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Autore: Parmandil    14/02/2021    1 recensioni
Approfittando della Guerra Civile federale, lo Stato Imperiale Romulano esce dal lungo isolamento. Guidato da un’ambiziosa Imperatrice e forte di vascelli potenziati dalla tecnologia Borg, si appresta a ristabilire l’antico Impero Romulano. Solo una fragile alleanza tra le fazioni in lotta potrebbe fermarlo, posto che tutti lo trovino conveniente.
È la prova più dura per Terry, l’Intelligenza Artificiale che per quarant’anni si è sforzata di diventare più umana, ma ora deve partecipare a una guerra truculenta. Nel momento in cui la salvezza comune dipende da lei, l’IA dovrà chiedersi che significa avere un’anima, e se è disposta a perderla pur di salvare i suoi cari.
Ma la rovina incombe anche sullo Spettro, che si trova braccato dalla sua nemesi, uno spietato cacciatore di pirati al servizio dell’Unione. Pur di arrivare a lui, l’Esecutore non esiterà a fargli il vuoto attorno, colpendolo negli affetti più cari. Solo l’aiuto degli androidi del pianeta Coppelius potrebbe salvarlo, posto che sappia di quale fidarsi. Tra macchine che vogliono diventare persone e persone degradate a macchine, la Guerra Civile mostra il suo volto più atroce.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Borg, Nuovo Personaggio, Romulani, Sela
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Star Trek Keter Vol. IX:

Senz'anima

 

QUESTI SONO TEMPI BUI,

LA PRIMA GUERRA CIVILE

DELLA STORIA FEDERALE.

INVECE DI ESPLORARE NUOVI MONDI,

LA KETER DEVE RICONQUISTARE

QUELLI CADUTI SOTTO LA DITTATURA

DELL’UNIONE GALATTICA.

CHIUNQUE LE SBARRI LA STRADA,

ANCHE IN BUONAFEDE,

NE CONOSCERÁ L’IRA.

 

 

-Prologo:

Data Stellare 2580.175

(10 anni prima della Guerra Civile)

Luogo: Ammasso Nero

 

   La navicella della Flotta Stellare sfrecciava tra i nembi di gas interstellari violacei, schivando gli occasionali corpi solidi che si frapponevano sulla sua rotta. Ogni tanto gli scudi brillavano per la collisione con i corpuscoli minori. In cabina c’era un silenzio teso, rotto solo dagli occasionali avvertimenti del copilota e dalle laconiche risposte del timoniere.

   «Attento, ci sono altri detriti. Impatto fra cinque secondi» disse il Remano, con gli occhi fissi al quadrante dei sensori.

   «Li vedo, adesso schivo» rispose l’Umano, corrugando appena la fronte. Le sue mani si mossero rapide sui comandi e la navetta schivò agilmente gli scuri frammenti. Alcuni erano troppo lisci per essere degli asteroidi.

   «Ci siamo» disse il pilota.

   «Sì, quelli erano frammenti di scafo» confermò il collega, leggendo il rapporto dei sensori. «Leghe di duranio e tetraburnio compatibili coi trasporti che cerchiamo».

   «Che ti dicevo? Questa è la volta buona!» disse l’Umano, con un lampo di trionfo negli occhi.

   «Aspetta a cantar vittoria» ammonì il Remano. «Sono relitti federali, ma non è detto che siano quelli che cerchiamo. In questo ammasso sono scomparse molte navi».

   «Lo so» grugnì il pilota, senza distrarsi dalla guida. «Cerca frammenti di massa superiore alle duemila tonnellate».

   Il collega eseguì e i risultati non si fecero attendere. «Rilevo una dozzina di frammenti, tutti nel raggio di un giorno luce. Si allontanano in varie direzioni, ma direi che in origine appartenevano alla stessa nave».

   «Al convoglio» corresse l’Umano. «In base alla loro velocità, calcola a quando risale l’esplosione» ordinò.

   «Vediamo... compensando il rallentamento dovuto all’attrito coi gas nebulari...» mormorò il Remano, eseguendo i calcoli sull’interfaccia LCARS. «Direi ventiquattro o venticinque anni fa» concluse.

   «Ah! Lo sapevo, tutto combacia!» esclamò l’Umano, perdendo per un attimo la calma. «Stavolta ci siamo, amico. Sono davvero i resti del convoglio».

   «Speriamo» disse il Remano, scoprendo i denti in un’espressione nervosa tipica della sua specie. «È il quinto giro illegale che facciamo e siamo indietro sul lavoro».

   «Andiamo, Nick!» lo canzonò il pilota. «Non dirmi che sei ansioso di ficcare le mani in quelle vecchie mine!». Disinnescare i residuati della Guerra delle Anomalie era il motivo per cui si trovavano nell’Ammasso Nero. Ma era una missione assai più personale a condurli in quella zona densa di relitti.

   «Ti ho detto mille volte di non chiamarmi Nick!» sbuffò il Remano, fissandolo con gli occhietti gialli alquanto infossati.

   «D’accordo, Nicrek» si corresse l’Umano, pronunciando il suo nome per intero. «Allora, cos’è quest’improvvisa passione per le mine subspaziali?».

   «Non è una passione, Jack. È solo... il nostro incarico» puntualizzò il Remano. «E noi lo stiamo trascurando per correre dietro al tuo convoglio, col risultato che siamo la squadra che ha disinnescato meno mine. Quando il Capitano Garm lo saprà, non sarà contento».

   «E tu lascia che si scontenti» disse Jack, in tono di sopportazione. «Can che abbaia non morde».

   «Cos’è un can?» chiese l’alieno.

   «Si chiama cane. È un animale da compagnia» spiegò l’Umano. «Davvero non li conosci? Credevo che ormai fossero dappertutto. Comunque volevo dire che la nostra missione ha la precedenza su un lavoro di routine. Anche il Capitano ne converrà, quando gli porteremo la prova».

   «Sempre di trovarla, una prova» sospirò Nicrek. «Dopo tutti questi anni l’energia si è dissipata. È impossibile stabilire se le astronavi sono state distrutte dal Fronte Temporale, come dicono tutti... o dai Breen, come dici tu».

   «Ehi, dubiti della mia parola?» s’indignò Jack, girandosi bruscamente verso il collega.

   «Calmo, non ti sto dando del bugiardo» lo rabbonì il Remano. «Dico solo che all’epoca eri molto giovane e forse hai frainteso...».

   «Non ho frainteso un bel niente!» ringhiò l’Umano. «Furono i Breen ad attaccarci, li ho visti bene. Uno di quei mostri mi comparve davanti e uccise mia madre».

   «Sì, me ne hai parlato» ricordò Nicrek, a disagio. «Se solo fosse sopravvissuto qualche altro testimone! Sarebbe molto più facile convincere le autorità».

   «Sono sopravvissuti in molti, ma i Breen li hanno catturati» precisò Jack, perso nei ricordi. Non sarebbe stato così fissato con quella missione, altrimenti. Sebbene fossero passati tanti anni, conservava una flebile speranza che qualcuno dei prigionieri fosse ancora vivo. Magari suo padre. «Allora, qual è il frammento maggiore?» si riscosse.

   «Eccolo, ti ho inviato le coordinate» disse il Remano, trafficando con i comandi. «È bello grosso... un quarto di astronave. Si direbbe l’Eta Carinae, la nave su cui eri».

   «Ottimo» disse Jack, dirigendo al punto indicato. Lì aveva le maggiori speranze di trovare la scatola nera. Altrimenti avrebbe ispezionato gli altri frammenti, uno alla volta. Se c’era una virtù che non gli difettava, era la tenacia.

 

   Il relitto dell’Eta Carinae era immerso in una zona di gas particolarmente densi. I due federali lo videro delinearsi come una massa informe dai bordi slabbrati. Lo scafo era stato tranciato dall’esplosione, mettendo a nudo i corridoi e gli ambienti interni, che ora sembravano tante finestre vuote. Alcuni tronconi si protendevano nello spazio, come il fasciame di un antico veliero. Il relitto ruotava sui tre assi in modo complesso, tanto che a Jack servì qualche minuto per uniformare il moto della navetta.

