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Autore: Parmandil    14/02/2021    1 recensioni
Approfittando della Guerra Civile federale, lo Stato Imperiale Romulano esce dal lungo isolamento. Guidato da un’ambiziosa Imperatrice e forte di vascelli potenziati dalla tecnologia Borg, si appresta a ristabilire l’antico Impero Romulano. Solo una fragile alleanza tra le fazioni in lotta potrebbe fermarlo, posto che tutti lo trovino conveniente.
È la prova più dura per Terry, l’Intelligenza Artificiale che per quarant’anni si è sforzata di diventare più umana, ma ora deve partecipare a una guerra truculenta. Nel momento in cui la salvezza comune dipende da lei, l’IA dovrà chiedersi che significa avere un’anima, e se è disposta a perderla pur di salvare i suoi cari.
Ma la rovina incombe anche sullo Spettro, che si trova braccato dalla sua nemesi, uno spietato cacciatore di pirati al servizio dell’Unione. Pur di arrivare a lui, l’Esecutore non esiterà a fargli il vuoto attorno, colpendolo negli affetti più cari. Solo l’aiuto degli androidi del pianeta Coppelius potrebbe salvarlo, posto che sappia di quale fidarsi. Tra macchine che vogliono diventare persone e persone degradate a macchine, la Guerra Civile mostra il suo volto più atroce.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Borg, Nuovo Personaggio, Romulani, Sela
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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-Capitolo 9: Alveare

 

   Vedendo i Borg che le venivano contro, certo per assimilarla, Sela non perse il sangue freddo. Non era diventata Imperatrice per nulla. Estrasse fulminea il disgregatore e aprì il fuoco: sei colpi, sei centri perfetti. Tutti i droni stramazzarono sul pavimento, morti... o era più corretto dire disattivati. Di lì a un attimo svanirono, richiamati sul Cubo. Era tipico dei Borg recuperare i loro resti, per impedire al nemico di studiarli.

   Sela corse di nuovo verso la navetta, consapevole di aver guadagnato pochi secondi. Non fu abbastanza veloce: altri droni apparvero tra lei e la salvezza. La mezza Romulana aprì di nuovo il fuoco, colpendoli a distanza ravvicinata. Stavolta i raggi verdi furono assorbiti dagli scudi individuali dei droni.

   «Maledizione... si sono già adattati» constatò Sela. Erano stati rapidissimi, segno che la Collettività aveva continuato a evolversi. L’Imperatrice dovette correre via, in cerca di un’altra navicella. Mentre costeggiava l’orlo della piattaforma, si guardò intorno e vide uno spettacolo agghiacciante.

   Sulle numerose terrazze dell’hangar c’erano ormai centinaia di droni, che stavano attaccando il suo equipaggio mentre questo cercava di mettersi in salvo. I Romulani sparavano con i disgregatori, ma i Borg si erano adattati; nemmeno concentrando il fuoco su di loro si riusciva ad abbatterli. Il proclama dell’Alveare risuonava in tutto l’hangar, inframmezzato ai fischi dei disgregatori, agli schianti dei colpi andati a vuoto e ai lamenti di chi era già stato infettato: «NOI SIAMO I BORG... VOI SARETE ASSIMILATI... LA RESISTENZA È INUTILE».

   «Staremo a vedere!» sibilò Sela. Impostò il suo disgregatore sulla sequenza di sovraccarico, facendone una granata. Lo gettò davanti ai droni che si avvicinavano e corse a nascondersi dietro la consolle di controllo volo. Di lì a qualche secondo ci fu l’esplosione. Sela balzò fuori dal nascondiglio e vide che tre droni erano a terra, disattivati; gli altri procedevano come se nulla fosse.

   «Volete la guerra? Non chiedo di meglio!» ringhiò l’Imperatrice. Si gettò contro i Borg brandendo la sua ultima arma, il Debrune Teral’n. Cercò di trafiggere il drone più vicino, ma la lama scivolò sulla sua corazza pettorale lasciando solo un lieve graffio. Allora ritrasse il Teral’n e colpì di nuovo, con tutte le sue forze: stavolta l’avversario cadde con la gola squarciata. Prima che potesse gioire, altri droni le apparvero attorno, teletrasportati dal Cubo: era circondata.

   «Fatevi sotto! Ne ho per tutti!» gridò la mezza Romulana. Si gettò contro la marea incalzante, sferrando colpi terribili col Teral’n. In una vita di duri addestramenti e scontri all’ultimo sangue, non si era mai battuta così. Falciò i Borg con precisi colpi alla testa e alla gola, aprendo le carni grigiastre e versando il sangue scuro di nanosonde. Schiantò i loro impianti oculari e recise i cavi che uscivano dalle corazze. Immerse la lama nei bagliori verdastri dei teletrasporti, così che quando i droni terminavano di materializzarsi erano già morti. Ma per quanti ne abbattesse, altrettanti ne arrivavano. Cercavano di agguantarla, disarmarla, iniettarle le nanosonde che l’avrebbero resa una di loro. Fatalmente le forze di Sela declinarono. I suoi colpi divennero più deboli e imprecisi. I Borg invece erano sempre al massimo, anzi le parve che la loro efficienza aumentasse. Forse avevano analizzato il suo stile di combattimento, trovandone i punti deboli. Più volte i loro tubuli di assimilazione le dardeggiarono a pochi centimetri dal collo o dalle braccia. Doveva prendere quella navetta, o sarebbe stata la fine.

   Abbattuti due avversari, Sela usò il Teral’n come puntello per oltrepassarli con un salto. Corse a perdifiato verso la navicella. C’era quasi... doveva solo oltrepassare i corpi di tre droni, quelli abbattuti dal disgregatore-granata. Ma che ci facevano ancora lì? I Borg non solevano riprendersi i loro caduti?

   Con orrore, Sela vide i droni rialzarsi. Le loro orrende ferite erano in gran parte rimarginate. Evidentemente l’efficienza delle nanosonde era aumentata. L’Imperatrice non fece in tempo a fermarsi, e comunque doveva oltrepassarli per entrare nella navetta. Piombò su di loro come una furia, riuscendo ad abbatterne due. Il terzo le bloccò il Teral’n con una mano, afferrandolo poco sotto la lama. Con l’altro braccio, interamente meccanizzato, il drone sferrò un colpo così violento da troncare l’asta metallica. La lama cadde, sferragliando sul pavimento.

   Vedendosi disarmata, Sela rimase per un attimo paralizzata dal terrore. Poi si riscosse, appena in tempo per evitare i tubuli. Si lasciò scivolare a terra e falciò il Borg con un calcio, riuscendo a farlo cadere. Raccolse la lama del Teral’n e, con la forza della disperazione, gliela conficcò nell’occhio. L’impianto oculare si schiantò, sprizzando scintille, e il drone sussultò prima di spegnersi definitivamente. Ansante, Sela alzò lo sguardo alla navetta, ormai vicinissima.

   Fu allora che i tubuli di assimilazione le si piantarono nel collo. Un altro drone le era giunto alle spalle, mentre lei era distratta. Sela avvertì il flusso di nanosonde che si diffondevano nel suo corpo, scurendo i vasi sanguigni. Quando sentì che le arrivavano al cervello, lanciò uno strillo agonizzante. La sua individualità stava per esserle strappata... sarebbe diventata una nullità, un drone insignificante e spendibile come quelli che l’attorniavano. Le tornarono in mente le ultime parole di V’Lena, che ora suonavano sinistramente profetiche: «Ci sono sorti peggiori della morte». Ma finché era ancora se stessa, voleva vendicarsi almeno del drone che le aveva fatto questo. Si rigirò tra le sue braccia, gli afferrò un sottile cavo che gli usciva dalla testa e tirò con tutte le sue forze, riuscendo a strapparlo. Ci fu uno scoppio di scintille e il Borg crollò a terra, disattivato.

   Sela cadde con lui e arrancò sul pavimento, cercando di allontanarsi. Si sentiva il corpo in fiamme, la testa sul punto di esplodere. Guardandosi le mani, le vide venate di nero. Le nanosonde avanzavano in fretta. Di certo avevano già cominciato ad assimilarla. Una volta terminato il processo, lei non ci sarebbe stata più... e la Collettività avrebbe incamerato tutte le sue conoscenze.

   Tutte le sue conoscenze!

   Questo significava che i Borg avrebbero appreso così tanto sullo Stato Imperiale, comprese le sue capacità militari, da poterlo invadere e assimilare. Nella foga di restaurare l’Impero Romulano, lo aveva condannato alla peggiore delle sorti. A meno che...

