Libri > Harry Potter
Ricorda la storia  |      
Autore: Milagar    14/02/2021    3 recensioni
A Susan piaceva guardare gli altri. In quei momenti, pensava che il suo ruolo, nel gioco della vita, fosse quello di guardare gli altri vivere, gioire, divertirsi, soffrire. E basta. La sua, di vita, le scorreva tra le dita senza eventi, tranquilla e ordinata come la treccia che era solita farsi da sempre e che anche quella sera le scendeva sulla spalla.
Era bastato un attimo – aveva il viso abbassato – quando una voce calda e profonda le si era accostata. Susan aveva visto dapprima una mano, ampia e liscia. Poi aveva alzato lo sguardo: un ragazzo – doveva avere la sua età, lo aveva intravisto a diverse lezioni – le stava chiedendo un ballo.
 
[Susan Bones/Anthony Goldstein]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anthony Goldstein, Susan Bones
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4, II guerra magica/Libri 5-7
- Questa storia fa parte della serie 'Fili rossi'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
My place to be
 
Una volta nella vita può succedere di incontrare una persona che sembra nata per te,
 e tu per lui.
Forse è solo la chimica di due corpi,
una questione di ferormoni, di odori.
Ma mi piace pensare che
Il sorriso che si stampa sui nostri volti quando ci vediamo,
sia il sorriso di due anime che incontrandosi, si sono riconosciute.
(M. Diliberto)
 
C’erano sempre state poche certezze nella vita di Susan: la colazione con the e biscotti al cioccolato, i due minuti che impiegava ogni giorno per farsi una lunga treccia e sua zia Amelia.

“Susie, è importante che tu conosca al meglio il mondo, in tutti i suoi aspetti. Solo così potrai essere una strega equa, solidale, aperta al futuro. Cerca di lasciare un mondo migliore di quello che hai trovato” le ripeteva, nelle giornate che zia e nipote riuscivano a ritagliarsi, tra i numerosi impegni nel Wizengamot di Amelia.

“Così potrò diventare come te, zia?” le chiedeva Susan, tormentandosi la punta della treccia, prima di ricevere un caldo abbraccio di quella zia che era da sempre stata il suo modello di vita: così libera, indipendente, senza vincoli affettivi tali da limitarle quella brillante carriera che aveva retto a dolorosi colpi, come la morte di gran parte della sua famiglia e di quel fratello amato, Edgar. Aveva in animo di diventare come lei, anche se la sua figura rappresentava un modello troppo alto da raggiungere.

Susan non amava le cose popolari. Preferiva la corrente contraria. Aveva sempre preferito darsi alle Gobbiglie, piuttosto che al Quidditch; avere pochi e scelti amici; vestirsi coi grandi maglioni in lana che le preparava sua madre, di colori improponibili; non truccarsi mai. A volte poteva pesarle, ma era l’unica certezza per rimanere se stessa.

Le era sembrato così strano doversi agghindare per il Ballo del Ceppo, con quel lungo abito da sera che stonava con quella faccia da bambina, costellata di lentiggini e di quei leggeri segni dell’acne che le tenevano compagnia da qualche anno.

Susan non aveva voglia di andare al ballo e soprattutto non aveva voglia di andarci con Ernie. Era suo amico dal primo anno e lui, insieme ad Hannah e Justin, erano le uniche persone a cui Susan voleva bene, perché non la giudicavano e forse non l’avrebbero mai fatto – perché erano come lei. Era stato lui ad offrirsi per accompagnarla, quando una sera di metà dicembre Susan era sprofondata in una poltrona dopo aver scoperto che Hannah era già stata invitata da Justin.

Ernie si era prontamente offerto a farle da cavaliere, con i suoi soliti toni solenni, lasciando Susan in uno stato di sconforto, nel vedere tutte le persone a lei care felici di essere invitate dalla persona che avrebbero voluto.

Il ballo di apertura, quella sera del venticinque dicembre, era stato per Susan una vera frustrazione. Ernie era pomposo, voleva strafare e così aveva reso ridicolo se stesso e Susan, che ben presto, si era trovata un angolo solitario per poter guardare. A Susan piaceva guardare gli altri. In quei momenti, pensava che il suo ruolo, nel gioco della vita, fosse quello di guardare gli altri vivere, gioire, divertirsi, soffrire. E basta. La sua, di vita, le scorreva tra le dita senza eventi, tranquilla e ordinata come la treccia che era solita farsi da sempre e che anche quella sera le scendeva sulla spalla.