   «La plancia è integra... sorprendente» disse Nicrek, che nel frattempo l’aveva analizzato. «Naturalmente è decompressa, come tutto il resto. E non c’è gravità artificiale».

   «Me l’aspettavo. Vado con la tuta» disse Jack, lasciando i comandi. «Tu aspettami qui».

   «Non vuoi che vada io, Tenente?» si offrì il Remano, che era di grado più basso.

   «Grazie, ma è la mia missione» disse Jack. Andò nel comparto posteriore della navetta e aprì l’armadietto, traendone una tuta spaziale. Si assicurò che la provvista di ossigeno fosse al massimo e la indossò. Visto che l’amico lo aveva seguito, gli diede le ultime istruzioni. «Trasferiscimi in plancia. Segui i miei segni vitali, ma riportami indietro solo quando te lo dirò... o se rilevassi qualche pericolo».

   «Tranquillo, non c’è nulla che possa impattare contro quel relitto nelle prossime ore» lo rassicurò Nicrek. «Piuttosto spero che la Garuda non ci richiami».

   «Se l’astronave chiama, tu inventa una scusa» disse l’Umano, sbrigativo.

   «E di che tipo? Siamo tre parsec fuori rotta!» protestò il Remano.

   «Non so, usa l’immaginazione. Ci vediamo!». Jack era già sulla piccola pedana di teletrasporto.

   «Tu sei matto, lo sai?» sospirò Nicrek, prevedendo guai con i superiori.

   «E tu sei quello che mi segue!» ridacchiò Jack. «Andiamo, siamo ufficiali della Flotta Stellare. Affrontare l’ignoto è il nostro primo dovere».

   «Uhm... sì, hai ragione» convenne il Remano. «Buona fortuna, Jack Wolff» aggiunse solennemente, porgendogli la mano. «Spero che troverai ciò che cerchi».

   «È la volta buona, me lo sento» disse l’Umano, serrandogli le dita nella manona guantata della tuta. Dopo di che si mise in posizione sulla pedana, mentre il collega azionava i comandi. La navetta si dissolse attorno a lui. Dopo venticinque anni di rovello, Jack tornava sul trasporto in cui la sua famiglia era stata distrutta. E stavolta avrebbe fatto giustizia, ne era certo.

 

   L’Umano si trovò a volteggiare nella plancia buia e senza gravità. Per prima cosa magnetizzò le suole degli stivali, così da poter camminare. Cadde per un metro e vacillò per l’impatto, trovandosi a ondeggiare in avanti. Istintivamente cercò di compensare muovendo le braccia, ma non ottenne risultati in quell’ambiente privo d’atmosfera. Perciò continuò a piegarsi in avanti, con grande disagio delle articolazioni, fino a raggiungere il pavimento. Mise avanti le braccia per attutire l’urto. Adesso era praticamente steso, se non per il fatto che le suole erano saldamente piantate sul pavimento. Evitò di spingersi indietro, per non ricadere sulla schiena.

   Ricordando le lezioni d’Accademia sugli ambienti a gravità zero, il giovane piegò le ginocchia, assumendo una posizione accucciata, e da lì si mise cautamente in piedi. Quando si sentì stabile, fece qualche passo in avanti. Ogni falcata gli costava una fatica terribile, per via delle suole magnetizzate, ma il Tenente contava di farci l’abitudine. Finalmente poté guardarsi attorno.

   La plancia era immersa nelle tenebre; le consolle spente rilucevano debolmente nel bagliore della torcia da polso. Con un groppo in gola, Jack aumentò la luminosità. C’erano oggetti che fluttuavano attorno a lui, rimbalzando eternamente da una parete all’altra: schegge delle consolle esplose, un tricorder, un phaser... e cos’era quella sagoma più grossa che gli veniva contro?

   La torcia illuminò d’un tratto il pallido viso di un cadavere. Jack sobbalzò e per un attimo il cuore gli batté a mille. Sapeva che lì a bordo c’erano ancora le vittime; ma non poteva realmente prepararsi alla loro vista.

   «Ehi Jack, tutto a posto?» trasmise Nicrek. «Il tuo battito cardiaco...».

   «Sto bene» disse l’Umano, riavendosi dallo spavento. «Ho trovato una vittima» spiegò, osservandola alla luce della torcia. Era un Tarkaliano, anche lui Tenente della Flotta Stellare. Doveva essere caduto in battaglia, come indicavano le ustioni che gli sfregiavano un lato della testa. Per il resto era ottimamente conservato: il freddo e il vuoto dello spazio avevano impedito la decomposizione. Sul suo volto c’era ancora la smorfia di dolore degli ultimi attimi. I compagni non erano riusciti a salvarlo e anche i Breen lo avevano lasciato lì, a galleggiare nel vuoto, rimbalzando all’infinito da una parete all’altra. «Senza dignità» si disse il giovane, osservandolo cupo. Una volta fatto rapporto al Capitano Garm sarebbe tornato con una squadra, per recuperare le vittime e dar loro le esequie.

   «Cerca di non distrarti» lo richiamò il Remano. «Sei lì per la scatola nera, non per i caduti... a loro penseremo dopo, semmai».

   «Sì, sì» fece Jack, di nuovo lucido. Scostò il cadavere e si diresse alla postazione sensori e comunicazioni. La consolle era spenta come tutte le altre e in mancanza d’energia l’Umano non poteva riattivarla. Ma c’erano dei comandi manuali che potevano essere sbloccati.

   Faticando a ogni passo, Jack raggiunse la postazione. Riconobbe subito il punto che gli interessava: prima di partire aveva esaminato i progetti di quei trasporti, per controllare dov’era la scatola nera. Si accucciò di nuovo e cercò di aprire un pannello. Era difficile, perché il guanto della tuta entrava a stento nell’incavo della maniglia. E anche quando riuscì a farvelo entrare, si accorse che la maniglia non girava, per quanta forza vi esercitasse. Forse i terribili colpi subiti dalla nave avevano deformato il metallo.

   «Frell!» imprecò l’Umano. «Non ho fatto tutta questa strada per fermarmi ora!». Trasse il phaser dalla cintura e lo regolò alla giusta intensità per tagliare il metallo, senza distruggere ciò che si trovava all’interno. Impugnando l’arma con ambo le mani, per meglio dirigere il raggio, aprì il fuoco. Gocce di sudore gli solcarono la fronte, man mano che il lavoro procedeva. Il computer della tuta rilevò l’aumento di traspirazione e ridusse l’umidità dell’aria per compensare.

   Quando il contorno del pannello fu ritagliato, Jack spense il phaser, lo riportò su stordimento e lo riagganciò in cintura. Con il cuore che gli martellava in petto, afferrò nuovamente la maniglia e tirò con forza. Stavolta il pannello venne via senza problemi ed egli lo lasciò a galleggiare in aria. Si chinò in avanti, dirigendo la luce nell’intercapedine. Davanti a lui c’era un cilindro scuro e levigato, inserito per metà nella paratia.

   «Bingo!» esclamò l’Umano. Quella era la scatola nera, ed era integra. Aveva temuto che i Breen l’avessero rimossa, per nascondere le loro malefatte; invece eccola lì. Evidentemente gli alieni erano così sicuri del fatto loro che si erano fatti incauti.

   «L’hai trovata?» chiese Nicrek, che teneva sempre il canale aperto.

   «Ci puoi scommettere, amico! Ce l’abbiamo fatta... ora la estraggo» rispose Jack. Infilò la mano nell’intercapedine e sbloccò il meccanismo. Stavolta non ci fu bisogno di forzare le cose: il cilindro uscì senza problemi dall’alloggiamento. Era molto pesante, per via della corazza tribaltica che doveva proteggerlo anche in caso d’esplosione della nave; ma l’assenza di gravità aiutò Jack a sollevarlo. L’Umano doveva solo stare attento a non farsi trascinare dalla sua inerzia.

   «Okay, riportami indietro» disse Jack, stringendo la sua sudata prova. «Quando il Capitano vedrà questo, dovrà starmi a sentire!».

