che, da sempre, è abituato a prendere.
Ecco, a essere stravagante (destabilizzante, in un certo senso),
è il fatto che, per una volta, Atsumu desideri fare colpo
non su se stesso, bensì su un’altra
persona.
*
Per Shouyou, il suono della campanella significa eccitazione.
Perché è così che si sente,
quando la mattina poco prima delle otto percepisce la porta tintinnare:
eccitato. Una frenesia spumeggiante gli sfrigola nello stomaco, e
d’un tratto diventa, se possibile, ancor più
effervescente e affamato. Quindi spalanca gli occhi e inizia a
molleggiare sulle ginocchia, obbligato a sfogare in qualche modo
quell’iperattività che gli impedisce di star
fermo, che gli sgorga nelle ossa, non appena alla soglia
s’affaccia una figura alta con un ghigno malizioso e i
capelli decolorati di biondo.
‘’Buongiorno, Atsumu-san!’’
esclama cinguettando, enfatizzando il ‘san’ finale,
tentando di controllare il troppo entusiasmo che minaccia di fargli
tremare la voce. E l’altro sorride (burro e miele, aveva proprio
ragione)
e Shouyou ricambia scoprendo i denti sino a spingersi le orecchie verso
la nuca. Le farfalle nello stomaco guizzano e fremono frenetiche, in
preda al panico e all’euforia più totale come se
fossero state drogate, l’esofago si annoda, e
l’agitazione prende il sopravvento, l’adrenalina
pura che scorre a tutta birra nelle arterie, al posto
dell’ossigeno.
‘’Ciao, Shouyou-kun’’ ricambia
l’altro, sollevando il mento in quello che potrebbe sembrare
un gesto pigro, ma - Shouyou lo sa, o forse lo spera - non è
altro che un saluto volutamente misurato. Shouyou-kun, Shouyou-kun,
Shouyou-kun.
Quando Atsumu pronuncia il suo nome, solleva
l’angolo destro della bocca e arrotola la lingua,
enunciandolo in maniera deliberatamente strascicata. Il dialetto del
kansai, gli occhi che brillano come quelli di un gatto fra i cespugli,
le gocce di pioggia incastonate fra le ciglia (perché, in
tutto ciò, fuori continua a piovere, sembra che non voglia
smettere mai più): è tutto così
sensuale, che Shouyou ci si vorrebbe letteralmente strozzare col suo
nome nella gola sussurrato dalle labbra dell’altro.
E poi, Shouyou lo osserva sedersi sempre al solito posto, e ordinare
sempre il solito caffè. Fra di loro c’è
sempre quel ridondante scambio di battute (''Buongiorno, Atsumu-san!' -
''Ciao, Shouyou-kun!'' - ''Cosa desideri ordinare?'' - ''Un
caffè, grazie.''), sempre le stesse parole che,
da fuori, appaiono come minima e dovuta cortesia fra un cliente e un
cameriere.
La verità, però, è che a Shouyou
quello che si dicono piace. È un modo tutto loro che hanno
di salutarsi, una melodia che si ripete ogni giorno, alla stessa ora, e
che Shouyou desidera custodire come se fosse un oggetto prezioso,
segreto. È una conversazione che in realtà dura
appena qualche secondo, però è un rito privato,
che s’è trasformato in un’abitudine che
Shouyou ha iniziato a percepire come qualcosa di intimo, nonostante si
verifichi fra gli altri clienti del bar. Shouyou immagina questo filo
che li unisce (lo visualizza proprio al centro del petto, in mezzo alle
costole), che diviene più spesso e più luminoso
man mano che i giorni si susseguono, man mano che le loro voci
diventano familiari e che al contempo destano sempre più
curiosità reciproca e un mutuo tepore che sfavilla. Ed
è un filo invisibile, elastico, che si stringe non appena
l’altro prende posto al bancone, sempre nello stesso punto,
proprio di fronte alla macchinetta del caffè, e che invece
si tende, si assottiglia, quando s’allontana -
però non si spezza.
E soprattutto, quando Atsumu è lì con lui, emerge
un desiderio totalizzante, un bisogno impellente, di farsi notare.