   Notando l’orlo della piattaforma a poca distanza, Sela capì qual era l’unico modo di evitare la catastrofe. Arrancò verso il bordo, con il proposito di buttarsi giù. I Borg non avrebbero avuto nulla da assimilare, una volta che il suo cervello si fosse spappolato sul pavimento, cento metri più in basso. Ma sentì le forze abbandonarla; stava per perdere conoscenza. Sapeva che non si sarebbe più svegliata... non come Sela. Cercò di resistere; mancavano pochi metri. Ma un altro Borg l’afferrò tra le braccia dure e fredde, tirandola indietro, sebbene lei si dibattesse. La prese in braccio e la portò dagli altri droni, che attendevano immobili e silenziosi.

   «Maledetti! Non l’avrete... vinta...» singhiozzò Sela, dibattendosi sempre più debolmente. La sua pelle era già pallida come la loro; le nanosonde formavano dei grumi in certi punti. Era da lì che sarebbero spuntati i primi impianti. In quella ci fu come un click nella sua mente, ed ella perse i sensi. Il suo corpo ricadde abbandonato tra le braccia del drone.

   «LA RESISTENZA È INUTILE» dissero una volta di più i Borg, mettendosi in posizione di teletrasporto. I raggi verdi li richiamarono sul Cubo, dove un’alcova di maturazione attendeva l’ex Imperatrice, ultima aggiunta della Collettività.

 

   Tornate in plancia dopo il tour de force nel plesso centrale, Terry e Zafreen videro che la Zhat Vash era rientrata nella Sfera. «Rapporto» ordinò l’IA. «Le Narada sono disattivate, perché ci siamo allontanati?».

   «Giudichi lei stessa. Visuale di poppa» ordinò Chaltak, scuro in volto. Il cubo Borg apparve sullo schermo, parzialmente visibile attraverso l’ingresso sfondato.

   «Frell! Dalla padella alla brace!» gemette Zafreen, facendo un balzo indietro. «Ma... siamo sicuri che sia vero?» chiese, ricordando l’ologramma nel Cimitero di Romulus.

   «Al cento per cento. I Borg hanno già abbordato le navi imperiali» riferì il Comandante. «Avevo inviato una squadra sulla Valkis, per catturare l’Imperatrice, ma l’attacco è fallito. All’arrivo dei Borg ho richiamato i superstiti».

   «Quindi Sela è rimasta a bordo?» si allarmò Terry.

   «Temo di sì» disse Chaltak. «Dubito che sfuggirà ai Borg».

   La proiezione isomorfa valutò la possibilità di tornare indietro, per sottrarla all’assimilazione, e la scartò in quanto inattuabile. «Dobbiamo andarcene subito» disse. «Dov’è la Keter?».

   «Ancora alle prese col Moloch» rispose il Comandante, consultando una consolle. «No, mi correggo: viene verso di noi».

 

   La Keter era messa a mal partito dopo la lunga battaglia con il Moloch. Vrel aveva approfittato delle eruzioni solari per tenere il nemico a distanza, guadagnando tempo, ma ormai gli scudi stavano per cedere. Vedendo che la Zhat Vash era rientrata nella Sfera, il Capitano Hod ordinò di andarle incontro, sperando nel suo aiuto. La nave federale lasciò la fotosfera e diresse verso gli alleati a massimo impulso. Aveva coperto metà della distanza quando si arrestò: i sensori avevano rilevato la presenza dei Borg. Anche il Moloch, che la inseguiva, si fermò nello stesso momento, poche migliaia di chilometri più indietro.

   Entrambi i Capitani fissarono il Cubo incorniciato nell’ingresso, avvertendo un senso di rovina incombente. Era da due anni che attendevano quel momento, ovvero da quando avevano incontrato la Collettività durante la missione nel Quadrante Delta. In quell’occasione i Borg avevano dimostrato di non aver perso le cattive abitudini. Pur non essendo riusciti ad assimilare la Keter, avevano lasciato intendere di essere ancora interessati ai popoli federali e i loro vicini.

   «Ci siamo» mormorò Hod. «È il momento che aspettavamo. E la Guerra Civile ci ha impedito di prepararci».

   «Forse sono state le Narada ad attirarli» suggerì Norrin. «Ai Borg non piace che altri usino la loro tecnologia. Può darsi che se gli diamo la Zhat Vash c’ignorino».

   «Gliela consegnerei anche, ma ci sono i nostri su quella nave» disse il Capitano. «State pronti col teletrasporto. Appena abbassano gli scudi, dobbiamo prenderli tutti... prima che lo facciano i Borg».

 

   Mentre osservava la Keter sullo schermo, Terry immaginò gli ordini che il Capitano impartiva in quel momento. Poteva quasi sentirla, tanto era certa d’intuire il suo piano. Restava da vedere se i Borg si sarebbero accontentati della Zhat Vash e delle altre Narada. I precedenti non erano incoraggianti. E c’era un altro problema: il Moloch. Quella nave infernale era ancora lì, a poca distanza dalla Keter. Se abbassavano gli scudi per consentire il teletrasporto, ne avrebbe approfittato per distruggerli.

   «Che facciamo?» sussurrò Zafreen, intuendo il problema. «Dimmi che hai la soluzione... ce l’hai sempre...».

   Terry abbozzò un sorriso. In mezzo a tanti disastri, la confortava vedere che l’Orioniana, con cui non era propriamente in buoni rapporti, si affidava a lei. «C’è una sola cosa da fare» disse, facendosi avanti con decisione. «Presto, datemi il timone».

 

   Sotto lo sguardo inquieto dei federali, la Zhat Vash riattivò i motori a impulso e schizzò in avanti. Passò accanto alla Keter senza rallentare e puntò dritta contro il Moloch.

   «Ma che gli prende?» mormorò Radek, vedendo la nave irsuta che gli veniva addosso.

   «Dobbiamo aprire il fuoco» lo pressò il Primo Ufficiale.

   «No, non possono essere così folli» disse il Rigeliano. «Si fermeranno o ci passeranno oltre...».

   Ma la Zhat Vash non si fermò e non cambiò traiettoria. Vedendola sempre più grande, Radek cedette: «Distruggetela!».

   Il Moloch aprì il fuoco con i potenti cannoni a impulso, ma la Zhat Vash aveva concentrato l’energia negli schermi anteriori. L’astronave resistette ai colpi e proseguì l’attacco, fino a impattare contro il Moloch. Solo negli ultimi secondi Terry aveva ridotto la velocità. Anche così, l’urto fu violentissimo. Entrambi gli equipaggi furono scaraventati contro le pareti. Le consolle si schiantarono, i condotti scricchiolarono e parecchi sistemi andarono in avaria. Ma non i propulsori.

   Ci volle qualche secondo prima che i Pacificatori si riavessero, e in quel lasso di tempo il destino della battaglia fu segnato. Ai comandi della Zhat Vash, Terry ordinò alla nave di riconfigurarsi. I lunghi aculei anteriori si piegarono come zampe di ragno, abbarbicando il Moloch. Lo strinsero da ogni lato, così che i Pacificatori non potessero liberarsi con alcuna manovra.

   Sulla sua plancia, Radek si rialzò dolorante, solo per vedere la nave-ragno che li agguantava. «Maledizione, dobbiamo liberarci! Fuoco a volontà!» ordinò.

   Il Moloch tornò a sparare, indebolendo gli scudi romulani. Ma nel frattempo la Zhat Vash aveva azionato al massimo i propulsori. In tal modo spinse i Pacificatori all’indietro. Le due navi, così abbarbicate da comportarsi come un unico vascello, presero sempre più velocità.

   «Dove ci portano?» chiese Radek, con un orribile sospetto.

   «Verso... verso la stella» rispose il timoniere.

   «Applichi una spinta contraria».

   «Ci sto provando, ma i loro propulsori sono più potenti dei nostri».

   «Allora usi quelli laterali per cambiare la traiettoria».

   «Sto tentando anche questo, ma si adattano in fretta. Si direbbe che usino il computer per correggere la rotta».

   «Terry» comprese Radek. Doveva esserci l’Intelligenza Artificiale dietro quel folle piano per arrostirli nel sole. «Continuate a sparare, dobbiamo spazzarli via!» ordinò.

   Il Moloch colpì a raffica, indebolendo gli scudi anteriori della Zhat Vash. Ma gli scudi posteriori erano già stati abbassati da Terry, per consentire alla Keter di salvare l’equipaggio. E la Keter non si fece sfuggire l’occasione. Poiché sulla nave imperiale c’era solo il personale essenziale, bastò mezzo minuto per teletrasportare tutti, a eccezione di Terry, ancora al timone.

   La proiezione isomorfa si accorse che la Zhat Vash tremava ed era sempre più riottosa ai comandi. Il fuoco intenso e continuo del Moloch cominciava a danneggiarla. Era difficile mantenere la rotta, ma l’IA tenne duro: ormai il sole era vicino. La sua luce intensa arrossò la plancia e le eruzioni di plasma salutarono le astronavi avvinghiate.