 

   «E questa che roba è?» chiese Garm, quando il Tenente gli posò il cilindro sulla scrivania.

   «La scatola nera dell’Eta Carinae» spiegò Jack, emozionato. «Sa, uno dei trasporti che furono attaccati dai...».

   «Sì, ricordo che me ne ha parlato» tagliò corto il Capitano, un po’ infastidito. «Mi spiega come fa ad averla?».

   «L’ho recuperata!» disse l’Umano con orgoglio.

   «Quando?».

   «Stamattina, durante l’operazione di sminamento».

   «Ah, ecco perché lei e Nicrek avete disattivato così poche mine!» si accigliò lo Zalkoniano. «Invece di fare il vostro dovere, avete bighellonato per l’Ammasso».

   «Signore, questa è la prova di un attacco che è costato migliaia di vittime all’Unione! Quasi tutte civili! L’intero convoglio da Deep Space 3!» s’infervorò il giovane.

   «Senta, Tenente, capisco che per lei la faccenda sia importante. Dopotutto ha perso la famiglia in quell’attacco» riconobbe Garm. «Ma la Flotta ha dichiarato che il caso è chiuso».

   «Questa lo farà riaprire» insisté Jack. «Contiene tutte le letture dei sensori; ci saranno senz’altro le immagini delle navi Breen».

   «Beh, suppongo di sì...» disse il Capitano, squadrando il cilindro con sospetto. «Certo, i dati si possono falsificare. Per riaprire le indagini servirebbe una prova materiale...».

   «Ho anche quella» disse prontamente l’Umano. «Vieni, Nick» aggiunse, premendosi il comunicatore.

   Il Remano entrò nell’ufficio, reggendo un contenitore per campioni. «Signore...» mormorò, socchiudendo gli occhi. La sua specie non gradiva l’illuminazione intensa.

   «Cos’ha lì?» chiese lo Zalkoniano.

   «La prova che voleva» disse teatralmente Jack, aprendo il contenitore che il collega gli porgeva. «L’abbiamo trovato nel relitto». Estrasse un grosso casco color bronzo, dal muso allungato e la visiera verdastra.

   «Un casco Breen» riconobbe il Capitano, colpito.

   «Come sa, i Breen non lasciano in giro la loro roba» commentò l’Umano. «Ma quando invasero il convoglio ebbero delle vittime, ed evidentemente non le recuperarono tutte. Abbiamo trovato solo il casco che galleggiava in un corridoio, ma suppongo che il resto della tuta sia nei paraggi. Come vede, le prove sono inoppugnabili».

   «Eh, già» ammise Garm, scrutando cupamente il casco levigato. «Tenente, le sue scoperte cambiano tutto. Farò esaminare la scatola nera dai tecnici informatici. Se, com’è più che probabile, le registrazioni corroboreranno la sua teoria, la Flotta Stellare dovrà riaprire le indagini. Con queste prove, e con le altre che troveremo sul relitto, la verità sarà ristabilita. Le faccio i miei complimenti, signor Wolff» disse, alzandosi per stringergli la mano. «Grazie alla sua perseveranza, le vittime dell’attacco avranno finalmente giustizia».

   «Posto che siano morte» corresse Jack, ricambiando la stretta. «Ho sempre pensato che molti siano stati catturati dai Breen. Qualcuno potrebbe essere ancora vivo...».

   «Di questo ci occuperemo a tempo e a modo» promise il Capitano, stringendo la mano anche a Nicrek. «Andate, ora... prendetevi un giorno di riposo, ve lo siete meritato! Io darò questa ai tecnici» disse, posando la mano sulla scatola nera. «Appena avremo i dati, li invierò al Comando di Flotta. Scoppierà un bel trambusto... ma quando ci vuole, ci vuole».

   L’Umano e il Remano si scambiarono un’occhiata di trionfo, poi Jack tornò a concentrarsi sul superiore. «L’Unione dovrà ripensare i suoi rapporti coi Breen» si azzardò a dire.

   «Per forza» borbottò il Capitano, corrucciato. «Garm a plancia, fate rientrare tutte le squadre addette allo sminamento!» ordinò. «Appena saranno a bordo, usciamo dall’Ammasso. Dobbiamo trasmettere alla Terra, si tratta di una faccenda della massima importanza».

   «Sì, signore» confermò il Primo Ufficiale.

   «Bene, potete andare» concluse lo Zalkoniano.

   «Grazie, Capitano» disse Jack. Fece per lasciare l’ufficio, assieme al collega.

   «Ah, un’ultima cosa» li trattenne Garm. «Finché non avrò ricevuto istruzioni dal Comando, gradirei che questa cosa restasse fra noi. Anzi, ve lo ordino. L’equipaggio è già abbastanza stressato da settimane di sminamento. Non voglio che tutti si preoccupino per ciò che accadrà coi Breen, prima ancora che la Flotta abbia deciso il da farsi. Intesi?».

   «Sì, Capitano» promise Jack. Gli sembrava uno scrupolo eccessivo, ma non volle contestare il superiore, proprio ora che era riuscito a convincerlo.

   «Sì, Capitano» gli fece eco Nicrek.

   I due ufficiali lasciarono l’ufficio. Appena la porta si fu richiusa alle loro spalle, Garm ricadde pesantemente in poltrona. Passò lo sguardo dalla scatola nera al casco, le prove inconfutabili della responsabilità Breen nella tragedia di venticinque anni prima. «Computer, apri un canale criptato con la Terra» ordinò stancamente. «Livello di sicurezza 1, autorizzazione Garm lambda-6».

   «Specificare la destinazione» richiese il computer.

   «Atlantide, ufficio della Senatrice Rangda» disse il Capitano, intrecciando le dita. Era nei momenti delicati come quello che gli servivano istruzioni.

 

   La palestra della Garuda era equipaggiata con attrezzi di ogni genere, adatti a una vasta gamma di specie umanoidi e persino ad alcune di quelle più aliene. In quel momento Jack era sdraiato su un lettino, in canottiera, e sollevava un pesante bilanciere. Le sue braccia muscolose luccicavano di sudore, ma la presa era ancora salda. «Cinquanta, cinquantuno...» contò tra sé. Il giovane era fiero della sua forma fisica e non perdeva occasione per allenarsi. Era anche un modo per sfogare la rabbia che gli covava dentro fin dall’infanzia, da quando aveva perso i suoi genitori. E lo aveva aiutato non poco a superare il difficile addestramento per entrare nella Sicurezza.

   Un sibilo lo avvertì che la porta si era aperta, ma sulle prime l’Umano non ci badò; la gente entrava e usciva in continuazione dalla palestra. Fu solo quando alcuni colleghi della Sicurezza entrarono nel suo campo visivo che si accorse del problema.

   «Ci segua, Tenente Wolff» disse l’Ufficiale Tattico, un imponente Capellano.

   «Che succede?» chiese il giovane. Depose il bilanciere sugli appositi sostegni e si rialzò, detergendosi il sudore dalla fronte. Il capo della Sicurezza, il suo diretto superiore, era lì con altri quattro agenti. E tutti impugnavano i phaser.

   «Lei è in arresto» disse il Capellano, squadrandolo freddamente.

   «Scherza?! Qual è l’accusa?» chiese Jack, sentendosi franare il mondo addosso.

   «Vendita di segreti militari allo Stato Imperiale Romulano» rispose il superiore, serissimo. «Dato che è della mia squadra, non occorre che le ricordi i suoi diritti. Venga; dobbiamo scortarla in cella, dove resterà in attesa del giudizio».

   «Questo è assurdo!» ringhiò il giovane. «Quali segreti avrei venduto? E chi ha mosso questa’accusa ridicola?».

   «Dal computer di bordo sono state trafugate informazioni top secret sulla Molecola Omega» spiegò l’Ufficiale Tattico. «E il Guardiamarina Nicrek ci ha riferito che nell’escursione di stamane lei ha insistito per modificare il piano di volo».

   «Per trovare il relitto dell’Eta Carinae!» si giustificò Jack. «Ho trovato le prove che furono i Breen ad attaccarla, e le ho consegnate al Capitano Garm».