Shouyou vorrebbe trasformarsi in un catalizzatore, convergere nel suo
petto tutta l’attenzione dell’altro, costringerlo a
cucire a doppio filo, sulla propria pelle, i suoi occhi e le sue
labbra. Shouyou vorrebbe prendere tutto ciò a cui
può arrivare senza mezze misure, come se
d’improvviso il lato più egoista del suo carattere
divampasse e bruciasse senza riuscire a smettere, come se non fosse mai
sazio. È una fame quasi malata, che gli fa venire la pelle
d’oca, perciò, quando l’altro va via e
lo saluta, Shouyou imbastisce sempre il suo sorriso migliore,
l’espressione più intensa e magnetica di cui
disponga, perché tutto ciò a cui anela
è farlo sciogliere come burro. E questo è davvero
molto strano, perché Shouyou è sempre stato
abituato a dare molto, a dare tutto, ma quando c’è
Atsumu di fronte a lui vorrebbe solo risucchiare nel corpo
l’aria, il sole e persino la pioggia.
*
Adesso
sono dieci, forse undici giorni. Shouyou, mentre prepara il
caffé, somiglia all’acqua. È un flusso
rapido e scintillante, simile a quello d’ un piccolo ruscello
che scorre allegro seguendo la pendenza del terreno. Atsumu ne
percepisce quasi il gorgoglio cristallino, mentre l’osserva
destreggiarsi fra tazzine e cucchiaini tenendo testa alla folla che
brulica impaziente in attesa della propria colazione. Infonde allegria,
trasmette elettricità, e difatti Atsumu si siede
appositamente di fronte alla macchinetta perché è
il luogo dove la distanza fra loro è più ridotta.
Poggia i gomiti sul bancone assumendo una posizione casuale e un
po’ arrogante, con le sopracciglia sollevate e il mento sul
palmo della mano (casuale
un paio di palle, Atsumu studia persino
l’incurvatura del mignolo).
Poi, Shouyou gli chiede cosa gradisce.
‘’Un caffè, grazie’’
risponde Atsumu, il tono di voce perfettamente controllato, nonostante
il cuore nel petto pulsi e sfrigoli impazzito - farfalle del cazzo. Ogni
tanto sbircia il cellulare, ostentando un’espressione
distratta, come se quello fosse un bar come un altro, come se Shouyou
fosse un ragazzo come un altro, come se fuori non piovesse e
lì dentro non ci fosse l’estate. E, con
discrezione, lo osserva mentre s’affanna a esaudire le
richieste di tutti, con estrema meticolosità.
Il tizio alto e stempiato dagli occhi un po’ malvagi,
desidera un caffè lungo e una brioche alla marmellata. La
signora anziana, dalla schiena curva e l’espressione arcigna,
ne vuole invece uno decaffeinato con un cornetto integrale.
‘’Veloce, veloce, che ho
fretta!’’ si permette persino di sbuffare, e Atsumu
vorrebbe solo rifilarle un ceffone per rigirarle la testa come un
frisbee - no, non
gliene frega un cazzo che abbia più di settant'anni. Poi
c’è la mamma con un bambino che si tiene
aggrappato alla sua mano, che ordina un cappuccino e un bicchiere di
latte e cacao, e poi ci sono le due spremute all’arancia da
preparare per le due studentesse. ‘’Una passata,
per favore, la polpa mi fa un po’
senso!’’ dice quella più vicina a lui,
spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio con una
punta di malizia. Atsumu le rivolge un’occhiata scettica (''guarda che non hai nessuna
speranza'',
vorrebbe
sibilare). E poi il ginseng con ‘’una spruzzata di
cannella!’’ per un uomo dalla giacca di tweed
elegante, e poi il caffé corretto alla sambuca per un
vecchio che barcolla e una penna infilata nell’orecchio (ma perché,
i domanda Atsumu), e poi c’è il cappuccino da
asporto, e i due muffin al cioccolato (‘’No, no, mi
dia quello dietro’’, esclama la signora che,
