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Autore: Parmandil    14/02/2021    1 recensioni
Approfittando della Guerra Civile federale, lo Stato Imperiale Romulano esce dal lungo isolamento. Guidato da un’ambiziosa Imperatrice e forte di vascelli potenziati dalla tecnologia Borg, si appresta a ristabilire l’antico Impero Romulano. Solo una fragile alleanza tra le fazioni in lotta potrebbe fermarlo, posto che tutti lo trovino conveniente.
È la prova più dura per Terry, l’Intelligenza Artificiale che per quarant’anni si è sforzata di diventare più umana, ma ora deve partecipare a una guerra truculenta. Nel momento in cui la salvezza comune dipende da lei, l’IA dovrà chiedersi che significa avere un’anima, e se è disposta a perderla pur di salvare i suoi cari.
Ma la rovina incombe anche sullo Spettro, che si trova braccato dalla sua nemesi, uno spietato cacciatore di pirati al servizio dell’Unione. Pur di arrivare a lui, l’Esecutore non esiterà a fargli il vuoto attorno, colpendolo negli affetti più cari. Solo l’aiuto degli androidi del pianeta Coppelius potrebbe salvarlo, posto che sappia di quale fidarsi. Tra macchine che vogliono diventare persone e persone degradate a macchine, la Guerra Civile mostra il suo volto più atroce.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Borg, Nuovo Personaggio, Romulani, Sela
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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-Capitolo 1: Blitzkrieg

Data Stellare 2592.292

Luogo: Galorndon Core

 

   «Un’offerta per la nuova scuola! Tenete accesa la fiamma della solidarietà, in questi tempi bui!» esclamò V’Lena. Era da ore che si sgolava, davanti alla porta del centro commerciale. Le mani e il volto erano ormai intirizziti dal freddo; i fiocchi di neve che cadevano dal cielo scuro le avevano imbiancato il copricapo. Eppure la giovane Romulana ripeteva la sua esortazione, tendendo le mani ai passanti.

   Costoro perlopiù la ignoravano, anzi la maggior parte di loro accelerava il passo. Non che i cittadini della Repubblica Romulana fossero senza cuore; ma due anni di guerra civile avevano eroso il loro potere d’acquisto e le prospettive scoraggianti li inducevano alla parsimonia. Da quando l’energia delle abitazioni era stata razionata, per decreto del governo, pochi potevano usare il replicatore per procurarsi ciò di cui abbisognavano. Così erano tornati a fare acquisti alla vecchia maniera. C’erano impianti che producevano cibo e beni di prima necessità, e trasporti che li smerciavano ai punti vendita, come nei secoli precedenti l’invenzione dei replicatori. Nessuno sapeva quanto sarebbe durato questo stato di cose; i più pessimisti paventavano l’avvento di un Medioevo post-tecnologico.

   «Perché c’è bisogno di una nuova scuola?» chiese un passante, fermandosi davanti alla questuante. La moglie e il figlio piccolo, che lo accompagnavano, restarono qualche passo indietro.

   «Negli ultimi mesi molti sfollati dell’Unione sono stati trasferiti qui» spiegò V’Lena.

   «Umani, eh?» fece il passante.

   «Non solo; tante specie sono state travolte dal conflitto» precisò la giovane. «Bajoriani, Trill, Xindi... sapesse in quanti hanno dovuto abbandonare le loro case!».

   «E devono venire proprio qui?».

   «I nostri mondi sono stati risparmiati dalla guerra...».

   «Finora» sospirò il Romulano. Dato che ormai si era fermato a parlare, si sentì obbligato a fare una piccola offerta, quel poco che poteva permettersi in tempi di magra. La giovane gli sorrise, grata.

   «Mamma, perché quella signora è vestita in modo così strano?» chiese il bambino, che era rimasto più indietro con la madre.

   «Perché è una Qowat Milat, tesoro» fu la risposta. «Si tratta di uno strano ordine monastico di sole donne. Le sue adepte credono che...».

   «Noi crediamo nella filosofia del Candore Assoluto!» rispose la monaca, con un ampio sorriso. «All’opposto dei Vulcaniani, che reprimono le emozioni, e dei Romulani Imperiali coi loro segreti e le loro doppiezze, noi crediamo che non debbano esserci filtri tra pensieri, parole e azioni. La nostra è la Casa della Verità».

   «Wow, bello!» esclamò il bambino, a cui la severa disciplina romulana stava stretta. La madre invece era imbarazzata; non immaginava che la monaca l’avesse udita a quella distanza. «Ho anche sentito che vi addestrate nelle arti marziali e nell’uso di armi da taglio» disse freddamente, stringendo a sé il figlio come per proteggerlo. «Come s’inserisce questo nella vostra filosofia?».

   «Non siamo sicarie, se è ciò che teme» si accigliò V’Lena. «Non accettiamo ingaggi, anche se la nostra assistenza può essere richiesta; ma decidiamo noi se è una causa degna».

   «Con quale criterio?».

   «Lottiamo solo per cause perse» rispose la monaca, con disarmante semplicità. «Ricorriamo alla violenza come ultima risorsa e anche allora chiediamo sempre ai nostri avversari di “scegliere la vita”, cioè di arrendersi».

   «E ora aiutate i profughi...» notò il Romulano che aveva fatto l’offerta.

   «In questo momento raccolgo donazioni per dar loro una scuola, sì» confermò V’Lena. «Ma le mie sorelle assistono in vari modi la Federazione nella lotta contro la perfida Unione. Vedete, siamo giunte alla conclusione che si tratta della causa più persa che ci sia».

   «Capisco» deglutì il Romulano. «Beh, buona fortuna».

   «Grazie! Altrettanta a voi!» trillò la giovane. Unì i palmi delle mani e poi li aprì, mostrandoli agli interlocutori, a mimare un libro che si apre. Era il saluto tradizionale del suo Ordine.

   La famiglia romulana si riunì e poi si allontanò, mentre la monaca tornava a chiedere offerte. Anche se si sforzava d’essere ottimista, doveva ammettere che la situazione era davvero brutta. Si era ormai agli sgoccioli del secondo anno di Guerra Civile. L’Unione Galattica, governata dalla Presidente Rangda, controllava i sistemi centrali di quella che un tempo era la Federazione Unita dei Pianeti. Per imporre le sue leggi liberticide usava i Pacificatori, cioè quella parte di Flotta Stellare che le aveva giurato fedeltà e si era militarizzata. Ma contava anche sugli aiuti dei Voth, la potenza del Quadrante Delta. Due anni prima quegli alieni, lontani discendenti degli Hadrosauri terrestri, avevano ritrovato la loro patria ancestrale, dopo un oblio durato milioni di anni. Sfortunatamente ne avevano anche reclamato la proprietà, pretendendo di sloggiare gli attuali abitanti – Umani e alieni – per sostituirli con i propri coloni. Quando Rangda aveva ceduto all’ultimatum, consegnandogli la Terra, la Guerra Civile era stata inevitabile.

   Gli ufficiali di Flotta che avevano rifiutato di obbedire all’ordine presidenziale si erano trovati banditi con l’accusa di ribellione. I loro ex colleghi li avevano braccati, i loro parenti erano stati interrogati e talvolta usati come esche per tendere loro trappole. Alla fine non era rimasto loro che riunirsi su Kronos, stabilendovi un Comando di Flotta in esilio. Il loro proposito di deporre Rangda e riconquistare la Terra si era ben presto arenato contro l’immensa superiorità numerica del nemico. La nuova Federazione non aveva nemmeno la contiguità territoriale: era spezzata in due tronconi che stentavano a coordinarsi e a prestarsi soccorso.