   «Non è quello che ci ha riferito il suo collega» lo gelò il superiore. «Lui afferma che una volta salito sul relitto lei gli ha ordinato di allontanarsi a tre parsec. Ma nonostante la distanza e le interferenze dell’Ammasso, Nicrek ha rilevato il passaggio di un Falco da Guerra. Cosa di cui lei, in seguito, ha rifiutato di discutere».

   «È tutto falso!» protestò l’Umano. «Non so cosa gli sia preso, ma Nick sta mentendo».

   «Questo lo stabilirà il processo» ribadì il Capellano. «Ora si muova, svelto» aggiunse, muovendo appena il phaser per esortarlo a camminare.

   A Jack non restò che indossare la maglia dell’uniforme – privata del comunicatore – e precedere le guardie. Uscirono dalla palestra e presero la strada che conduceva alle prigioni. Mentre camminava, l’Umano pensava a come provare la sua innocenza. «I diari dei sensori della navetta proveranno che Nick mente» disse.

   «Al contrario, i diari confermano la sua testimonianza» ribatté il Capellano.

   Jack si sentì rizzare i peli sul collo. «È impossibile, qualcuno deve averli manomessi! Magari proprio lui!» suggerì, anche se non riusciva a immaginare il movente. «Ascolti, voglio parlare col Capitano» disse ancora.

   «Negativo, l’ordine è di confinarla in cella» tagliò corto l’Ufficiale Tattico.

   «E la scatola nera dell’Eta Carinae? L’avete esaminata?!» chiese Jack, sperando che almeno quella faccenda fosse risolta.

   «Non so di cosa parla» disse invece il superiore.

   Jack si bloccò e lo fissò, pallido come un cencio. «Parlo di quella che ho riportato dalla missione» spiegò. «C’erano la scatola nera e un casco Breen: le prove di ciò che accadde al convoglio. Il Capitano mi ha promesso che le avrebbe fatte esaminare subito».

   «Io non so nulla di questa faccenda» si accigliò il Capellano.

   «Mi sta dicendo che Garm non gliene ha parlato?!» si disperò il giovane.

   «Proprio così. E ora torni a camminare» lo esortò l’Ufficiale Tattico, fissandolo con sospetto.

   L’Umano dovette obbedire. Mentre camminava in silenzio, seguito dai colleghi armati, rifletté su quell’incredibile serie di disgrazie. Non poteva essere un errore... no, qualcuno stava cercando di rovinarlo. Nicrek era coinvolto, dato che aveva mentito; ma non poteva essere l’unico responsabile. C’era qualcun altro sopra di lui, che tirava i fili; e doveva essere il Capitano. Era Garm che aveva promesso di far esaminare le prove e non l’aveva fatto, anzi le aveva occultate... forse distrutte, pensò Jack con una stretta al cuore. Se le cose stavano così, allora era davvero nei guai. La parola di un Tenente valeva poco, contro quella di un Capitano. E qualunque fosse il complotto capace di coinvolgere la Flotta Stellare, doveva esserci tanto di quel marcio che da solo non sarebbe mai riuscito a dimostrare la verità. Lo avrebbero condannato... forse gli avrebbero persino impedito di testimoniare, pensò con un brivido.

   «Dentro» ordinò l’Ufficiale Tattico. Erano giunti davanti alla cella. Il carceriere abbassò il campo di forza che fungeva da ingresso, così che l’indagato potesse entrare.

   «Mi hanno incastrato» disse in fretta Jack. «Chieda al Capitano della scatola nera; controlli che...».

   «Dentro, Umano!» berciò il Capellano. Lo afferrò rudemente per un braccio e lo sospinse nella cella. L’attimo dopo il campo di forza fu rialzato, isolando il prigioniero.

   «Dovete ascoltarmi, maledizione!» gridò il giovane, tempestando di pugni la barriera. Ottenne solo delle scosse elettrostatiche che gli intorpidirono le mani. I suoi colleghi se ne andarono alla svelta, senza voltarsi.

   Rimasto solo nella piccola cella, l’Umano cercò di raccapezzarsi. Finalmente capì perché nessuno lo ascoltava. Non era solo la parola di un Tenente contro quella del Capitano... no, era la parola di un umano contro quella di un alieno. A quel pensiero, il giovane lanciò un grido di rabbia e frustrazione. Fu un suono lungo e animalesco, più simile a un ruggito che a una voce umana. L’ingiustizia della sua sorte lo dilaniava, minacciando di fargli perdere il lume della ragione. Era andato così vicino a dimostrare la verità... ma era incappato in un infame complotto. Giurò a se stesso che, se mai fosse uscito di cella, non sarebbe più stato così ingenuo. «D’ora in poi non mi fiderò di niente e di nessuno!» si promise, sedendo in brandina.

 

   Come Jack temeva, il processo fu una farsa. L’udienza si tenne a porte chiuse, senza che i mezzi d’informazione ne parlassero. Tutti si comportarono come se la sentenza fosse già stata emessa, e fossero lì per pura formalità. Persino il suo avvocato difensore gli suggerì subito di costituirsi. Quando l’Umano rifiutò, dichiarandosi innocente, il legale gli fece capire che nemmeno lui gli credeva.

   Giunti in aula, furono soprattutto i testimoni dell’accusa a parlare. Il primo fu Nicrek. Era la prima volta dal giorno dell’arresto che Jack vedeva il suo collega, ora divenuto il suo principale accusatore. Cercò subito il suo sguardo, nel tentativo di capire cosa gli passasse per la testa; ma il Remano non lo guardò mai.

   «Dunque, ci dica cosa accadde in Data Stellare 2580.175» invitò l’avvocato dell’accusa.

   «La nostra nave, la USS Garuda, si trovava da due settimane nell’Ammasso Nero» esordì Nicrek. «L’incarico era individuare e disinnescare le mine subspaziali risalenti alla Guerra delle Anomalie. Perciò ci eravamo divisi in piccole squadre, composte da due o tre elementi, che operavano dalle navette. Tipicamente una missione durava una giornata, o anche meno, dopo di che tornavamo sulla Garuda a riposare. Io e il Tenente Wolff siamo abilitati a questo tipo di operazioni, quindi andammo insieme».

   «Lei conosce il Tenente Wolff da tempo?».

   «Da quando abbiamo preso servizio, cinque anni fa» rispose il Remano.

   «Come descriverebbe il suo collega?».

   «È un buon ufficiale, finora si era sempre dimostrato ligio al dovere. Ma...».

   «Ma?».

   «Ecco, credo che sia ossessionato dall’incidente occorso al convoglio dell’Eta Carinae, distrutto dal Fronte Temporale venticinque anni fa» affermò Nicrek. «Jack era a bordo e fu l’unico superstite. Considerata la sua giovane età e la perdita dei genitori, ritengo che sia rimasto traumatizzato. Ha sviluppato un’ossessione che lo porta a cercare il colpevole, diffidando dalla versione ufficiale dei fatti...».

   «Obiezione, questa è una mera ipotesi» notò l’avvocato della difesa.

   «Un giudizio basato sulla conoscenza approfondita» ribatté l’accusa.

   «Obiezione respinta» disse il giudice, un vecchio Xindi Arboricolo. «La presenza di atteggiamenti ossessivo/compulsivi nel Tenente Wolff è rilevante ai fini del processo. Ma torniamo al giorno dell’incidente. Ci dica cosa accadde e si attenga ai fatti».

   «Sì, Vostro Onore» disse il Remano. «Il Tenente mi aveva manifestato da tempo la sua volontà di approfittare dell’incarico nell’Ammasso Nero per fare ricerche sul convoglio. Aveva individuato alcuni relitti e contava di trovare gli altri nelle vicinanze. Così mi chiese di aiutarlo in questa... missione ufficiosa».

   «Lei era consapevole che ciò significava una deviazione dagli ordini, che erano di sminare la nebulosa?» chiese l’accusa.

   «Sì, e me ne assumo la responsabilità» confermò Nicrek. «Pensavo che se c’era la minima possibilità che Jack avesse ragione, dovevo aiutarlo a ristabilire la verità».

