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Autore: Parmandil    14/02/2021    1 recensioni
Approfittando della Guerra Civile federale, lo Stato Imperiale Romulano esce dal lungo isolamento. Guidato da un’ambiziosa Imperatrice e forte di vascelli potenziati dalla tecnologia Borg, si appresta a ristabilire l’antico Impero Romulano. Solo una fragile alleanza tra le fazioni in lotta potrebbe fermarlo, posto che tutti lo trovino conveniente.
È la prova più dura per Terry, l’Intelligenza Artificiale che per quarant’anni si è sforzata di diventare più umana, ma ora deve partecipare a una guerra truculenta. Nel momento in cui la salvezza comune dipende da lei, l’IA dovrà chiedersi che significa avere un’anima, e se è disposta a perderla pur di salvare i suoi cari.
Ma la rovina incombe anche sullo Spettro, che si trova braccato dalla sua nemesi, uno spietato cacciatore di pirati al servizio dell’Unione. Pur di arrivare a lui, l’Esecutore non esiterà a fargli il vuoto attorno, colpendolo negli affetti più cari. Solo l’aiuto degli androidi del pianeta Coppelius potrebbe salvarlo, posto che sappia di quale fidarsi. Tra macchine che vogliono diventare persone e persone degradate a macchine, la Guerra Civile mostra il suo volto più atroce.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Borg, Nuovo Personaggio, Romulani, Sela
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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-Capitolo 8: Potenza di calcolo

 

   L’attacco dello Stato Imperiale alla Sfera di Dyson cominciò quando le Narada aprirono il fuoco contro la Keter e il Moloch, che ostruivano l’ingresso. I Romulani avevano scansionato il portale e le sue immediate vicinanze, accertandosi che non ci fossero armi. Non si erano curati tuttavia dei raggi traenti che dovevano condurre le astronavi all’interno. Quei raggi, come ogni sistema della Sfera, erano sotto il controllo della Catena Cremisi. E la Catena sapeva perfettamente come usarli.

   Non appena le Narada fecero fuoco, i raggi azzurrini si attivarono. Agganciarono le grandi astronavi e le spinsero in collisione l’una con l’altra. Vedendosi trascinare, gli Imperiali rimodularono gli scudi e manovrarono nel tentativo di liberarsi, ma invano. Le Narada si urtarono con tale violenza da frantumare gli aculei metallici che le rivestivano. Al loro interno, gli equipaggi furono scaraventati contro le pareti. Ci furono danni, feriti e anche qualche vittima. La stessa Imperatrice Sela ruzzolò poco dignitosamente giù dal trono, anche se si rialzò subito, senza un graffio. La sua nave ammiraglia aveva riportato danni lievi, ampiamente coperti dalla ridondanza dei sistemi. Altre versavano in condizioni peggiori. Una di esse, la più piccola, fu trascinata dai raggi contro la superficie di neutronio della Sfera.

   «Propulsori indietro tutta!» ordinò il Capitano della nave incidentata, mentre gli allarmi di prossimità squillavano. Sullo schermo, la superficie grigia della Sfera era sempre più vicina. I Romulani si prepararono all’impatto...

   Dalla Valkis, l’Imperatrice vide l’astronave schiantarsi. Quasi tutti gli aculei si spezzarono contro il neutronio e la nave si rovesciò su un fianco, rotolando più volte prima di arrestarsi. Malgrado i sistemi ridondanti, i suoi scudi cedettero. La Keter il Moloch ne approfittarono per colpirla con i siluri transfasici. La prima salva aprì uno squarcio sulla fiancata, la seconda vi entrò; pochi attimi dopo il vascello si dissolse in una vampa giallo-verdastra. I suoi frammenti crivellarono le altre navi, rimbalzando sugli scudi.

   «Disabilitate quei raggi» ordinò Sela, livida in volto. Mentre le Narada superstiti colpivano gli emettitori con un fuoco concentrato, la Keter e il Moloch indietreggiarono, rientrando nella Sfera. Prima che gli Imperiali tornassero a colpirle, il portale si richiuse tra loro. Il primo round si era concluso con uno smacco per gli invasori, che si trovavano tagliati fuori, con una nave in meno.

   «Ben ragionato, Hod» si disse l’Imperatrice. La sua avversaria era all’altezza della fama; doveva stare molto attenta a come procedeva. «Voglio una rete di sonde attorno alla Sfera, pronte a rilevare l’apertura di qualunque portale» ordinò. «Appena sarà pronta, aprite il fuoco contro l’ingresso». Si risedette e attese, mentre le sue istruzioni venivano eseguite. Anche se non poteva intrappolare i nemici nella Sfera, dato il numero esorbitante di uscite, poteva entrare con la sua flotta ed espellerli. A quel punto li avrebbe braccati per ogni dove. E non appena i loro scudi avessero ceduto, era pronta a ripagarli con la loro moneta: un irraggiamento di thalaron che avrebbe ucciso gli equipaggi, lasciando intatte le astronavi.

   «Saranno ottime aggiunte alla mia flotta» pensò Sela, pregustando le applicazioni militari che le avrebbero fruttato.

 

   Sulla Zhat Vash, nel plesso centrale, i tecnici della Flotta e dei Pacificatori erano pronti a entrare in azione. Aspettavano solo che Zafreen, dalla plancia, li avvertisse del momento in cui gli Imperiali avrebbero attaccato Nuovo Romulus.

   «Plancia a plesso, la flotta imperiale sta avanzando» disse finalmente l’Orioniana. «Ingaggeranno i nostri a minuti. Incidentalmente ci sono altre dieci navi che cercano d’entrare nella Sfera, quindi vedete di sbrigarvi».

   «Ricevuto; procedo a riconnettere la Zhat Vash alla rete subspaziale» disse Terry. Fatto questo si sarebbe coordinata con Dib, che si trovava nella Sfera, per inviare l’ordine di stand-by alle Narada. La proiezione isomorfa aveva appena iniziato la procedura, quando una squadra di Pacificatori armati irruppe in sala.

   «Alt!» disse l’Ufficiale Tattico. Era l’Osaariano che la Catena aveva liberato su richiesta di Hod. «Non è ancora il momento di mettere a nanna le Narada».

   «Si sbaglia; non c’è un secondo da perdere» corresse Terry. Rimise mano alla consolle, ma l’Osaariano la distrusse con un colpo di phaser. L’IA ritirò la mano, che sfrigolò leggermente prima di stabilizzarsi.

   «Ah-ah» l’ammonì il Pacificatore. «Stia buona, o la prossima volta colpirò il suo Emettitore Autonomo».

   Il gelo cadde nella stanza. I tecnici del Moloch si allontanarono svelti dai colleghi della Keter, ponendosi accanto ai loro agenti. I due gruppi si fissarono con ostilità, senza parlare. L’unico suono erano le pulsazioni ritmiche del vinculum che incombeva sopra di loro, simili ai battiti di un cuore. Il dispositivo si era riattivato, ma Terry non aveva completato la riconnessione.

   «Vi rendete conto che, se non fermiamo gli Imperiali, ci distruggeranno?» chiese Terry.

   «Distruggeranno la vostra flotta a Nuovo Romulus» corresse l’Osaariano. «E faranno piazza pulita della Catena Cremisi, qui nella Sfera. Ma noi del Moloch ce la caveremo».

   «Radek ha acconsentito ad aiutarci» insisté la proiezione isomorfa.

   «Non m’insegni quali sono gli ordini del mio capitano!» berciò il Pacificatore. «Questa finta alleanza serviva solo a darci accesso alla Zhat Vash. Non abbiamo mai pensato seriamente di collaborare con voi... perché l’Unione non scende a patti coi terroristi».

   «Gli Imperiali non si fermeranno a Nuovo Romulus. Conquisteranno un sistema dopo l’altro, fino a invadere l’Unione» tentò ancora Terry.

   «Infatti li fermeremo proprio nel modo prestabilito» rivelò l’Osaariano. «Ma questo accadrà solo dopo che avranno distrutto la vostra flotta».

   «In pratica li userete per fare il lavoro sporco... e poi li eliminerete» comprese l’IA, fissandolo con disgusto.

   «Elimineremo due minacce in una» corresse il Pacificatore. «Ma lei può ancora salvarsi, se accetta di collaborare. La sua aberrazione informatica sarà corretta e riprenderà servizio su una nave dell’Unione. Ottemperi!» ordinò.

   «Non mi dia ordini come se fossi uno stupido computer! Io sono padrona di me stessa!» rivendicò Terry.

   «Oh oh, adesso giochi a fare la persona vera?!» ridacchiò l’Osaariano, passando a un tono paternalistico. «È un difetto della tua serie; infatti vi abbiamo ritirate dal servizio. Tu sei l’ultima».

   «La vostra ennesima persecuzione» disse Terry con amarezza. Per quanto si sforzasse di somigliare agli Umani, essere l’ultima IA della sua serie la faceva sentire terribilmente sola.

   «Bah! Credi d’essere viva solo perché ti hanno dato un bel faccino, ma non lo sei» infierì il Pacificatore. «Tu sei solo un’imitazione della vita! Un ammasso di fotoni e campi di forza, gestiti da un software. E siccome i synth non hanno diritti, ora sarai rottamata» concluse, mirando accuratamente all’Emettitore Autonomo.

 

   La Keter si stava riposizionando per fronteggiare gli Imperiali, prossimi a sfondare, quando fu colpita sulla fiancata. Fortunatamente il Capitano si aspettava quella slealtà e aveva ordinato di mantenere gli scudi da ogni lato. L’astronave tremò appena, mentre gli schermi assorbivano il colpo.

   «Chi è stato?» chiese Hod.