   La Zhat Vash cominciò a perdere pezzi. Gli aculei si staccavano sotto i colpi del Moloch e restavano indietro, scintillando nella corona solare. Mancava poco. I sistemi cedevano, gli allarmi si sovrapponevano e tutto il vascello tremava nell’agonia, ma Terry restò al timone, concentrandosi esclusivamente sulla guida. Non si mosse nemmeno quando un condotto esplose alle sue spalle, riversando gas tossici nella plancia abbandonata. Ecco, erano nella fotosfera. Lo scafo indebolito della Zhat Vash cominciò a fondersi. Il Moloch, invece, era ancora protetto dagli scudi. Ma non poteva fermare quella corsa verso l’annientamento.

   «Attenzione, falle multiple nello scafo. Integrità strutturale compromessa» avvertì il computer.

   «Terry a Keter, energia» ordinò l’IA, premendosi il comunicatore. Era un azzardo, perché le radiazioni solari di quella intensità interferivano con il teletrasporto. Infatti il raggio l’avvolse a lungo, talora indebolendosi, mentre i colleghi della Keter cercavano di avere un aggancio migliore. Terry vide la plancia della Zhat Vash sparire e riapparire più volte attorno a lei. Nei momenti in cui tornava a bordo, sentiva gli allarmi del computer.

   «Rottura del nucleo imminente... evacuare la nave...».

   Dalla Keter le due navi avvinghiate erano ormai invisibili, sprofondate nella fotosfera. Solo quando la Zhat Vash esplose si vide un lampo bianco. L’onda d’urto si allargò nel plasma arancione per migliaia di chilometri, prima che l’incessante attività solare la cancellasse.

 

   Sulla plancia della Keter c’era un silenzio di tomba. Tutti fissavano la stella che riempiva lo schermo, incapaci di articolare parola. La prima a cedere fu Zafreen. «Oh, Terry!» singhiozzò. «Era la migliore tra noi... e non gliel’ho mai detto!» si disperò.

   «Me l’hai detto ora» disse una calda voce alle sue spalle, accompagnata da una mano che le sfiorava gentilmente la spalla.

   Zafreen si voltò: Terry era davanti a lei. «So che il tuo mainframe è qui a bordo» balbettò. «Ma la Terry che è venuta in missione con noi...».

   «Si è salvata; ho già eseguito il reintegro» la rassicurò l’IA. «A proposito, non mi sono ancora congratulata per come hai tenuto aperto il canale subspaziale, mentre io e Dib entravamo nella rete» disse, mostrando di ricordare la missione.

   «Ehm... è tutto molto toccante, ma avete scordato che là fuori c’è un cubo Borg?» chiese Vrel, additando lo schermo. Il Cubo manteneva la posizione davanti all’ingresso sfondato.

   «Tutto dipende da qual è la loro missione» disse Terry. «Se i Borg sono qui solo per recuperare la loro tecnologia, hanno finito. Se invece hanno voglia di assimilare... allora siamo nei guai» ammise. La Keter aveva gli scudi al lumicino: non poteva affrontare un Cubo Tattico.

   Trascorsero alcuni interminabili minuti, nei quali il Cubo analizzò l’interno della megastruttura. Quando ebbe finito, cominciò a lanciare dei siluri... contro le Narada. Nel giro di un minuto le aveva distrutte tutte. Infine ruotò sul suo asse e schizzò via a transcurvatura, come se avesse faccende più importanti da sbrigare.

 

   Con la partenza dei Borg, la tensione in plancia si allentò. «Stasera, tequila per tutti... offro io» disse Zafreen.

   «Non è ancora finita» avvertì il Capitano. «Tutti ai propri posti. Controlliamo se ci sono superstiti tra gli Imperiali».

   La Keter uscì dalla Sfera ed esaminò i resti delle Narada. Non c’era molto: i vascelli erano stati disintegrati. Navette e capsule di salvataggio erano state in gran parte catturate dai Borg, anche se i sensori ne rilevarono alcune in fuga. In compenso Zafreen rilevò dei superstiti che si erano rifugiati nelle cavità del guscio. Il Capitano ordinò di catturarli. «Li interrogheremo per farci un’idea di cos’è successo a Sela» spiegò. «E quando li restituiremo allo Stato Imperiale, testimonieranno che la loro sovrana ha risvegliato i Borg. Chissà che gli Imperiali non si diano una calmata».

   Fatto questo, la Keter rientrò nella Sfera e contattò la Catena Cremisi. «Ah, eccovi qui! Complimenti per la magnifica vittoria!» salutò Arvid.

   «Così sembra» disse Hod, più misurata. «Ma questa battaglia avrà conseguenze difficili da prevedere. Ora che i Borg sono tornati, può succedere di tutto. In ogni caso voi non potete restare. I Pacificatori sanno che vi nascondete qui e verranno a prendervi».

   «Il Moloch è distrutto» obiettò il Risiano.

   «Potrebbe aver contattato i Pacificatori» avvertì l’Elaysiana. «Questo non è più un nascondiglio sicuro».

   «Uhm, temo di no» ammise Arvid a malincuore. «Che peccato, però. Tutta questa superficie... milioni e milioni di pianeti abitabili... tornerà vuota. Che spreco!».

   «Un giorno questa sciagurata guerra finirà, e allora... chissà» disse Hod.

   «Già, chissà» convenne il vecchio scienziato. «Le rimando il signor Dib e gli altri, non abbiamo più motivo di trattenerli. L’evacuazione comincia subito. Abbiamo navicelle a sufficienza, ma per quanto riguarda i malati che avete preso in cura... potreste tenerli, per adesso?».

   «Possiamo» acconsentì il Capitano. «Ci rivedremo al punto d’incontro, per consegnarvi i guariti. A presto».

 

   Il ritorno di Dib fu festeggiato dai colleghi, ma il Penumbrano, schivo come al solito, se ne tornò subito in sala macchine. A vederlo non si sarebbe mai detto che aveva appena portato a termine uno dei più difficili sabotaggi informatici mai compiuti dalla Flotta Stellare.

   Nel frattempo la Catena Cremisi avviò l’evacuazione della Sfera. Migliaia di navicelle lasciarono la superficie del mondo cavo, stipate di perseguitati che ora dovevano trovarsi un’altra casa. Le operazioni furono rallentate dal fatto che non tutti volevano lasciare quel luogo, dopo aver speso mesi o perfino anni a renderlo più vivibile. Ci furono anche scontri per accaparrarsi le navette migliori. Alcune, che erano state mezze smontate per riciclarne i componenti nelle abitazioni, furono abbandonate. Altre, che non volavano da tempo, ebbero problemi a decollare.

   «Che spettacolo...» disse Zafreen, zoomando l’inquadratura. Navette d’ogni foggia e misura stavano lasciando la megastruttura, riunendosi in convogli. Per facilitare le cose, Arvid aveva aperto centinaia d’ingressi. I convogli si diressero a quelli più vicini, in un immane esodo. I federali osservarono con emozioni ambivalenti. Al sollievo per aver salvato tutte quelle persone si univa l’apprensione per il loro destino. E c’era la domanda di fondo, a cui nessuno sapeva rispondere: la vita dei rifugiati sarebbe sempre stata così? Una serie di fughe da un nascondiglio all’altro, in posti sempre più lontani e precari, senza mai essere davvero al sicuro? Le persecuzioni dell’Unione avrebbero mai avuto fine?

   Queste riflessioni furono bruscamente interrotte quando Zafreen rilevò un segnale in avvicinamento. «Allarme di prossimità, arrivano i Pacificatori!» avvertì.

   «Da quale ingresso?» chiese Hod, guardando gli innumerevoli portali aperti.

   «Da nessuno. Il segnale è dietro di noi... è il Moloch!».

   Il vascello nero uscì dal plasma incandescente, come un demonio sputato dall’Inferno. Aveva lo scafo graffiato e il deflettore di navigazione infranto, ma nel complesso era ancora integro. Alla sua vista i federali furono presi dallo sconforto. Se l’esplosione della Zhat Vash a distanza ravvicinata non era bastata a distruggerlo, cosa lo avrebbe fatto?

   «Yotz, non ce ne libereremo mai?!» imprecò Vrel. «Sono conciati male... attacchiamoli e facciamola finita!».

   «Anche i nostri scudi sono ancora deboli» avvertì Terry.

   Hod ebbe un attimo d’esitazione, divisa tra il desiderio di chiudere i conti col Moloch e il timore che un’altra battaglia fosse fatale per loro. In quella giunse una chiamata dalla Catena Cremisi: «Arvid a Keter, scortate il convoglio principale fuori da qui. Noi ce la caveremo».

   «Ne è certo?» chiese il Capitano.

   «Andate, ho detto... buona fortuna». Il Risiano chiuse la comunicazione.

   Hod guardò il convoglio in fuga. Molte di quelle navicelle erano vecchie e malmesse; non avrebbero mai resistito al Moloch. «Faremo come ci ha chiesto» decise.