   «Wolff le ordinò di aiutarlo, facendo valere il suo grado?».

   «No, me lo chiese come favore personale».

   «Uhm... continui».

   «Nei giorni precedenti avevamo già visitato quattro relitti, senza trovare nulla di rilevante» riferì il Remano. «Quella era la nostra ultima occasione. Poiché si trattava del frammento più grosso che avessimo mai trovato, Jack si mostrò ottimista. Mi chiese di teletrasportarlo direttamente in plancia. Io mi offrii di andare al suo posto, ma lui insisté per occuparsene di persona. Fin qui non c’era nulla di strano; in fondo era la sua missione. Ma appena fu a bordo, Jack mi ordinò di allontanarmi ad almeno tre parsec».

   «È una menzogna! Sei rimasto lì tutto il tempo!» gridò l’Umano, stringendo convulsamente la balaustra davanti a sé.

   «Silenzio!» ammonì il giudice. «Continui» si rivolse all’accusa.

   L’avvocato riprese a interrogare il testimone. «Ha detto che stavolta fu un ordine?».

   «Esatto».

   «E il Tenente addusse qualche spiegazione?».

   «No; mi disse semplicemente di attenderlo a quella distanza per un’ora».

   «La cosa non le parve strana?».

   «Beh, sì. Ma era una situazione delicata e non volevo contrariarlo» affermò il Remano. «Così feci come ordinato. Venti minuti dopo, rilevai un Falco da Guerra romulano».

   «Della Repubblica o dello Stato Imperiale?».

   «Dello Stato Imperiale, ne sono certo. Era uno di quei nuovi vascelli di classe Tal’aura» sostenne Nicrek. «Apparve per pochi secondi, già accanto al relitto, come se fosse uscito dall’occultamento. E svanì com’era apparso, prima che io potessi reagire».

   «Dopo che accadde?».

   «Temevo per l’incolumità del Tenente, ma non volevo trasgredire il suo ordine. Inoltre temevo che il Falco da Guerra fosse ancora nei paraggi, nel qual caso la mia navicella non offriva una valida protezione. Così attesi fino al termine dell’ora» disse il Remano. «Scaduto il tempo, tornai al relitto e recuperai Jack».

   «Gli chiese dei Romulani?».

   «Sì, ma lui rispose che non si era accorto di nulla. Disse che non aveva trovato la scatola nera e che quindi era inutile perdere altro tempo. Tornammo sulla Garuda senza ulteriori conversazioni» concluse Nicrek.

   «Bugiardo, l’avevo trovata eccome!» inveì Jack.

   «Silenzio, ho detto!» sbottò il giudice. «Questo è l’ultimo ammonimento. Al prossimo intervento indebito, lei sarà allontanato dall’aula».

   «Sentito? La smetta di peggiorare le cose» bisbigliò l’avvocato difensore.

   «E lei quando conta di fare il suo lavoro?!» ribatté l’Umano, seccato dal suo scarso impegno.

   «Ogni cosa a suo tempo».

   L’accusa passò a interrogare i tecnici informatici della Garuda. Questi affermarono che qualcuno aveva scaricato informazioni riservate sulla Molecola Omega dal computer di bordo, dieci giorni prima dell’incidente. Ciò era accaduto da un terminale pubblico della nave, ma i sensori interni indicavano che Jack era il più vicino, in quel momento.

   «Lei confessa di aver scaricato quelle informazioni?» chiese l’accusatore, rivolgendosi finalmente a Jack.

   «No, lo nego decisamente» rispose l’Umano. «Non saprei neanche come fare. Quei file sono accessibili solo al Capitano. Ci vorrebbe un genio informatico per violare il computer della Garuda, e io non lo sono».

   «Quindi sostiene che sia stato qualcun altro a rubare quelle informazioni?».

   «Sostengo che non le abbia rubate nessuno, perché se ci fosse stata una tale breccia nella sicurezza ne sarei stato informato» disse il giovane. «Quest’accusa è solo un pretesto per incastrarmi».

   «Ma ammette di aver convinto il Guardiamarina Nicrek ad accompagnarla presso quel relitto, in violazione della vostra missione?».

   «Beh, sì...».

   «Ammette d’essere salito a bordo, rifiutando l’offerta del collega di andare al suo posto?».

   «Sì...».

   «E ammette di avergli poi ordinato di allontanarsi?».

   «No, questa è una menzogna».

   «Cos’ha fatto, mentre era là tutto solo?».

   «Ho cercato la scatola nera e l’ho trovata. Poi ho recuperato anche un casco Breen...».

   «Ha incontrato dei Romulani?».

   «No».

   «Ha trasmesso loro dei dati?».

   «No».

   «Ha lasciato le informazioni sul relitto, così che loro potessero recuperarle in un secondo momento?».

   «No, i Romulani non c’entrano niente in questa storia! Nicrek se li è inventati!» sbottò Jack.

   «Perché l’avrebbe fatto?».

   «Ve l’ho detto, per incastrarmi. Evidentemente non vuole che si faccia luce sull’attacco al convoglio... e non è l’unico» disse l’Umano, fissando bieco Garm. Questi rispose con il suo sorriso strafottente. Era perfettamente a suo agio, come chi sa per certo che se la caverà; un fatto che accrebbe l’ansia di Jack.

   Fu la volta del Capitano a salire sul banco dei testimoni. «Capitano Garm, l’indagato asserisce di aver trovato le prove del coinvolgimento Breen e di avergliele consegnate» ricapitolò l’accusa. «Parla di una scatola nera e di un casco militare. Lei ha visto questi oggetti?».

   «Assolutamente no» disse il Capitano, con la massima faccia tosta. «Il Tenente Wolff non me ne ha nemmeno accennato. Se ora ne parla, dev’essere nel maldestro tentativo di gettare fango su di me, per stornare i sospetti dalla sua persona. Questo comportamento mi ferisce profondamente... è un oltraggio non solo contro di me, ma contro tutta la Flotta Stellare».

   Jack avrebbe voluto scavalcare la balaustra, agguantare il superiore e strangolarlo con le sue mani. Ma si trattenne, ben sapendo che non sarebbe riuscito a raggiungerlo. E provarci non avrebbe certo migliorato la sua posizione. Non poteva nemmeno contestarlo a voce, per non essere espulso dall’aula. Almeno l’atteggiamento di Garm gli confermava che era coinvolto nella cospirazione. Doveva aver ordinato lui a Nicrek e ai tecnici di mentire. Passi per i tecnici, che erano dei mezzi sconosciuti... ma dal suo amico Remano non se l’aspettava questo tiro mancino. Chissà cosa gli aveva detto il Capitano, per convincerlo a mentire. Forse gli aveva promesso dei favori. Oppure aveva minacciato di far arrestare anche lui. Ma poteva averglielo semplicemente ordinato, invocando il segreto militare e la ragion di Stato.

   «La parola alla difesa» disse il giudice.

   Jack fissò il suo difensore, sulle spine. Quella era l’ultima possibilità che gli restava. L’avvocato contro-interrogò i testimoni dell’accusa, cercando di farli cadere in contraddizione, ma non ci riuscì. A giudicare dal suo atteggiamento svogliato, non sembrava aspettarsi il successo. Alla fine si rivolse direttamente al giudice. «Vostro Onore, vorrei far notare che le prove del furto di dati commesso dal mio assistito sono meramente indiziarie. Anche il contatto fra lui e i Romulani non può essere provato. La storia personale del Tenente Wolff indica che egli aveva tutte le motivazioni per indagare sulla tragedia del convoglio. Dunque non c’erano secondi fini che potessero condurlo lì».

   «Ma c’è una discrepanza tra la sua deposizione e quella del Guardiamarina Nicrek» notò l’accusa. «E ce n’è una ancora più grossa con la testimonianza del Capitano Garm, che asserisce di non aver ricevuto alcuna prova del coinvolgimento Breen».