Era bastato un attimo – aveva il viso abbassato – quando una voce calda e profonda le si era accostata. Susan aveva visto dapprima una mano, ampia e liscia. Poi aveva alzato lo sguardo: un ragazzo – doveva avere la sua età, lo aveva intravisto a diverse lezioni – le stava chiedendo un ballo.

Non sapeva con quale coraggio avesse accettato, perché ben presto Susan si trovò a volteggiare in pista, la mano del ragazzo che appena le sfiorava la schiena. Il suo ballerino era alto, aveva le spalle larghe e un po’ ricurve; portava un paio di occhiali cerchiati di corno che celavano due occhi scuri, acuti, brillanti.

Non avevano parlato, ma si erano sorrisi per tutto il tempo – quanto era durato, quel ballo? Cinque minuti o tre ore, non importava. La vita di Susan non scorreva più tra le sue dita, ma in quel momento sembrava essersi intrecciata alle ampie mani di quel ragazzo che aveva scompigliato i propositi grigi con cui era uscita dalla sala comune. Gli era bastato poco. Susan non guardava più gli altri, ma sentiva di essere guardata. Guardata da lui.

“Comunque sono Anthony” le aveva sussurrato alla fine del ballo, mentre la riaccompagnava al suo angolo.
“Susan. Mi chiamo Susan”.  
 
***
 
Susan non era pronta a ritrovarsi il viso sereno, la voce calma e profonda di Anthony Goldstein, alla Testa di Porco. Non era stato facile per nessuno tornare ad Hogwarts, dopo la morte di Cedric Diggory, dopo aver visto il suo corpo – com’era elegante, com’era nobile vederlo camminare in corridoio o affondato in un pouf in sala comune – cadere freddo e rigido sull’erba, sotto una notte che non prometteva stelle.

Non pensava ad altro se non a studiare, affogandosi indefessamente tra libri e biblioteca. Lo doveva a Cedric – che aveva dato una mano a tutti nel momento del bisogno – e lo doveva a sua zia, che era sempre più oppressa da questioni ministeriali difficili da mandare giù, costretta a mantenere una facciata a cui non credeva. Susan sapeva quanto dovesse costare ad Amelia tutto questo, a lei che aveva sempre seguito la luce della giustizia, della trasparenza.

Susan avrebbe mai ceduto a questo compromesso? Forse no.

Ed era per quello che a Susan era sembrato giusto andare lì, a quell’incontro dal sapore clandestino, quasi un germe di ribellione che stava nascendo in lei – che non era diventata prefetto per un soffio. Aveva quindici anni e sentiva che doveva prendere in mano la sua vita: vedeva i suoi amici fare passi avanti e lei non poteva rimanere indietro. Non doveva rimanere indietro, doveva trovare una strada per lei. O la strada che il modello di sua zia voleva per lei?

“Sii fiera di quello che sei. Conta su te stessa”. Eccola, ancora la voce di zia Amelia, che le ricordava quel valore che Susan, dopo quel ventiquattro giugno, tendeva a dimenticare spesso. Troppo spesso.

“Burrobirra?” La voce calda di Anthony rimbombava nell’orecchio di Susan, che, voltandosi, aveva visto il sorriso ampio del ragazzo, mentre le passava una bottiglia. Susan l'aveva accettata ringraziando. Non si era accorta che Anthony, con alcuni suoi amici di Corvonero, aveva preso posto lì, accanto a lei.

“Anche tu qui per sentire Potter?” Anthony parlava in modo pacato, quasi disinteressato, la schiena ampia appoggiata allo schienale della sedia, le gambe lunghe stese davanti a sé.

Susan non sapeva in che modo fosse iniziata quella sensazione di fervore che aveva iniziato a sentire sotto la pancia, sui palmi delle mani, sulla nuca, nel sentire il corpo caldo di Anthony accanto al suo.

E non sapeva nemmeno come lei ed Anthony avessero iniziato a parlare del perché fossero lì. C’entrava Cedric, c’entrava la Umbridge. Il resto erano litri di parole che Susan beveva, assetata di ascoltare quella voce calda che ispirava fiducia, instillava vitalità della mente. Era tornata a sentirsi.

Aveva avuto persino il coraggio di parlare a Harry Potter: che paura doveva avere, Susan? Harry aveva la sua età, parlava bene, sembrava timido e impacciato, ma dimostrava determinazione da vendere.