   Il Fronte Occidentale era quello più malmesso, essendo piccolo e quasi interamente circondato dal nemico. Un punto di svolta era stata la Battaglia di Bajor: sebbene il sistema fosse caduto in mano all’Unione, quest’ultima aveva subito perdite così gravi da dover cambiare approccio. Rangda aveva smesso di affidare la guerra a burocrati inesperti, selezionati solo per la fedeltà personale, e aveva permesso ai Pacificatori di fare carriera in base ai loro meriti. La nuova strategia dell’Unione ricorreva meno alla forza bruta e più agli omicidi politici, per decapitare la leadership ribelle. Ormai non c’era pianeta federale che non fosse stato teatro di sanguinosi attentati. Almeno Rangda aveva perso il supporto dei Breen, dopo le devastanti perdite subite nel sistema bajoriano. Si doveva solo a questo se il Fronte Occidentale non era completamente crollato.

   Le cose andavano meglio nel più vasto Fronte Orientale. Qui c’erano l’Impero Klingon e la Repubblica Romulana, i cui cantieri sfornavano a ritmo frenetico le nuove astronavi di classe Juggernaut, la miglior difesa contro il nemico. I mondi romulani, in particolare, non erano stati ancora minacciati e quindi potevano accogliere i profughi provenienti da quelli sotto attacco. Di tutte le specie federali, nessuna aveva sofferto quanto gli Umani. Banditi dalla Terra, erano perseguitati anche sugli altri pianeti dell’Unione, dov’erano considerati possibili spie e traditori. Di conseguenza erano condotti in Centri di Rieducazione pericolosamente simili a campi di concentramento, dov’erano indottrinati per accertarsi che fossero fedeli all’Unione e alla sua Presidente. I più fortunati se la cavavano con pesanti umiliazioni; ma chi osava protestare finiva sulle Lobo-Sedie, da cui si rialzava con danni neurologici.

   In tutto quest’orrore, le Qowat Milat alleviavano le sofferenze degli Umani e degli altri diseredati; ma era come cercare di arginare la marea con un secchiello. «Beh, è per questo che esistiamo» si disse V’Lena. Pur essendo ancora una novizia, ce la stava mettendo tutta per vivere secondo la regola dell’Ordine. Si spazzolò la neve dall’abito monacale e tornò ad appellarsi al buon cuore dei passanti.

   Fu allora che risuonarono le sirene d’allarme. Erano il segnale che una forza ostile minacciava il pianeta; e di quei tempi potevano essere solo i Pacificatori. Era strano che colpissero così lontano dal fronte, ma forse faceva parte della nuova strategia, mirata a spargere il terrore. Udendo gli allarmi, gli abitanti interruppero all’istante le loro occupazioni e si diressero ai rifugi sotterranei. Chi poteva si teletrasportò; gli altri dovettero correre. Alcune navette della polizia sorvolarono la città. Gli agenti controllavano che tutti seguissero il piano d’evacuazione e sarebbero intervenuti in caso di resse o saccheggi; ma non potevano proteggere gli abitanti da un attacco orbitale. E Galorndon Core non disponeva di uno Scudo Planetario. Per la sua difesa poteva contare solo su alcuni vecchi Falchi da Guerra. Se il nemico fosse riuscito a oltrepassarli, o se fosse stato così numeroso da attaccare simultaneamente le navi e il pianeta...

   V’Lena aveva appena formulato il pensiero che subito lo vide concretizzarsi. Dal cielo piovvero raggi verdi, che colpirono alcuni palazzi della città, disintegrandoli. Ci furono lampi accecanti, seguiti da immani boati e da onde d’urto che scossero gli edifici circostanti. Una delle esplosioni avvenne a pochi isolati di distanza: la monaca fu sollevata da terra e scaraventata all’indietro. Per sua fortuna atterrò sulla neve, che attutì l’impatto. Si rialzò a fatica, rintronata dall’onda d’urto. Attorno a lei c’erano scene di panico: gente che scappava, feriti a terra che si lamentavano, corpi immobili che forse erano morti. L’attacco dallo spazio continuava, spietato. Eppure era chiaro che il nemico non voleva annientare l’insediamento, o avrebbe usato i siluri. No, quelli erano colpi chirurgici, per distruggere luoghi chiave come la caserma della polizia e il presidio della Flotta Stellare. Il resto della città doveva essere risparmiato, per tornare sotto la giurisdizione dell’Unione.

   «Codardi» pensò V’Lena, osservando impotente i micidiali raggi verdi che piovevano dal cielo. Verdi?! Quello non era il colore delle armi dei Pacificatori. Sarebbero dovuti essere giallo-arancioni, come i phaser, oppure azzurri come i raggi anti-polaronici. Il verde era il colore dei disgregatori romulani.

   «Oh, no» si disse la monaca, intuendo l’orribile verità. Aprì la bisaccia che portava ancora con sé e ne trasse un Visore a lungo raggio. Regolandolo sul massimo ingrandimento poteva inquadrare le navi in orbita, pur non avendo la precisione di un telescopio vero e proprio. La Romulana lo indossò, correggendo la lunghezza d’onda per vedere oltre la cappa di nubi. Ecco, lì c’erano i Falchi da Guerra repubblicani che cercavano di difendere il pianeta. Erano soverchiati dal fuoco nemico: V’Lena ne vide uno esplodere. Gli altri si ritirarono, per non finire allo stesso modo. Probabilmente i loro scudi avevano incassato molti colpi e stavano per cedere.

   La Qowat Milat spinse oltre lo sguardo, in cerca degli assalitori. Si aspettava di vedere i Falchi dello Stato Imperiale, l’altra potenza nata dalla scissione dell’Impero Romulano. Erano due secoli che lo Stato Imperiale sognava di conquistare la Repubblica, restaurando l’antico Impero; ma col tempo la minaccia sembrava sfumata. La Repubblica si era aggregata ai federali, mentre lo Stato Imperiale si era ridotto ed era diventato una nazione eremita, dai confini vigilati e impenetrabili. «Ma la Guerra Civile ha cambiato tutto» comprese V’Lena. Adesso era la Repubblica a trovarsi sotto pressione, con la flotta sparpagliata su fronti lontani e poche navi a vigilare il confine con lo Stato Imperiale. Per i loro vecchi nemici era l’occasione perfetta per attaccare. «Perché la Flotta Stellare non l’ha previsto?» si chiese la Romulana, angosciata. In quella vide le navi nemiche. E restò di sasso.

   Quelle cose non avevano nulla in comune con i Falchi da Guerra. Erano giganteschi ammassi di metallo scuro, che protrudeva grottescamente. Si stentava persino a riconoscere la prua dalla poppa e l’alto dal basso. Non c’erano gondole quantiche, ali o altri elementi tipici del design romulano. Vi erano solo dei lunghissimi aculei che puntavano in varie direzioni, talora richiudendosi come tenaglie. In certi casi sembrava che la nave avesse cercato di trasformarsi in una sfera e non ci fosse riuscita, restando parzialmente aperta. Talvolta i tronconi maggiori erano collegati da filamenti più sottili, come se quelle mostruosità stessero ancora crescendo. La cosa più sorprendente era l’estrema differenza tra una nave e l’altra: sebbene fossero tutte irte di aculei, non ce n’erano due uguali. Alcune erano compatte; altre più aperte e brancolanti. Alcune erano poco più grandi dei Falchi da Guerra; altre raggiungevano proporzioni titaniche. Erano armate con disgregatori, certo ad alta potenza, e strani missili scuri e spinosi. Ed erano tante... troppe, per il loro debole presidio. V’Lena ne contò otto, ma potevano essercene altre attorno al pianeta.