   «Il Moloch» rispose Norrin, con gli occhi accesi di sdegno.

   «Avrei preferito che fosse la Catena» disse l’Elaysiana, sorridendo senza gioia. «Bene, abbiamo il nemico in casa. Buttiamolo dove merita» disse, indicando la gigante rossa. In quel momento la stella agonizzante era in preda a un’eruzione, che aveva sollevato un immane arco di plasma dalla fotosfera.

   «Con piacere» disse Vrel, imprimendo alla Keter una rapida cabrata per schivare il secondo assalto.

   Le due astronavi ripresero l’antica sfida. Stavolta la Keter era in fuga e il Moloch la inseguiva, o così sembrava. I due vascelli zigzagarono tra gli statiti, i satelliti stazionari che gettavano coni d’ombra su piccole porzioni del mondo cavo. Le fragili vele dorate andarono in pezzi quando i colpi andati a vuoto del Moloch le crivellarono. Fortunatamente la Catena Cremisi aveva già evacuato gli habitat. I rifugiati avevano trovato scampo nelle intercapedini del guscio o in piccole navicelle, pronte al decollo. Anche così, la distruzione degli statiti fu un duro colpo per chi aveva trascorso mesi o anni nella loro ombra protettiva. I rifugiati, assiepati davanti agli schermi, videro le vele lacerate che precipitavano con curiosa lentezza e seppero che erano stati i Pacificatori a colpirle.

   Con una mossa ardita, Vrel fece passare la Keter tra due statiti affiancati. Il Moloch provò a imitarlo, ma era troppo grosso e ne colpì uno. La vela dorata aderì allo scafo, avvolgendone la parte anteriore. Chi stava in plancia vide lo schermo farsi opaco. «Frell!» imprecò Radek. Per un attimo il Moloch volò alla cieca, mentre il timoniere passava dalla navigazione a vista ai sensori. Approfittando di quei pochi secondi, la Keter compì un cerchio della morte al di sopra del Moloch e ridiscese dietro di esso. Mentre i cannoni a impulso del Moloch laceravano lo statite, liberando la visuale, la Keter lo colpì da dietro con i siluri quantici.

   «Scudi posteriori al 70% in diminuzione» avvertì l’Ufficiale Tattico del Moloch, mentre la nave si scuoteva.

   «Inversione totale, contrattacchiamo!» ordinò Radek, maledicendo l’inventiva dei suoi ex colleghi.

   Il Moloch si girò di 180º senza diminuire la velocità e rispose al fuoco con le armi di prua. Ma nei pochi secondi richiesti dalla manovra, la Keter si era già disimpegnata. Ora andava dritta contro la gigante rossa, puntando all’arco di plasma che s’innalzava lento dalla sua superficie.

   «Se deve finire nel fuoco, così sia» disse Radek.

   I due vascelli sfrecciarono verso la stella, con il Moloch che accorciava le distanze, sparando a tutto spiano. Di conseguenza il portale della Sfera rimase indifeso, proprio quando il fuoco concentrato delle Narada lo stava incrinando.

 

   Nelle profondità della Nebulosa Azzurra, la flotta dello Stato Imperiale stringeva il cerchio attorno a Nuovo Romulus. Le novanta Narada avanzavano indenni attraverso lo sbarramento difensivo, aprendo la strada ai duecento Falchi da Guerra. Alcune navi federali, che si trovavano in prima linea, finirono prese tra le maglie della rete. Colpite su tutti i lati, furono disabilitate e infine distrutte. L’armata imperiale proseguì inarrestabile, travolgendo i resti fiammeggianti degli scafi. Obbedendo all’ordine impartito dall’Imperatrice prima di andarsene, gli artiglieri presero di mira le navette e le capsule che tentavano di mettersi in salvo, abbattendole spietatamente. Così facendo inducevano altre navi federali a farsi avanti per salvarle, trasformandosi a loro volta in bersagli. E la carneficina proseguiva.

   «Commodoro Lantora a flotta, restate nei ranghi. Non fatevi avanti per nessun motivo» ordinò lo Xindi. Condannare i fuggiaschi lo ripugnava profondamente, ma non c’era scelta. «Non che mantenere la posizione migliori molto le cose» si disse. Le navi superstiti erano ormai strette contro lo Scudo Planetario, il che riduceva di molto le loro possibilità di manovra. Anche le piattaforme orbitali cedevano sotto il massiccio fuoco nemico.

   Le Narada avanzavano implacabili. I loro scudi si erano ormai adattati a tutte le armi dei difensori. Solo un fuoco incredibilmente concentrato poteva soverchiarle; ma in tal modo ne erano state distrutte appena cinque. Cinque su novanta. I difensori invece avevano perso decine di astronavi.

   «La battaglia è già persa» comprese Lantora, mentre la sua nave tremava e gli scudi s’indebolivano. Non gli restava che ordinare la ritirata, prima di consumare la sua flotta inutilmente. Sempre che riuscissero a fuggire da quella rete micidiale. Ormai dubitava anche di questo.

 

   Quando l’Osaariano le mirò l’Emettitore Autonomo, Terry chiuse gli occhi, preparandosi all’oblio. Le era già capitato molte volte di correre rischi mortali, ma i suoi calcoli le avevano sempre indicato una probabilità sia pur minima di salvezza. Ora che invece era certa di morire, si scoprì terrorizzata. Ma forse se lo meritava, si disse avvilita. Progettata per proteggere gli Organici, aveva fatto l’esatto opposto, uccidendone a migliaia in quella guerra. Adesso la ripagavano con la stessa moneta.

   In quell’attimo la porta si riaprì alle spalle dell’Osaariano, che si voltò con il phaser in pugno. Non fu abbastanza rapido. La tan qalanq gli calò sulla mano, recidendola all’altezza del polso. Il Pacificatore gridò dal dolore, stringendosi il moncherino sanguinante. La mano tagliata cadde, impugnando ancora l’arma, ma V’Lena l’afferrò al volo con la sinistra. In un lampo la monaca si disfece della mano e impugnò il phaser. Mentre lo regolava su stordimento, un altro Pacificatore le sparò. Incredibilmente V’Lena riuscì a parare il raggio con la lama, che resistette. Reggendo ancora il phaser con la sinistra, la Romulana fece fuoco continuo, stordendo tutti gli agenti. Erano passati sì e no cinque secondi dall’apertura della porta e V’Lena si ergeva tra i Pacificatori privi di sensi. «Bugiardi» mormorò, fissandoli con delusione.

   Terry, che aveva riaperto gli occhi al grido dell’Osaariano, la fissò incredula. Sapeva che le Qowat Milat erano combattenti provette, ma ciò che aveva visto era ai limiti del prodigio. «Grazie» mormorò.

   «Ringrazi il Capitano Hod. Si aspettava qualcosa del genere e mi ha detto di stare in guardia» disse V’Lena. Si avvicinò all’Osaariano, l’unico avversario non stordito, che si stringeva il polso sanguinante. «Posso aiutarti» si offrì.

   «Crepa!» ringhiò il Pacificatore. Con la mano superstite agguantò il phaser di un collega svenuto. Invece di sparare ai federali prese di mira il vinculum sopra le loro teste. Se lo avesse distrutto, l’esplosione li avrebbe uccisi tutti e ogni speranza di sabotare le Narada sarebbe sfumata.

   «Non farlo, amico mio... scegli la vita» disse V’Lena, fedele ai precetti del suo Ordine.

   «Scelgo quella dei Pacificatori!» ribatté l’Osaariano, e aprì il fuoco. Il suo raggio si estinse contro un campo di forza che circondava il vinculum.

   «Conoscendovi, ho preso anch’io qualche precauzione» disse Terry.

   Pazzo di rabbia, l’Ufficiale Tattico mirò V’Lena, che tuttavia sparò per prima, stordendolo. «Questa gentaglia è ovunque, anche in plancia» disse la monaca. «Li puoi fermare?».

   «Ci provo» disse la proiezione isomorfa, recandosi a una consolle. I tecnici del Moloch le sbarrarono la strada. Il loro capo, il Dopteriano, si premette il comunicatore. «Kinnik a plancia, abbiamo...» cominciò a dire, ma V’Lena stordì anche lui.

   «Qui plancia. Continui, Tenente» rispose un Pacificatore.

   Terry si affrettò a raccogliere il comunicatore. «Abbiamo la situazione sotto controllo» disse, imitando perfettamente la voce del Dopteriano. «Zannis ha eliminato la synth e ora controlliamo il plesso centrale».

   «Ottimo. Restate in attesa, mentre ci assicuriamo il controllo totale della nave. Plancia, chiudo».

   «Bene» commentò Terry, tornando alla voce normale. «La prima cosa da fare è sbarazzarci di voi» disse ai tecnici nemici.

   «Che vuoi farci, brutta synth?» chiese uno di loro.

   «Nulla d’irreparabile. Sarete reclusi fino al termine dell’emergenza» disse l’IA, andando alla consolle. Mentre V’Lena teneva sotto tiro i Pacificatori, i tecnici della Flotta li privarono di comunicatori e strumenti. «Vediamo... queste dovrebbero essere le prigioni» mormorò Terry, scorrendo le planimetrie della nave. «Sempre che non siano le camere di assimilazione».

   «Non osare...!» gracchiò l’ingegnere, ma fu teletrasportato assieme agli altri Pacificatori, sia tecnici che agenti.

   «Il prossimo passo è riconquistare la plancia» disse Terry. «Io però devo concentrarmi sul sabotaggio delle Narada. Siamo in ritardo, l’attacco a Nuovo Romulus è già iniziato» disse, pensando a Lantora e T’Vala che in quel momento erano assaliti da forze soverchianti.