“Conosci per caso Madama Bones?”
Susan sorrise. “È mia zia. Io sono Susan Bones. Mi ha detto della tua udienza. Allora è vero? Fai un Patronus a forma di cervo?”[1]

Susan aveva sentito lo sguardo di Anthony carezzarle il profilo del volto, mentre parlava. Sentiva le guance scottare, il respiro agitarsi come in burrasca.

La sua domanda aveva innescato una reazione a catena per cui tutti stavano rivelando cose di Harry Potter, tutti volevano aderire a quel gruppo di difesa, che li avrebbe preparati – ancor più della scuola – alla vita vera. Non sapeva da dove venisse quel coraggio: a lei piaceva stare negli angoli, nelle file del mezzo – mai troppo avanti, mai troppo indietro. Sapeva di essere brillante, ma non lo voleva dimostrare apertamente. O almeno, lo dimostrava solo quando le andava.

Quel giorno, semplicemente, le andava di dire la sua. O di dimostrare che, forse, anche lei esisteva.  

Aveva firmato quella pergamena con mano ferma e decisa, prima di passarla ad Anthony. Susan si era fermata un attimo a guardarlo scrivere: le era sempre piaciuto guardare le grafie altrui, pensava di trovarci tratti della personalità di una persona. Quella di Anthony era proprio come lui: lineare, appuntita leggermente verticale, quasi gotica. La pergamena era passata a Michael Corner ed Anthony le aveva rivolta di nuovo la parola. Era fiducioso in quel gruppo, credeva in Potter e sperava di superare brillantemente i G.U.F.O.

“Frequenti anche Antiche Rune, giusto? Ci vediamo a lezione, lunedì, va bene?”

Susan era rimasta spiazzata.

Sapeva bene che Anthony frequentava Antiche Rune: lo aveva visto più di una volta, il semestre precedente, seduto in prima fila – l’unico, insieme ad Hermione Granger. Come poteva non averlo visto? Aveva una carica attrattiva che non derivava dal suo aspetto – non era né troppo bello, né affascinante – ma dal suo modo di atteggiarsi, di passare le mani tra i capelli scuri, di sorridere abbassando gli occhi, del suo assiduo aggiustarsi gli occhiali prima di rispondere alle domande del professore.

Ma Susan risultava indifferente a molti. Nessuno – eccetto i suoi amici – si ricordavano di lei. Le sembrava di non rimanere impressa nella memoria di nessuno: non era bella, non era popolare. Era semplicemente Susan. E nemmeno lontanamente poteva ambire ad essere come sua zia.

Invece Anthony Goldstein si era appena ricordato di lei.
 
***
 
Quella prima chiacchierata alla Testa di Porco aveva dato avvio all’abitudine di parlarsi durante il quarto d’ora accademico prima di Antiche Rune. Parlavano di scuola, di politica, di viaggi – Anthony aveva viaggiato molto. Aveva preso più aerei che scope volanti: suo padre era americano e spesso andava a New York per trovarlo. Parlavano di Ilvermorny, dove suo padre aveva studiato a Serpecorno. Susan ascoltava affascinata i discorsi del ragazzo: parlava bene, era inebriata dalla sua voce e anche da quel profumo di muschio bianco misto a tabacco – l’aveva visto più di una volta, scendendo dalla Torre di Astronomia, nella semioscurità della notte, mentre aspirava ampie boccate di fumo dalle sigarette babbane.

Con lui imparava un sacco di cose: studiava le Rune come sua unica ragione di vita, ne approfondiva i segreti, spaziava perfino nel greco e nel latino. Con lui, Susan era stimolata, curiosa di conoscere, cercava di tenergli testa nelle interminabili discussioni che intessevano sulle radici gaeliche delle Rune.

“Sei brillante, Susan. Dovresti sottovalutarti di meno”, continuava a dirle, Anthony. Nessuno le aveva mai rivolto un complimento così bello.

Susan aveva imparato a sedersi in prima fila, spalla a spalla con Anthony – che aveva iniziato a popolare i suoi pensieri prima di dormire. Pensava ai suoi capelli neri un po’ troppo lunghi, a quei quaderni blu zaffiro redatti a lettere ordinate, anch’esse vergate di blu, al suo profumo. Non aveva mai percepito il suo corpo così caldo, capace di provare un desiderio così forte da mozzarle il fiato in gola.