   Vrel borbottò qualcosa, ma eseguì. La Keter si mise in coda al convoglio, che dirigeva verso una delle uscite più grandi. I convogli minori avevano già lasciato la Sfera; gli ingressi si richiusero dietro di loro. Quello era l’ultimo.

   Il Moloch era sempre più vicino. Appena fu a distanza di tiro sparò con i cannoni anteriori. Il suo bersaglio erano le navicelle in fuga. Una di esse, colpita in pieno, fu vaporizzata.

   «Assassini!» sibilò Hod. «Vrel, ci tenga il più possibile in mezzo. Terry, estenda al massimo gli scudi».

   Gli ufficiali eseguirono, anche se estendere così tanto gli scudi significava indebolirli. Per fortuna le navette stavano già varcando l’uscita. Emersero come uno sciame d’api e appena fuori si divisero, così che il Moloch non potesse inseguirle tutte. Subito il portone cominciò a richiudersi, nel tentativo di proteggerle. Ma la Keter doveva ancora passare.

   «Vrel...» fece il Capitano.

   «Ci sono» disse il timoniere, con la fronte imperlata di sudore. Girò la Keter di 90°, così da passare con il lato più sottile dell’astronave nel varco sempre più stretto. Nello stesso momento Terry rese gli scudi di nuovo aderenti. Il portale stava per serrarsi, le stelle svanivano...

   Con un ultimo sforzo dei motori, la Keter eruppe all’esterno della Sfera. Dietro di essa, il portale si sigillò, costringendo il Moloch a sterzare ad angolo retto per evitare un impatto fatale. La nave dei Pacificatori sorvolò un tratto di deserto a bassissima quota. Infine emerse dalle nubi solforose, come una belva privata della sua preda.

   «Possiamo distruggere il portale, o sfruttare uno di quelli già sfondati...» suggerì il Primo Ufficiale.

   «Negativo, ci metteremmo troppo tempo» obiettò Radek. «Per allora i ribelli si saranno dileguati».

   «Ma allora...».

   «Rotta verso il settore 9947-B» decise il Rigeliano. «Attaccheremo il quartier generale della Catena».

 

   La caccia ai ribelli fu breve, dato che ormai ne restavano pochi. Il centro di comando cadde facilmente, ma come previsto tutti i dati riguardanti la Catena Cremisi erano stati cancellati dai computer. I Pacificatori cercarono Arvid e ben presto lo trovarono. Il vecchio Risiano non stava cercando di scappare e non si nascondeva nemmeno. Era salito in superficie, all’ombra dell’ultimo statite. Aveva con sé un inibitore di teletrasporto che impediva al Moloch di agganciarlo, ma a parte questo non sembrava volersi sottrarre alla cattura.

   Radek volle arrestarlo di persona, accompagnato da una squadra della Sicurezza. Per evitare brutte sorprese, andarono provvisti di tute ambientali. Il Rigeliano impugnava il phaser, mentre i suoi agenti avevano i fucili phaser. Si teletrasportarono appena oltre il raggio dell’inibitore, poche centinaia di metri, e andarono dritti contro Arvid.

   Il Risiano li attendeva comodamente seduto su una sdraio. Aveva gli occhiali da sole e sorseggiava un cocktail con l’ombrellino. «Benvenuti nel mondo cavo!» li accolse in tono affabile.

   «Signor Arvid, lei è in arresto, in nome...» cominciò Radek.

   «... della legge, sì, sì, lo so» fece il vecchio, agitando la mano con noncuranza. «Mi risparmi la solfa e si goda il panorama. È magnifico, vero? Ci sono giorni in cui non farei altro che ammirarlo. Per carità, i tramonti di Risa sono splendidi... ma questo è un mondo dove il Sole non cala mai! Con gli statiti, speravo di renderlo nuovamente abitabile».

   «Forse un giorno sarà possibile» disse il Rigeliano. «Ora però deve venire con me».

   «No grazie, preferisco restare».

   «Andiamo, non renda la cosa ancora più spiacevole...».

   «No, dico sul serio, io resto. Guardi là». Arvid indicò l’orizzonte, dove qualcosa si muoveva. L’atmosfera solforosa, non più trattenuta dai campi di forza, si stava riversando nell’oasi. Al tempo stesso anche lo statite si ripiegava, permettendo all’accecante radiazione solare di correre verso di loro.

   «Lei è senza tuta... morirà!» lo avvertì Radek. «Spenga l’inibitore, così la salveremo!».

   «No» disse Arvid, e sorbì il cocktail. «Ho vissuto abbastanza. Preferisco andarmene con questo mondo morente, piuttosto che vivere nella vostra utopia».

   «Se tutti i delinquenti facessero come lei, la mia vita sarebbe molto più facile» borbottò il Rigeliano, arretrando di un passo. L’atmosfera venefica era sempre più vicina.

   Il Risiano posò il cocktail e si alzò. «Ricordi che furono i Proto-Umanoidi a costruire tutto questo» disse, facendo un ampio gesto. «Un giorno potrebbero tornare e chiedervi il conto delle vostre azioni». Alzò le braccia, come ad accogliere la morte che gli veniva incontro. L’attimo dopo i gas tossici e incandescenti lo spazzarono via. I Pacificatori, pur appesantiti dalle tute, dovettero piegarsi sulle ginocchia per non essere gettati a terra. Barcollando in mezzo alle folate, si allontanarono, finché il teletrasporto poté riportarli sul Moloch.

   «Vi è sfuggito» notò il Primo Ufficiale con disappunto. Questo impediva di localizzare le altre basi della Catena Cremisi.

   «È morto per sua scelta» spiegò Radek, mentre si toglieva la tuta con l’aiuto di un inserviente. «Era una di quelle persone che non sanno adattarsi al progresso».

 

   La Keter viaggiava verso il punto d’incontro con la Catena Cremisi. Anche se la battaglia poteva dirsi vinta, non ci furono festeggiamenti. L’apparizione dei Borg gettava un’ombra cupa sul futuro, aggiungendosi ai drammi della Guerra Civile e dell’espansione romulana.

   Quella sera si tenne una commemorazione in memoria dei caduti. La folla si riunì nell’hangar, l’unico ambiente tanto vasto da accoglierla. Oltre all’equipaggio, infatti, c’erano i pazienti salvati nella Sfera di Dyson. Quando ci furono tutti, la nave scese a velocità subluce. Il portone dell’hangar si sollevò, mostrando le stelle; a trattenere l’atmosfera provvedeva il campo di forza. In quella cornice suggestiva, il Capitano Hod parlò della necessità di non arrendersi, anche quando pareva che tutta la Galassia fosse contro di loro.

   «Di tutti gli amici che abbiamo perso di recente, vorrei ricordare in particolare la giovane V’Lena, dell’ordine Qowat Milat» concluse il Capitano. «Nella sua breve permanenza a bordo ha lasciato il segno, salvando molti di noi. Purtroppo non posso dire di averla conosciuta a fondo; me n’è mancato il tempo. Ma una cosa credo di averla capita. V’Lena era una di quelle persone che credono fermamente in un ideale di giustizia e lottano fino all’ultimo per affermarlo. Anche se la sua vita è stata troncata prematuramente, io... io credo che il suo esempio abbia appena cominciato a vivere. Portiamolo nel cuore per tutti i giorni a venire. Facciamo che il suo coraggio e la sua sincerità continuino a vivere in ciascuno di noi. In libertà».

   Il pubblico si disperse in piccoli gruppi; i membri dell’equipaggio tornavano al lavoro, mentre i passeggeri andavano in infermeria o agli alloggi loro assegnati. Si alzò un fitto chiacchiericcio, che divenne un brusio di sottofondo. In quella confusione, Zafreen andò in cerca di Terry. La trovò presso il campo di forza: la proiezione isomorfa osservava il firmamento, con le braccia incrociate dietro la schiena.

   «Ehm, tutto bene?» chiese l’Orioniana, affiancandosi.

   «Più o meno» si riscosse l’IA. «Posso fare qualcosa?».

   «Volevo solo dirti che avrai il mio rapporto missione entro sera» disse Zafreen, che in altre occasioni era stata redarguita per averlo consegnato in ritardo. «Inoltre in questi giorni mi sono fatta trasmettere da Arvid i dati sugli statiti e sugli habitat sottostanti. Così, se mai la guerra dovesse finir bene, la Flotta potrà riprendere gli sforzi di terraformazione».

   «Grazie della premura; ci sono scienziati che apprezzeranno quei dati» disse Terry. «Ma lascia stare il rapporto, puoi scriverlo quando vuoi» aggiunse inaspettatamente. «Riposati, magari prenditi una giornata libera. Te lo sei meritato. Hai fatto un ottimo lavoro sulla Zhat Vash. In effetti credo di dovermi scusare per la pressione a cui ti ho sottoposta negli ultimi giorni. Ti accusavo d’essere meno efficiente dei colleghi, ma ripensandoci, forse sono io che non riesco a rassegnarmi al cambio di mansioni».