   Non sapendo che fare, la novizia pensò di chiedere istruzioni alle sue consorelle. Levò di tasca il comunicatore e lo attivò. «Sorella V’Lena alla Casa della Verità; dove devo andare? Dov’è che sarò più utile?» chiese con un groppo in gola. Non ebbe risposta. Ma guardando a est, dove si trovava il loro monastero, vide che quella parte della città era stata bombardata. Possibile che anche il monastero fosse stato distrutto? Forse sì, pensò la giovane con un tremito. Lo Stato Imperiale odiava a morte la loro dottrina, così antitetica alle sue losche trame. Se le cose stavano così, lei era l’ultima Qowat Milat del pianeta. Il che esigeva doppio impegno da parte sua.

   La monaca gettò il piatto delle offerte e sguainò la tan qalanq, la spada tradizionale del suo Ordine. Probabilmente le sarebbe servita, nelle ore di disordine che l’attendevano; e non solo contro gli sciacalli che approfittavano delle distruzioni. No, era probabile che gli Imperiali sbarcassero le truppe d’occupazione, dopo essersi assicurati il controllo dell’orbita.

   Dovendo darsi un obiettivo, la giovane si diresse all’accampamento degli Umani, alla periferia della città. Lì c’erano i bambini per i quali si stava allestendo la scuola; la causa alla quale aveva contribuito fino a pochi minuti prima. Era chiaro, ormai, che quel progetto non si sarebbe realizzato. Il meglio che poteva fare era raggiungere i bambini, cercare di proteggerli... forse fuggire con loro, se avesse trovato un trasporto. Già, ma come superare quelle astronavi micidiali? V’Lena non lo sapeva. Se le sue consorelle erano morte, come temeva, forse stava per seguirle. Ma lo avrebbe fatto restando fedele ai suoi ideali.

 

   Gli ultimi Falchi da Guerra repubblicani batterono in ritirata, con gli scafi anneriti e costellati di falle. Sul ponte dell’ammiraglia imperiale, gli ufficiali li osservarono con feroce soddisfazione. Era da tutta la vita che si preparavano a quel momento.

   «La vendetta è un piatto che va gustato freddo» mormorò l’Imperatrice. Il suo viso era in ombra, perché l’illuminazione della plancia era volutamente tenuta bassa.

   «Come dite, Altezza?» chiese il Pretore Oren, avvicinandosi.

   «Citavo un vecchio proverbio Klingon» rispose la sovrana, agitando una mano con noncuranza.

   «Possiamo inseguire quei Falchi; ormai basta poco a finirli» suggerì l’Ufficiale Tattico. Si chiamava Ducrax ed era un Romulano imponente, dai capelli tagliati a zero salvo che sulla sommità del capo.

   «Eseguite; ma la nostra nave terrà la posizione» ordinò l’Imperatrice, contemplando il pianeta blu dall’atmosfera turbinosa. «Però lasciate andare uno di quei Falchi. Il più piccolo... risparmiate il più piccolo» aggiunse.

   «Così avvertirà la Federazione» notò Oren.

   «È quello che voglio» disse l’Imperatrice. Sebbene il suo volto restasse in ombra, il Pretore ebbe l’impressione che sorridesse.

 

   «Svelti, bambini! No, non potete tornare in tenda a prendere le vostre cose!» disse V’Lena. Sotto la supervisione sua e di altri adulti, i bambini e i ragazzi umani si stavano rifugiando nel bunker sotterraneo. Questo li avrebbe protetti dai saccheggiatori, ma certo non dalle agguerrite truppe imperiali. Si poteva solo sperare che i conquistatori non avessero particolare interesse nei loro riguardi. Dopo una breve ma concitata discussione, i responsabili del campo avevano optato per questa linea d’azione. L’alternativa – fuggire con le navette – sembrava troppo pericolosa, finché quei vascelli mostruosi erano in orbita.

   «Ci sono tutti?» chiese V’Lena, vedendo che l’afflusso di ragazzi si era fermato.

   «Sì, tutti» confermò un educatore, con l’aria tirata. «Chiuditi dentro con loro e non aprire per alcun motivo, se non t’inviamo il codice di riconoscimento».

   «Sarò più utile fuori» suggerì la giovane.

   «Non direi» rispose l’uomo, squadrandola da capo a piedi. «Agli Imperiali non piacciono le Qowat Milat, quindi anche tu sei a rischio. Del resto i ragazzi ti conoscono e si fidano di te. Bada a loro, fa’ che non cadano nel panico».

   «Come vuoi» cedette la monaca, rinfoderando la sua lama. Arretrò di qualche passo, mentre il portone blindato si richiudeva. Ecco, si era chiuso del tutto. Adesso era isolata nel sottosuolo, assieme ad alcune centinaia di bambini e ragazzi, oltre a un pugno di educatori. Tra gli adulti lì presenti era l’unica che sapesse combattere. Ma sapeva che, se gli Imperiali avessero sfondato, la sua presenza non avrebbe fatto molta differenza. Nel migliore dei casi li avrebbe rallentati.

   «Stiamo per morire?» chiese un bambino di otto o nove anni, spaventatissimo.

   «Può darsi» rispose V’Lena, seguendo istintivamente il Candore Assoluto. Ma quando vide il terrore sul volto del piccolo e dei suoi coetanei, decise di aggiustare il tiro. «O può darsi che vada tutto bene» li rassicurò. «Non lo sappiamo ancora. Nell’incertezza, non è il caso di aver paura».

   «Dov’è la mia mamma?!» chiese una bambina di forse sette anni, con gli occhioni lucidi, sul punto di scoppiare in lacrime.

   «È in superficie, con gli adulti» spiegò la monaca.

   «Perché?».

   «Perché questo bunker è troppo piccolo per accogliere tutti».

   «Ma io la voglio qui!».

   «Non puoi...» cominciò V’Lena, ma fu interrotta.

   «Allora voglio tornare su!» frignò la bambina, e cominciò a singhiozzare disperatamente. Il suo pianto si allargò come un’onda ai bimbi più piccoli.

   «Si allontani, qui fa solo danni!» sibilò un’educatrice, inviperita.

   Mentre gli Umani cercavano di calmare i loro piccoli, la Romulana si appartò in un angolo, dove c’erano trasmettitori per comunicare con l’esterno. Rimase prudentemente in silenzio subspaziale, per non attirare l’attenzione dei nemici. Tuttavia nulla le impediva di captare le trasmissioni. Ora che la battaglia spaziale era finita, si aspettava che lanciassero un ultimatum. Non si sbagliava.

   La trasmissione veniva dall’ammiraglia imperiale. La plancia era semibuia, certo per non rivelare i dettagli della loro tecnologia. C’era un sedile simile a un trono, su cui si trovava una figura con l’uniforme militare dello Stato Imperiale: un fitto reticolo grigio e nero. Il viso era in ombra, s’intravedeva solo la tipica capigliatura a caschetto dei Romulani Imperiali. A essere illuminato era invece il braccio destro, che impugnava un elaborato scettro metallico.

   «Il Debrune Teral’n» riconobbe V’Lena con un fremito. Era l’antico scettro impugnato dagli Imperatori romulani e poi dai Pretori. Si riteneva che fosse andato distrutto con il pianeta Romulus, nell’esplosione della supernova di Hobus. Forse lo avevano ritrovato fra i detriti... ma era più probabile che fosse una copia moderna.

   «Mi rivolgo agli abitanti di Galorndon Core e a tutti i cittadini della Repubblica Romulana» disse colei che impugnava lo scettro, con fredda voce di contralto. «In quest’epoca di cambiamenti, in cui i vecchi equilibri crollano, è tempo che il nostro popolo si riunifichi. La Repubblica Romulana si è dimostrata incapace di proteggervi. Ha stoltamente aderito all’Unione Galattica, rinunciando alla propria sovranità; e l’Unione vi ha trascinati nella sua guerra civile.