Il mercoledì mattina, avevano preso l’abitudine di aspettarsi fuori dalla Sala Grande e raggiungere l’aula di Rune presto. Chiacchieravano fitto, anche se a Susan non piaceva farlo durante le lezioni; ma Anthony aveva da aggiungere sempre qualche nozione utile. A volte si ritrovavano a ridere sommessamente, per non farsi beccare dal professore, quando Pansy Parkinson cercava di tradurre – invano – le versioni di Rune e confondeva dopo quasi tre anni il genitivo dal dativo e a rimbeccarsi quanto fossero inopportune quelle risate bonarie, prima di rendersi conto che quei piccoli gesti era tutta la loro quotidiana intimità.

Susan si era ritrovata a studiare più del dovuto, a immergersi in biblioteca per sfamare quella curiosità che Anthony le instillava, insieme a quella voglia di passare del tempo con lui, che continuava durante gli incontri dell’ES.

Spesso si erano ritrovati ad allenarsi uno di fronte all’altro. Susan si era scoperta abile con la bacchetta e teneva testa ad Anthony tanto quanto lui riusciva con lei. A fine lezione, erano soliti fare un tratto di strada assieme, prima di dividersi e recarsi ai rispettivi dormitori, mentre parlavano di qualsiasi cosa passasse attraverso la loro mente brillante. In quei tratti di corridoio, che percorrevano a passi veloci, rasentando i muri, a Susan sembrava di vivere in una bolla di cristallo. Sapeva che qualche passo indietro, Hannah, Justin ed Ernie la seguivano. Sapeva che Gazza e Mrs Purr stavano di guardia e c’era la Umbridge pronta a infliggere punizioni.

A Susan non importava. Lì, in quei brevi attimi verso il dormitorio, c’erano solo lei ed Anthony, che cercava la sua compagnia, che la faceva brillare, la faceva sentire intelligente, utile, stimata, compresa.

“Buonanotte Susan”. Anthony l’aveva sfiorata, accostandola appena a sé, chinandosi per lasciarle due baci di circostanza sulle guance. Susan si era alzata sulle punte dei piedi, afferrandogli un braccio – quanto era alto, Anthony. Non gli era mai stata tanto vicina.
 
***
 
Anthony non dimostrava l’affetto che provava per Susan a parole – quelle c’erano solo per le lunghe chiacchierate – ma coi piccoli gesti che le riservava ogni giorno: quella mano che le andava a sfiorare la schiena quando la aiutava a rialzarsi dopo gli Schiantesimi agli incontri dell’ES, quel braccio che correva ad appoggiarsi allo schienale della sedia, a lezione – quasi volesse abbracciarla.  A Susan non sfuggivano quelle fugaci occhiate che si sentiva addosso, durante le lezioni o i pomeriggi in biblioteca; quelle attenzioni verso di lei anche quando era coi suoi amici.

“A che ora dovevi vederti con Hannah per ripassare Erbologia?”

La voce di Anthnony si perdeva per High Street, affollata di studenti durante l’ultima uscita ad Hogsmeade prima di Natale. Camminavano uno accanto all’altra: avevano appena acquistato biscotti bretoni.

“Circa venti minuti fa. Pazienza” aveva sorriso Susan, guardando l’orologio. L’aveva fatto apposta, forse. Non lo poteva sapere. Pensava ad Hannah, che – sicuramente – l’aspettava trepidante in biblioteca. Non le importava più. Era ad Hogsmeade con Anthony, a parlare di Rune Antiche e America: tutto poteva migliorare.

“Oh, è colpa mia. Ormai penso che Hannah abbia trovato altre compagnie… Per perdonarmi, posso offrirti qualcosa da bere?”

Susan aveva pregato perché prima o poi quella domanda arrivasse. Non era mai uscita con un ragazzo in quei termini. Senza nemmeno chiederlo, attratta dalla figura alta e imponente di Anthony, Susan si era lasciata guidare dentro il caffè di Madame Piediburro. Era quello che desiderava, ma non se lo aspettava così, subito, all’improvviso. Ci erano passati davanti qualche ora prima e Susan aveva espresso il suo apprezzamento per la piccola e graziosa locanda, piena di tavolini da due.

Anthony aveva scelto un tavolo vicino ad un’ampia finestra, sul cui davanzale si era posata un’alta coltre di neve. Susan aveva gettato un’occhiata al riflesso di loro sul vetro: così ordinariamente normale, eppure così fuori dal comune, per lei.

Avevano ordinato del caffè. Avevano chiacchierato.