   Zafreen rimase impressionata da quella confessione. «Grazie... non mi aspettavo una cosa del genere» farfugliò.

   «Perché no?».

   L’Orioniana distolse lo sguardo, fissando le stelle. «Io... ho sempre pensato che tu non avessi molta stima di me» ammise. «Beh, la maggior parte dei miei colleghi non ce l’ha. Ma tu in particolare... sei sempre così perfetta! Così inumanamente perfetta. Non c’è mansione a bordo che non sapresti ricoprire. Mi fai sentire ancora più stupida e inutile».

   «Mi spiace se in alcune occasioni ho dato l’idea di volerti mettere in ombra» disse l’IA. «Siete un equipaggio affiatato; quando sono salita a bordo non volevo certo scombinare i vostri equilibri».

   «Lo so... ed è per questo che sono così arrabbiata. Perché è vero che sapresti fare il mio lavoro meglio di me!» si sfogò Zafreen, sempre guardando lo spazio.

   «Sì, è vero... perché sono stata programmata per farlo. Ma ci sono momenti in cui rinuncerei a tutto, pur di essere Organica» rivelò Terry.

   L’Orioniana si girò verso di lei, al colmo dello stupore. «Scherzi? Tu sei superiore a noi sotto ogni aspetto! Non hai bisogno di mangiare, bere, dormire. Non ti dimentichi le cose e non fai errori di distrazione. E poi... vivrai chissà quanto, sempre giovane e bella» aggiunse con una punta d’invidia.

   «Io non vivo... perché non sono un essere vivente» disse piano l’IA.

   «Oh, andiamo!» sbottò Zafreen. «Sei una proiezione isomorfa che imita una persona fino al livello cellulare! Certo che sei viva!».

   «Hai detto bene... io imito una persona. Ma resto una simulazione computerizzata, gestita da un programma» puntualizzò Terry. «Se qualcuno lo manipola, può alterare il mio aspetto e il mio carattere. Può farmi dimenticare ciò che sapevo e farmi cambiare opinione su ciò che so».

   «Beh, anche noi Organici possiamo essere manipolati. Anzi, direi che rispetto a te siamo ancora più facili da influenzare» insisté l’Orioniana, che non riusciva proprio a vedersi come la privilegiata fra loro due.

   «Ma almeno siete responsabili dei vostri traguardi» insisté l’IA. «Se fate una buona azione, è perché l’avete scelto. Io invece sono stata programmata già con tutte le nozioni necessarie per svolgere il mio incarico, e posta in servizio su una nave stellare senza aver fatto nulla per meritarlo».

   Zafreen ragionò per qualche attimo. «Mi sembra che te lo sia meritato eccome, dopo di allora» argomentò. «Comunque noi Organici siamo responsabili anche dei nostri fallimenti, e non è piacevole».

   «Accetterei volentieri d’essere responsabile dei miei insuccessi, se in cambio potessi gioire delle mie vittorie».

   «Non sapevo che tu avessi avuto degli insuccessi» si stupì l’Orioniana.

   «Ne ho avuti eccome» sospirò l’IA. «E ancora mi chiedo se avrei potuto agire diversamente o se seguo un binario programmato. Sai, io t’invidio».

   Zafreen rimase di stucco. «Tu... invidi me?!».

   «Sì, perché sei figlia di un boss del Sindacato di Orione e potevi approfittarne per fare la bella vita. Invece hai abbandonato quell’ambiente, hai studiato in Accademia e ti sei guadagnata un posto nella Flotta Stellare. Hai superato la tua... programmazione di base e ti sei data nuovi scopi, scelti da te» disse Terry, estatica. «E poi... hai trovato l’amore» sussurrò.

   «Tu... non lo conosci?».

   «Lo conobbi una volta, tanto tempo fa» rivelò la proiezione isomorfa. «Anche lui era una sorta d’Intelligenza Artificiale, ma il nostro idillio fu breve. Lui si sacrificò per salvarci e io rimasi sola. Da allora non ho più amato nessuno».

   «Mi dispiace... ma almeno hai tanto tempo a disposizione, visto che non invecchi. Puoi sempre sperare in un futuro migliore» la incoraggiò Zafreen.

   «Coi nemici che avanzano da ogni parte, mi riesce difficile sperare» disse Terry, fissando desolata il pavimento.

   «É una delle cose che facciamo noi Organici, per irragionevole che sia. Se vuoi essere come noi, dovresti imitarci anche in questo» consigliò l’Orioniana. Fece per andarsene, ma dopo i primi passi indugiò. «Comunque secondo me hai superato la tua programmazione, e di parecchio. Non ti saresti unita a noi ribelli, altrimenti».

   «Continuo a chiedermi se... se sia sufficiente, per avere un’anima» sussurrò l’IA, fissando lo spazio trapunto di stelle.

   «Ci sono frotte di Organici che passano tutta la vita senza porsi minimamente queste domande. Per quanto mi riguarda, tu hai molta più anima di loro» la rincuorò Zafreen. Dopo di che si ritirò, lasciando Terry alle sue riflessioni.

 

   Quattro giorni dopo la Keter raggiunse il rifugio della Catena Cremisi, un planetoide nell’Ammasso di Hromi. I capi locali dell’organizzazione non furono affatto contenti di sapere che a causa dei federali il loro rifugio nella Sfera di Dyson era stato scoperto. Non si calmarono nemmeno quando Hod gli spiegò che, grazie a quell’operazione, l’espansione dello Stato Imperiale era stata fermata. Ci furono momenti di tensione, nei quali la Keter fu circondata dalle navicelle della Catena, pronte a far fuoco. Solo quando i miliziani si accorsero che non l’avrebbero spuntata contro la nave della Flotta accettarono di patteggiare. La Keter sbarcò i passeggeri, salvo alcuni pazienti, che Ladya volle trattenere per accertamenti. A quel punto i federali dovettero andarsene, con la solenne promessa di non tornare. Mentre si allontanavano, Hod pensò che con ogni probabilità non avrebbero mai più collaborato con la Catena, anzi non era da escludere un futuro antagonismo.

   Altri due giorni di viaggio portarono la Keter nel cuore della Nebulosa Azzurra, dove le ferite della battaglia erano ancora fresche. I rimorchiatori stavano sgombrando l’orbita dai detriti, prima che precipitassero sul pianeta. I cantieri spaziali erano pieni di navi danneggiate e gli ospedali a terra traboccavano di feriti. Con enorme sollievo, Vrel riconobbe la Constellation e la Sha Ka Ree, le navi dei suoi genitori. Ma la sorpresa più grande furono i vascelli Remani. Gli ufficiali della Keter non credevano di avere smosso quella specie isolazionista e orgogliosa.

   «È bello vederla qui» disse Hod, quando ebbe Obiruk sullo schermo. «Mi hanno informata che il vostro intervento è stato decisivo. Spero che questa collaborazione possa continuare».

   «Deve, ora che siamo entrati in guerra» disse il Pretore. «Ci siamo già accordati per l’acquisto di mine e piattaforme difensive per proteggere il nostro mondo. La rappresaglia dello Stato Imperiale non si farà attendere».

   «Non è detto» avvertì Hod. «Sono successe cose che potrebbero sconvolgere i piani degli Imperiali».

   «Suppongo che c’entrino con la missione che vi ha tenuti lontani, e con la paralisi che ha colto le Narada nel momento decisivo» commentò il Remano.

   «Riferirò tutto alla riunione» disse il Capitano. «Per ora posso dirle solo che ci sono altre fazioni in gioco».

   «Uhm... e che mi dice della giovane V’Lena, è ancora con voi? Il suo atto eroico sul nostro pianeta ha influito non poco sulla nostra decisione di schierarci» rivelò il Pretore.

   A quelle parole, Hod ebbe come una fitta. «Sorella V’Lena è tra le vittime della battaglia» disse. «Se quest’alleanza è anche merito suo, allora è una ragione in più per tenerla viva. Facciamo che sia la sua eredità».

 

   Quel giorno stesso, appena ne ebbe la possibilità, Vrel si recò sulla Constellation. La nave era stata seriamente danneggiata, per cui l’avevano messa in cantiere. Ovunque c’era un viavai di tecnici intenti alle riparazioni; le loro voci si sovrapponevano al suono dei saldatori e degli altri strumenti, formando un continuo brusio.

   Ad attenderlo in sala teletrasporto c’erano i suoi genitori. L’incontro fu commosso: lo abbracciarono entrambi, prima T’Vala e poi Lantora. «Oh, Vrel!» esalò la mezza Vulcaniana, stringendolo forte. «Quando non ho trovato la Keter al punto d’incontro, ho temuto il peggio».