   Noi dello Stato Imperiale siamo qui per rimediare a questa sciagura. È nostro fermo proposito restaurare l’Impero Stellare Romulano, reclamando tutti i mondi che ne facevano parte all’epoca del suo splendore. Vi chiediamo di unirvi a noi spontaneamente, in fratellanza e letizia. In cambio avrete quella protezione che la debole Repubblica e l’Unione corrotta non hanno saputo darvi. Questo è il momento di prendere in mano il vostro destino; di proclamare che il popolo romulano è di nuovo unito e capace di annoverarsi tra le potenze della Galassia. Che il Teral’n, lo scettro dei nostri padri, possa guidarci a un secondo Impero, più glorioso del primo!». Così dicendo lo batté a terra, provocando un clangore metallico.

   «Chi sei, pazza fanatica?» si chiese V’Lena, cercando di riconoscere la fisionomia in ombra.

   «Se vi domandate chi sia, io che impugno il Teral’n, sappiate che sono l’unica in diritto di farlo» disse la sovrana, alzandosi in piedi. Il suo viso fu illuminato da una luce cruda. Aveva occhi azzurri e freddi; sulla fronte non c’era accenno del segno a V tipico dei Romulani. I capelli, tagliati a caschetto, erano di un biondo oro. C’era una sola leader, nella lunga storia dell’Impero, con quei tratti somatici; e non era una Romulana purosangue. «Sono l’Imperatrice Sela e vi accolgo nel mio regno» sorrise la mezza Umana.

 

   Fu in quel momento che un singolo vascello della Flotta Stellare uscì dalla cavitazione quantica. Colpì l’ammiraglia imperiale con una salva di siluri, senza penetrarne gli scudi, e passò rapidamente oltre. Le astronavi simili a istrici risposero al fuoco, ma la nave federale schivò la maggior parte dei colpi con incredibile agilità. Entrò nell’atmosfera del pianeta e puntò dritta verso la capitale. Era uno strano vascello, dalla forma compatta e lo scafo corazzato blu-violaceo, privo di finestre. Fino a qualche anno prima avrebbe meravigliato gli avversari; ma ora non più. L’USS Keter era diventata famosa in gran parte della Galassia: amata da alcuni, odiata a morte da altri, ma certamente non ignorata.

   «Terry, abbassa gli scudi e imbarca gli Umani» ordinò il Capitano Hod, sentendo la nave che vibrava appena per quella manovra spericolata.

   «Eseguo» rispose l’Intelligenza Artificiale, in tono distaccato. C’era stato un tempo in cui Terry era l’Ufficiale Scientifico dell’Enterprise-J e si occupava in prevalenza di analisi sensoriali. Ma da quando l’Enterprise era stata distrutta, all’inizio della Guerra Civile, la sua vita era drasticamente cambiata. Adesso era l’Ufficiale Tattico della Keter, vale a dire che era lei ad aprire il fuoco contro i nemici e talvolta a distruggerli. Esteriormente era quella di sempre: una proiezione isomorfa con l’aspetto di una donna umana di etnia orientale, sul principio della ventina. Era così fin dal giorno della sua prima attivazione e non aveva mai apportato cambiamenti, salvo a volte una nuova acconciatura o un abito informale per i momenti di relax. Era nei meandri del suo programma che le cose erano cambiate. Come ogni essere senziente, Terry aveva fatto esperienze e si era evoluta, adattandosi alle circostanze.

   «Rilevo trecento segni vitali Umani in un...» cominciò Zafreen, l’addetta a sensori e comunicazioni.

   «Sono bambini; li sto teletrasportando per primi» l’interruppe Terry. Per quanto l’Orioniana fosse veloce nelle sue letture, non poteva anticipare l’IA che era direttamente collegata ai sensori. In teoria le analisi spettavano a Zafreen, ma c’erano casi in cui bisognava decidere e agire all’istante.

   «... in un bunker sotterraneo» concluse Zafreen, a beneficio dei colleghi. L’Orioniana era imbronciata, come tutte le volte che si sentiva marginalizzata dall’efficientissima IA.

   «Abbiamo posto per tutti?» chiese il Comandante Norrin.

   «Li trasferirò nei corridoi se necessario, ma sì, possiamo imbarcare tutti gli Umani» confermò Terry, che li stava teletrasportando più in fretta possibile. «Sempre che siano più bisognosi di protezione rispetto agli altri» aggiunse. Ogni volta che un pianeta cadeva in mano all’Unione, la Flotta Stellare cercava di evacuare gli Umani, sapendo che erano la categoria più a rischio. Ma stavolta gli avversari erano i Romulani Imperiali, quindi non era affatto chiaro chi avesse più bisogno di protezione.

   «Ci sono milioni di Romulani laggiù; non possiamo salvarli tutti» disse il Capitano Hod, corrucciata. Sapeva che privilegiare ancora gli Umani le avrebbe attirato gli strali della Repubblica Romulana, ma nell’incertezza doveva seguire la procedura standard.

   Una serie di scosse interruppe i suoi pensieri. Non erano le lievi vibrazioni dovute al volo atmosferico, bensì gli scossoni irregolari provocati dal fuoco nemico.

   «Gli Imperiali ci colpiscono» disse Terry. «Sto disintegrando i loro siluri prima che giungano a bersaglio; questi sono i disgregatori».

   «Quanto possiamo resistere?» chiese il Capitano, confidando nella resistenza dello scafo in neutronio.

   «Venti secondi al massimo» rispose l’IA, mentre le scosse aumentavano.

   «Bastano?».

   «Appena».

   In quella un oggetto metallico si materializzò in plancia. Era scuro e minaccioso, con lunghi aculei che si protendevano fin quasi al soffitto. Si trattava senz’altro di una mina, o forse di un siluro, che gli Imperiali avevano teletrasportato approfittando degli scudi abbassati. Hod e Norrin, che se lo videro apparire davanti, scattarono in piedi. «Breccia nella sicurezza! Lo rimandi indietro!» ordinò il Capitano.

   «Sto disturbando il loro segnale» disse Terry, concentrandosi. I federali videro che il bagliore verde del teletrasporto non si era del tutto estinto. In certi momenti l’ordigno pareva sul punto di dissolversi, in altri prendeva consistenza.

   Il timoniere Vrel, che ce l’aveva alle spalle, si girò con tutta la poltroncina e gli dette un’occhiata. Notò un piccolo quadrante, su cui spiccavano dei caratteri romulani. Era una lingua che il mezzo Xindi conosceva a grandi linee. «Tre secondi all’esplosione!» avvertì.

   «Fuori...» mormorò Terry, ricorrendo a tutte le sue capacità per disturbare il teletrasporto. «Ho... detto... fuori!» gridò, mentre i suoi occhi lampeggiavano.

   L’ordigno si dissolse. Tre secondi dopo uno dei vascelli imperiali fu squassato da un’esplosione interna, che squarciò la fiancata. L’astronave danneggiata lasciò l’orbita, per non rischiare altri colpi. Le altre continuarono a sparare.

   «Gli Umani sono tutti a bordo» disse Terry, rialzando prontamente gli scudi. «Le nostre bocche da fuoco dorsali sono danneggiate» aggiunse.

   «Allora ritiriamoci» ordinò il Capitano, osservando a malincuore la città indifesa. Laggiù c’erano milioni di persone che potevano legittimamente chiedersi perché erano state lasciate indietro.