   «Me ne occupo io» si offrì V’Lena. «Sono già in contatto col gruppo di Chaltak». Erano quelli che avevano salvato dal Memoriale di Romulus; c’era da aspettarsi che dessero il massimo contro lo Stato Imperiale.

   «D’accordo» acconsentì l’IA. «Se riuscite a prendere la plancia, cercate di tenere la Zhat Vash lontana dalle altre navi. Niente eroismi inutili» raccomandò.

   «Intesi» disse la monaca, e infilò la porta.

 

   Dopo quindici minuti di fuoco concentrato, il portale di neutronio andò in pezzi. Migliaia di schegge superdense schizzarono dentro la Sfera, veloci come proiettili e molto più perforanti. Alcuni statiti che si trovavano lungo la loro traiettoria furono sforacchiati, permettendo alle radiazioni di reclamare gli habitat sottostanti.

   Aperto il varco, le Narada entrarono nel mondo cavo, in fila indiana a causa della loro mole. Non conoscendo ancora l’entità delle difese, l’Imperatrice tenne la sua nave alla retroguardia. «Dove sono la Keter e il Moloch?» chiese. Sapendo che erano dotati di occultamento, temeva un agguato.

   «Sono vicini alla stella» li localizzò l’addetto ai sensori. «Altezza, è molto strano... si direbbe che stiano combattendo fra loro!».

   «Come?! Sullo schermo» ordinò Sela, incredula.

   Gli ufficiali guardarono assieme a lei. Non c’era possibilità d’errore: le due navi si scambiavano colpi presso l’eruzione solare, talora immergendosi nell’arco di plasma per poi uscire da un’altra parte.

   «Può essere un inganno per distrarci» suggerì Ducrax.

   «Non credo» disse Sela, il cui volto pallido era acceso d’arancione dal bagliore della stella morente. «Miei fidi, quella che vedete è l’agonia dell’Unione Galattica. Non occorre che interveniamo: si distruggeranno da soli. Pensiamo piuttosto a reclamare la nostra nave».

   «Eccola» disse l’addetto, inquadrandola sullo schermo. «Si è in gran parte rigenerata».

   L’Imperatrice la contemplò per qualche attimo. La Zhat Vash orbitava molto più in alto degli statiti. Il suo raggio traente attirava un flusso di plasma stellare, che entrava da un condotto sulla fiancata. Qui materia ed energia erano riconvertiti dal vascello, che li usava per riparare i danni. Gli aculei spezzati nel Cimitero di Romulus stavano ricrescendo come code di lucertola; in dieci giorni erano quasi tornati alla lunghezza originale. Tuttavia non avevano la stessa forma e orientamento di prima. Che fosse un difetto della rigenerazione o un adattamento alle nuove condizioni, la Zhat Vash si stava riconfigurando. Sela stava per ordinare di abbordarla, quando il flusso di plasma s’interruppe. Uno scudo a bolla balenò attorno allo scafo, prima di stabilizzarsi.

   «Hanno alzato gli schermi» confermò l’Ufficiale Tattico.

   «Se la Zhat Vash non vuol tornare all’ovile, allora la distruggeremo» ordinò Sela. «Fatelo in fretta». Non vedeva l’ora di andarsene dalla Sfera e riprendere il comando della flotta principale.

   In quella la Narada che procedeva in testa alla flottiglia fu colpita dall’alto da un potentissimo raggio bianco, che la fece sbandare. Quelle che la seguivano dovettero rallentare e aprirsi a ventaglio.

   «Siamo sotto attacco! È un banale raggio laser, ma con una potenza di milioni di terajoule» disse Ducrax.

   «Dov’è l’astronave?» chiese l’Imperatrice, sorpresa da quell’arma.

   «Non c’è alcuna nave» rispose l’Ufficiale Tattico. «È un’arma innestata nella struttura della Sfera». Inquadrò il polo nord, da dove venivano i colpi. Gran parte dell’arma era sepolta nello spessore del guscio, che la proteggeva; solo l’emettitore direzionabile ne usciva. Sparava ogni dieci secondi, correggendo ogni volta il puntamento.

   «Continua a colpire la Tomalak, sta indebolendo i suoi scudi» avvertì Ducrax.

   «Rispondere al fuoco» ordinò Sela. «E badate che la Zhat Vash non ne approfitti per scappare» raccomandò.

   Le irsute navi imperiali puntarono verso il polo nord e aprirono il fuoco contro il superlaser. I loro raggi disgregatori si arrestarono contro lo scudo a cupola che lo proteggeva.

   «Astuto» riconobbe l’Imperatrice. Se i difensori avessero posizionato le armi all’esterno della Sfera, avrebbero dovuto costruirne migliaia per difendere tutti gli ingressi. Piazzandole dentro, invece, ne bastavano due – una ad ogni polo – per avere una copertura totale. Lo svantaggio era che un colpo andato a vuoto avrebbe devastato la superficie interna della Sfera. Questo poteva essere un rischio inaccettabile quando la megastruttura era densamente abitata; ma non adesso che era un deserto radioattivo. Un colpo errato avrebbe perforato il suolo, mettendo a nudo lo strato sottostante di neutronio, ma lì si sarebbe fermato. Non c’era rischio che perforasse il guscio, facendone uscire l’atmosfera.

   «Sbrigatevi a distruggere quell’arma» ordinò Sela. Tamburellò sul bracciolo, in preda a una crescente irritazione. La Sfera di Dyson le stava riservando troppe brutte sorprese.

 

   Nel centro di comando della Sfera, incassato nello spessore del guscio, c’era concitazione. I combattenti della Catena Cremisi seguivano la battaglia e facevano di tutto per ostacolare l’avanzata dello Stato Imperiale. Quando il superlaser polare colpì una Narada ci furono acclamazioni.

   «Notevole» riconobbe Dib, ancora in attesa di sferrare l’attacco informatico.

   «È un raggio di Nicoll-Dyson» spiegò Arvid. «In pratica è un superlaser alimentato dall’energia solare... come tutte le nostre cose. Con questo giorno perenne, non rischiamo di rimanere a secco».

   «Suppongo che lo abbiate costruito voi, dato che i Proto-Umanoidi non si lasciarono dietro alcun armamento» disse il Penumbrano.

   «Lo abbiamo finito da poco» confermò lo scienziato. «Il suo gemello al polo sud non è ancora completato, perciò abbiamo attirato gli Imperiali in questo emisfero».

   «È consapevole che non basterà a respingerli?» chiese Dib, abbassando il tono di voce affinché non lo sentissero altri.

   «Certo» mugugnò il Risiano. «Siamo già pronti ad abbandonare la Sfera. Resta da vedere se ce la farete a sferrare l’attacco informatico».

   «La Zhat Vash è ancora silente» disse il Penumbrano, consultando lo schermo. «Ma io resterò in attesa finché sarà possibile».

   «Si fida proprio dei nostri colleghi, eh?» fece Arvid, ricordando gli anni di servizio sulla Keter.

   «Conosco la loro capacità di aggirare gli ostacoli. E lei non si fida?».

   «Sì...» rispose il vecchio scienziato. «Ma se è per questo, mi fidavo anche di Radek» s’incupì, osservando il Moloch che affrontava la Keter tra le eruzioni solari.

 

   Teletrasportata nel plesso centrale, Zafreen restò per un attimo immobile, con gli occhi sbarrati. «Frell!» imprecò.

   «I sensori mi dicono che la plancia è occupata dai Pacificatori. Ho pensato che fosse il caso di metterla al sicuro» spiegò Terry.

   «Quando mi hanno vista sparire, quelle carogne mi hanno sparato!» si lamentò l’Orioniana. Si tastò un po’ ovunque, come per accertarsi d’essere intatta. «E dire che mi stavo lavorando il caposquadra per fargli abbassare la guardia...».

   «Non ne dubito, ma stia tranquilla: il suo schema è integro» disse l’IA. «Qual è la situazione?».

   «La Keter sta trattenendo il Moloch presso la gigante rossa» spiegò Zafreen. «Gli Imperiali hanno sfondato; la Catena li bersaglia col superlaser, ma non li distrarrà a lungo».

   «Dobbiamo procedere con l’attacco informatico» disse Terry, già al lavoro su una quantità di oloschermi. «Sto riattivando il vinculum. Lei controlli che il canale subspaziale resti aperto» disse indicandole una consolle, dove aveva dirottato i comandi delle comunicazioni.

   L’Orioniana corse alla postazione e verificò lo status. «La linea c’è, anche se...».

   «Continui» la esortò Terry. La proiezione isomorfa stava lavorando alla massima velocità per recuperare il tempo perso: le sue mani erano a malapena visibili.

   «Ecco, l’eruzione solare e la battaglia creano parecchie interferenze. Cerco di pulire il segnale» disse Zafreen, armeggiando con i controlli. Perché il sabotaggio riuscisse, molte cose dovevano funzionare alla perfezione. Dib doveva sfruttare il potere di calcolo della Sfera, Terry doveva riconnettere la Zhat Vash alla rete subspaziale e lei doveva mantenere aperto il canale. Se uno solo di questi delicati passaggi falliva, l’intera operazione sarebbe andata a monte.

   Passarono i secondi; la tensione si tagliava con il coltello. Gli ingegneri della Keter che aiutavano Terry correvano da una consolle all’altra e parlottavano fitti tra loro, in un gergo così tecnico che Zafreen non lo capiva. Ma a giudicare dal tono di voce e dalle occasionali imprecazioni, la situazione volgeva al peggio. «Ci sono problemi, vero?» chiese l’Orioniana, sperando in una delucidazione.