davvero, deve
rifarsi
la tinta al più presto, ‘’quello
più grande all’angolo! Sì, esatto
proprio quello!), poi è il turno del caffé
macchiato e la treccia al cioccolato, e poi c’è il
coglione (solo coglione, sì, Atsumu trova che sia inutile
soffermarsi su qualunque altra particolarità, coglione è
un termine più che appropriato) che chiede un succo alla
pera ‘’in un bicchiere con ghiaccio, mi
raccomando!’’, ma che poi cambia idea
senza neanche scusarsi e Shouyou è costretto a preparargli
una tisana al melograno (e a buttare il succo). Atsumu, se lavorasse
lì, a quest’ora si troverebbe in galera a scontare
l’ergastolo per strage, ma il sorriso di Shouyou non accenna
a svanire, non vacilla neanche per un istante, neanche quando
è voltato verso la parete. Sembra che qualcuno
gliel’abbia cucito sul viso a doppio filo, insieme al tono di
voce squillante e vivace che non tentenna mai, come se rimanere
disponibili e di buon umore fosse la cosa più naturale del
mondo. Ricorda tutti gli ordini senza commettere errori, e in quelle
rare occasioni in cui capita, china lesto la nuca e si scusa in una
maniera tanto sentita da lasciare le persone spiazzate, prima di
affrettarsi a rimediare. Atsumu lo guarderebbe per ore, ed è
proprio quello che fa, imperterrito, mentre sorseggia la sua tazza di
caffè - la prende grande, perché così
ha una scusa per rimanere seduto per più tempo. E mentre gli
sbuffi di vapore fluttuano verso l’alto, e gli
s’incastrano fra le ciglia, Atsumu osserva Shouyou che si
china e si volta alla ricerca dello zucchero, dei cucchiaini,
dell’apribottiglie, e di tutto ciò di cui
necessita, per poi mordersi le labbra con le sopracciglia accartocciate
quando ciò che cerca non si trova dove dovrebbe essere.
Shouyou non fa altro che cinguettare ‘’ecco a
lei’’ - ‘’non si preoccupi,
arriva subito!’’ - ‘’un attimo
che le do il resto’’ -
‘’buongiorno, arrivederci, grazie per essere
venuti!’’, e Atsumu sente la sua voce che gli
trilla distintamente nella testa, mentre tutto il resto del chiasso che
lo circonda si trasforma in un mormorio indistinto che diviene parte
dello sfondo, del tutto privo di importanza. È come se
Shouyou fungesse da catalizzatore, e non appena si china verso di lui
per ritirare la tazza sporca, Atsumu è quasi certo di
riuscire a percepire distintamente il suo respiro e il rumore delle
labbra che s’incurvano in un sorriso. Shouyou
è instancabile e gli ricorda una pallina da flipper. E
mentre l’altro si muove e si volta e saltella per fare tutto
in fretta, Atsumu si sente così felicemente stupido e
così stupidamente felice.
*
Shouyou adora che Atsumu, la mattina, si accomodi proprio davanti alla
macchinetta del caffé. E lo percepisce, che
l’altro l’osserva con attenzione, malgrado ogni
qualvolta si giri lo trovi con lo sguardo puntato sul telefono o perso
nel vuoto. Nonostante Atsumu sfoggi noncuranza e un posato
disinteresse, Shouyou sente il suo cuore che batte forte, fortissimo.
Riesce a intravederlo da sopra la giacca bagnata di pioggia che si
sbottona non appena si siede, riesce a distinguerlo mentre pulsa sotto
il maglione a collo alto che gli fascia lo sterno in maniera indecente.
Perché Shouyou le nota, le ciglia che sfarfallano per
l’agitazione quando gli domanda cosa desidera ordinare,
nonostante il tono di voce di cui l’altro s’avvale
per rispondere (‘’un caffè grande,
grazie’’), appaia perfettamente controllato e
bilanciato, e si rifiuti di lasciar trasparire qualsiasi emozione.