   «Agli ordini» disse Vrel, che odiava tener ferma la nave a fare da bersaglio. La diresse verso l’alto, attraverso le nubi, fino a superare l’atmosfera turbolenta. La Keter era di nuovo nello spazio, a centinaia di chilometri dal punto di discesa. I vascelli irti di aculei la inseguirono.

   «Quei porcospini c’inseguono, ma... strano, hanno cessato l’attacco» riferì Zafreen. «Ora ci chiamano».

   «È la nave ammiraglia» puntualizzò Terry, usurpando ancora una volta il suo ruolo. L’Orioniana alzò gli occhi al soffitto, ma non aggiunse nulla.

   «Sullo schermo» ordinò il Capitano, alzandosi per fronteggiare l’avversaria. Nella sua carriera aveva affrontato Capitani, Ammiragli, Generali; ma un’Imperatrice le mancava.

   «Capitano Hod... era da tanto che desideravo incontrarla» esordì Sela.

   «Poteva chiamare prima di mandarci un ordigno in plancia» notò l’Elaysiana.

   «Era solo una prova; volevo assicurarmi che foste all’altezza delle dicerie» rispose la mezza Romulana, liquidando la faccenda. «D’altro canto siete stati voi a sparare per primi».

   «Avete assalito un mondo federale; è nostro dovere reagire» obiettò il Capitano.

   «I vostri doveri vi hanno portati in guerra contro tutti» sogghignò l’Imperatrice. «I Voth, l’Unione, i Breen... non vi conviene inimicarvi anche noi. Fareste meglio a non ostacolare la riunificazione del nostro popolo».

   «I Breen si sono disimpegnati dal conflitto e i Voth non si disturbano a combattere di persona» obiettò Hod. «Non siamo così disperati come crede».

   «Lo sarete, se oserete attaccarci di nuovo» minacciò Sela. «Ormai avrete capito che abbiamo la superiorità tecnologica. Dica alle sue autorità che esigo la restituzione immediata di tutti i mondi dell’Impero Romulano all’epoca della sua massima estensione. O ce li consegnate pacificamente, o li riconquisteremo con la forza; e in quel caso le vittime si conteranno a milioni». Batté il Debrune Teral’n a terra, per sottolineare l’ultimatum.

   «Sa bene che la Federazione non cederà mai i suoi pianeti senza combattere» ribatté Hod.

   «Eppure avete ceduto la Terra» notò l’Imperatrice.

   «Quella è stata l’Unione! Ed è il motivo per cui la combattiamo» esclamò il Capitano, perdendo per un attimo il controllo.

   «La Federazione, l’Unione... ma si ascolta quando parla?» ghignò Sela. «Siete consumati dal vostro conflitto intestino. Comunque vada a finire, non tornerete quelli di prima. Mi creda... noi Romulani ne sappiamo qualcosa, di guerre civili» aggiunse con una smorfia.

   «Se c’è qualcosa che può ricompattarci, è proprio la vostra aggressione» suggerì l’Elaysiana, anche se lei stessa non osava crederci.

   «Vedremo, Capitano» disse la mezza Romulana, fissandola torva. «Per oggi vi lascio andare, affinché riferiate il mio messaggio. La prossima volta non sarò così clemente». Puntò il Teral’n contro l’Elaysiana, che notò la lama fissata in cima. Non era solo uno scettro: all’occorrenza fungeva da arma. «Oh, a proposito... prelevare gli Umani è stato inutile, dato che non ho particolare animosità contro di loro. Anzi, in un certo senso li considero... di famiglia» aggiunse con un sorriso sardonico.

   Chiusa la comunicazione, l’ammiraglia imperiale riapparve sullo schermo. Era un groviglio di aculei metallici costruito attorno a un informe corpo centrale. Hod la fissò cupamente. «È tecnologia Borg, vero?» chiese.

   «Io... devo fare altre analisi...» farfugliò Zafreen, incerta.

   «Lo è» confermò Terry. «L’unico precedente è la Narada, la nave che attaccò la Federazione e i Klingon all’indomani della catastrofe di Hobus. Distrusse intere flotte, prima d’inseguire la navicella dell’Ambasciatore Spock e scomparire con essa nel buco nero della supernova».

   «Sì, ho letto qualcosa al riguardo» annuì il Capitano, rabbuiata. «La nostra intelligence riteneva che quella nave fosse un unicum, impossibile da replicare... siamo stati troppo ottimisti».

   «Anche se il loro primo successo avvenne per caso, era solo questione di tempo prima che individuassero tutti i fattori necessari a replicarlo» confermò Terry. «Può darsi che gran parte della loro flotta sia stata convertita in quel modo».

   «Questo attacco non può essere isolato» avvertì Norrin. «Se lo Stato Imperiale ha deciso di sfondare, l’avrà fatto lungo tutto il confine».

   «Rotta verso Nuovo Romulus» ordinò Hod, con un groppo in gola. «Dobbiamo organizzare la difesa. E riferire il proclama di quella... quella...». La voce le mancò, mentre si risedeva.

   «Dittatrice tornata dall’Oltretomba?» ironizzò Vrel, sebbene anche lui avesse poca voglia di ridere. Portò la Keter in cavitazione quantica, lasciando Galorndon Core in mano agli invasori.

   «Escludendo la resurrezione, resta una limitata gamma d’ipotesi» disse Terry. «Quell’individuo può essere un ologramma o un androide con le fattezze della defunta Imperatrice».

   «Uhm... dubito che gli Imperiali le avrebbero affidato il comando» obiettò Norrin. «A quanto mi risulta, i Romulani non apprezzano le Intelligenze Artificiali. Non ce li vedo a prendere ordini da una di loro».

   «Non potrebbe essere una Romulana che si maschera per fingersi la loro sovrana più famosa?» suggerì Zafreen, volendo contribuire alla discussione.

   «Improbabile» disse Terry. «Dovrebbe comunque giustificare il suo ritorno».

   Zafreen la guardò storta. Oltre a intromettersi nel suo lavoro, l’IA aveva l’abitudine di smontare le sue ipotesi e i suoi suggerimenti, mettendola in ridicolo davanti agli altri.

   «Magari è la vera Sela, che ha viaggiato nel tempo» borbottò Vrel, giusto per buttarla lì.

   «Questo aprirebbe scenari inquietanti, ma ritengo che ci sia una spiegazione molto più semplice» disse Terry.

   «È un clone» indovinò Hod.

   «Esatto, Capitano» annuì la proiezione isomorfa. «Se gli Imperiali dispongono di campioni genetici dei loro sovrani, possono aver clonato la più capace, nella speranza che ridia lustro allo Stato».

   «Un clone di Sela con a disposizione una flotta di Narada» mormorò Hod, cupa in volto. «Stavolta sarà dura» aggiunse, così piano che solo Norrin e Terry la udirono.

 

   Nuovo Romulus e i suoi due soli parevano annegati nelle tinte oltremare della Nebulosa Azzurra, che avvolgeva il sistema. La Keter entrò nell’orbita del pianeta, affiancandosi ai Falchi da Guerra e alle navi della Flotta. A poca distanza vi erano i cantieri spaziali, dove i lavori procedevano incessanti. La notizia dell’attacco imperiale si era sparsa come un fulmine nella Repubblica Romulana, suscitando terrore e disperazione.

   Il Senato era già in riunione plenaria; al loro arrivo i federali furono invitati a partecipare. L’assemblea era presieduta dal Console D’Nas. A rappresentare la Flotta Stellare era invece il Commodoro Lantora, appena giunto con la Constellation. Vedendo entrare Hod, le fece segno di avvicinarsi: l’Elaysiana era il primo capitano della Flotta ad aver affrontato gli Imperiali. I due si salutarono rapidamente, sottovoce.