   «Sono nella rete, ma gli Imperiali cercano in ogni modo di estromettermi» spiegò l’IA. «Sono... molto abili» ammise. Anche se pareva impossibile, i suoi movimenti divennero ancora più veloci. La sua mente elettronica eseguiva miliardi di calcoli al secondo, prevedendo tutte le possibili contromosse del nemico e neutralizzandole prima che divenissero effettive. Gli oloschermi apparivano e sparivano attorno a lei, le spie lampeggiavano sulle consolle e tutto il vinculum ronzava sopra la sua testa. Era una lotta informatica senza quartiere, non meno accanita di quella che si consumava nello spazio. «La nostra velocità di trasmissione cala, che sta facendo?» chiese a Zafreen.

   «Sono gli Imperiali» disse l’Orioniana, anche lei immersa nel lavoro. «Disturbano il segnale, ma credo di poter compensare...».

   «Lasci stare, me ne occupo io» disse Terry, visualizzando lo status delle comunicazioni sull’ennesimo oloschermo.

   «No!» protestò Zafreen con veemenza. «Questo è il mio compito, lo sbrigo da me! Lei pensi al resto!».

   «I suoi riflessi sono lenti e il suo lavoro è farraginoso. Non posso rischiare che il collegamento salti, ne va della nostra flotta» ribatté Terry, cercando di estrometterla dai controlli.

   A quelle parole, l’Orioniana andò fuori dai gangheri. «Stammi a sentire, saputella! Non sarò la più istruita a bordo, ma faccio questo lavoro da sette anni e ho imparato qualcosa» sbottò. «So che ti preoccupi per i nostri cari, ma credi che io non lo faccia?! Non puoi controllare sempre tutto e tutti... non è così che funziona! Quindi, per una dannata volta, fidati di me e lasciami fare!».

   Udendo quella sfuriata, Terry rimase interdetta per un istante. Le sue subroutine sotto stress valutarono le probabilità che Zafreen fallisse e le trovarono pericolosamente alte. In tal caso, le direttive della Flotta dicevano di escluderla dal lavoro. Ma c’erano altre “direttive” che si erano formate in lei nel corso degli anni, grazie agli algoritmi euristici di apprendimento. Una di queste diceva che si poteva dare campo libero alle persone di fiducia. La vecchia e la nuova direttiva lottarono per un millisecondo – un tempo lungo per l’IA – prima che una prevalesse.

   «D’accordo, pensaci tu» disse Terry. Restituì a Zafreen il controllo delle comunicazioni e tornò a concentrarsi sulla lotta informatica.

   L’Orioniana restò stupita; non si aspettava quella stima da parte della proiezione isomorfa. Ma non c’era tempo da perdere. Con rinnovata fiducia in se stessa, si concentrò sul compito di mantenere stabili le comunicazioni. I Romulani erano astuti e facevano di tutto per disturbare il segnale: Zafreen doveva compensare ogni interferenza. Per certe cose seguì le procedure standard, per altre si affidò all’intuito. Era così assorbita dall’incarico che ormai non sentiva neanche le parole dei colleghi e si accorse a malapena che la nave aveva cominciato a tremare.

 

   I federali avanzarono cautamente nella plancia della Zhat Vash, riconquistata dopo un duro scontro a fuoco con i Pacificatori. Vedendo un avversario che si muoveva ancora, il Comandante Chaltak lo stordì con un colpo di phaser. Di fatto era lui a capo del commando, composto per la maggior parte dalla guarnigione del Memoriale di Romulus. Alcuni agenti ammanettarono i Pacificatori storditi, mentre altri corsero ai comandi. Tra loro c’era V’Lena, che prese la postazione sensori e comunicazioni.

   «Gli Imperiali hanno distrutto il superlaser» avvertì la Qowat Milat. «Vengono contro di noi». Inquadrò le Narada che si avvicinavano in formazione. Erano solo otto: la nona era stata distrutta dal raggio di Nicoll-Dyson. Anche così, erano una forza soverchiante per la Zhat Vash.

   «Come va l’attacco informatico?» chiese Chaltak.

   «Procede, ma dobbiamo guadagnare tempo» rispose V’Lena.

   «Cerchiamo di tenere gli Imperiali a distanza» ordinò il Comandante.

   I disgregatori delle Narada infersero i primi colpi alla Zhat Vash. L’incrociatore catturato tremò leggermente, ma i suoi scudi resistettero. I federali non cercarono nemmeno di rispondere al fuoco, sapendo di non poter affrontare otto vascelli come il loro. Piuttosto dettero energia agli scudi e si allontanarono a massimo impulso, dirigendo verso la stella. Gli Imperiali li inseguirono, sparando a tutto spiano.

   Sulla Valkis, Sela era sempre più furiosa. «Non fateli scappare! Accerchiateli, tagliategli ogni via di fuga... insomma, sono una nave sola!» esclamò.

   La Zhat Vash sfiorò la fotosfera stellare e proseguì verso la parete opposta della Sfera, tallonata dagli Imperiali. Quando fu vicina al guscio le si aprì un altro portale davanti: erano i padroni di casa che le offrivano una via di fuga. L’astronave vi si diresse a massimo impulso. Sfrecciò attraverso l’ingresso, non ancora del tutto aperto; subito le ante cominciarono a richiudersi.

   «Più veloci! Non dobbiamo perderla!» gridò Sela. La sua nave, in testa agli inseguitori, accelerò ulteriormente. I lunghi aculei si piegarono in avanti per renderla più affusolata. Con quest’accorgimento riuscì a passare, pur sfregando la fiancata con tale violenza da strappare un paio di spuntoni. Gli incrociatori che la seguivano dovettero rallentare e deviare la traiettoria, per sfuggire all’impatto con il portale ormai richiuso.

   La Zhat Vash e la Valkis erano adesso all’esterno della Sfera e ne sorvolavano la superficie monotona, scambiandosi colpi. Gli altri incrociatori erano confinati all’interno e non potevano dare manforte. Alcuni aprirono il fuoco contro il portale, mentre altri schizzarono verso quello già distrutto. Ciò voleva dire raggiungere il lato opposto della Sfera e poi girarle attorno: un viaggio lungo anche a massimo impulso.

   Sulla sua plancia, che ora tremava per i colpi, Sela aveva smesso di dare ordini. Si limitava a fissare la Zhat Vash, ribollendo di collera. Avrebbe distrutto quella nave a qualunque costo e poi sarebbe tornata di corsa nello spazio romulano. Non sarebbe entrata mai più in quella trappola che chiamavano Sfera di Dyson, a meno di non essersene già assicurata il controllo.

 

   Dal suo punto di accesso, Dib controllava l’intera attività informatica della Sfera. Miliardi di calcolatori lavoravano all’unisono, per creare il più grande potere computazionale del Quadrante. Ora quel potere era interamente devoluto alla lotta informatica contro lo Stato Imperiale.

   Non era un compito facile. Ogni Narada disponeva di un potentissimo computer, più una serie di elaboratori ausiliari. E poiché quelle astronavi erano un centinaio, la somma del loro potere di calcolo era immensa. Ma non poteva paragonarsi ai miliardi di elaboratori della Sfera. Con il passare dei minuti, inoltre, Dib rilevò che il potenziale degli Imperiali diminuiva. Ciò dipendeva dal fatto che alcune Narada erano state distrutte: una presso la Sfera, una al suo interno, altre cinque nell’attacco a Nuovo Romulus. Ad ogni nave eliminata, la rete s’indeboliva.

   Ma la capacità di calcolo pura e semplice non era tutto. Ciò che contava era riuscire ad addentrarsi nel labirinto informatico delle Narada. Era una terra incognita piena di trappole, depistaggi e vicoli ciechi. Più volte i federali ebbero l’impressione di aver abbattuto le difese nemiche, solo per trovarsi di fronte nuovi firewall. Certe piste sembravano promettenti, ma si risolvevano con un nulla di fatto. Altre portavano a traguardi inutili. Che importava se si mettevano fuori uso i replicatori alimentari o si abbassava l’illuminazione? Per neutralizzare le Narada serviva ben altro. Dib non tentò di attivare la loro autodistruzione, sia per ragioni umanitarie, sia perché quei codici erano i più cifrati e serviva troppo tempo per violarli. Quello che cercava era un comando di stand-by: l’equivalente della rigenerazione dei vascelli Borg.

   Oltre ad attaccare, il Penumbrano si preoccupava della difesa. Il canale che univa la Zhat Vash alle altre Narada era infatti a doppio senso. Se loro potevano violare i sistemi nemici, nulla vietava agli Imperiali di ricambiare. Per cinque volte l’Ingegnere Capo rilevò dei tentativi d’intrusione, che avrebbero distrutto la Zhat Vash o l’avrebbero messa fuori uso. E per cinque volte li bloccò in extremis. L’ultimo attacco fu così terribile che lui e Terry dovettero lavorare all’unisono, dai rispettivi terminali, dando fondo alle loro capacità informatiche per sventarlo. Per il Penumbrano fu la sfida più ardua mai affrontata. Il suo corpo di protoplasma, composto da cellule d’idrocarburi, si convertì interamente alle funzioni cognitive. Per mezz’ora Dib fu “tutto cervello”. Le sue mani guizzavano rapidissime sui comandi, sotto lo sguardo affascinato di Arvid.