   «Ne convengo» disse l’avvocato difensore. «È possibile che il mio assistito, trovandosi in situazione di grave stress nel visitare quel relitto, abbia impartito al Guardiamarina l’ordine illogico di allontanarsi e se ne sia poi dimenticato. È altresì possibile che il suo profondo desiderio di provare la colpevolezza dei Breen lo abbia indotto a credere di avere le prove, e di averle consegnate al Capitano, quando invece nulla di tutto ciò è accaduto. A fronte di questa ipotesi, chiedo una perizia psichiatrica per valutare le condizioni del mio assistito. Se sarà accertata l’infermità mentale, chiedo che egli sia prosciolto dall’accusa».

   «Ehi, ma che fai?!» ringhiò Jack. «Io non ho nessuna infermità! Sono Garm e la sua cricca a essere marci fino al midollo!».

   «Basta così» disse il giudice. «Accolgo la richiesta di una perizia, con la raccomandazione che sia eseguita al più presto. Leggerò il responso in privata sede. Quando ci riuniremo, sarà per deliberare la sentenza. Fino ad allora la Garuda resterà in orbita, affinché i testimoni siano reperibili. Così è deciso, l’udienza è sospesa».

 

   Nei giorni successivi l’Umano fu sottoposto a un’umiliante serie d’interrogatori ed esami clinici, volti ad accertare il suo stato mentale. Il giovane valutò la possibilità di fingersi pazzo, se questo poteva scagionarlo, ma rinunciò ben presto all’idea. La scienza medica del tardo XXVI secolo non era facile da ingannare: se ci avesse provato, i dottori e gli psicologi se ne sarebbero accorti. Il che avrebbe notevolmente peggiorato la sua posizione. E poi non gli andava di cavarsela in quel modo. No, preferiva andare in prigione da innocente, piuttosto che in clinica psichiatrica da sano di mente.

   Gli esami finirono e il rapporto andò al giudice, che si prese ancora un paio di giorni per decidere. Infine Jack Wolff si ritrovò nell’aula del tribunale. I suoi accusatori erano presenti e dal modo in cui Garm sorrideva sembrava che conoscesse già la sentenza. Il giudice giunse per ultimo e parlò in tono sbrigativo, come se avesse già la mente rivolta alla prossima vertenza.

   «Signori, oggi siamo riuniti per giudicare il caso del Tenente Wolff» esordì lo Xindi Arboricolo. «Egli è accusato di aver venduto segreti militari allo Stato Imperiale Romulano, dopo essersi appartato presso il relitto dell’Eta Carinae col pretesto di provare l’attacco Breen.

   Gli interrogatori hanno evidenziato una frattura insanabile tra la testimonianza dell’imputato e quelle dei suoi colleghi, incluso il Capitano Garm. È chiaro quindi che il caso non può essere derubricato a semplice malinteso. La prima considerazione è che il Capitano e gli altri testimoni dell’accusa non hanno motivo di mentire. Per contro, l’imputato aveva ben due moventi: la ricompensa dei Romulani Imperiali e la vendetta contro la Flotta che, a suo parere, aveva insabbiato le indagini sull’attacco al convoglio.

   La perizia psichiatrica condotta su richiesta della difesa ha evidenziato che il Tenente Wolff è perfettamente capace d’intendere e di volere. Dunque l’unica conclusione logica è che egli abbia volutamente reso falsa testimonianza a questo tribunale. Il che conferma la sua colpevolezza».

   Lo Xindi Arboricolo si curvò in avanti, rivolgendosi direttamente all’Umano. «Tenente Wolff, lei ha disonorato l’uniforme. Ha tradito la fiducia che la Flotta riponeva in lei» disse con severità. «Pertanto la condanno all’ergastolo, da scontare nella colonia penale di Jaros II. Spero che lì avrà modo di meditare e di comprendere la gravità delle sue azioni. Così è deciso, l’udienza è tolta».

   Quando il giudice batté il martelletto, il giovane si sentì come se gli conficcasse un paletto nel cuore. Ogni residua speranza che nutriva per la giustizia federale era ridotta in cenere.

   «Mi spiace, ho fatto il possibile» disse l’avvocato difensore, per poi dileguarsi.

   Mezzo stordito dall’angoscia, Jack vide avvicinarsi le guardie. «Venga con noi» ordinò il caposquadra. «La scorteremo alla nave prigione».

   L’Umano lo ignorò e fissò invece il Capitano Garm, che sorrideva in prima fila. «Maledetto!» gridò, tendendo le braccia verso di lui. «Ti ucciderò! Giuro che prima o poi ti spaccherò il cuore!» minacciò, senza curarsi d’essere udito da tutti. Tanto che poteva accadergli di peggio?

   «Non ci rivedremo più» rispose Garm, sempre con quell’aria beffarda. «Addio, traditore». Lo Zalkoniano gli girò le spalle e se ne andò, seguito dagli altri testimoni dell’accusa. Fra loro c’era Nicrek, che evitò d’incrociare lo sguardo con Jack.

   «Venga, ho detto, o ricorreremo alla forza!» ammonì il capo delle guardie. Due agenti agguantarono l’Umano per le braccia e lo trascinarono all’indietro, verso l’uscita.

   «Maledetti, tutti voi!» strepitò Jack, mentre lo portavano via. «Un giorno avrò la mia vendetta! Mi sentite? Vi annienterò tutti!» inveì, sebbene fosse in una posizione di assoluta impotenza. Ma proprio per questo doveva aggrapparsi a qualcosa. Se la giustizia pubblica non esisteva, allora non gli restava che quella privata. La vendetta, come la chiamavano le anime belle che non erano mai state condannate ingiustamente. E sebbene fuggire da un carcere federale fosse un’impresa disperata, il giovane si promise di tentare in ogni modo. La sua conoscenza degli strumenti e delle procedure, derivante dall’esperienza di ufficiale tattico, gli sarebbe stata utile. Per il resto poteva contare solo sulla fortuna, se gliene restava.

 

   La nave prigione sfrecciava verso Jaros II, con il suo carico di galeotti. C’erano ladri, assassini... e poi c’era Jack Wolff, tutto solo nella sua cella. Era seduto sulla brandina, con la testa fra le mani, e rimuginava sui suoi torti. Non aveva altro da fare. Ad ogni istante la sua collera cresceva. «Se solo avessi un’occasione per uscire... non me la farei scappare» si promise.

   D’un tratto il campo di forza dell’ingresso si disattivò. Jack alzò lo sguardo e vide tre guardie davanti a sé: un Cardassiano, un Pakled e un Luriano. A vederli non parevano tipi raccomandabili.

   «Jack Wolff... hai chiesto di fare una chiamata subspaziale?» chiese il Cardassiano.

   «Sì» rispose l’Umano, restando seduto.

   «Chi vuoi chiamare?».

   «Questo non vi riguarda».

   «Risposta sbagliata, carogna!» berciò il secondino. Lo afferrò per il bavero, costringendolo ad alzarsi. «Tutto quel che fai ci riguarda. Allora, chi vuoi chiamare? I tuoi amici Romulani, per chiedergli di venire a salvarti?».

   «I miei familiari» corresse il detenuto. «Da quando sono stato arrestato, non ho ancora avuto la possibilità di contattarli. Significa che non sanno cosa mi è successo. È il caso d’informarli, prima che lo sappiano da qualcun altro».

   «Oh, ma che tenerone!» rise il Cardassiano, indietreggiando un poco. Anche le altre guardie risero, scambiandosi occhiate complici. «E dimmi, chi vuoi chiamare di preciso? I tuoi genitori sono schiattati, quindi chi ti rimane?».

   «I miei nonni materni» bofonchiò il giovane.

   «Sentito, amici? Il bimbo vuol chiamare i suoi nonni!» sghignazzò il Cardassiano. Subito dopo però si fece serio, persino aggressivo. «E cosa gli racconterai, eh? Che sei innocente? Gli chiederai di farsi intervistare dal Federal News per far scoppiare uno scandalo?».

   «Sentite, fare la chiamata è mio diritto» protestò Jack. «Se non volete concedermelo, allora sloggiate».

   «Non sei tu che dai gli ordini!» tuonò il Pakled, facendosi avanti. «Siamo noi che comandiamo, mettitelo in testa!».