   «Come vedete, la situazione è drammatica» stava dicendo il Console, accennando all’ologramma tattico che galleggiava al centro dell’aula. Lo Stato Imperiale aveva sfondato lungo tutto il confine. La mappa era aggiornata in tempo reale, man mano che giungevano i rapporti dal fronte. «Due anni di guerra civile hanno minato le nostre difese» spiegò D’Nas. «Le guarnigioni al confine sono state travolte, i nostri mondi cadono uno dopo l’altro. Voi dovete aiutarci!» si appellò ai federali.

   «Con tutto il rispetto, Console, ma l’eventualità di un attacco imperiale era tutt’altro che remota» disse Lantora. «La vostra Repubblica ha sempre vissuto sotto questa minaccia. Avete costruito avamposti lungo il confine, avete fortificato ogni pianeta. So che la maggior parte di queste forze sono rimaste al loro posto, malgrado la Guerra Civile» aggiunse, prevenendo le proteste del Console. «E sapevate benissimo che lo Stato Imperiale poteva approfittare del conflitto per attaccarvi. Quindi com’è possibile che vi abbia colti così alla sprovvista?».

   «Lei non ha idea della loro tecnologia!» obiettò D’Nas. «Ci hanno attaccati con vascelli di cui non si era mai visto l’eguale. La loro potenza di fuoco è immane e i loro scudi si adattano alle nostre armi».

   «In realtà c’è un precedente» intervenne Hod. «La Narada del Capitano Nero, che seminò il caos all’indomani della supernova di Hobus. Quella nave era potenziata con tecnologia Borg. Riteniamo che lo stesso valga per questi incrociatori, il che spiega il loro aspetto e le loro capacità».

   «Come fu distrutto il prototipo?» chiese uno dei senatori.

   «Mentre inseguiva la navicella dell’Ambasciatore Spock si avvicinò troppo al buco nero di Hobus e ne fu risucchiato» sospirò il Capitano. «È da escludere che gli Imperiali ripetano un simile errore. E comunque adesso hanno un’intera flotta di quelle navi, quindi perderne una o due non farebbe differenza».

   «Possiamo usare i siluri transfasici» disse il Console. «Finora sono stati efficacissimi contro i Borg».

   «È questo il problema» disse l’Elaysiana. «Durante il breve scontro a Galorndon Core, abbiamo colpito l’ammiraglia imperiale con un’intera salva di quei siluri. I suoi scudi si sono indeboliti, ma non tanto da cedere. È chiaro che ormai si sono adattati. Del resto anche i Borg, quelli veri, l’hanno fatto. Due anni fa li affrontammo nel Quadrante Delta, scoprendo che i siluri transfasici non sono più così efficaci. Era una delle cose che volevamo discutere col Comando di Flotta... se non fosse scoppiata la Guerra Civile».

   «Sta dicendo che i Borg potrebbero attaccarci e non abbiamo difese?!» si allarmò D’Nas.

   «Per il momento i Borg restano nel Quadrante Delta» rispose il Capitano, cercando di non far scoppiare il panico. «I nostri avversari sono gli Imperiali».

   «Sono d’accordo» intervenne Lantora. «Si tratta di un blitzkrieg, una guerra-lampo che mira a conquistare la maggior quantità possibile di mondi prima che possiamo riorganizzarci. E credo proprio che il loro obiettivo finale sia questo pianeta» disse, suscitando un mormorio di paura tra i senatori. «Di conseguenza il tempo è essenziale. Per rispondere all’attacco convocheremo le forze che avevamo radunato per la controffensiva sul Fronte Orientale. I Klingon non saranno contenti, ma confido che l’Ammiraglio Chase riuscirà a farli ragionare».

   «Dobbiamo intensificare gli sforzi diplomatici con l’Unione e i Voth, per un cessate il fuoco» disse il Console. Parecchi senatori manifestarono il loro assenso.

   «Non mi fiderei troppo della loro parola» disse Lantora, cupo. «Sarebbero capaci di accettare... e poi di attaccarci alle spalle, dopo essersi accordati sottobanco con gli Imperiali per spartirsi i pianeti».

   «Quel che ci serve sono nuovi alleati, di cui poterci fidare» propose Hod. «Dobbiamo rivolgerci a chi soffrirebbe maggiormente per la vittoria imperiale».

   «Non penserà mica a...» fece il Console, rifiutando persino di pronunciare quel nome.

   «Ai Remani, certo» confermò il Capitano. «Sono un popolo guerriero, quindi possono darci un aiuto consistente. E di certo non vogliono tornare sotto il giogo romulano».

   I senatori dettero segni di scontento; alcuni lasciarono persino l’aula.

   «Abbiamo dato ai Remani un pianeta, perché si autogovernassero» sbuffò D’Nas. «Si accontenteranno di proteggere quello. Figurarsi se vorranno sacrificarsi per noi! E anche se accettassero, come potremmo fidarci?».

   «Siete sotto la stessa minaccia» rispose Hod, rivolgendosi a tutto l’auditorio. «È un inizio, per collaborare. E voglio dirvi un’altra cosa. Duecento anni fa, all’epoca della supernova di Hobus, aveste la possibilità di cooperare. Se Vulcaniani, Romulani e Remani avessero unito le forze, la minaccia sarebbe stata sventata e l’Impero sarebbe ancora unito. Così non fu; e tutti noi scontiamo ancora le conseguenze di quell’errore. Se oggi ripeterete lo sbaglio... se sarà ancora la sfiducia a prevalere... allora sarà davvero la fine».

   I senatori borbottarono e discussero tra loro, mentre il Console cercava di riprendere il controllo dell’aula. Alla fine la proposta di Hod fu messa ai voti. Data l’estrema urgenza, la votazione si tenne subito. La mozione fu approvata con un margine risicato.

   «Dunque è deciso: ci rivolgeremo ai Remani» concluse il Console. «Ma dati i nostri trascorsi, preferirei che fosse un rappresentante federale a condurre le trattative. Magari proprio lei, Capitano Hod, che ha perorato così efficacemente in quest’aula».

   L’Elaysiana fu presa in contropiede. «Veramente mi aspettavo di riportare la Keter in battaglia, Console» disse. «Sono certa che potete designare un ambasciatore allo scopo».

   «Se andasse uno di noi, le trattative si trascinerebbero più a lungo e con minori probabilità di successo» insisté D’Nas. «Le circostanze non lo permettono. Lei si è acquistata grande fama in questi anni, in campo sia militare che diplomatico. È una cosa che i Remani apprezzeranno. Allora, accetta l’incarico?».

   Hod guardò Lantora, che le fece segno di sì. «Lo accetto» rispose.

   «Ottimo» disse il Console. «Allora partirà subito per Crateris».

   «Prima devo sbarcare un migliaio di civili che abbiamo evacuato da Galorndon Core» disse il Capitano. Tralasciò il fatto che erano tutti Umani, per non indispettire i Romulani. «Confido che gli darete asilo».

   Il Console si consultò brevemente con alcuni collaboratori, a microfoni spenti. Dalla gestualità parve che questi sollevassero obiezioni, che tuttavia furono respinte. «Nell’interesse della causa, vi permettiamo di sbarcare i rifugiati» disse infine D’Nas. «Partirete appena finito».

   «Vi ringrazio, Console, a nome della Flotta Stellare» disse Hod. «I miei rispetti al Senato e al popolo romulano» aggiunse, prima di lasciare l’aula.