Però, però, non appena Shouyou si volta per
prepararglielo, sente distintamente sulla schiena le iridi chiare
dell’altro che lo perforano. Sente il suo sguardo fra le
scapole, che trapassa la divisa verde bottiglia, penetra la carne
tenera come un coltello nel burro e gli si conficca nelle ossa, tra i
cuscinetti delle vertebre. Shouyou si sente nudo in quei momenti,
scoperto, ma non vulnerabile. Anzi, gli piace da morire che gli occhi
dell’altro trapassino con tanta solerzia i suoi abiti,
squarciando la stoffa vellutata. E Shouyou vorrebbe chiedergli cosa
veda sotto la sua canottiera, se gli piaccia la sua schiena, se oltre a
guardarla vorrebbe anche sfiorarla e poi morderla. E quando il
caffè è pronto gli porge la tazza fumante,
c’è un istante durante il quale le loro dita si
sfiorano. Un brivido gli fa tremare le cosce e il collo, e Shouyou vede
quel medesimo brivido riflesso anche nel volto dell’altro,
nel mento che trema appena e che esplicita in maniera cristallina la
smisurata voglia di parlarsi, toccarsi, strapparsi la pelle di dosso a
morsi.. Dura appena un istante, un battito di ciglia, poi Shouyou
è obbligato ad allontanarsi per prestare attenzione a tutti
gli altri clienti. E nonostante il vapore che sbuffa a nuvolette dalla
tazza, Shouyou lo sa che l’altro lo fissa, e non riesce
proprio a soffocare quel sorriso impertinente che gli sboccia sul viso
e gli crea una fossetta sulla guancia destra. Perciò non
importa della signora poco gentile che gli chiede di fare in fretta
(più in fretta!), non importa neanche del signore acido che
gli ha fatto aprire un succo a vuoto senza neanche preoccuparsi di
abbozzare una scusa o un’espressione dispiaciuta (chissene
frega dello spreco, giusto?), non importa, non importa e non importa,
perché sa che Atsumu lo sta mangiando vivo. E lo fa
gongolare da morire anche vedere che l’altro sorseggi il
caffè con un lentezza tale da farlo persino raffreddare (gli
sbuffi di vapore scompaiono del tutto), pur di attardarsi al
bancone.
*
Atsumu odia litigare
con suo fratello, e odia se stesso per odiarlo così tanto.
Non gli piace, stare così male, lo odia, lo odia, lo odia.
La pioggia gli infradicia le maniche della giacca, s’aggrappa
ai capelli come i chicchi d’uva, gli scorre lungo le guance
ed è ghiacciata contro l’epidermide calda a causa
della rabbia e del ritmo sostenuto del suo andamento. Atsumu
è furioso, furioso, incazzato
nero.
''Stupido 'Samu'',
pensa, per soffocare il senso di colpa (la gola fa male). ''Stupido, stupido, testa di
cazzo.''
Gli ha persino urlato in faccia che i suoi onigiri fanno schifo, ed
è per questo che il locale è semivuoto. Gli ha
detto proprio così, testuali parole, e la gola brucia di
più, perché sa che l’ha ferito. Sa
quanto suo fratello soffra per il locale che non va bene, sa che si
chiede costantemente se siano buone abbastanza, le pietanze che prepara.
''Certo che sono buone,
sono squisite, una fottuta delizia. È perché il
locale è nuovo e nessuno ancora lo conosce. La ristorazione
è un tipo di attività che necessita di tempo per
permettere agli ingranaggi di partire, ecco.''
Atsumu quelle cose le pensa davvero, non giustifica la situazione solo
perché è suo fratello. Ma questo non gli ha
impedito di insultarlo aggrappandosi all’unica cosa - falsa,
per giunta - che lo ha punto, addolorato per davvero. Per quale motivo
avevano iniziato a bisticciare, poi? Per il dentifricio che era finito?
Deve chiedergli scusa. È tanto facile, afferrare il telefono
che gli rimbalza nella tasca in balia dei suoi passi furibondi. Ma
Atsumu non lo farà.
''Piuttosto mi ficco in gola un
ammasso di serpenti velenosi'', pensa.
La pioggia ormai gli scivola lungo la schiena. Il tempo uggioso non
accenna a diminuire, oramai saranno due settimane che piove senza
sosta. Brontolando, Atsumu si ritrova a passeggiare per quella via che
oramai ha imparato a conoscere come le sue tasche, la via del bar senza
nome. Non l’aveva programmato, di recarsi lì, ma
evidentemente il proprio cervello ha attivato una specie di pilota
automatico che l’ha portato davanti alle vetrine di quel
luogo. È la prima volta che ci va di pomeriggio, e difatti
c’è più silenzio. Atsumu sbircia dentro
le vetrine con le labbra arricciate, ma non vede Shouyou. Forse lavora
solo la mattina, forse quello è il suo giorno libero.
Alzando gli occhi al cielo (li rigira così tanto da
guardarsi l’interno della nuca), pensa se quella giornata
potrebbe mai andare peggio. Sbuffando, tira fuori dalla giacca elegante
un pacchetto di sigarette, ne prende una fra le dita e se la ficca in
bocca. Atsumu è un fumatore occasionale, ma delle volte il
sapore amaro della nicotina gli fa così schifo, che lo aiuta
a stare meglio. Estrae l’accendino e fa partire la fiammella,
prima di tirare una boccata profonda.