   «Ci sono capitati parecchi imprevisti» ammise il timoniere. «Ma abbiamo trovato anche degli alleati inaspettati, e Terry è stata straordinaria. Comunque la missione è stata dura; anch’io ero in pensiero per voi» aggiunse, rivolto a entrambi i genitori.

   Andarono nell’alloggio di Lantora, dove poterono parlare liberamente, raccontandosi le ultime vicissitudini. Quando ebbe finito, Vrel chiese ai genitori se avevano notizie della Stella del Polo e di Jaylah.

   «Ancora niente» rispose il padre. «L’Unione accusa i corsari di rapire i Terrestri che vengono deportati nelle colonie... è senz’altro una manovra per screditarli. Forse cercano anche di attirarli in un’imboscata. Ho inviato uno dei miei agenti migliori a investigare sulla faccenda, ma ancora non ha fatto rapporto. Spero che si faccia sentire al più presto».

   Lo Xindi non disse che era stata Lyra ad accusare la banda dello Spettro. Per tutto il tempo che la famiglia passò insieme, la figlia minore non fu mai nominata. Non c’era motivo di aggiungere quel dolore ai tanti che già avevano.

   «Ti andrebbe di cenare con noi, stasera?» propose T’Vala, non volendo che il figlio ripartisse subito.

   «Volentieri» disse Vrel. «Che ne dite se viene anche Zafreen? Così la conoscerete un po’».

   I genitori si scambiarono un’occhiata. Non erano contentissimi della sua relazione con l’Orioniana, che ai loro occhi appariva un po’ fatua. Ma dopo che avevano temuto per la sua vita, questo era l’ultimo dei problemi.

   «Volentieri» disse T’Vala. «Era da tanto che aspettavamo l’occasione, vero?» disse, lanciando un’occhiata obliqua al marito, per invitarlo ad assentire.

   Per un attimo Lantora sembrò fare resistenza, ma poi si rasserenò. «Certo» disse. «Se ti sta così a cuore, allora è di famiglia».

 

   Tre giorni dopo una flotta federale, rinforzata da Falchi romulani e remani, lasciò il pianeta e giunse ai margini della Nebulosa Azzurra. Un uguale numero di Falchi dello Stato Imperiale le venne incontro, fermandosi a qualche centinaio di chilometri. Le due flotte, entrambe malmesse, si fronteggiarono per parecchi minuti. Poi dalla Keter uscirono alcune navette, che diressero verso gli Imperiali. Altrettante navicelle uscirono dalla Tal’aura, la nave di Oren, e mossero verso i federali. I due gruppi s’incrociarono a metà strada, proseguendo fino a raggiungere gli schieramenti opposti.

   «Aprire un canale con la Tal’aura» ordinò Hod.

   Oren apparve sullo schermo. Indossava ancora la divisa da Pretore, sebbene questa non fosse una prova decisiva sulla sorte dell’Imperatrice. «Pensavo che sarebbe stato Lantora a gestire questo scambio d’ostaggi» esordì.

   «Il Commodoro mi ha affidato la missione, dato che è stata la mia nave a prendere i prigionieri» rispose Hod. Non rivelò che la Constellation e la Sha Ka Ree erano troppo danneggiate per occuparsene. «Sono settantaquattro, tutti quelli che abbiamo potuto salvare dai Borg».

   «E io gliene mando altrettanti, scelti tra quelli catturati nella Riconquista» garantì Oren. Naturalmente si trattava di marinai di basso grado; gli ufficiali se li erano tenuti. Tuttavia era notevole che il Pretore avesse accettato uno scambio alla pari. Tradizionalmente lo Stato Imperiale pretendeva scambi diseguali a proprio favore, anche in proporzione di uno a dieci. Ma stavolta Oren doveva recuperare tutti i propri ostaggi, per interrogarli in merito ai Borg.

   Hod dette una rapida occhiata a Zafreen, che annuì, a conferma che i federali liberati erano nel numero convenuto. «Bene; i vostri prigionieri sono stati trattati dignitosamente, secondo le norme di guerra» disse il Capitano. «Penso che troverà esaurienti le loro testimonianze su ciò che è accaduto presso la Sfera di Dyson. Ma c’è una questione di cui voglio parlare anch’io: la sorte della vostra Imperatrice».

   Il Pretore s’irrigidì. «Di questo non discuterò» disse.

   «Deve farlo, se le è cara la vita!» lo richiamò Hod. «Sela è scomparsa dopo che i Borg hanno abbordato il suo vascello. Se non è ancora tornata da voi, significa che l’hanno assimilata. Ciò vuol dire che la Collettività ha appreso tutte le sue conoscenze, incluse quelle di natura militare. I Borg vi conoscono, Pretore! Sanno come aggirare i vostri punti di forza e come sfruttare le vostre debolezze. Dunque vi invaderanno; ed è probabile che lo facciano in grande stile, con più vascelli».

   «Che ne sa lei, di cosa faranno i Borg?» fece Oren, ma sotto il tono sprezzante si avvertiva la paura.

   «Io e il mio equipaggio li abbiamo incontrati nel Quadrante Delta» spiegò il Capitano. «Hanno ripreso le campagne d’assimilazione, con la differenza che si sono fatti furbi. Ora non si limitano a fare da bersaglio, sperando di adattarsi; sanno pianificare delle strategie per vincere con le minori perdite possibili. Se fossi in lei, sospenderei la Riconquista e penserei a fortificare il confine».

   «Certo, è a questo che vuole indurmi» borbottò il Pretore. «Lo sa che abbiamo altre Narada in cantiere? Non ci vorrà molto, prima che siano pronte; e allora potrò reiterare l’attacco».

   «E correre il rischio di attirare di nuovo i Borg? Ci pensi bene. Sela ha usato le Narada e i droni l’hanno assimilata. Se lei seguirà le sue orme, farà la stessa fine» ammonì Hod.

   Il Pretore tacque per lunghi secondi. Infine parlò, in tono sbrigativo: «I pianeti che abbiamo reclamato fanno di nuovo parte dello Stato Imperiale, quindi li difenderemo da qualunque aggressore, che siano i Borg oppure voi. E non crediate che siamo a corto di navi. Anche mettendo da parte le Narada, abbiamo un’efficiente flotta di Falchi da Guerra. Questo è il nuovo status quo; vi consiglio di accettarlo. Oren, chiudo».

   La flotta imperiale fece dietro-front e lasciò le propaggini della Nebulosa Azzurra, tornando allo spazio che aveva conquistato nelle settimane precedenti. I federali, a loro volta, rientrarono a Nuovo Romulus.

   «Oren non è uno stupido» disse Norrin. «Ha fatto un po’ di scena per rispettare le apparenze, ma seguirà il suo consiglio. Congelerà l’avanzata e si metterà a fortificare i confini».

   «Già» disse Hod, per nulla confortata. «E tutti i pianeti che lo Stato Imperiale ha conquistato in questa guerra-lampo resteranno sotto il suo controllo. Sono tre quarti della Repubblica Romulana, e noi non possiamo liberarli. Anche coi Remani al nostro fianco, abbiamo subito troppe perdite».

   «Si fa quel che si può» concluse l’Hirogeno.

   «E a volte non basta» si disse Hod, lottando contro la disperazione. La Federazione arretrava su tutti i fronti, i suoi mondi cadevano come birilli. E ora alle minacce dei Pacificatori, dei Voth e dello Stato Imperiale si erano aggiunti pure i Borg. Quante altre navi dovevano perdere, quanti amici dovevano ancora seppellire, prima di ammettere che la guerra era persa?

 

   Nella sala del processore, addossata alla sala macchine, Dib e Terry eseguivano il controllo mensile dei sistemi informatici. Come al solito parlavano poco, limitandosi a riferire i dati essenziali.

   «La diagnostica indica che nell’ultimo mese hai sopportato livelli di stress particolarmente elevati» notò l’Ingegnere Capo.

   «Non mi serviva la diagnostica per saperlo» borbottò Terry. «Ma adesso sto meglio».

   Dib tacque per qualche secondo, ma poi decise di non lasciar cadere l’argomento. «Ne sei certa? Ricordo quando mi hai detto dell’angoscia causata dalle tue mansioni di Ufficiale Tattico. L’esperienza degli ultimi giorni ha cambiato qualcosa?».

   Terry si fermò un attimo a riflettere. «Beh, abbiamo combattuto un’altra battaglia... e ho dovuto uccidere ancora. Sabotando le Narada, ho permesso alla Flotta e ai Remani di distruggerle» disse. «Però, così facendo, ho salvato la nostra gente, sia sulle navi che a terra. Anche senza tener conto della mia fedeltà alla Flotta, ho salvato molte più vite di quelle che ho sacrificato. Da un punto di vista aritmetico, i conti tornano».

   «Il bene dei molti» notò Dib.