Susan non sapeva come avevano fatto a passare dai soliti discorsi di scuola a parlare della propria famiglia, delle ambizioni personali – era stato in quel momento che Susan aveva scoperto che le Rune sarebbero state, in qualche modo, parte integrante della sua vita, come pure di quella di Anthony.

Susan non riusciva a capire come, ad un tratto, si era trovata le labbra di Anthony sulle sue: quelle labbra piene e carnose, che sapevano di caffè e tabacco; quegli occhiali troppo grandi per un viso così bello, che si appannavano sotto al sospiro spezzato di Susan. Era durato un attimo, quel tanto per far realizzare a Susan che, sì, Anthony Goldstein le aveva appena dato il suo primo bacio.
 
***
 
Susan non sapeva cosa fosse l’amore. Ma sapeva bene come si sentiva quando scorgeva Anthony a colazione, quando sentiva il basso ventre contrarsi, scaldarsi – tanto da farle imporporare le gote. Quando sentiva lo stomaco tuffarsi da un precipizio e rimanere senza fiato per una manciata di secondi. Si vergognava di quanto fossero forti quei pensieri su di lui che faceva prima di andare a dormire, che la lasciavano in uno stato di agitazione – il cuore le palpitava senza tregua nel petto. Il tempo passato senza di lui era un lento martirio – quante ore mancavano, prima di rivederlo? Scorgerlo seduto nel loro solito posto, ad Antiche Rune, placava quella tempesta di sangue e aria e il respiro di Susan tornava regolare, il colorito del viso si spegneva, lasciando il posto a quegli occhi brillanti che la presenza quieta di Anthony le donava. Si sentiva così bene, vicina a lui: sentiva di essere nel posto giusto in cui stare, nel punto giusto di spazio e di tempo per vivere quella vita che ora le si era intrecciata fermamente al corpo, che scorreva di pari passo con lei, senza lasciarla più indietro. Non vedeva più gli eventi scorrere inesorabili sopra di lei. Erano lei ed Anthony l’evento che veniva prima di tutto il resto. Con Anthony accanto si sentiva bella – e forse lo era, ma non se n’era mai accorta. Si sentiva libera e legata, completa e imperfetta allo stesso tempo.

Ma andava bene così. Non era mai stata così tanto se stessa come in quel momento.

Stava imparando a vivere e non soltanto a sopravvivere.

“Nella vita, qualcosa deve soccombere: o il lavoro o l’amore. Il lavoro, almeno, non mi ha mai delusa”.

No, zia Amelia, non si poteva far soccombere quell’amore che non sapeva di amore, che era complementarità di anime che si sono trovate, riconosciute.

Forse Anthony non era perfetto. Ma sapeva leggerle l’anima e ogni volta che l’abbracciava, sentiva che nulla l’avrebbe potuta scalfire. Affondava il viso nell’ampio petto e sapeva che lì, in quel momento, lei era Susan nella sua massima essenza, senza inibizioni o sovrastrutture.

Al diavolo le decisioni per la vita: a che vantaggio Susan doveva rinunciare ad Anthony, quando era proprio lui quel vento favorevole alla sua navigazione verso il futuro?

Senza Anthony, Susan sarebbe stata ancora in balìa dell’indecisione, adombrata da quella figura ingombrante che zia Amelia stava diventando per lei. Perché avrebbe dovuto seguire la ragione, quando invece il cuore aveva delle ragioni più grandi per procedere? Si sentiva stretta, imbrigliata da quegli obblighi imposti dal suo punto di riferimento irraggiungibile che – forse, scusa zia Amelia – l’aveva sempre fatta sentire meno importante di quello che era davvero.
 
***
 
Avevano studiato insieme, Susan ed Anthony, per preparare il G.U.F.O. di Antiche Rune. Lei non era solita ripassare in compagnia, i giorni prima degli esami – gli altri le mettevano ansia - ma quella volta avrebbe voluto rischiare. Erano state ore concitate eppure bellissime. Forse Susan aveva imparato molto più con lui quella giornata che in tutte le ore di studio durante l’anno.
“Vedrai che andrai benissimo. Sei brava, sai un sacco di cose…” le ripeteva Anthony, scostandole quella ciocca di capelli, che usciva dall’ordinata treccia.

“Io non so le cose come le sai tu” si scherniva Susan.

“Tu sei come me” la interrompeva, sfiorandole appena le labbra.