   Lantora se ne andò di lì a poco, ma la riunione del Senato proseguì per ore. Dal fronte arrivavano notizie sempre più catastrofiche. La flotta imperiale avanzava inesorabile, lasciandosi dietro i rottami delle navi repubblicane. I Klingon avevano promesso aiuti, che però dovevano ancora arrivare. Nel frattempo i pianeti della Repubblica cadevano uno dopo l’altro sotto l’occupazione nemica.

 

   «Lo fa apposta, ti dico!» sbuffò Zafreen, lanciando un’occhiataccia a Terry.

   «E io ti dico che è impossibile» ribatté Vrel. «Lei fa solo il suo lavoro...».

   «... vale a dire che io non faccio il mio?!» protestò l’Orioniana.

   «Non ho detto questo» fece il mezzo Xindi, sulla difensiva.

   «Però lo pensi!».

   Il timoniere alzò gli occhi al soffitto e rinunciò a controbattere. Preferì dedicarsi al pranzo. Lui e la sua compagna erano infatti in sala mensa, dopo essere smontati dal turno, e come di consueto mangiavano assieme. Terry sedeva qualche tavolo più in là, da sola. Non mangiava nulla – in quanto ologramma non ne aveva bisogno – ma leggeva un d-pad, distraendosi occasionalmente per scambiare qualche parola con i colleghi. Qualunque cosa ci fosse su quel d-pad, lavoro o svago, non aveva bisogno di consultarlo in sala mensa. Eppure l’IA era lì, a imitare le abitudini degli Organici.

   «Guardala, Miss Perfettina!» sibilò l’Orioniana, lanciandole un’occhiata al vetriolo. «Deve sempre precedermi, correggermi o smentirmi. E hai visto com’è nelle riunioni? Quando faccio un’ipotesi me l’affossa, e se trova il minimo neo nel mio lavoro, lo dice davanti a tutti!».

   «È un’Intelligenza Artificiale; è programmata per essere efficiente» disse il mezzo Xindi, scrollando le spalle. «A tratti può sembrare soffocante, ma è un bene che si sia unita a noi. Non saremmo durati così a lungo, altrimenti. E se ti sembra invadente, considera che non lo fa solo con te. Se trova un errore lo corregge, chiunque sia a commetterlo».

   «Però non mi sembra che a voialtri stia col fiato sul collo!» insisté Zafreen. «Voglio dire, ha mai interferito col tuo lavoro? Ti ha mai sottratto il controllo del timone, durante una manovra?».

   «Beh, no» ammise Vrel. Sarebbe andato su tutte le furie, se si fosse permessa.

   «Io invece vengo sempre interrotta. A volte fa delle analisi senza esserne richiesta, assumendo il controllo della mia consolle. È snervante non sapere mai se controllo i miei strumenti!» si lamentò l’Orioniana.

   «Dev’essere perché sull’Enterprise-J era addetta ai sensori» suggerì il mezzo Xindi.

   «Beh, non è più sull’Enterprise. Qui ha un altro incarico; dovrebbe concentrarsi su quello» disse Zafreen, immusonita.

   «Potresti dirglielo... con tatto» suggerì Vrel, un po’ incerto. Non sapeva se la sua compagna era abbastanza diplomatica per questo.

   «Qui? Adesso?» si stupì l’Orioniana, colta dall’ansia.

   «Perché no?».

   «Mah, non saprei neanche come attaccar bottone» ammise Zafreen, che quando si trovava davanti alla proiezione isomorfa perdeva la loquacità. «E poi mi chiedo che diavolo ci viene a fare, qui. Voglio dire, non deve mica mangiare!».

   «Magari lo fa per sentirsi più simile a noi» suggerì Vrel.

   «Ma lei non è come noi!» puntualizzò l’addetta ai sensori. «Ha un computer al posto del cervello. Fa miliardi di calcoli al secondo, ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette. Tiene in memoria tutto il database federale. Non c’è niente che non sappia, o che non possa scoprire dopo averci rimuginato un po’».

   «Questo non è vero» obiettò il timoniere. «Ci sono un sacco di cose che anche lei non sa».

   «Ad esempio? Falle una domanda, e vediamo se non sa darti almeno qualche ipotesi o statistica» lo sfidò Zafreen.

   Fu il turno di Vrel a farsi prendere dall’ansia. Non voleva disturbare un ufficiale superiore solo per vincere la discussione. In quella si accorse che Terry li fissava. Si chiese se avesse sentito la loro conversazione. La proiezione isomorfa aveva un udito finissimo... ma d’altro canto la mensa era affollata e il chiacchiericcio era alto. Forse si era solo accorta che la fissavano. In ogni caso lasciò il proprio tavolo e venne loro incontro.

   «Posso fare qualcosa per voi?» esordì, in tono neutro.

   «Noi, ehm... ci stavamo solo chiedendo cosa legge d’interessante» farfugliò il timoniere.

   «È una raccolta di vecchi racconti terrestri» rispose Terry, mostrando il display. Il titolo diceva: “Io, robot”.

   «Pensavo che stesse riesaminando le letture dello scontro coi Romulani, per scoprire i loro punti deboli» la provocò Zafreen, beccandosi un’occhiataccia dal compagno.

   «Sto facendo anche quello» rispose Terry con voce monocorde. «Ma si tratta di un compito lungo, quindi l’ho delegato alle mie funzioni automatiche. Se scopriranno qualcosa, l’informazione raggiungerà la mia soglia di coscienza».

   «Bello, lavorare così!» si lasciò sfuggire Zafreen, piena d’invidia.

   «Ci domandavamo anche fin dove arrivino le sue capacità di calcolo» intervenne Vrel, prima che la situazione degenerasse. «Se le chiedessi, che so...» il timoniere agitò le dita, come se cercasse di afferrare l’idea a mezz’aria «... se è possibile invertire l’entropia, lei cosa risponderebbe?».

   «Mi sta davvero chiedendo se è possibile violare il Secondo Principio della Termodinamica?» chiese Terry, guardandolo fissamente.

   «Ehm, sì» mormorò Vrel, sentendosi terribilmente sciocco. «Così, per pura curiosità...».

   Terry rimase immobile per lunghi secondi, come se tutte le sue facoltà di calcolo fossero devolute al problema. Non parlava, non sbatteva nemmeno gli occhi. Vedendola in quello stato, Vrel sentì un nodo allo stomaco. «Non l’avrò mica mandata in tilt?!» si chiese, assalito dal panico.

   Finalmente l’Intelligenza Artificiale si riscosse. «Al momento non ho dati sufficienti per una risposta significativa» disse in tono misurato.

   Il timoniere esalò il fiato. «Ah, bene... cioè, buono a sapersi» farfugliò.

   «Desidera pormi altri quesiti?» chiese Terry, squadrandolo con aria di sufficienza.

   «No, no... è tutto. Torni pure al suo libro, e grazie della cortesia» disse Vrel, rosso come un peperone.

   «Arrivederci, Tenente» salutò l’IA. «Zafreen...» aggiunse, rivolta all’Orioniana. Dopo di che girò sui tacchi e tornò al suo tavolo. Sedette nell’identica posizione di prima; sembrava che non si fosse mai alzata.

   «Hai sentito? Ti ha salutato col tuo grado, mentre io sono solo Zafreen!» disse l’addetta ai sensori, indispettita. La cosa era tanto più seccante, in quanto lei e Vrel erano pari grado.

   «Oh, insomma, falla finita!» sbottò il timoniere, ancora imbarazzato dalla figuraccia. «Quali che siano i tuoi problemi con Terry, vedi di risolverli alla svelta. Ci stiamo cacciando in uno scontro all’ultimo sangue coi Romulani Imperiali... come se non avessimo già abbastanza nemici... e l’ultima cosa che ci serve sono dei conflitti interni». Riprese a mangiare, senza più guardare la compagna.

