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Autore: Elsira    12/02/2021    3 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Pagina 10.

(I saw an angel
of that I’m sure)
 
Ho visto un angelo
di questo sono sicuro.

You’re beautiful, James Blunt

 
 
«Io lo ammazzo.»

I lunghi capelli biondi di Aurora parvero alzarsi sopra la sua testa, manco stesse diventando super sayan. Con il suo sguardo di fuoco, la muscolatura che pareva tremare e i tendini tesi, in effetti, avrebbe potuto benissimo essere paragonata a Goku durante la prima trasformazione. 

Da una parte pensai fosse meglio la versione ssj, visto che l'altra probabile opzione sarebbe stata quella albica. Non volevo che Elsa uccidesse un unicorno per farne un destriero della notte, per quanto cazzuti potessero essere quegli animali, solo per arrivare in Norvegia e torturare Arkin fino a che non l'avesse pregata di ucciderlo.

Per un attimo mi lasciai accarezzare dal pensiero di dar via libera alla mia migliore amica, e con mia sorpresa, già solo quello bastò per farmi sentire molto meglio. 

Liberai le mie labbra dalla cannuccia della coca cola, mostrando alla ragazza di fronte a me un sorriso sincero di gratitudine. Elsa si tranquillizzò pian piano, facendo tornare le sue iridi il loro solito, dolce e tosto, color miele.

Feci un respiro per trovare le parole giuste e, solo quando seppi cosa dire, aprii bocca. «Io voglio una relazione come la tua. Tu conosci tutto di Leo, e lui di te. Siete perfetti insieme, anche chi non vi conosce lo può affermare con certezza.»

«Beh, noi siamo stati predetti.» Sogghignò lei, dando un morso al panino e facendomi scappare un sorriso. Le sue guance vennero attraversate per un attimo da un leggero rossore; nonostante potesse non sembrare, e lei facesse di tutto per nasconderlo, Aurora era una ragazza che arrossiva molto facilmente, quando si parlava dei suoi affetti o le si faceva un complimento particolarmente sincero. Questa cosa l'aveva sempre resa super dolcissima ai miei occhi. 

«Appunto!» Esclamai, con un sorriso quasi divertito. Loro due erano davvero il tipo di coppia cui anch'io avevo sempre aspirato. E il fatto che fossero stati predetti non era uno scherzo o un’esagerazione, ma la pura verità. 

Era l'inizio dei nostri allenamenti di canottaggio, otto anni prima, quando durante l'allungamento Jolly era rientrato dalla corsa e, osservandoci per meno di cinque secondi, si era rivolto ad Aurora con un sorriso e aveva decretato: «Tu saresti perfetta per Leonardo.» Al tempo, nessuna delle due aveva la più pallida idea di chi fosse questo Leonardo, e anche quando lo avevamo incontrato per la prima volta non avevamo fatto nessun collegamento. Poi, alla prima braciata societaria, avevamo fatto gruppo con altri della nostra categoria d'età ed eravamo stati a parlare per buona parte della notte di canottaggio. 

Da quella sera, Leo aveva iniziato a venire più spesso in palestra, a baccagliare un po’ Elsa. Lei era stata fenomenale, all'inizio del rapporto, perché non si era sinceramente accorta di nulla, lo vedeva come un compagno di palestra, nulla di meno e nulla di più. Ciò significava che chiunque osasse prenderlo in giro, che non facesse parte della nostra cerchia, avrebbe dovuto affrontare la sua ira e, allo stesso tempo, Leo avrebbe potuto avere un bambino da un’altra e lei sarebbe stata la prima a fargli le congratulazioni. Il poverino - mi faceva davvero pena al tempo, mista a tenerezza - era riuscito a strapparle il primo appuntamento senza nessuna fatica, solo perché Elsa era certa che fosse un'uscita di gruppo e aveva accettato all’istante.

Come avrei voluto esserci quando, una volta resasi conto di essere al suo primo vero appuntamento romantico con un ragazzo, aveva avuto tanta paura di essere un fiasco totale che si era persino lasciata baciare e toccare il fondoschiena senza dire nulla.

Ovviamente poi lo aveva scaricato, giorni dopo, con la terribile frase “restiamo solo amici”, dandosi la ridicola scusa che il loro primo bacio aveva fatto iniziare a piovere, che quelli successivi non le avevano detto nulla e, la migliore fra tutte, che era già sposata con il remoergometro e non aveva nessuna intenzione di tradirlo così presto. 