   «L’ultima volta che ho letto il regolamento, non prevedeva di angariare i prigionieri» obiettò il detenuto. «Sapete, fino a poco tempo fa ero uno di voi... sì, ero nella Sicurezza. Sulla Garuda, però; una di quelle navi che esplorano e fanno cose utili. Non su questo cesso di carretta su cui mandano i falliti» li derise. «Quanti anni sono che ammuffite qui? Io dico almeno cinque».

   I secondini divennero lividi. «Devo aver fatto centro» si disse Jack. Ma non ebbe il tempo di gioirne.

   «Sentito, ragazzi? Questo pezzo di dren fa il gradasso» disse il Cardassiano, in tono lento e minaccioso. «Crede ancora di contare qualcosa. Facciamogli capire che si sbaglia». Lo colpì deliberatamente al plesso solare, facendolo piegare in avanti. «Tu non sei niente, capito? Niente!» gli sibilò all’orecchio. «Di te non importa a nessuno; e sarà così per il resto della tua insulsa vita».

   «Mi hanno accusato di aver disonorato l’uniforme» boccheggiò l’Umano. «Ma siete voi che la disonorate, con questo atteggiamento».

   «Oh, ancora non hai capito come stanno le cose?» gongolò il Cardassiano, lieto di avere l’occasione d’infierire. «Allora ti daremo una lezione. Consideralo un assaggio di quel che ti aspetta su Jaros II». Cercò di colpirlo ancora allo stomaco, ma stavolta Jack non si fece sorprendere. Parò il colpo e rispose con un gancio destro, che spedì indietro il Cardassiano, tra le braccia del Luriano che si affrettò a sorreggerlo.

   «Hai fatto un grosso sbaglio!» ringhiò l’alieno dalla faccia scagliosa, sputando una boccata di sangue. «Addosso!».

   Senza lasciare uno di loro a sorvegliare l’ingresso, i tre secondini si gettarono compatti sul prigioniero. Jack mise a segno qualche colpo, specialmente contro il Pakled, che era grasso e lento. Ma poi il Luriano lo colpì alla nuca con il calcio del phaser. Il giovane cadde a terra, tramortito. Furono i calci a farlo riprendere: gli aguzzini si erano messi a colpirlo selvaggiamente. Jack provò a rialzarsi, sapendo che altrimenti sarebbe stata la fine, ma sulle prime non ci riuscì. Poté solo raggomitolarsi a terra, cercando di proteggersi la testa con le braccia.

   «Facciamo vedere a questa feccia chi comanda!» gridò il Cardassiano. Lo colpì in pieno viso con un calcio, ridendo di gusto. Jack sentì una fitta atroce al naso. Istintivamente vi portò le mani; quando le ritrasse se le vide lorde di sangue. Quel colpo gli aveva spezzato il setto nasale. Il giovane rantolò, cercando di riprendere fiato.

   «Che c’è, ne hai abbastanza? Ma se ho appena iniziato!» sghignazzò il Cardassiano, chinandosi ad afferrarlo per i capelli. «Leccami gli stivali, pezzo di dren» ordinò, sollevandogli la testa in quel modo brutale. «E dì che sei un figlio di shutta... perché tutte le femmine Umane sono shutte».

   A quel punto qualcosa scattò in Jack. Le lezioni d’autodifesa imparate all’Accademia si fusero con la sua sete di vendetta, conglomerandosi in un diamante di feroce determinazione. Quei tre alieni, che disprezzavano tanto gli Umani, non immaginavano cosa può fare un Homo sapiens addestrato, motivato e senza nulla da perdere. Bene, lo avrebbero imparato a loro spese.

   Il giovane diede un violento strattone, riuscendo a liberarsi; una ciocca di capelli rimase in mano all’aguzzino. La sorpresa apparve sul volto grigio e scaglioso del Cardassiano. Prima che questi potesse reagire, Jack lo agguantò per la gola e gli sbatté con violenza la testa sul pavimento. Il secondino non si mosse più, mentre il prigioniero balzò in piedi, pronto a vendere cara la pelle.

   «Sei morto!» gridarono gli altri due, attaccandolo simultaneamente.

   Ma Jack Wolff non si era mai sentito così arzillo. Il suo corpo, scolpito da anni di duro addestramento, si muoveva più rapido del pensiero. Schivò i colpi dei nemici e rispose con tremenda efficacia, colpendoli al volto e al collo. A un certo punto balzò sul lettino, usandolo come un trampolino per saltare tra gli avversari e atterrare alle loro spalle. Quando il Pakled fu stordito, lo sorresse e lo usò come scudo per proteggersi dal Luriano, che aveva impugnato il phaser. Il raggio colpì l’alieno già svenuto, senza danneggiare l’Umano. L’attimo dopo Jack lasciò cadere il Pakled e, prima che il Luriano potesse sparare di nuovo, gli bloccò il polso. Infine lo colpì con un devastante uppercut, mandandolo a cadere all’indietro, privo di sensi.

 

   Ansante e ancora dolente per le percosse, il giovane si guardò attorno. Lo scontro era finito, i carcerieri erano tutti a terra... e il campo di forza della cella era abbassato. «La mia occasione» si disse. «Che il diavolo mi porti, se me la faccio scappare!».

   Prima di uscire, tuttavia, l’ex Tenente si chinò sugli avversari per sincerarsi delle loro condizioni. Il Pakled e il Luriano erano storditi, ma respiravano. Il Cardassiano, invece... Jack si accorse che il colpo alla testa era stato più forte del previsto. Sulla sua tempia c’era una ferita da cui stillava il sangue. «Frattura cranica» comprese. L’alieno non respirava e tastandogli il polso Jack non avvertì alcun battito.

   «È morto» si disse, scioccato. Pur prestando servizio nella Sicurezza, non aveva mai ucciso nessuno prima d’ora. Le poche volte in cui si era trovato coinvolto in scontri a fuoco si era sempre limitato a stordire gli avversari. Ma quel Cardassiano era morto e lui non poteva portarlo in infermeria per tentare di rianimarlo. Si disse che l’alieno era una carogna, che se l’era cercata; e che lui, Jack Wolff, non aveva avuto scelta. Era tutto vero. E tuttavia restava il fatto che per evadere era diventato un assassino. Se anche fosse riuscito a scagionarsi dalle prime, ingiuste accuse, non poteva sottrarsi a questa. Ciò significava una cosa sola: non avrebbe mai riavuto una vita normale. D’ora in poi sarebbe stato sempre in fuga, sempre braccato dalla legge.

   Questo pensiero accrebbe il suo senso d’urgenza, così che il giovane si affrettò a disarmare gli avversari. Che ironia: erano tutti e tre muniti di phaser, ma non erano riusciti a usarli a dovere. Gli prese anche i comunicatori, affinché non chiamassero rinforzi. Infine uscì dalla cella, ritrovandosi nella sala di guardia, e si precipitò ai comandi. Aveva una certa familiarità con quel tipo di consolle, quindi non ebbe problemi a rialzare il campo di forza.

   Il primo passo verso la libertà era compiuto, ma ne restavano molti altri. Era solo, su una nave prigione che aveva un equipaggio di almeno quaranta effettivi, tra piloti e guardie. Per giunta si trovavano in un settore di spazio piuttosto trafficato. Se l’equipaggio avesse lanciato una richiesta di soccorso, i rinforzi sarebbero arrivati presto. «Come ne esco?» si chiese.

   La risposta giunse da sé, appena si guardò intorno. Dalla sala di guardia erano visibili molte altre celle, quasi tutte occupate. Lì dentro si trovavano criminali veri: gente che aveva ucciso e compiuto i crimini più abietti per guadagno personale. La feccia della Galassia. Ma in quel frangente erano i soli alleati di cui disponeva. Molti di loro si erano alzati in piedi, non appena lo avevano visto libero, e ora lo fissavano speranzosi. Ma anche quelli che erano rimasti seduti o sdraiati sui lettini non lo perdevano di vista. Aspettavano la sua prossima mossa. Una mossa obbligata, comprese Jack.