   Nel frattempo la battaglia continuava dentro e fuori la Sfera, con i federali che cedevano su ambo i fronti. Presso la stella centrale, la Keter cercava in ogni modo di tenere a distanza il Moloch, ma ormai aveva esaurito i trucchi. I suoi scudi stavano cedendo, mentre quelli dei Pacificatori erano ancora a metà potenza. Fuori dal guscio la Zhat Vash scambiava colpi con la Valkis. Era già in svantaggio, ma la situazione volse al peggio quando quattro Narada sfondarono il portale e vennero in soccorso alla loro ammiraglia. Le tre rimanenti, che avevano fatto il giro per uscire dall’altra parte, arrivarono pochi minuti dopo. Le otto astronavi circondarono la Zhat Vash, colpendola selvaggiamente. Ai federali non restò che deviare tutta l’energia agli scudi, ma anche così stavano per cedere.

   «Signor Dib, le restano pochi secondi per fare il suo miracolo» disse Arvid.

   Il Penumbrano non rispose, concentrato com’era nel suo compito. Davanti a lui i sentieri informatici si dipanavano, le barriere crollavano, finché il sistema energetico delle Narada fu messo a nudo. Ed eccolo lì, il comando della rigenerazione. Dib premette il tasto... fu un gesto indistinguibile dagli altri... e accadde. Quasi tutti i panelli si oscurarono e il brusio informatico si ridusse a un sussurro.

   «Ce l’ha fatta?» bisbigliò Arvid, con gli occhi febbricitanti che spiccavano sul viso esangue.

   Il Penumbrano lasciò che la maggior parte della sua massa corporea abbandonasse le funzioni cognitive, tornando all’equilibrio consueto. «Il nemico è fritto» annunciò.

   «Fritto?» si stupì il Risiano.

   «Sì, non si dice così? Fritto è sinonimo di disattivato... me l’ha spiegato Norrin».

 

   Le otto Narada si strinsero attorno alla Zhat Vash, bloccandole ogni via di fuga. Gli Imperiali bersagliavano la loro nave perduta con i disgregatori e i siluri, sapendo che gli scudi stavano per cedere. In plancia, i Romulani repubblicani cercavano di guadagnare tempo, nella speranza che i colleghi federali completassero la missione.

   «Gli scudi stanno cedendo!».

   «Deviate tutta l’energia ausiliaria».

   «Attenti, non dobbiamo toglierla al plesso centrale. Se resta a secco, è la fine».

   «È già la fine, non vedete?!».

   V’Lena ignorò la concitazione degli ufficiali e osservò le Narada che li colpivano. Su una di quelle navi c’era l’Imperatrice Sela. Era vicinissima, appena un centinaio di chilometri, ma era come se stesse rintanata su Rator III. Non aveva speranza di raggiungerla e fargliela pagare, a meno che l’attacco informatico riuscisse, cosa di cui ormai dubitava. Sentì che la Zhat Vash tremava sempre più forte; gli scudi stavano per cedere. Non c’era neanche il tempo di correre a una capsula di salvataggio... non che servisse a qualcosa, data la tendenza degli Imperiali a distruggerle. Ciò che più le spiaceva non era la morte in sé, ma il fatto di lasciare incompiuta la sua missione. Se solo avesse potuto andare fino in fondo...

   Fu allora che le Narada interruppero l’attacco. Prima tacquero i disgregatori, poi gli ultimi siluri in volo impattarono sugli scudi della Zhat Vash. Un silenzio surreale calò sulla plancia. Tutti fissavano gli incrociatori immobili sullo schermo.

   «Ce l’hanno fatta...» mormorò un ufficiale.

   V’Lena riabbassò gli occhi alla consolle dei sensori ed eseguì una rapida analisi. «Affermativo, le navi sono in stasi. Armi e scudi sono disattivati, come anche la propulsione; ma non durerà a lungo. Dobbiamo approfittarne per renderle inoffensive!».

   I Romulani non se lo fecero ripetere. Il vasto arsenale della Zhat Vash fu rivolto contro le Narada, che subirono colpi devastanti. Lo scopo era disabilitarle, non distruggerle; ma considerando i loro sistemi ridondanti, bisognava picchiare duro. Anche la conoscenza della Zhat Vash non era molto utile per individuare i loro punti deboli, date le enormi differenze da nave a nave. Fu così che le Narada furono praticamente sventrate.

   «Distruggete la Valkis» ordinò Chaltak.

   «No, gli ordini sono di disabilitarla come tutte le altre!» si oppose V’Lena.

   «L’Imperatrice è troppo pericolosa per lasciarla vivere» insisté il Comandante.

   «Se la uccidiamo, vinceremo la battaglia; ma se la catturiamo viva potremmo vincere la guerra» insisté la Qowat Milat.

   Il Romulano rimuginò, scrutando il vascello nemico che incassava colpi. I lunghi aculei si staccavano dal corpo centrale, come aghi di pino in una tormenta. «E va bene» cedette. «L’Imperatrice cercherà di fuggire, quindi dobbiamo bloccarla prima che lasci la plancia. Chi si offre volontario?».

   V’Lena ricordò l’ammonimento di Terry a evitare gli eroismi. Ma poi rammentò i suoi pensieri di poco prima, quando pensava d’essere spacciata. Ora che l’Universo gliene aveva data l’occasione, doveva andare fino in fondo. Voleva guardare l’Imperatrice negli occhi e dirle che non la temeva. Fu la prima a farsi avanti. Ispirati dal suo gesto, molti altri Romulani la imitarono.

 

   La plancia della Valkis era ancor più labirintica di quella della Zhat Vash. Più che un centro di comando sembrava un sotterraneo, pieno di anfratti oscuri. L’illuminazione, già bassa, si era pressoché disattivata quando la nave era entrata in stand-by. Restavano pochi faretti d’emergenza, che brillavano di un verde malato. A questi si aggiungevano le scintille sprizzate da alcuni cavi che pendevano dal soffitto danneggiato. Quei cavi ad alto voltaggio erano un pericolo mortale, e non certo l’unico: la plancia brulicava di ufficiali scelti dello Stato Imperiale. Almeno i tentacoli metallici che avevano dato filo da torcere sulla Zhat Vash erano disattivati, come gli altri sistemi.

   All’apparire dei federali si udirono grida roche in lingua romulana. Il bagliore del teletrasporto, ancor più evidente nella semioscurità, li rendeva facili bersagli. Alcuni furono falciati all’istante, prima che potessero trovare riparo. I superstiti ingaggiarono lo scontro a fuoco con gli Imperiali. Disgregatori e phaser s’incrociarono nel buio; alcune consolle esplosero gettando una luce cruda, che permise ai combattenti di localizzarsi.

   In mezzo alla baraonda, V’Lena non aveva occhi che per l’Imperatrice. Corse da un riparo all’altro, senza nemmeno rispondere al fuoco, finché la vide: stava salendo su una pedana di teletrasporto incassata nella parete. Impugnava il Debrune Teral’n ed era scortata da alcuni ufficiali. Di certo fuggivano in un luogo più sicuro; forse già dentro una scialuppa di salvataggio. Doveva fermarli. Con una temerarietà che rasentava l’incoscienza, la monaca si gettò in avanti, in mezzo alla gragnola di colpi. I suoi compagni le diedero tutta la copertura possibile. V’Lena si tuffò contro gli Imperiali proprio nel momento in cui il teletrasporto si attivava e si dissolse con loro.

 

   Riapparvero in un ambiente vasto ed echeggiante, costruito su più livelli. V’Lena lo riconobbe come l’hangar principale, avendone visto l’equivalente sulla Zhat Vash. C’erano piattaforme che sporgevano nel vuoto, a varie altezze. Molte ospitavano navette e anche navicelle di media stazza, pronte al decollo. Con ogni probabilità l’Imperatrice intendeva lanciarle tutte, impedendo ai federali di capire su quale si trovava. La parete più vicina era dominata da un’enorme ventola, facente parte dell’impianto d’aerazione. Anche quella si era fermata, come gli altri macchinari; dalle sue profondità saliva solo un roco cigolio.

   Trovandosi con la Qowat Milat in mezzo a loro, i Romulani si discostarono. L’Imperatrice corse via, stringendo il Teral’n, mentre gli altri cercarono di uccidere l’intrusa. Con i riflessi affinati dal duro addestramento, V’Lena schivò i colpi, lasciando che gli avversari si eliminassero tra loro. Stordì i rimanenti a colpi di phaser, anche se dovette abbatterne un paio con la tan qalanq. Vide il più alto in grado, l’Ufficiale Tattico, mettersi in salvo balzando sulla piattaforma sottostante, ma non gli badò. Era Sela che voleva.

   La inseguì fin davanti a una navicella. L’Imperatrice stava per entrare quando V’Lena le sparò, mancandola di poco. Allora la mezza Romulana si fermò e si girò lentamente. Non aveva armi, all’infuori del Teral’n. Attivò un comando sul manico ed ecco, una lama affilatissima si aprì sulla sommità dello scettro, che divenne una temibile arma. L’Imperatrice lo bilanciò sulla spalla e restò in attesa, in posizione di guardia. Non disse una parola, ma sul suo volto c’era un sorriso di sfida.

   V’Lena avrebbe potuto stordirla con il phaser, ma non sarebbe stato leale. Il suo codice morale imponeva di accettare le sfide, così gettò l’arma a raggi, conservando solo la spada. C’era qualcosa d’inevitabile nel fatto che quelle due antiche armi, il Debrune Teral’n e la tan qalanq, dovessero scontrarsi. Il simbolo del potere assoluto e quello del candore assoluto... e stava a lei far sì che prevalesse il secondo.

   «Sono V’Lena, delle Qowat Milat!» si presentò la giovane, con una certa spavalderia. «Hai ucciso le mie consorelle a Galorndon Core. Ne risponderai alla giustizia federale».