Eppure, da quel disastro di primo appuntamento, quei due avevano iniziato a provare qualcosa l’uno per l’altra di più profondo della semplice attrazione. E un giorno primaverile di quasi un anno dopo quando, senza nessuna forzatura ma solo spinti da ciò che provavano, si erano ritrovati quasi a baciarsi prima di venire agli allenamenti, Elsa aveva capito di essere completamente cotta di lui. 

Tempo nemmeno due mesi, Leo era arrivato agli allenamenti con il parabrezza della macchina incrinato, da dentro. Inutile tentare di dire che non era come potevamo pensare, i due sono diventati leggenda. Tempo un anno, lui le aveva chiesto la mano e lei aveva accettato. Non si erano ancora sposati, ma era solo questione di mettersi dei soldi da parte ormai, per poter cominciare con qualcosa che non fossero subito debiti. Elsa aveva sempre sognato il matrimonio in grande, ma avevano preferito dare la priorità alla casa, che avevano acquistato da poco e vi sarebbero entrati entro l'estate successiva, giusto il tempo di fare qualche lavoretto di ristrutturazione. 

I sentimenti e le intenzioni di vivere insieme, di creare una famiglia e passare il resto della vita assieme, c’erano già tutte.

Elsa si asciugò la salsa che le era colata durante il morso con l’angolo del pollice, per poi portarlo alle labbra. Rimase un attimo assorta nei propri pensieri, dopodiché le vidi l’espressione da ragazza innamorata persa che tanto amavo di lei: «Beh… Sì, è vero. Io conosco tutto di Leo, del suo corpo… Potrei elencarti tutte le cicatrici del suo corpo e dirti come se le è fatte. Tipo quelle sulle spalle, o quelle delle cisti tendinee ai polsi, o quella al ginocchio di quando è caduto con il 4x sulla discesa per scendere in barca, o quella sulla nuca di quando gli è caduto il quarto di vitello in testa… E tutti i vari tagli sulle mani dovuti al coltello e agli ossi!» Alzò lo sguardo, mostrandomi un sorriso di pura gioia: «Conosco tutto di lui e allo stesso tempo non lo conosco affatto, perché ogni volta riesce sempre a farmi provare qualcosa di nuovo!»

«Ecco vedi… Tu ami tutto di lui!» Esclamai quasi con esasperazione, lasciando cadere le braccia sul tavolo di plastica. «Lo si capisce anche solo guardandoti che sei cotta come il primo giorno…» Elsa mi lanciò un’occhiata più che chiara, facendomi correggere: «Anzi, decisamente di più del primo giorno.»

«Tu non conosci tutto di Björn?»

Diedi un morso all’hamburger prima di rispondere, mogia. «Conosco il lui bambino… Ma il ragazzo di adesso… No, non lo conosco.» Una smorfia mi prese il possesso del volto, mentre le braccia andavano a stendersi nuovamente sul tavolo e la testa si inclinava all'indietro. «Non sapevo nemmeno che abitasse in Norvegia!»

Elsa prese un sorso di coca cola, come se la bevanda l’aiutasse a riflettere meglio - e conoscendola, poteva anche essere vero -, dopodiché mi chiese: «E quando stavi con lui?» Il mio sguardo interrogativo la esortò a spiegarsi meglio: «Che sensazioni avevi quando eravate insieme?»

«Non saprei.» Scostai lo sguardo, mettendomi una patatina in bocca, per poi lasciarmi andare a un sospiro confuso. «È complicato. Quel che so per certo è che non sapevo mai cosa gli passasse per la testa, sia nel bene che nel male…» Mi misi tra le labbra un altro bastoncino salato, senza davvero assaporarlo. “È vero… Ora che ci penso bene, non sono mai riuscita a leggere veramente quegli zaffiri e ciò che celano.”

«Non è che, forse, eravate entrambi così presi dai voi bambini che non avete fatto troppo caso ai voi adulti?»

Quella frase mi colpì come un cavallone che si infrange sugli scogli. Guardai la mia migliore amica come se fosse la risposta a tutte le mie domande, gli occhi sbarrati, mentre lei proseguiva con il maggior tatto di cui era capace: «Se fosse così… Se l'interesse che provavate era riguardo ai voi di un tempo, il voler ricostruire a tutti i costi quel rapporto… Cami, io non credo sia una cosa buona, sana. Credo che, presto o tardi, se anche lui fosse rimasto, avreste finito per separarvi di nuovo. Pieni di rancore, completamente stremati dal tentativo di ritrovare quella persona che non esiste più. Perché siete cresciuti, siete cambiati… Non si può tornare indietro nel tempo.» 