Grazie a dio, pensa sollevato, non appena la nicotina
s’irradia nei polmoni. Tira di nuovo, un’altra
volta ancora, e chiude gli occhi, la puzza di sigaretta e catrame nel
naso, e il rumore della pioggia che s’infrange copiosa sul
marciapiede. Un brivido di freddo lo scuote, mentre sente una goccia
d’acqua scivolargli dai capelli lungo la nuca, intrufolandosi
sotto al maglione di lana come un vermiciattolo affamato.
''Non me ne frega un cazzo'',
pensa ancora, tentando di soffiare via il lampo di dolore balenato
negli occhi di suo fratello. ''Se
l'è meritato.''
Ma non è vero, e Atsumu lo sa. Per questo sta uno schifo.
‘’Atsumu-san?’’
Atsumu sbarra gli occhi e volta la testa. Shouyou è accanto
a lui con un ombrello stretto in mano e lo sguardo perplesso, luminoso
come la glassa. Indossa un giaccone decisamente troppo ampio, per lui,
le mani a malapena riescono a spuntare dall’orlo delle
maniche - si intravedono solo le punte dell’indice e del
medio - e il ricamo delle spalle originario gli arriva invece a
metà bicipite.
Atsumu ha voglia di piangere, e non sa perché (lo sa
benissimo, in realtà). La gola brucia.
‘’Che ci fai qui?’’ dice allora
in tono aggressivo, perché evidentemente il suo cervello non
connette troppo bene. Non connette affatto.
‘’Uhm, ci lavoro?’’ risponde
l’altro ridacchiando, ma è a disagio.
‘’Va tutto bene, Atsumu-san?’’
‘’Perché non
dovrebbe?’’ ribatte Atsumu aggressivo, di nuovo.
Shouyou inarca le sopracciglia, ma non aggiunge nulla.
Atsumu dovrebbe scusarsi anche con lui, adesso. Ma non lo fa. Si limita
a tirare l’ultima boccata di sigaretta, il filtro
incandescente gli scotta la lingua, poi la spegne sulla superficie di
ferro del cestino e ce la butta dentro.
‘’Non sapevo che fumassi’’
osserva l’altro. Ha un tono sorpreso, non arrabbiato.
‘’Solo ogni tanto. Carina la giacca,
Shouyou-kun.’’
Non doveva dirlo ad alta voce. Ma quel giorno non riesce a filtrare i
pensieri, prima di enunciarli.
Shouyou si guarda il petto e avvampa diventando dello stesso colore dei
suoi capelli. Adorabile,
adorabile, adorabile.
‘’Non è mia, è di
Kageyama’’ borbotta l’altro, fissando
risentito l’imbottitura delle braccia.
Kageyama.
''Adorabile un cazzo'',
pensa Atsumu.
‘’Il tuo ragazzo,
Shouyou-kun?’’ dice allora Atsumu, in tono
canzonatorio, come se volesse prenderlo in giro. Vuole prenderlo in
giro. Ha voglia di spaccare qualcosa. La faccia di qualcuno. Quella di
Kageyama, per esempio, andrebbe benissimo. E la gola brucia, brucia e
brucia ancora. Non doveva proprio dirle, quelle cose, a suo fratello.
‘’No, Atsumu-san. Kageyama è solo un
amico. Sono libero, al momento’’ risponde, e
accenna un sorrisetto furbo. Di nuovo, non c’è
rabbia nella sua voce, solo gentilezza. Atsumu, a malincuore, sbuffa e
si apre in un mezzo sorriso pure lui. Shouyou dunque
s’avvicina e gli sfiora delicatamente il braccio.
Atsumu percepisce la forma gentile dei polpastrelli da sopra la stoffa.
‘’Sei fradicio’’ constata
l’altro. ‘’Sai, fa freddo. Ti beccherai
qualcosa. Non dovresti essere così superficiale, Atsumu-san.
La salute è fondamentale!’’
‘’Non lo sono!’’ ribatte
l’altro per giustificarsi, come se fosse tornato bambino e
sua mamma l’avesse appena rimproverato.