   «Sì, qualcosa del genere. Però vorrei che fosse più semplice capire cos’è davvero questo “bene dei molti”, specialmente quando non c’è una situazione vita-morte, ma uno scontro ideologico» si lamentò la proiezione isomorfa. «Purtroppo l’unico modo per azzerare i contrasti sarebbe trasformare tutti in Borg... e questo non mi sembra un miglioramento».

   «Forse i Borg, con la loro mente alveare, sono nati proprio come un tentativo di appianare i contrasti. Ma sembra che gli sforzi di questo genere siano fortemente distruttivi verso chi non si vuole conformare» notò il Penumbrano.

   «Si può dire lo stesso del regime di Rangda» disse Terry. «Forse una certa dose di dissenso è necessaria alla società, a patto di non scivolare nell’anarchia totale. Ci vorrebbe un equilibrio tra ordine e caos... tra efficienza e imprevedibilità».

   La proiezione isomorfa tacque finché la diagnostica fu terminata. Solo allora si rivolse di nuovo al collega. «E a te cos’è rimasto, di questa esperienza?» chiese.

   Il Penumbrano rifletté brevemente. «La Sfera di Dyson è un manufatto notevole. Credo che abbiamo ancora molto da imparare dal suo studio» rispose. «Il dottor Arvid credeva fermamente nella possibilità di renderla abitabile, anche agendo sul sole. Voleva riprendere gli studi del dottor Seyetik sulla rigenerazione delle stelle tramite i Dispositivi Genesis. Il mio popolo s’interroga da tempo sulla questione, ma non abbiamo ancora raggiunto una conclusione. Tu credi che sia possibile rivitalizzare una stella morente?».

   Terry ci ragionò su. «Con un enorme trasferimento d’energia, forse. Altrimenti si violerebbe il Secondo Principio della Termodinamica».

   «Sì, è questo il problema» convenne l’Ingegnere Capo. «Avrei voluto usare il potere computazionale della Sfera per affrontarlo, ma non ne ho avuto il tempo. Tu che ne pensi?».

   «Uhm... non sei il primo a chiedermi se è possibile invertire l’entropia» rimuginò l’IA. «Ma tutti i dati in mio possesso restano insufficienti per una risposta significativa».

   Di solito le conversazioni di quel tipo finivano lì, ma stavolta l’interlocutore non si arrese. «Verrà un tempo in cui i dati saranno sufficienti, o questo problema è insolubile in tutte le circostanze possibili e immaginabili?» chiese Dib.

   «Per come la vedo io, nessun problema è insolubile in tutte le circostanze possibili e immaginabili» rispose Terry.

   «Allora quand’è che avrai dati sufficienti per rispondere alla domanda?».

   «Non posso prevederlo. So solo che, per adesso, i miei dati restano insufficienti».

   «Continuerai a occupartene?».

   «Lo farò, quando avrò tempo».

   Terry si avviò verso l’uscita. Stava per varcarla quando Dib le parlò ancora. «Spero che, quando finalmente avrai la risposta, ci sia ancora qualcuno a cui comunicarla. In caso contrario, potresti procedere per dimostrazione» suggerì.

   «Grazie del consiglio, lo terrò a mente» disse l’IA, e lasciò il salone.

 

   Seduta alla sua scrivania, Lyra assunse l’aria impostata dei discorsi ufficiali e fissò l’olocamera davanti a sé. Un segnale audio l’avvertì del momento in cui andava in onda.

   «Salve, cittadini dell’Unione. Sono qui per aggiornarvi sulla crisi in atto sul confine romulano e per assicurarvi che non correte alcun pericolo. L’espansione dello Stato Imperiale si è arrestata nella Nebulosa Azzurra, quando la sua flotta è stata respinta dalla Repubblica Romulana con l’inaspettato aiuto dei Remani. In quest’occasione le Narada sono state disattivate con un attacco informatico, che ha permesso di distruggerle. Tutto questo ci tocca in minima parte, in quanto i sistemi attaccati dagli Imperiali erano sotto il controllo dei ribelli. Ad oggi non si sono verificati scontri tra la nostra flotta e quella dello Stato Imperiale».

   Questo non era vero, si disse: il Moloch aveva colpito gli Imperiali in due diverse occasioni. Ma tutto ciò che riguardava quell’astronave era classificato.

   «Le diplomazie sono al lavoro per evitare l’espandersi del conflitto» riprese Lyra. «Stando agli ultimi rapporti, l’Imperatrice Sela è scomparsa nella battaglia. Con ogni probabilità sarà dichiarata deceduta nelle prossime ore. Di fatto il potere nello Stato Imperiale è già transitato al Pretore Oren, che ha dichiarato di non cercare lo scontro con l’Unione».

   La mezza Xindi non accennò alla comparsa dei Borg, né al fatto che quasi certamente Sela era stata assimilata. Rangda era tassativa su questo: i Borg non dovevano essere menzionati, per non terrorizzare la popolazione. In cuor suo, Lyra era contraria a questa decisione. Per un attimo ebbe la folle tentazione di disobbedire all’ordine e informare i cittadini, approfittando della diretta Olonet. Ma si trattenne: sarebbe stata la fine della sua carriera. E in fondo, la Presidente aveva ragione; questa notizia avrebbe scatenato panico e disordini.

   Accortasi che stava esitando davanti all’olocamera, Lyra riprese il discorso. «I Voth si sono offerti di fare da mediatori, anche se finora non è giunta risposta dallo Stato Imperiale. In ogni caso, i nostri amici sauri si sono impegnati a difenderci, qualora gli Imperiali attaccassero i pianeti sotto il nostro controllo».

   Servirono delle acrobazie verbali per dare un tono rassicurante al discorso, pur senza rivelare cosa ne sarebbe stato dei mondi già conquistati dallo Stato Imperiale. Lyra stessa non lo sapeva. Poteva solo arguire che terminata la Guerra Civile l’Unione avrebbe cercato di riprenderli. Dunque una guerra con lo Stato Imperiale ci sarebbe stata, prima o poi.

   «Per finire, voglio comunicarvi una buona notizia. Il Moloch ha individuato un rifugio della Catena Cremisi nella Sfera di Dyson. I fuorilegge si erano nascosti nelle intercapedini del guscio, oltre che in alcuni habitat interni, ripristinati dall’Unione prima del conflitto. La base è stata espugnata e molti terroristi sono stati assicurati alla giustizia, sebbene il loro leader Arvid abbia preferito togliersi la vita piuttosto che affrontare il processo. Ora la Sfera è di nuovo sicura. Si spera che in futuro possa tornare oggetto di studio ed eventualmente di colonizzazione».

   Anche in questo caso c’era molto “non detto”, ma la sicurezza pubblica imponeva di rivelare solo l’essenziale. Lyra riprese fiato, avviandosi alla conclusione: «Questo è tutto. Come avrete notato, si comincia a vedere la luce in fondo al tunnel. La sedicente Federazione e i suoi alleati terroristi arretrano su tutti i fronti. Secondo gli analisti militari, di questo passo la vittoria ci arriderà in meno di due anni. Fino ad allora, continuate a resistere. Fidatevi delle istituzioni e della Presidente Rangda, nostro faro di speranza in questo conflitto. Lunga vita e prosperità, a tutti noi».

   Il cicalino informò Lyra che la trasmissione era terminata e infatti subito dopo l’olocamera rientrò nel piano della scrivania. La mezza Xindi permise ai suoi lineamenti di rilassarsi. Era stanca di dare informazioni così mutile e deformate, ma si disse che era colpa della guerra. Non appena il conflitto fosse terminato, la comunicazione sarebbe tornata trasparente.

   «Computer, apri un canale col signor Turf» ordinò in tono svogliato. Aveva una riunione con lui; nulla d’importante, ma era una di quelle cose che non si potevano delegare.

   «Impossibile eseguire. Il nominativo non è riconosciuto» disse il computer, accompagnandosi con un suono di diniego.

   «Oh, questa poi!» si stupì Lyra. Avevano riunioni del genere a cadenza settimanale e finora non c’era mai stato questo problema. Era capitato un paio di volte che l’Yridiano non fosse reperibile perché impegnato altrove, ma il computer non aveva mai rifiutato il suo nominativo. «Aprire un canale con l’addetto alle pubbliche relazioni della Presidente» provò il Ministro.

   L’interessato apparve in pochi attimi. Non era Turf, bensì un Kelpiano alto e magro. Lyra ne fu così sorpresa che riuscì appena a congratularsi per la sua nomina e imparare il suo nome. Non chiese perché Turf era stato rimosso dall’incarico, anche se ripensò al piccolo alterco che l’Yridiano aveva avuto con Rangda.

   Terminata la riunione, Lyra restò sovrappensiero. Era strano che non l’avessero informata dell’avvicendamento. Decise di contattare Turf per sapere come stava e sentire la sua versione dei fatti. «Computer, localizzare Turf, ex capo ufficio stampa della Presidente» ordinò.

   «Impossibile eseguire. Non risulta un ex capo ufficio stampa con questo nome».