   «Il nemico del mio nemico è mio amico» si disse il giovane, per farsi coraggio. Ma se li avesse liberati, che garanzie aveva che quei delinquenti non lo avrebbero eliminato? «Devo mettere subito in chiaro chi comanda» si disse. Buffo... finché era nella Flotta, non aveva mai pensato a se stesso come a un leader. Era un ufficiale di carriera, certo, ma non si aspettava di arrivare molto in alto. Adesso, invece, doveva capeggiare quella banda di disperati... con le buone o con le cattive. Impugnò il phaser e attivò gli altoparlanti delle celle, così che tutti lo udissero.

   «Fratelli miei... guardatevi nel vostro squallore! Ditemi, chi vi ha rinchiuso lì?!» chiese con voce stentorea.

   «I federali!» risposero a una sola voce i prigionieri.

   «I federali, già! Fino a poco tempo fa ero uno di loro!» rivelò Jack, pur sapendo che era una mossa rischiosa. «Mi hanno incastrato per coprire i loro sporchi traffici e poi hanno cercato di eliminarmi prima ancora che arrivassi alla prigione! Ma l’hanno pagata cara... e questo è solo l’inizio!» promise, mostrando il palmo della mano insanguinata. «Se ora vi do la libertà, qual è la prima cosa che farete?» li istigò.

   «Conquisteremo la nave!» risposero i detenuti.

   «Fallirete» li gelò l’Umano, «se non sarò io a guidarvi. Vedete, ero nella Sicurezza, quindi conosco le loro procedure. So cosa fare per coglierli di sorpresa... ma voi dovete obbedirmi. Se non lo farete, sarete riacciuffati oppure uccisi. Allora, siete con me?!» gridò, sapendo di avere poco tempo prima che squillassero gli allarmi.

   Un grosso Letheano, che fino ad allora era rimasto seduto in brandina, si alzò e venne davanti al campo di forza. «Chi sei tu?» chiese, fissandolo con gli occhi rosso sangue.

   «Chi ero non ha più importanza... d’ora in poi sarò lo Spettro» disse il giovane, colto da una subitanea ispirazione. «Se mi seguirete, vi consegnerò la tecnologia dell’Occultamento Sfasato, che ci renderà imprendibili. Ebbene?!».

   Il Letheano rifletté brevemente. «Io sono con te» disse solennemente. «Guidaci alla libertà, Spettro!».

   «Guidaci, Spettro! Guidaci, Spettro!» ripeterono gli altri detenuti, alzando i pugni. Cominciarono in pochi, ma in men che non si dica il coro si allargò, finché tutti lo invocarono.

   Era il momento. Come osservandosi da fuori, l’Umano vide le sue mani premere i comandi per disattivare i campi di forza. Gli schermi si dissolsero, permettendo ai galeotti di evadere. Si riversarono nella sala di guardia, rumoreggiando.

   «Zitti!» li ammonì Jack. «Dobbiamo essere rapidi e silenziosi, o la nostra fuga sarà stroncata sul nascere. Mi serve un luogotenente... e penso di averlo trovato» disse, squadrando il Letheano. «Come ti chiami?».

   «Dauthka» rispose l’alieno con voce gutturale.

   «Bene, Dauthka... tu sarai il mio Primo Ufficiale» disse l’Umano, consegnandogli uno dei phaser che aveva requisito alle guardie. Era il momento della verità. Se il Letheano era un assassino opportunista, lo avrebbe ucciso per strappargli il comando.

   Il momento passò e Dauthka non fece segno di rivoltarsi contro il suo liberatore. «Allora, qual è il piano?» chiese invece.

   Jack sorrise, sentendosi d’un tratto più sicuro di sé, e cominciò a spiegare.

 

   Un’ora dopo la nave prigione era in mano agli evasi. I federali erano chiusi nelle celle, salvo i pochi caduti negli scontri. Jack intendeva abbandonarli sul più vicino pianeta abitabile, concedendo loro un trasmettitore subspaziale, così che la Flotta li recuperasse. Molti degli evasi avrebbero preferito tenerli in ostaggio e altri non vedevano l’ora di vendicarsi su di loro; ma l’Umano era deciso a imporre la sua volontà. Anche se c’erano state alcune vittime, non avrebbe permesso ai suoi di uccidere a piacimento, e nemmeno di farsi scudo con i federali. Avrebbero trovato altri modi per cavarsela.

   Naturalmente anche qualche evaso era caduto negli scontri, ma nel complesso le perdite erano minime. Dopo aver liberato anche i prigionieri degli altri ponti, Jack si era ritrovato a capo di una ciurma di ben duecento effettivi. Erano tanti, e fra loro non mancavano i criminali irriducibili. Non sarebbe stato facile mantenere il comando ed evitare che quei disgraziati si scannassero tra loro. Ma ci doveva provare. Dauthka gli sarebbe stato prezioso: era già diventato il suo braccio destro.

   «Bene, bene» disse l’Umano, aggirandosi nella plancia con il phaser ancora in pugno. «Il radiofaro subspaziale è spento?».

   «Sì, capo» disse il Letheano, che sedeva alla postazione tattica.

   «Allora è il momento di cambiare rotta» ordinò Jack.

   «Dove andiamo?» chiese il timoniere, un giovane Takret.

   «Rotta verso le Badlands, le attraverseremo per far perdere le tracce» decise l’Umano. Smise di aggirarsi; era davanti alla poltroncina del Capitano. Per un attimo la osservò combattuto: non era così che sperava di guadagnarsene una. «Al diavolo» pensò, e vi sedette.

   «Deviazione effettuata; procediamo a velocità costante» disse il timoniere.

   «Sarebbe il caso di parlare alla ciurma» consigliò Dauthka.

   «Uhm, sì» mugugnò Jack, tastandosi cautamente il naso dolorante. Era proprio rotto e forse gli sarebbe rimasto un po’ storto. Un piccolo prezzo, per la libertà... ma ora non doveva lasciarsi distrarre da quel dolore pulsante. Il Letheano aveva ragione, la loro situazione era ancora critica. Jack aveva piazzato in plancia i compagni più fidati, ma la maggior parte degli evasi era sparpagliata in altri ponti. Non poteva sapere cosa stessero architettando. Molti probabilmente cercavano navette e capsule per svignarsela. Altri forse complottavano per prendere il comando. Era una situazione precaria e le cose potevano precipitare in ogni momento. Serviva un discorso chiarificatore.

   Il giovane aprì un canale con tutta la nave e prese fiato. «Spettro a ciurma; v’informo che la nave è nostra!» annunciò, suscitando un coro d’acclamazioni, in plancia e altrove. «Siamo liberi come vi avevo promesso. Ma la Flotta c’inseguirà, statene certi. Se non vogliamo tornare dietro le sbarre, dobbiamo prendere delle decisioni».

   Fatta una breve pausa, l’Umano riprese con più sicurezza. «Ora che vi ho liberati, non posso e non voglio trattenervi contro la vostra volontà. Quelli di voi che vogliono lasciare la nave potranno farlo. Sappiano però che saranno soli e braccati. Quelli che sceglieranno di restare qui avranno maggiori speranze di cavarsela. Insieme formeremo un nuovo equipaggio. Saremo pirati, vale a dire che saremo padroni di noi stessi e raddrizzeremo i nostri torti. Nessuna legge federale, nessun regolamento di Flotta ci legherà le mani. Useremo i nostri talenti per restare liberi, per trovare altri che la pensano come noi... e per arricchirci!». Queste ultime parole suscitarono nuove acclamazioni.

   «Avete il resto della giornata e tutta la notte per pensarci. Domattina ci riuniremo nell’hangar, per salutare i fratelli che avranno deciso di andarsene. Pensateci bene!» raccomandò Jack. «A chi ci lascerà auguro buona fortuna. Ma a chi resterà con me, dico: voi sarete la banda dello Spettro. Sarete temuti e rispettati sui mondi senza legge della frontiera. Parteciperete ad avventure redditizie. E se avete dei conti in sospeso coi Breen... col tempo li pareggerete. La riscossa comincia ora!».

 

   
 
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