Aurora aprì il coperchio della sua bibita e iniziò a muovervi la cannuccia all’interno, facendola scavare tra i cubetti di ghiaccio nel tentativo non troppo serio di trovare le ultime gocce di coca. «Sai quando… Quando Björn è venuto alla Canottieri e gli ho raccontato di noi, l'ho visto molto preso. Aveva davvero intenzione di farti salutare Sergio come si deve. E di questo io non posso che essergli grata, perché in effetti è riuscito a fare qualcosa che io non sono mai stata in grado di fare. E, ti dirò, penso anche che fosse l'unico che potesse riuscire nell'impresa. E quando me lo hai presentato, che ti ho vista sorridere tranquilla tutto il pomeriggio, libera di poter parlare dei tuoi Miti… Me ne sono accorta, sai? Non avevi mai parlato a nessuno della tua passione per Michelangelo e Leonardo, e quel giorno eri così… animata… Serena, mentre lo facevi. Tuttavia», le palpebre si chiusero, le sopracciglia chiare si avvicinarono, la presa sulla cannuccia si strinse e la deformò, facendole formare un angolo di 10 gradi: «Te lo dico con il cuore: il fatto che ti abbia mollata così, non mi è piaciuto per nulla. E non mi sembra nemmeno possibile… Sto davvero facendo fatica a credere che quei due ragazzi siano la stessa persona.» Mollò la presa sulla cannuccia e mi guardò dritta negli occhi, risoluta. «Ciononostante non puoi continuare a sognarlo. Per quanto possa essere difficile, devi voltare di nuovo pagina e andare avanti.» Allungò la mano e strinse la mia, ancora poggiata sul piano di plastica color crema, gli occhi color miele colmi di affetto. «E per quanto io possa darti una mano, è una cosa che devi fare da sola, perché solo tu puoi, e devi, volerlo.»

 

«Arkin!» La mano di Svein venne a contatto con la mia faccia senza che io me ne accorgessi. Il mio amico mi spinse allegramente all’indietro, facendo quella poca forza giusto per farmi riconnettere con il mondo reale.

Sorrisi, togliendomi le cuffie con un unico gesto e un poco di dispiacere. Svein era arrivato nel momento più bello della canzone. 

Il suo braccio scivolò sulle mie spalle, il sorriso raggiante sul volto, mentre gli occhi andavano a scrutare lo schermo del mio cellulare. «Oh... Dette er musikk fra huset ditt, ikke sant? (Oh… Questa è musica di casa tua, vero?)»

«Mitt hus er her, soldat. (Casa mia è qui, soldato.)» Gli risposi io, sereno. “Già… Casa mia è qui…” Lui mi scrutò per un attimo solo con quegli occhi color ghiaccio. «Den lille halvbredden føles nostalgisk for Italia mer enn normalt på denne turen, ikke sant? (Il piccolo mezzosangue sente nostalgia dell’Italia più del normale a questo giro, o sbaglio?)»  

Tirai un sorriso, abbassando lo sguardo. Non aveva senso mentirgli, era mio cugino, il mio coinquilino - quel poco tempo che stava a casa -, il mio migliore amico… Era come un fratello per me. Un fratello che stava a casa nemmeno sei mesi all’anno. 

Svein era pilota, come suo padre e suo nonno, militari di alto rango: aveva le ali mimetiche sulla schiena da generazioni. Amava il suo lavoro, e quando non volava per lavoro lo faceva per “sport”. Lui non aveva un’auto, una bicicletta, una moto; aveva un jet. Non era nuovo, ma per poterselo mantenere era perfettamente capace di restare a digiuno per giorni; non aveva vizi di alcun tipo, indossava praticamente sempre la sua uniforme per risparmiare nei vestiti. Rinunciava a tutto pur di poter volare. Tarpargli le ali equivaleva a volerlo far morire.

«Kom igjen (Dai dai)», esordì, prendendomi una cuffia di mano: «La meg høre litt hva du hører under Middelhavssolen. (Fammi sentire un po’ cosa si ascolta sotto il sole mediterraneo.)» 

Il mio sorriso si allargò impercettibilmente, mentre sfioravo il tasto play. «Poesi. (Poesia.)»

“4 marzo 1943” iniziò a suonare nelle nostre orecchie.