   Zafreen non osò ribattere, ma lanciò un’occhiata obliqua a Terry. Sentiva che non sarebbe stato facile aggiustare le cose fra loro. Da parte sua stava già dando il massimo, non poteva essere più efficiente di così. E non poteva certo chiedere alla proiezione isomorfa di ridurre la sua efficienza. Così sarebbe rimasta un ufficiale di serie B, messa in ombra da quella macchina infallibile.

   «Beh, potrebbe andarmi peggio» pensò. «Potrei essere senza supervisione e fare qualche sbaglio irreparabile». Non era granché come consolazione, ma era tutto ciò che aveva.

 

   Chiusa nel suo ufficio ormai da troppe ore, il Capitano Hod scorreva il database sui Remani, alternandolo con quello sui Romulani. Prima di andare in missione a Crateris, sentiva il bisogno di rinfrescarsi la memoria su quei popoli. Doveva capire la loro psicologia, se voleva avere qualche speranza di successo.

   Il segnale della porta la distrasse dalla lettura. «Avanti» disse, quasi grata dell’interruzione.

   Norrin entrò nell’ufficio, ma si tenne vicino all’ingresso. «Abbiamo sbarcato i rifugiati di Galorndon Core» annunciò. «Gli ingegneri riferiscono che le riparazioni sono completate. Siamo pronti a partire».

   «Bene, dia l’ordine» disse il Capitano, aspettandosi di vederlo uscire subito. Invece il Comandante restò dov’era.

   «Devo fare una precisazione» disse Norrin. «Uno dei rifugiati è ancora a bordo e chiede di restare».

   «Per quale motivo?» si accigliò l’Elaysiana.

   «Sostiene di poterci essere utile... ma forse è meglio che parli direttamente con lei» consigliò l’Hirogeno.

   «D’accordo, lo faccia entrare» cedette il Capitano. Sapeva che Norrin non glielo avrebbe introdotto, se fosse stato uno sprovveduto. Disattivò l’oloschermo e si rivolse all’aspirante passeggero, che entrava in quel momento. Non era un Umano, come si aspettava.

   Era una giovane Romulana, molto sui generis. Aveva i capelli lunghi e raccolti in una coda, contrariamente al caschetto che prevaleva tra la sua gente. Indossava casacca e pantaloni neri, con un soprabito blu scuro stretto in vita da una cintura. Sembrava un abito ufficiale, anche se non propriamente una divisa militare.

   «Salve, Capitano!» esordì la giovane, con un brio insolito per la sua gente. «Sono Sorella V’Lena, dell’Ordine Qowat Milat». Si accompagnò con il saluto che mimava l’apertura di un libro.

   «Ah, le monache guerriere» disse Hod, che per un attimo era rimasta interdetta. «Posso chiederle com’è salita a bordo?».

   «Quando gli Imperiali ci hanno attaccati a Galorndon Core, ho aiutato a nascondere i bambini nel bunker» spiegò la Romulana. «Dopo di che sono stata teletrasportata con loro».

   «Capisco» disse l’Elaysiana. «Quel che non mi spiego è perché vuole restare a bordo. Siamo a Nuovo Romulus: è il luogo più adatto a lei. Troverà certo un monastero del suo Ordine».

   «Il monastero di Galorndon Core è stato distrutto, le mie sorelle uccise» rispose V’Lena, senza celare il suo dolore. «Non posso rinchiudermi in un altro santuario come se niente fosse. Devo contribuire alla causa».

   «È un desiderio tipico dei sopravvissuti» disse Hod, «ma può indurre a passi falsi. Conosco la vostra dottrina del Candore Assoluto: spesso vi rende vulnerabili nei confronti degli altri Romulani».

   «Se ci conosce, saprà che siamo addestrate al combattimento» rivendicò la monaca, con un certo orgoglio.

   «So pure che combattete solo per cause perse» si accigliò il Capitano. «È questo che pensa di noi?».

   «Capitano, la prego!» disse V’Lena in tono accorato, accostandosi alla scrivania. «So che state andando a Crateris per chiedere aiuto ai Remani. Io li conosco: all’inizio dell’apprendistato sono stata un anno sul loro pianeta. Parlo la loro lingua e so come ragionano. Il mio Ordine è in buoni rapporti con loro... in effetti siamo i soli Romulani per cui abbiano simpatia. Quindi potrei farvi comodo».

   Hod considerò la proposta. Alla sua valutazione contribuì il fatto che dopo due anni di Guerra Civile la Keter era sotto organico: le perdite erano state numerose e la Flotta in affanno non riusciva a sopperire. Qualunque aiuto, anche di un solo elemento, poteva fare comodo. Ma c’era una questione che la preoccupava. «Lei è volenterosa, gliene do atto» disse lentamente. «Ma non è un ufficiale addestrato della Flotta Stellare e questo complica le cose. Inoltre il suo Ordine è noto per gli atteggiamenti – ehm – imprevedibili. Considererò la sua offerta solo se lei s’impegnerà a ubbidire scrupolosamente a me e ai miei ufficiali».

   «Capitano, noi Qowat Milat abbiamo un detto: una promessa è una prigione» disse V’Lena. «Significa che non possiamo accettare limitazioni nell’esercizio della nostra etica».

   «Anche noi della Flotta abbiamo un detto: un ufficiale che non obbedisce agli ordini è una mina vagante» ironizzò Hod. «Significa che non la prenderò mai a bordo, se sospetto che farà di testa sua alla prima occasione».

   «Curioso... se lei avesse obbedito agli ordini, a quest’ora militerebbe nei Pacificatori, non tra i ribelli» notò la Romulana. «In effetti, tutti coloro che si trovano su questa nave hanno disobbedito in nome della propria etica».

   «Ed è una scelta che scontiamo ogni giorno» s’indispettì l’Elaysiana. «Ma non è una scusa per scivolare nell’anarchia. Se non crede di poter rispettare la nostra autorità, allora deve lasciare questa nave. E deve farlo seduta stante, perché stiamo per partire. Ogni secondo perso avvantaggia gli Imperiali».

   «D’accordo, resto» capitolò V’Lena, con una rapidità che sbalordì Hod. Il Capitano guardò il Comandante, che restava in attesa dietro alla Romulana, in cerca di consiglio. Si aspettava che Norrin cacciasse via a pedate quell’importuna. Invece, sorprendentemente, l’Hirogeno annuì.

   Hod pensò seriamente d’ignorare il consiglio e cacciare quella monaca svitata. Ma la missione a Crateris aleggiava nella sua mente come una grande incognita. Ogni aiuto, per quanto improbabile, poteva fare la differenza. «E va bene» cedette. «Il Comandante le assegnerà un alloggio e vigilerà sulla sua condotta. Per il momento farà capo a lui» ordinò.

   «Grazie, Capitano!» trillò la monaca. «Le prometto che non se ne pentirà!». Lasciò l’ufficio di buon passo, seguita da Norrin.

   L’Elaysiana si augurò di aver fatto la scelta giusta. Era in momenti come quello che sentiva più acuta la mancanza di Jaylah Chase, il suo miglior agente. Jaylah se n’era andata a inizio guerra, per contribuire alla causa in un altro modo. Era stato necessario, eppure il Capitano rimpiangeva il vuoto che aveva lasciato sulla Keter. Che quella strana giovane potesse colmarlo? Forse era questo che aveva persuaso Norrin ad appoggiarla; ma Hod era ancora preoccupata dalla sua impulsività. Con un sospiro, tornò a spulciare il database. Non avvertì nemmeno la lievissima vibrazione che indicava l’ingresso della Keter nel tunnel di cavitazione quantica. La missione a Crateris era cominciata.

 

   
 
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