I G.U.F.O. erano passati più veloci di quanto Susan si sarebbe aspettata. Era stato belli passarli con Anthony a pochi metri da lei. Ogni tanto lo scorgeva scrivere composto e senza sosta, come suo solito, un mezzo sorriso stampato in faccia.

“Sai già cosa farai per le vacanze?” le aveva chiesto Anthony, su un assolato tramonto. Non si tenevano per mano – non era da loro.


“Non lo so. Di solito non faccio nulla di particolare”.

“Vieni a New York, con me”. Anthony l’aveva detto come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Susan era sprofondata nell’imbarazzo. Davvero Anthony teneva così tanto a lei da chiederle di accompagnarlo a New York da suo padre? Stava toccando il cielo con un dito. Ma una parte di lei stava censurando tutta quella felicità.

“Ci penserò. Grazie Anthony” gli aveva sorriso.

In verità, quando Susan si era rintanata sotto le coperte – sotto le quali passava notti insonni a pensare ad Anthony e a costruirsi un futuro che, forse non trovava radici– si era chiesta perché non avesse detto di sì e basta. Perché si ostinava a tarpare le ali alla sua libertà, a ribellarsi davanti ad una felicità che le si srotolava davanti giorno dopo giorno?

Qualcosa la frenava. Forse erano le aspettative che la sua famiglia, sua zia le avevano riversato addosso? Forse era la poca (o troppa) considerazione che Susan aveva di sé?
 
***
 
Si era convinta a scrivere ad Anthony la sera dopo che Susan era tornata a casa: sentiva che non doveva avere paura del giudizio altrui, dei genitori, di sua zia. Era tornata a casa con un senso di indipendenza maggiore: non voleva più essere vincolata. Di lì a sei mesi sarebbe diventata maggiorenne: quali paure avrebbe dovuto avere?

E invece le paure, le insicurezze, le angosce tornarono a travolgerle la vita poche settimane dopo il suo ritorno a casa. La lettera di Anthony che le dava appuntamento all’aeroporto per quel martedì era stata bagnata dalle amare lacrime di Susan.

Mentre lei stava progettando il primo viaggio della sua vita su un aeroplano, con Anthony – la persona che più di ogni altro in quel momento sapeva farla brillare - mentre stava portando avanti quella fame di vita che stava lentamente imparando a fare sua, la morte aveva velato per sempre l’energica figura di Amelia Bones.

A Susan era crollato il mondo addosso. Quel modello troppo perfetto e troppo ingombrante per la sua vita se n’era andato quando le sembrava di aver trovato la sua strada: quella che voleva lei stessa e non qualcun altro per lei. E se n’era andata come aveva vissuto: combattendo contro il male in persona, valorosamente come soltanto lei sapeva fare.

Non aveva fatto in tempo nemmeno a salutarla. A dirle che quell’anno era entrata in un gruppo combattente clandestino, che aveva imparato a fronteggiare il male, che aveva imparato a duellare; che aveva scoperto che le Rune le piacevano molto più della Magisprudenza; che finalmente si sentiva cresciuta, maturata; che l’amore alla fine valeva la pena viverlo e che con quel sentimento nelle vene tutto risultava più bello.

Quella mattina di luglio – un freddo innaturale permeava nelle vene – Susan, anziché salire su quell’aereo che l’avrebbe portata via da quella vita monocolore che aveva nella piccola casa del Kent, se ne stava davanti alla lastra di marmo su cui era inciso il nome di sua zia. Della sua amata zia.

Quel faro si era spento, portando via le inutili zavorre e insicurezze che Susan aveva sentito opprimere il suo cuore e il suo futuro. Sperava di sentirsi libera e leggera, ora che quel pensate modello se n’era andato.

Ma tutto questo già le mancava. Susan si ripeteva che aveva trovato se stessa, non si doveva perdere di nuovo. Il terreno che aveva conquistato a fatica aveva iniziato a franare sotto i suoi piedi e quella vita che le si era adesa al corpo con tanta foga stava tornando a scorrere senza sosta tra le dita.
 
***
 
“Hai preso anche tu ‘Eccezionale’ in Antiche Rune, vero? Non avevo dubbi che saresti andata benissimo”.

“Sì. Ma non mi va di parlarne” aveva mormorato Susan, salendo sul treno, quel primo settembre.

Anthony la scrutava da dietro gli occhiali ampi, in piedi nel corridoio dell’Espresso per Hogwarts.