 

Quella mattina c’era il pienone sul bus, per essere appena le sei del mattino. Una volta salita, mi sporsi mentre timbravo il biglietto per vedere se ci fosse un posto a sedere libero. Ne intravidi due: uno al finestrino, uno centrale. Non c’era bisogno di chiedere a quale volessi andare. Raccolsi tutto il coraggio di cui avevo bisogno per parlare ad uno sconosciuto e mi diressi verso il primo, sussurrando appena: «È libero?»

Il ragazzo, che conoscevo di vista dato che l’avevo incrociato spesso sul bus, annuì in silenzio, per poi alzarsi in modo da farmi entrare meglio. Ricambiai con un piccolo sorriso, indossai le cuffie e mi misi ad osservare il paesaggio extraurbano scorrere fuori dal vetro.

Era ottobre inoltrato, le poche foglie che erano ancora sui rami parevano reggersi con tutta la loro forza agli alberi, cercando di combattere la forte tramontana. Il bus si fermò e io mi alzai un poco la sciarpa, in modo da riparare le labbra e il naso dalla folata gelida che spirava dalle porte, apertesi per far salire gente.

Durante l’estate avevo preso la patente, ma per andare all’Università continuavo a preferire il bus. Gli orari alle volte non erano dei più comodi, specialmente quando gli autisti si svegliavano con il piede sbagliato e decidevano di fare sciopero o ritardi di quasi mezz'ora, per non parlare di quando non si fermavano proprio, facendomi perdere la coincidenza, ma almeno non dovevo guidare e parcheggiare. E soprattutto, a lungo andare era molto più economico visto che la mia era una macchina che adorava bere.

Non avevo preso la patente per una reale necessità pratica, quanto psicologica: mi aveva impedito di concentrarmi troppo su Arkin e, ormai, sentivo di aver completamente chiuso quell’argomento. D’altronde, era inutile tenerlo aperto: era lui ad avermi mollata, alla fin fine me ne ero fatta una ragione. Lo stesso non si poteva dire di Aurora, la quale, avesse saputo l’indirizzo in cui abitava o anche uno straccio di modo per poterlo trovare, non avrebbe perso tempo ad andare a fargli una “visitina amichevole”. Peccato - ma nemmeno poi troppo - che queste ultime non finivamo mai in modo molto… pacifico.

«Scusa… Sai che ore sono?» La voce del ragazzo accanto a me mi fece distogliere gli occhi dall’esterno e voltare. La musica nelle cuffie era bassa, appena di sottofondo visto che era mattina, perciò non avevo avuto problemi a sentire la sua domanda.

Sbloccai il cellulare e gli risposi con un sorriso appena accennato, per poi tornare a guardare dall’altra parte: «Le sei e venti.»

«Grazie…» 

Cadde di nuovo il silenzio, che venne nuovamente interrotto da lui, quando l’autobus era quasi a metà strada: «Ehm… Scusa è che…» Si passò una mano sui ricci, un sorriso imbarazzato sul volto. Lo guardai un poco stranita, non certa di dove volesse andare a parare. «È un po’ banale per iniziare una conversazione, eh? Sono un po’ una frana a rompere il ghiaccio…» Lui mi porse la mano, il volto completamente in fiamme e la voce ancora un poco tremante: «Mi chiamo Mattia. Non ci conosciamo, ma mi piacerebbe conoscerti. Ti ho vista spesso sull’autobus, anche l’anno passato e mi ispiri simpatia e penso che potremmo andare d'accordo e vorrei conoscerti meglio.» Lo disse tutto d'un fiato, come avesse paura di dimenticarsi qualcosa o di bloccarsi a metà frase. O che la paura di passare per uno stalker lo fermasse prima di poter finire di parlare, forse.

Sbattei un paio di volte le palpebre, dopodiché gli sorrisi e gli strinsi la mano, una parte di me contenta di aver trovato qualcuno al mio stesso imbarazzante livello di interazione sociale: «Io sono Camilla.» Arrossii appena, affermando: «Sarò sincera. È un piacere sapere che non sono l’unica ad avere il terrore di rompere il ghiaccio.» Lui mi guardò con gli occhi verdi sgranati, ancora incredulo di non so cosa. «Non hai idea della dose di coraggio che ho dovuto racimolare per chiederti se il posto era libero…»

Le sue labbra si distesero in un sorriso che gli arrivava alle orecchie, incorniciato da un lieve accenno di barba, il rossore ancora prepotente sulle guance. «A te piace sedere vicino al finestrino, vero? Io salgo alla prima fermata, se vuoi d’ora in poi ti posso tenere il posto.» 