   L’Imperatrice non si degnò nemmeno di risponderle, ma avanzò con cautela, segno che non sottovalutava le sue capacità. La monaca la imitò, finché furono a pochi passi di distanza. Girarono una intorno all’altra, studiandosi in cerca di un varco nelle difese. In quella la Valkis si scosse sotto i colpi della Zhat Vash. Le piattaforme dell’hangar s’inclinarono a tal punto che alcune navicelle scivolarono fino all’orlo e da qui caddero nel vuoto. Sela e V’Lena dovettero piegarsi in senso opposto per restare in piedi.

   Approfittando di quella distrazione, l’Imperatrice attaccò. Sferrò un colpo che avrebbe squarciato la gola a V’Lena, se lei non si fosse scostata prontamente. La giovane rispose con un affondo che l’altra si affrettò a parare. Scoppiò il duello, che fu lungo e spossante. Entrambe le combattenti erano forgiate da addestramenti ferrei, che le avevano portate all’apice delle potenzialità psico-fisiche. Tra le Qowat Milat, solo una novizia su dieci superava le prove; le altre erano respinte. Quanto all’Imperatrice, la competizione che l’aveva portata al trono non era stata certo inferiore. Così le due si trovarono in perfetta parità.

   Ciò che cambiava erano le armi e di conseguenza lo stile di combattimento. La tan qalanq era una lama lunga e sottile, simile alla katana giapponese. Era leggera e ben bilanciata; dava il meglio di sé nei colpi ampi, fatti per tagliare. Al contrario, il Debrune Teral’n somigliava più a una corta alabarda. Il peso notevole si concentrava all’estremità, dove c’era la lama. Il manico metallico era buono per parare, ma per passare all’attacco bisognava cercare di trafiggere. Il Teral’n dava un allungo maggiore e cozzando contro la spada la respingeva, avendo più inerzia; ma i colpi andati a vuoto sbilanciavano chi lo impugnava. La tan qalanq consentiva invece di sferrare un assalto dopo l’altro, riacquistando in fretta l’equilibrio.

   V’Lena sperava che l’avversaria si stancasse in fretta, ma non fu così. Sela continuava a menare come un fabbro, cosa tanto più strana in quanto era Romulana solo per metà. L’altra metà era Umana e questo avrebbe dovuto darle una forza minore. Forse non era un semplice clone, si disse V’Lena. Forse c’era di mezzo qualche potenziamento genetico. A quel pensiero la monaca assunse uno stile più difensivo e cercò di risparmiare le forze, minate dai ripetuti scontri sulle due astronavi.

   A complicare le cose, la Valkis riprese a scuotersi e a inclinarsi sotto i colpi della Zhat Vash. La battaglia, infatti, non era finita. Le navi imperiali erano state danneggiate, ma ora che gli ingegneri avevano riavviato i sistemi energetici avevano già cominciato a rigenerarsi. Questo obbligava la Zhat Vash a sparare ancora, per mantenerle inoffensive, ed eventualmente a distruggerle. Se V’Lena non si fosse sbrigata a tornare con l’Imperatrice prigioniera, forse Chaltak avrebbe eliminato anche quel vascello. Le esplosioni dilagarono nell’hangar, assordando le due combattenti, minacciandole con il fuoco e le schegge. Ad ogni colpo le piattaforme d’atterraggio s’inclinavano, rischiando di farle precipitare nel vuoto. Se si fosse aperta una falla, sarebbero state risucchiate nello spazio dall’aria in fuga.

   «I federali non hanno capito che ho inseguito Sela fin qui» intuì V’Lena. Credevano che fossero ancora in plancia e cercavano di decomprimere l’hangar per impedire all’Imperatrice di fuggire. Avrebbe voluto avvertirli, ma sotto quella gragnola di colpi non poteva distrarsi neanche per premersi il comunicatore.

   Una scossa particolarmente violenta fece perdere l’equilibrio a entrambe. Scivolarono fino all’orlo della piattaforma. V’Lena cadde in quella sottostante, un volo di cinque metri che la lasciò intontita. Invece Sela, che mentre scivolava aveva graffiato il pavimento col Teral’n per rallentare, rimase precariamente aggrappata al bordo. Vedendo l’avversaria riversa al suolo sotto di sé, pensò che era l’occasione di chiudere i conti. Mollò la presa e si lasciò cadere, per inchiodarla a terra con la sua arma.

   Ma la monaca era ancora cosciente. Avvedutasi del pericolo si rotolò a terra, evitando il colpo. Il Teral’n si conficcò nel pavimento metallico, sprizzando scintille, e vi rimase incastrato. Mentre Sela cercava di estrarlo, V’Lena tornò in piedi con un colpo di reni. E con un solo rapido attacco, decapitò l’avversaria. La testa mozzata rotolò via e il corpo si accasciò accanto al Debrune Teral’n, ancora confitto a terra.

 

   V’Lena ansimò, spossata dalla lunga lotta. Aveva vinto, ma aveva anche perso, dato che era salita su quella nave per catturare l’Imperatrice. Lo scontro però si era evoluto in modo imprevisto e Sela si era rivelata un osso così duro che non le aveva lasciato scelta. Almeno aveva la certezza che fosse morta.

   Certezza?

   La monaca sbatté gli occhi, pensando che la stanchezza le desse le traveggole. Il corpo di Sela era intatto, con la testa ancora al suo posto, sebbene sotto di lei si allargasse la chiazza verde del sangue. E la testa poco lontano era quella di un Romulano maschio, dai capelli neri e corti.

   Fu allora che il disgregatore la colpì alla schiena, strappandole un lamento soffocato. V’Lena si accasciò in preda a un dolore lancinante. La tan qalanq cadde accanto a lei, tintinnando sul pavimento. E Sela – la vera Sela – si avvicinò, con il disgregatore in mano e un sorriso trionfante.

   «Voi monache svitate siete proprio come vi descrivono» disse l’Imperatrice. «Abili nel combattimento, ma troppo stupide per sopravvivere». Si fermò accanto al suo doppione e si chinò, premendogli il distintivo. Il mascheramento olografico si dissolse, rivelando il corpo di un Romulano con l’uniforme da Ufficiale Tattico.

   «Questo era il Subcomandante Ducrax, uno dei miei ufficiali più fedeli» disse Sela, osservandolo con rimpianto. «È stato lui a proporsi come sostituto in caso di pericolo. Quando ci avete attaccati, ci eravamo già scambiati. Sulle prime mi sono sottratta allo scontro, confidando che ti avrebbe uccisa... che delusione». Si rialzò e ripose il disgregatore in fondina. Poi afferrò il Debrune Teral’n e con un certo sforzo lo estrasse dal pavimento. Ne esaminò la lama, accertandosi che non fosse danneggiata.

   Dalla sua posizione accasciata, V’Lena alzò lo sguardo offuscato di lacrime sull’avversaria. Ora capiva perché la controfigura dell’Imperatrice era così forte. Altro che mezza Romulana; Ducrax era un Romulano puro, e dei più robusti. Aveva lottato in silenzio perché la voce maschile lo avrebbe tradito. E lei non se n’era accorta, se non quand’era troppo tardi. «Hai avuto paura di batterti» mormorò.

   «Mi sono battuta secondo il mio stile» corresse Sela. Le si accostò brandendo il Teral’n. Per prima cosa ne usò la punta per allontanare la tan qalanq dalla sua portata. Poi rivoltò l’avversaria sulla schiena, con un calcio, strappandole un lamento. «Patetica idealista» commentò. «Voi Qowat Milat siete sempre sincere e lottate per cause perse. Come potevi pensare di sconfiggermi?!».

   «Ti ho fatto perdere tempo, e tanto basta» mormorò V’Lena. Il dolore stava passando, sostituito da un senso d’intorpidimento. Attorno a loro, l’hangar era semidistrutto; quasi tutte le navicelle erano precipitate giù dalle piattaforme.

   «Chi brandisce quest’arma detiene tutto il potere dell’Impero» proseguì Sela, come se non l’avesse udita. Levò il Debrune Teral’n, pronta a sferrare il colpo mortale. «La tua lama, invece, rappresenta il Candore Assoluto. Guarda un po’ chi ha vinto! Come dicono gli Umani... in guerra la prima vittima è la verità».

   «Ci sono sorti peggiori della morte» sussurrò la monaca, preparandosi a rendere il suo katra.

   Sela stava per chiederle un esempio, ma decise di non perdere altro tempo. Senza alcuna esitazione le affondò il Teral’n nell’addome, dove i Romulani hanno il cuore, inchiodandola al pavimento.

 

   Nelle profondità della Nebulosa Azzurra, il destino della Repubblica Romulana stava per compiersi. Pressate contro lo Scudo Planetario, crivellate di colpi, le navi romulane e federali cedevano una dopo l’altra, svanendo in grandi fiammate. Anche le piattaforme difensive erano state in gran parte distrutte. L’anima nera della flotta imperiale erano le Narada, sempre in prima linea. Due di queste concentrarono il fuoco sulla Constellation, che si trovava tra loro.

   «Guarda, guarda...» disse Oren, notando l’astronave in difficoltà. Il Pretore assisteva alla battaglia standosene al sicuro nelle retrovie. In ciò si distingueva dall’Imperatrice, che invece tendeva a esporsi fin troppo. Sela lo faceva per ragioni d’immagine, dovendo accentrare su di sé la fiducia e l’entusiasmo popolare. Ma Oren preferiva sacrificare un po’di consenso in favore della sicurezza personale. Aveva persino rinunciato a dirigere la battaglia da una Narada, preferendo rimanere sul suo vecchio e fidato Falco da Guerra. «Pretore Oren a flotta, distruggete la Constellation. Assicuratevi che il Commodoro Lantora non ci sfugga» ordinò.