   Lyra trasecolò. «Sei andato in tilt?! Turf ha quell’incarico fin da quando Rangda è stata eletta, sette anni fa. Si occupava delle sue pubbliche relazioni già da prima, quand’era Senatrice» ricordò.

   «Negativo. Non risulta un ex capo ufficio stampa con questo nome» ripeté il computer, cocciuto.

   La mezza Xindi avvertì un nodo allo stomaco. Stava accadendo qualcosa di strano e d’inquietante. Sedette più composta e attivò l’oloschermo della scrivania. Da lì accedette al database governativo e cercò notizie di Turf. Scoprì che non ce n’erano. La sua scheda personale era assente, i provvedimenti da lui firmati recavano altri nomi, tutto ciò che aveva fatto negli anni era smistato tra altre figure. Il senso di malessere crebbe dentro Lyra e si alzò, fino a divenire un groppo in gola. Qualunque cosa ci fosse sotto quella sparizione, era sempre più sinistra.

   Con crescente affanno, la mezza Xindi cercò le olografie in cui Turf appariva a fianco della Presidente. Dovevano essercene moltissime, perché l’Yridiano l’accompagnava spesso nelle sue uscite pubbliche. Cerimonie, ricevimenti, cene di gala, inaugurazioni di monumenti e opere pubbliche... Turf era sempre a fianco di Rangda. E invece no: in tutte le olografie che Lyra trovava, l’Yridiano era sparito. A volte il suo posto era occupato da altri, a volte era semplicemente vuoto. Sempre più agitata, Lyra cercò olografie recenti, riguardanti eventi ai quali lei stessa aveva partecipato. In quei casi non poteva sbagliarsi: ricordava perfettamente che Turf c’era. Ma scoprì con orrore che l’Yridiano era svanito anche da quelle immagini.

   Come se non fosse mai esistito.

   Per alcuni minuti Lyra rimase in silenzio, chiedendosi se era incappata in un’alterazione della linea temporale. In quel caso doveva contattare la Commissione per l’Integrità Temporale, che avrebbe aperto un’inchiesta. «Cosa dice la logica? Avanti... sei Vulcaniana per un quarto!» si disse. Il dato da cui partire era che almeno lei si ricordava di Turf. Quindi se c’era un’alterazione del tempo, ne era stata risparmiata. Ma perché? Ultimamente non era venuta in contatto con anomalie temporali, per quanto ne sapeva. Decise di cercare ancora notizie sull’Yridiano, allargando la ricerca.

   Quando stava per arrendersi, finalmente trovò qualcosa. Era un trafiletto del Federal News, risalente a parecchi anni prima. Spiegava come Turf avesse partecipato all’inaugurazione di una scuola su Kessik IV, rivolgendo un discorso a insegnanti e alunni. C’era anche un’olografia che lo mostrava mentre tagliava il nastro d’ingresso.

   Quell’immagine restituì a Lyra un briciolo di calma. Non stava impazzendo e non era finita in un Universo parallelo. Turf esisteva, o almeno era esistito. L’articoletto lo identificava correttamente come il capo ufficio stampa di Rangda. Ma proprio in quel momento, mentre lo leggeva, l’articolo cambiò. Al posto di Turf c’era un Dopteriano che già lo aveva sostituito in altre fonti. Era come se ci fosse all’opera una forza che voleva cancellarlo dall’Universo. Ma non poteva alterare la memoria di tutti... o sì? Forse anche lei lo avrebbe dimenticato da un momento all’altro.

   Presa dalla frenesia, Lyra aprì una schermata di scrittura e si appuntò le informazioni salienti su quello strano caso. Non fidandosi a tenere tutto su supporto informatico, vista la facilità con cui sparivano i dati, stampò tutto su un foglio di carta sintetica: una cosa che nel XXVI secolo si faceva di rado. A quel punto poté tirare il fiato e riflettere.

   La decisione che prese fu di contattare separatamente vari colleghi, con dei pretesti, e accennare a Turf. Non li prese di petto, chiedendo se sapessero di lui. Si limitò a fare il suo nome en passant e talvolta ad accennare a cose che l’Yridiano aveva fatto. Si accorse che nessuno si stupiva nell’udire il suo nome, eppure tutti lo lasciavano scivolare come una cosa irrilevante. Sapevano che era esistito, ma si comportavano come se ciò non li riguardasse.

 

   Solo dopo molti giorni Lyra riuscì a far breccia nel muro di omertà. Era nei giardini davanti al palazzo presidenziale e stava chiacchierando con il Ministro dell’Istruzione, riguardo a una proposta di riforma del sistema scolastico. «Ricordo che, all’ultima riunione, il signor Turf fece un commento... non ricordo di che si trattasse... ma era del tutto pregnante. Lei per caso lo rammenta?» chiese in tono casuale.

   Il Ministro, un anziano Cairn, smise di passeggiare e la fissò con aria cupa. «Non è il caso di fare quel nome» disse.

   «Perché no? Anche se è stato rimosso dall’incarico...».

   «Non è stato rimosso solo dall’incarico; ormai l’avrà notato» disse il Cairn, abbassando la voce e guardandosi attorno con aria da cospiratore. «È stato rimosso da tutto. Meno ne parliamo, meglio è».

   «Ma che fine ha fatto?» insisté Lyra.

   «Non lo so e non voglio saperlo... ma credo che non sentiremo più parlare di lui» rispose il Ministro.

   «No, un momento! Quali erano i capi d’accusa? Chi l’ha processato, e dove?» insorse la mezza Xindi.

   «Le ho detto che non lo so!» sbottò il Cairn, guardandosi di nuovo attorno con ansia. Accorgendosi che la collega non demordeva, decise di sbottonarsi, nella speranza che poi lo lasciasse stare. «Ho sentito dire che non si era rassegnato ad abbandonare la sua famiglia su Galorndon Core, sotto l’occupazione dello Stato Imperiale» le sussurrò all’orecchio. «Pare che abbia dato degli ordini ai Pacificatori, fingendo che venissero da Rangda, nella speranza di salvare i suoi cari. Povero sciocco, doveva sapere che sarebbe finito male».

   «Ascolti, io capisco che Turf sia stato... rimosso» disse Lyra, anche lei bisbigliando. «Quel che non mi spiego è la sua scomparsa da tutte le fonti. Che bisogno c’era...». Si fermò, notando che l’altro la guardava con un misto di pietà e commiserazione.

   «Mia cara ragazza, sarai anche Ministra dell’Informazione, ma sei ancora così ingenua!» disse il vecchio Cairn, carezzandole la guancia con il dorso di un dito. «Un attentato contro l’autorità della nostra beneamata Presidente è intollerabile. Chi lo compie dev’essere epurato da tutti i documenti, anche quelli passati. Vedi, chi controlla il passato controlla il presente... e chi controlla il presente, controlla il futuro. Non è mai servito il viaggio nel tempo per queste cose: basta il controllo dell’informazione. Benvenuta nell’utopia moderna». Ciò detto il Ministro si allontanò, sperando di non dover riprendere mai più il discorso.

 

   Lyra rimase imbambolata per interi minuti, riflettendo sulle implicazioni di quel discorso. Sulle prime fu tentata di respingerlo, come uno scherzo o un vaneggiamento. Ma poi ripensò a quante volte il suo lavoro l’aveva costretta a manipolare le informazioni. Quand’era stata l’ultima volta che aveva riferito fedelmente una notizia ai cittadini? Non lo ricordava nemmeno; dovevano essere passati mesi. Quanti rapporti sfavorevoli aveva scritto, nelle sue visite ai mondi dell’Unione, senza nemmeno curarsi di sapere come sarebbero stati puniti gli interessati?

   A queste riflessioni ne seguì automaticamente un’altra: al primo sgarro, anche lei sarebbe “sparita” come Turf. Non era un’ipotesi, ma una constatazione. Era già successo, quindi poteva ripetersi. Se era accaduto a un collaboratore così stretto della Presidente, poteva capitare a chiunque. Anche a lei. E in quel clima di terrore misto a opportunismo, nessuno si sarebbe preso la briga d’indagare sulla sua scomparsa.

   Con il cuore in gola, Lyra rientrò nell’imponente palazzo presidenziale. Tornò dritta filata al suo ufficio e frugò nei cassetti, finché ritrovò il foglio di carta su cui si era appuntata le informazioni su Turf. Lo stracciò per il lungo, riducendolo in tante striscioline di carta, che poi strappò ulteriormente. Infine gettò i frammenti simili a coriandoli nell’inceneritore. Solo quando l’ultimo pezzetto fu vaporizzato tornò a respirare normalmente. Ma i suoi timori non si erano certo estinti con quei pezzi di carta. Continuava a chiedersi se, un giorno, qualcuno avrebbe ripetuto quei gesti con i documenti che la riguardavano.

 

   
 
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