Susan aveva gli occhi bassi, mentre trascinava il baule. Pesanti occhiaie le appesantivano il viso. Si era sentita uno schifo. Sua zia era stata assassinata: non poteva andarsene a fare la bella vita in America.

Aveva deciso, dopo un lungo pianto, di ritirarsi: un logorio interiore l’aveva spinta a censurare quella felicità profonda che aveva ritrovato. Non se la meritava. Aveva scelto di abnegare se stessa e tornare in quella che era la sua sopravvivenza. Non pensava quanto potesse costarle dover perdere la nuova sé: aveva rinunciato ad essere come sua zia, si era ribellata a quel destino tracciato e invece sua zia se n’era andata per sempre. Susan non riusciva a perdonarselo.

Susan aveva alzato gli occhi. Il suo sguardo affondava in quello di Anthony, nudo, impotente. Lui aveva capito.

“Vieni qui”. Anthony l’aveva attirata a sé, stringendola tra quelle ampie braccia che – in quei due mesi di lontananza – erano diventate pareti sicure di un fortilizio, di una rocca inespugnabile dove proteggersi da ogni colpo.

Il treno era partito e loro erano ancora lì, stretti in quell’ancora salvifica che l’uno era per l’altro. Erano arrivati tempi duri. Stavano crescendo e i sogni stavano per essere oscurati da una nuova guerra.

Susan si sentiva gli sguardi addosso. Tutti chiedevano della sua tragedia familiare come una semplice chiacchiera da spendere a colazione. Era diventata famosa per qualcosa che non era suo, che non voleva. Indebolita da quelle attenzioni non volute, più volte si era rifugiata sotto lo sguardo protettivo di Anthony, che la vegliava da lontano – quando a cena erano divisi in tavoli differenti o quando le ore di lezione li vedevano prendere strade opposte.

Mai come in quell’anno le sarebbe servito quel posto dove stare, dove abbandonarsi completamente abbandonata al turbine di emotività che le investiva la vita e l’anima. Ed Anthony aveva imparato ad esserci sempre: non come l’anno precedente – con la sua voce, con i suoi piccoli gesti – ma con i suoi silenzi, con i suoi abbracci, con il suo profumo fragrante, con quegli occhi scuri e così connessi alla sua mente brillante da garantire a Susan la garanzia di farcela, la fiducia nonostante tutto. Con lui non doveva inventare scuse, dare spiegazioni. Lui sapeva.
Quel sesto anno, tuttavia, non si avvicinava nemmeno lontanamente alla perfezione dell’anno precedente. Eccetto la presenza di Anthony, nulla stava andando bene. Nemmeno le lezioni di Materializzazione restituivano quella soddisfazione con cui tutti i maggiorenni si apprestavano a imparare come sparire e riapparire altrove.

I suoi occhi erano appannati di ansia. Possibile che la vita fosse davvero quella ruota cieca che un attimo prima portava alle stelle e quello dopo nella più terribile infelicità? Susan aveva smesso di parlare come prima, il cuore le era oppresso dall’ansia.

E non sapeva perché.

Anche Anthony le sembrava così lontano.

Una mattina prima di Pasqua, entrando a lezione di Rune, Susan aveva visto Anthony sedersi in fondo, insieme con Terry Steeval. Aveva provato ad intercettarlo per un saluto ma, contrariamente ad altre volte, non la stava guardando. Chiacchierava con Terry e rideva.

Rideva come Susan era impossibilitata a fare in quei mesi paralizzanti. Aveva pensato in quel momento quando era stata l’ultima volta che aveva sorriso di cuore. In cui aveva riso. Quanto tempo era passato? Da quanto tempo aveva smesso di essere felice?

“Perché oggi non ti sei seduto vicino a me?” aveva chiesto Susan ad Anthony, quel pomeriggio, mentre passeggiavano nel parco irradiato dai primi raggi caldi di sole della primavera.
Antony si era fermato a guardarla, le lunghe braccia gli penzolavano ai fianchi.

“Susan. Io ci ho pensato molto, ma non credo di essere portato per una relazione. Sento che sto perdendo del tempo prezioso che potrei investire nei miei studi. Ho ambizioni accademiche e devo concentrarmi con tutto me stesso per quell’obiettivo”.

Susan aveva sentito il cuore tuffarsi nel ventre e perdere l’equilibrio per un attimo.

“Stai… Stai scherzando, vero?” aveva boccheggiato Susan, incapace di fare altro se non appoggiarsi con forza ad una possente quercia. “E noi? Non pensi a cosa abbiamo costruito insieme?”
Anthony le sorrise amaro, scostandole un ciuffo di capelli che le era uscito dalla treccia.