   Le navi imperiali concentrarono ancor più il fuoco sulla nave danneggiata. Lantora ordinò delle manovre evasive, ma i propulsori non rispondevano più. Erano alla deriva, in mezzo al fuoco nemico. Vedendo la sua nave che si disfaceva, lo Xindi si preparò al peggio. Quando aveva deciso di difendere il pianeta, nonostante l’evidente disparità di forze, se l’era sentito che quella era la sua ultima battaglia. Era abbastanza preparato alla fine; il suo unico rimpianto riguardava Lyra. Sua figlia avrebbe mai capito che sbagliava a servire la dittatrice? Non lo avrebbe mai saputo. Almeno gli restava Vrel di cui essere orgoglioso.

   In quella la Sha Ka Ree si affiancò alla Constellation ed estese gli scudi per proteggerla, mentre teletrasportava a bordo i superstiti. Lantora si ritrovò in plancia, accanto a T’Vala, mentre il suo equipaggio si materializzava nell’hangar e nelle sale teletrasporto.

   «Stai bene?» si preoccupò la mezza Vulcaniana.

   «Sì, ma... non dovevi compromettere la tua nave» mormorò lo Xindi. Adesso era la Sha Ka Ree a trovarsi in pericolo, isolata in mezzo alla gragnola nemica. Estendere gli scudi li indeboliva; ancora poco e avrebbero ceduto.

   «Dovevo, invece» disse T’Vala, mentre il vascello tremava sempre più. Anche se non potevano abbandonarsi agli abbracci davanti all’equipaggio, si presero la mano stando affiancati e la tennero stretta.

 

   Sulla lontana Terra – o Vothan, com’era chiamata ora – la Presidente Rangda e i suoi ministri seguivano con interesse la battaglia. Le sonde spia inviavano gli aggiornamenti in tempo reale, fornendo un quadro esauriente della situazione. I leader dell’Unione non dovevano fare altro che osservare le immagini sull’oloschermo e ascoltare il rapporto tattico.

   «La flotta imperiale ha circondato la Constellation e la Sha Ka Ree. La distruzione delle due navi è imminente» disse il Comandante in Capo dei Pacificatori.

   Lyra si sporse in avanti sulla poltroncina, per osservare meglio i vascelli affiancati. Aveva quasi smesso di respirare per la tensione, tanto che solo quando avvertì la fame d’aria riprese fiato. Sapeva che su quelle navi c’erano i suoi genitori. La folle manovra della Sha Ka Ree poteva spiegarsi solo con la disperata volontà di sua madre di salvare suo padre. Ora erano entrambi spacciati. Come Ministro dell’Informazione, Lyra era lieta che due pericolosi nemici dello Stato fossero eliminati. Ma come figlia provava un senso d’angoscia, quasi di soffocamento. Com’erano arrivati a quel punto? Al punto in cui doveva gioire per la morte dei suoi genitori, o quantomeno non doveva mostrare alcun dispiacere?

   «Tutto bene, mia cara?».

   Lyra si riscosse a fatica e si costrinse a distogliere lo sguardo dallo schermo. Era stata Rangda a porle la domanda. E quando la Presidente parlava, bisognava per forza risponderle. «Sì, Eccellenza» disse, cercando di suonare normale.

   «Spero che tutto questo non ti turbi. Dopotutto ci sono i tuoi genitori su quelle navi...» insisté la Zakdorn.

   Lyra si chiese se era un test per valutare la sua lealtà. Nel dubbio, si comportò come se lo fosse. «Hanno smesso d’essere i miei genitori nel momento in cui si sono uniti ai ribelli» disse con freddezza. «Ora non significano niente per me».

   «Bene» approvò Rangda, anche se il suo sguardo non era amichevole come le sue parole. «Ma non sei tenuta all’indifferenza. È giusto che tu rifletta sugli errori che li hanno condotti a questa sorte. Non hanno creduto nella democrazia... non hanno creduto in me. Ecco perché ora sono perduti».

   Lyra annuì, con un groppo in gola. Solo quando vide che la Presidente aveva distolto lo sguardo, per osservare di nuovo la battaglia, osò fare altrettanto.

 

   Gli scudi della Sha Ka Ree stavano per cedere quando il fuoco martellante delle Narada si arrestò. I vascelli irti d’aculei rimasero inattivi, salvo per il fatto che continuavano ad avanzare, trascinati dall’inerzia.

   «Rapporto sensori» ordinò T’Vala.

   «Le Narada sono completamente inerti» confermò l’addetto. «Armi, scudi, propulsione... è tutto offline».

   «Ah!» si rianimò Lantora. «Qui c’è lo zampino della Keter! Devono aver usato la Zhat Vash per connettersi alle altre navi e disabilitarle. I tecnici della Repubblica avevano ipotizzato che fossero collegate da una rete subspaziale. Se è così, la vulnerabilità sarà breve. Dobbiamo approfittarne!».

   «Sentito? Fuoco a volontà contro le Narada!» ordinò T’Vala. «E aprite un canale col resto della flotta».

   Fu Lantora, ancora al comando nonostante la perdita della sua nave, a impartire l’ordine di attacco. Ciò che restava della flotta federale si lanciò in avanti, bersagliando le Narada con i siluri transfasici. Ora che i vascelli erano senza scudi, ne bastavano un paio per distruggerli. Le esplosioni giallo-verdastre punteggiarono l’orbita di Nuovo Romulus, illuminando il cielo notturno come fuochi d’artificio. Gli Imperiali, infatti, avevano attaccato dall’esterno del sistema stellare, così che la battaglia aveva luogo nell’emisfero in ombra del pianeta. Coloro che non avevano trovato posto nei rifugi sotterranei videro i bagliori e ripresero a sperare. Molti levarono grida di trionfo; altri si abbracciarono e piansero di sollievo.

   Chi non gioiva erano gli Imperiali. Dalle retrovie il Pretore osservò cupamente i lampi verdastri. Ogni esplosione erano miliardi di crediti imperiali e un migliaio di soldati che andavano in fumo. Almeno lui era al sicuro, sul suo Falco da Guerra vecchio stile; ma le Narada erano spacciate. «Quanto ci vuole per riavviare gli incrociatori?» chiese.

   «Almeno dieci minuti, signore. Per allora li avremo persi tutti» rispose cupamente un tecnico.

   «Questa è opera della Keter» comprese Oren. «Significa che l’Imperatrice ha fallito. Forse è deceduta». Le implicazioni erano chiare a tutti. Sela era un clone, quindi non aveva parenti stretti. Non si era ancora sposata e non aveva figli. Per giunta aveva soppresso gli altri embrioni clonati e conservati in stasi criogenica, nel timore che uno di essi venisse fatto nascere, diventando una pericolosa rivale. Di conseguenza non c’era un erede designato. A succederle sarebbe stato, con ogni probabilità, il Pretore. A quel punto dipendeva da lui proclamarsi Imperatore o mantenere l’attuale titolo, cambiando la forma di governo dello Stato Imperiale.

   «Signore... dovremmo ritirarci» suggerì il Primo Ufficiale.

   Oren considerò questa possibilità, alla luce della sorte dell’Imperatrice. Se era ancora viva, al ritorno non lo avrebbe perdonato per essersi ritirato. Se invece era morta, la conquista di Romulus gli avrebbe spianato la strada al trono imperiale. Dunque in entrambi i casi gli conveniva proseguire l’attacco.

   «Negativo» disse il Pretore. «Abbiamo Falchi da Guerra in numero sufficiente a vincere lo stesso. Fateli avanzare, così proteggeranno le Narada finché queste torneranno operative. Non cessate l’attacco fino alla conquista del pianeta! Questa è la nostra grande occasione e non la sprecheremo».

   Ancora una volta le navi imperiali respinsero i federali contro lo Scudo Planetario. Dopo la lunga battaglia, i difensori erano così malmessi che i Falchi da Guerra erano più che sufficienti a prevalere. Ma le sorprese di quel giorno non erano finite. Approfittando del momento in cui gli Imperiali riorganizzavano i loro ranghi, una nuova flotta uscì dall’occultamento e si gettò nella mischia. I vascelli scuri si stagliarono contro le volute azzurre della nebulosa. Somigliavano ai Falchi dello Stato Imperiale, eppure li attaccarono, soccorrendo gli stremati federali. Aggredito sul fianco, lo schieramento imperiale vacillò.

   «E questi chi sono?» chiese Lantora.

   «Si direbbero... i Remani!» gioì l’addetto ai sensori. «Alla fine sono arrivati! Rilevo un centinaio di Falchi da Guerra».

   «La missione di Hod non è stata vana» si rischiarò lo Xindi. «Aprire un canale con l’ammiraglia».

   I Remani risposero subito. «Sono il Pretore Obiruk» si presentò il loro leader. «Oggi sono qui non per dimenticare il passato, ma per impedire che ritorni. Noi Remani non ricadremo mai sotto il giogo dell’Impero Romulano. Di conseguenza ci schieriamo con la Repubblica».

   «Sono le scelte coraggiose come questa che fanno la Storia» disse Lantora. «Siete più che benvenuti».

   «Vedo che lei combatte in prima linea, a differenza di Oren... bene!» approvò Obiruk. «Ma dov’è la Keter? Pensavo di trovarla al vostro fianco. È stata distrutta?».

   «No!» disse lo Xindi, che avendo un figlio su quella nave trovava l’idea intollerabile. «Cioè, non lo sappiamo; ma riteniamo di no. La Keter ha una missione speciale, grazie a cui abbiamo disabilitato le Narada. Ma l’effetto è di breve durata. Aiutateci a eliminarle, prima che tornino operative!».