‘’È perché ho dimenticato
l’ombrello a casa.’’
‘’Non lo porti mai, l’ombrello. Ci ho
fatto caso. Arrivi al bar che sei sempre zuppo.’’
Atsumu non sa cosa dire. Non credeva che l’altro
l’osservasse sino a questo punto. La pioggia continua a
precipitare implacabile, ma per Atsumu c’è
già una parvenza di sole.
Poi, Shouyou gli volta le spalle e apre la porta del bar.
‘’Io attacco fra cinque minuti, e dentro fa caldo.
Perché non entri?’’
Atsumu annuisce e lo segue. La campanella tintinna, e questa volta la
soglia la oltrepassano insieme.
Il pomeriggio, il bar è molto meno affollato, e questo gli
dona un’apparenza più spaziosa e ordinata. Atsumu,
per abitudine, si avvia verso il bancone, ma Shouyou scuote gentilmente
la testa e lo blocca.
‘’Perché non ti siedi al tavolino? Si
sta più comodi. Ti piace la cioccolata?’’
‘’Sì,
però…’’
‘’E la torta di carote?’’
‘’Pure, ma…’’
Shouyou non gli dà il tempo di terminare la frase. Si volta
ed entra nella porta riservata al personale. Atsumu tentenna, indeciso,
ma poi scrolla le spalle e si sistema al tavolino piccolo, vicino alla
finestra.
La pioggia tamburella contro il vetro, e il tepore di quel luogo lo
avvolge e inizia a sciogliergli le membra intirizzite dal freddo.
Improvvisamente, viene colpito da una forte sonnolenza, ha quasi voglia
di poggiare la testa sulle braccia e addormentarsi. Mentre osserva le
macchine sfrecciare lungo la strada, e le forme indistinte dei passanti
con gli ombrelli colorati che passeggiano a testa china sul
marciapiede, Atsumu pensa che potrebbe davvero viverci, lì
dentro.
L’odore della cioccolata gli fa voltare di scatto la testa.
Shouyou se ne sta in piedi con la divisa verde e un vassoio con una
tazza più grossa della sua faccia.
‘’Questa’’ dice, prima di
poggiargliela davanti, ‘’la offre la casa. E pure
questa’’, aggiunge, mettendogli accanto un piattino
di ceramica con un’abbondante fetta di torta.
Atsumu rimane senza parole. Letteralmente, non sa cosa dire, non sa se
sia l’imbarazzo a paralizzarlo o la felicità
improvvisa. Riesce solo a guardare Shouyou con gli occhi sgranati, e
nota che ha le guance in fiamme, probabilmente è persino
più imbarazzato di lui.
A quel punto, Atsumu scoppia a ridere (perché davvero,
quella situazione è surreale) e Shouyou accartoccia la
faccia.
‘’Non ridere!’’ esclama, ma
anche lui ha i denti scoperti. ‘’È che
volevo fare qualcosa di carino, visto che sembravi tipo… Non
lo so, tipo suuuper
abbattuto!’’
Atsumu non risponde, limitandosi a fare un morso enorme al dolce (perché
d’improvviso gli è tornata fame).
‘’Com’è?’’
domanda Shouyou, tutt’a un tratto preoccupato.
‘’L’ho fatta io.’’
Atsumu si strozza. E mentre Shouyou gli domanda più volte se
riesca a respirare, dandogli pacche sulla schiena, Atsumu ha voglia di
inginocchiarsi e di chiedergli di sposarlo, per tipo la centesima volta
in due settimane.
‘’È squisita’’
farfuglia, non appena la laringe torna libera.
‘’Davvero buonissima.’’
Shouyou, letteralmente, si gonfia di luce. Ringrazia con entusiasmo, e
quando la porta tintinna di nuovo, si volta per servire il cliente
appena arrivato.
Con un sorriso stampato in faccia, Atsumu beve un sorso di cioccolata e Gesù
Cristo, quella è ancora meglio della torta. Fuori
la pioggia non accenna a smettere, la maglia è ancora
fradicia di acqua, ma in quel momento si sente così bene.
Non chiederà scusa a suo fratello, dopotutto.
Però, prima di andare via, prende una seconda fetta di torta
da asporto, che lascerà sul tavolo in soggiorno per quando
quello stupido di ‘Samu tornerà dal
ristorante.
*