«Volentieri!»

Ci scambiammo dei sorrisi, ancora un poco imbarazzati, dopodiché iniziammo a chiacchierare del più e del meno, e ben prima di arrivare alla nostra fermata l’imbarazzo era completamente svanito. Durante il viaggio, venni a sapere che aveva un anno più di me ed era uno studente di ingegneria biomedica.

Da quella mattina, per quattro volte a settimana, ci vedevamo sul bus per andare all’università. Sedevamo su quei due posti e iniziavamo a chiacchierare di tutto e nulla, approfondendo la conoscenza l’uno dell’altra ad ogni incontro. Nessuno dei due aveva il cellulare dell’altro, non avevamo modo di parlare all’infuori di quegli appuntamenti, e a nessuno dei due era venuto in mente di cambiare. In un mondo in cui tutto andava programmato, in cui tutti erano rintracciabili all’istante, quei rendez-vous avevano la piacevole atmosfera di un altro tempo. Non prendevamo mai un vero e proprio impegno ma, allo stesso tempo, quelli erano diventati degli appuntamenti inderogabili della durata di un’ora e mezza cui nessuno dei due voleva rinunciare. 

Mattia era un ragazzo a primo impatto timido, alle volte impacciava un po’ nelle parole, altre era talmente preso che parlava così velocemente da dimenticarsi di respirare. La sua voce era dolce e sapeva ascoltare. Ma la cosa che mi aveva colpita di più di lui, sin dai primi momenti, era la calma che riusciva a trasmettere. Aveva un’aura che non avevo mai incontrato in nessun altro prima: tutte le persone importanti con cui avevo avuto a che fare fino a quel momento avevano come un uragano dentro di loro, un’energia che pareva poter spostare le montagne. Mattia no, lui era quel tipo di persona che avrebbe potuto placare un oceano in tempesta.

Senza rendermene conto, quegli incontri erano diventati nel giro di appena un mese la ragione per la quale mi alzavo dal letto la mattina.

 

Probabilmente avrei dovuto trovare un modo migliore di dividere quel momento in cui passano qualcosa come... 7 mesi (?) dalla chiacchiera con Elsa, all'ora di pranzo (giusto perché fare colazione al MC sarebbe stato troppo da reggere per lo stomaco di un corpo non più allenato come quello di Cam, mentre il pranzo è anche accettabile) dopo il misfatto accaduto la sera prima, all'incontro con Mattia. Ci tenevo a precisare una cosa di linea temporale che, mi sono accorta adesso, nella narrazione potrebbe non essere chiara. La storia inizia alla fine di Marzo 2018, Arkin se ne torna in Norvegia all'incirca verso la seconda settimana di Aprile, quindi tutto quello che è successo tra i due dall'inizio del racconto fino allo scorso capitolo è accaduto in, relativamente, poco tempo. Meno di 3 settimane. Arkin sarebbe dovuto rientrare nella prima settimana di Aprile, è restato una decina di giorni in più per organizzare con Aurora il "funerale" di Sergio per Cam e la sua festa di "ciao amico, ci rivediamo alle tue prossime ferie dell'anno prossimo, quasi sicuramente sempre verso Marzo-Aprile perché è stato così negli ultimi 4/5 anni". 
Cam incontra Mattia che è ottobre, quasi novembre, quindi, il fatto di essersi "dimenticata" di Arkin è... normale (?) Non so se è la parola corretta.

Io ho appena fatto la figura di bip della mia vita no non mi voglio soffermare a pensare se ce ne sono state di peggio perché la risposta potrebbe solo deprimermi ulteriorimente che mi fa veramente pensare che i semini che Goten aveva piantato nel mio cervello anni fa stiano iniziando a sbocciare. E questa cosa, onestamente, mi fa molta paura. 
So che tipo il 98% di voi non capirà cosa ci incastri Son Goten in questa storia (ed è meglio così, credetemi), e probabilmente c'è anche qualcuno che non ha la più pallida idea di chi sia, e io vi dico che va benissimo così. Fate finta di non aver letto quanto sopra. Era uno sfogo personale che non il racconto di Cam e Arkin non c'entra assolutamente nulla, quindi andate avanti con le vostre vite in maniera molto tranquilla, e ricordatevi di stare idratati e di dormire. 
E pregate per me, perché un ritorno di Goten in questo periodo della mia vita sarebbe una rovina. Non sarei davvero in grado di reggerlo.

 

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