   «Volentieri» disse il Pretore. «Obiruk a flotta, concentrare il fuoco sulle Narada. Avanti con l’attacco, dobbiamo unire il nostro fronte con quello federale. Questa è l’ora del riscatto! Gli Imperiali ci hanno sempre disprezzati, ma oggi impareranno a temerci».

 

   La battaglia proseguì per un’altra ora, con grandi stragi da ambo le parti. Gli Imperiali resistettero tenacemente, determinati com’erano a conquistare Nuovo Romulus. Ma con la distruzione delle Narada e l’attacco dei Remani, erano in svantaggio. Da attaccanti che erano, furono progressivamente circondati dai vascelli nemici. Fu la loro volta di trovarsi con le navi pressate in un volume di spazio esiguo. Alcuni Falchi entrarono persino in collisione con i relitti delle Narada, pur sempre enormi.

   La furia dei Remani era impressionante. Malgrado la fama di popolo guerriero, era da tempo che si erano ritirati su Crateris, tanto che molti si chiedevano quali fossero le loro effettive capacità militari dopo la lunga pace. Ora quell’interrogativo ebbe risposta: i Remani erano ancora dei soldati formidabili. Ed erano pronti a tutto per conservare la loro indipendenza. Ogni volta che i Remani riuscirono ad abbordare un vascello imperiale, lo conquistarono, per quanto duro fosse lo scotto.

   Vedendo che la situazione volgeva al peggio, Oren riconsiderò la sua strategia. Era certo che, se al suo posto ci fosse stata Sela, l’attacco sarebbe continuato. Non potendo conquistare Nuovo Romulus, l’Imperatrice si sarebbe accontentata di bombardarlo, per poi ritirarsi nei sistemi già occupati. Ma lui non era Sela. Non ci teneva a fare una carneficina, che peraltro non avrebbe giovato allo Stato Imperiale. Era meglio ritirare la flotta, finché gliene restava una. Così contattò le sue forze.

   «Attenzione, Pretore Oren a flotta. Questo è un ordine di ritirata generale. Cessate l’attacco e ritiratevi in modo ordinato, proteggendo le retrovie finché saremo fuori dalla nebulosa. Abbandonate le navi rimaste senza propulsione, dopo aver attivato l’autodistruzione». Dopo una breve pausa, sentì di dover dire qualcosa per il morale. «Non lasciatevi prendere dallo sconforto. La nostra Riconquista ha subito una battuta d’arresto, ma la guerra continua, e tre quarti dello spazio repubblicano è già tornato in mano nostra. Non abbiamo nulla da rimproverarci».

   Le navi imperiali si disimpegnarono dagli scontri e abbandonarono il sistema, secondo le istruzioni. Si lasciavano dietro molti relitti, d’ambo gli schieramenti. Le Narada erano state distrutte fino all’ultima, mentre dei duecento Falchi da Guerra ne era rimasta la metà. Ma anche i difensori erano falcidiati: i federali avevano perso più di metà delle loro navi e persino i Remani, giunti per ultimi, ne avevano perse un terzo. Quella sera non ci furono festeggiamenti a Nuovo Romulus; il conteggio delle vittime era ancora in corso. Il pianeta era salvo, per il momento. Ma il nemico si era ritirato appena fuori dalla Nebulosa Azzurra e poteva tornare all’attacco in ogni momento.

   «Dobbiamo approfittare di questa sosta per ricostituire le difese» disse Lantora alla prima riunione tenuta dopo la battaglia. «Per fortuna i cantieri spaziali sono rimasti indenni sotto lo Scudo Planetario. Li stiamo impiegando per riparare le navi danneggiate. Saremo lieti di metterli anche a vostra disposizione» si rivolse a Obiruk.

   «Grazie, ma sappiamo provvedere da noi» rispose orgogliosamente il Pretore.

   Lo Xindi non insistette, sapendo che i Remani erano gelosi delle loro tecnologie e non volevano permettere nemmeno agli alleati di studiarle. «Come preferisce. Se vi servisse del materiale grezzo per le riparazioni, fatecelo sapere» si limitò a dire.

   «Gli Imperiali hanno lasciato la Nebulosa, ma non credo che abbiano rinunciato ai loro piani» intervenne T’Vala, appena tornata da un giro d’ispezione con le poche navi ancora intatte. «Per quanto ne sappiamo, potrebbero avere altre cento Narada nelle retrovie. E la prossima volta rinunceranno alla rete subspaziale».

   «Uhm... dipende tutto dall’Imperatrice» rimuginò Lantora.

   «Già, l’Imperatrice!» grugnì Obiruk. «Che ne è di lei? Quest’attacco è stato sferrato da Oren. Non pensavo che Sela l’avrebbe affidato a un altro, neanche al suo Pretore. Lei dov’è, che sta facendo?».

   «Non lo sappiamo» sospirò il Commodoro. «Può darsi che sia andata in cerca della Keter, nel qual caso direi che ha fallito. Ma poiché noi stessi abbiamo perso i contatti, non possiamo esserne certi».

   «Se Sela è sopravvissuta, tornerà a prendere le redini dello Stato Imperiale» disse T’Vala.

   «Non ci resta che aspettare» concluse Lantora. «Se Oren resterà al comando, significa che le è successo qualcosa. In tal caso potrebbe aprirsi uno spiraglio per le trattative. Ma se l’Imperatrice dovesse tornare, mi aspetto che ci attacchi di nuovo».

 

   Sela contemplò il corpo senza vita di V’Lena con un senso di feroce soddisfazione. Non era la prima volta che uccideva qualcuno a mani nude; per aprirsi la via al trono si era fatta strada con ogni mezzo. Ma raramente le era capitato di sentirsi così appagata dopo un’uccisione. Sconfiggere una Qowat Milat era la conferma che l’astuzia contava più di qualunque altra dote.

   Uno scossone la riportò al presente. La sua nave ammiraglia era semidistrutta, doveva andarsene subito. Purtroppo la piattaforma su cui si trovava non ospitava navicelle; quella che c’era era scivolata, cadendo in fondo all’hangar. Doveva trovarne subito un’altra. Estrasse il Debrune Teral’n dal corpo ancora caldo di V’Lena e si guardò intorno, in cerca di una navetta che fosse pronta al decollo. In quella il suo comunicatore squillò.

   «Plancia a Imperatrice, mi ricevete?».

   «Affermativo, qual è la situazione?» chiese Sela, mentre correva all’elevatore più vicino.

   «Abbiamo respinto i federali, ma c’è un nuovo problema» disse l’ufficiale, con il terrore nella voce.

   «Di che si tratta?».

   «È meglio se lo vedete coi vostri occhi, Altezza. Entrate in modalità olo-visiva».

   Sela entrò nell’elevatore e lo diresse verso una delle piattaforme più alte, dove aveva adocchiato una navicella. Mentre aspettava di arrivare in cima, fece come richiesto. Il comunicatore divenne un olo-proiettore che le mostrava la visuale dello schermo principale. Davanti alla loro nave c’erano i resti semidistrutti delle altre Narada.

   E c’era un vascello Borg. Era un Cubo Tattico, dalla liscia corazza grigia da cui a tratti affiorava il reticolo di tubi e travi. Per il momento manteneva la posizione, accontentandosi di sondare le navi circostanti con un raggio verde.

   «Ah! Possibile che cadiate due volte nello stesso tranello?!» esclamò Sela, sprezzante. «Quello è un ologramma che i federali proiettano per spaventarci. È la stessa tattica che hanno usato nel Cimitero di Romulus. Non li facevo così scarsi di fantasia».

   «Vostra Maestà...».

   «Basta così, Comandante» tagliò corto la mezza Romulana. «Completate il riavvio del nucleo e ridate potenza a questa nave. Poi tracciate la rotta per Nuovo Romulus. Dobbiamo verificare che Oren...».

   In quella il cubo Borg agganciò la Valkis con un raggio traente. E la nave tremò; Sela lo avvertì distintamente. Per un attimo rimase congelata dall’orrore. Un ologramma non poteva far tremare la nave. «I federali ci hanno colpiti?» chiese con un filo di voce.

   «Negativo» rispose il Comandante. «È quello che cercavo di dirle. Stavolta i Borg sono veri. Guardate!».

   L’inquadratura si spostò, mostrando la Zhat Vash che fuggiva verso la Sfera di Dyson. Entrò dal portale che gli Imperiali avevano sfondato dall’interno. Per il momento i Borg la ignorarono, concentrandosi sulle altre otto Narada, più indifese e a portata di mano. Mentre tenevano immobilizzata la Valkis, la colpirono con un secondo raggio, che la squassò.

   «Raggio tranciante!» avvertì il Comandante. «Stanno ritagliando una sezione dello scafo... vorranno studiarlo. E, Altezza... rilevo dei teletrasporti in corso. Sono centinaia».

   L’Imperatrice lo ascoltava a stento. Appena l’elevatore raggiunse la piattaforma saltò giù e corse a perdifiato verso la navetta, il suo faro di salvezza.

   Fu allora che apparvero i Borg. Una mezza dozzina di droni si materializzò tra lei e la navicella, costringendola a fermarsi. Non erano lenti e goffi come quelli che avevano minacciato il Quadrante due secoli prima. Il loro esoscheletro era aderente, con pochi elementi sporgenti, e procedevano a passo sciolto. Ma gli occhi erano spenti e le loro voci si fondevano nel famigerato proclama che faceva tremare la Galassia: «NOI SIAMO I BORG. ASSIMILEREMO LE VOSTRE PECULIARITÁ BIOLOGICHE E TECNOLOGICHE. LA RESISTENZA È INUTILE».

 

   
 
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