“Pensi che ci sia stato un noi, Susan?”

Susan aveva iniziato a vedere tutto appannato, vedeva i contorni di Anthony liquefarsi. E allora cos’erano stati, se non un unico, grande noi? Che cos’erano stati quei baci sfuggenti, appena accennati; quelle carezze; quegli abbracci senza fine; quello stringersi di mani nel momento del bisogno; quella spalla su cui piangere?

L’aveva presa in giro sin dall’inizio e Susan non se n’era mai accorta?

“Tu sei il posto dove vorrei stare. Per sempre” aveva sussurrato Susan, mentre Anthony non guardava più lei, ma il sole che stava tramontando.

“Non sono pronto. Lasciami crescere, Susan”.
 
***
 
Rivedere Anthony quel cupo primo settembre che avrebbe dato il via al settimo anno ad Hogwarts era stato ancora più straziante del vivere con la consapevolezza di aver perso tempo, sprecato amore, energie, gioia con lui.

Faceva male vederlo concentrato su altre questioni che non erano lei. Sempre gomito a gomito coi suoi compagni di Corvonero, con Lisa Turpin che gli si faceva sempre più vicina… La sua anima sanguinava. Come poteva stare bene quella di Anthony?

Ancora una volta, Susan si sentiva sbagliata, inadatta, inadeguata a chiunque fosse dentro il suo cuore e ai suoi pensieri. Era arrivata a pensare che lei non fosse adatta all’amore, che non se lo meritava. Che il suo destino – con quelle parole di Anthony – le indicava che le sue strade erano altrove.

Le ferite del cuore si erano presto sommate alle ferite che ogni giorno venivano inferte dai Carrow.

“Sei la nipote di Amelia Bones? Meno cinquanta punti a quei fessi di Tassorosso e punizione”.

Susan le aveva sentite tutte, addosso, quelle ferite di ribellione che aveva iniziato due anni prima. Era stato durante la prima sera di punizione con Alecto Carrow che il germe di quella rinnovata Susan era tornato a bruciare nel cuore della giovane Tassorosso. Aveva una mano segnata dalla cicatrice con cui aveva scritto centinaia di volte Feccia. Aveva sentito su di sé il dolore della Cruciatus che Alecto le aveva lanciato come passatempo mentre usciva dal suo ufficio. Non poteva, non doveva accettare di soccombere al male, lo stesso che aveva fatto venire meno le radici della sua famiglia. Resistere. Combattere. Sua zia sarebbe stata fiera. Quei mesi la stavano temprando.

Dove si stava nascondendo la dolce Susie, quella che chiacchierava con zia Amelia mangiando un gelato di Fortebraccio? Dov’era quella ragazza timida e indecisa, innamorata e sognatrice, addolorata e grigia?

Si stava ribellando di nuovo ai Carrow. Lo faceva portando la camicia fuori dalla gonna, fermandosi a studiare più del dovuto nella biblioteca che Madama Pince stava difendendo con le unghie e con i denti dall’arrivo di centinaia di libri orribili sulle Arti Oscure. Lo faceva quando il galeone datole da Hermione Granger anni prima aveva ricominciato a scottare, riconvocando il vecchio Esercito di Silente. Lo faceva rispondendo per le rime ai Carrow, difendendo la professoressa Sprite quando era pubblicamente insultata da Amycus.

E lo aveva fatto anche quella mattina, gridando a voce chiara quanto fosse fiera di essere Tassorosso e di essere sempre e comunque fedele alla causa di Harry Potter.

“Cruciatus, feccia di una Bones. Ma questa volta non voglio risparmiare lo spettacolo ai tuoi amichetti…”

Era stato quel momento in cui Susan aveva sentito ancora la voce di Anthony, dopo quelli che le erano parsi secoli.

“Non lo posso permettere. Prenda me. La lasci stare, la prego”. Aveva parlato con la sua voce profonda. Decisa. Susan aveva stentato a riconoscere in quell’uomo Anthony Goldstein. Quanto era cresciuto? Era diventato adulto e lei che cos’era? Si era guardata attorno. Tutti i suoi amici – immobili e terrorizzati mentre guardavano la scena - avevano il volto trasfigurato da quei mesi di estenuante e silenziosa guerra che si stava combattendo tra le mura di Hogwarts. Era stato inevitabile per tutti loro crescere.

Aveva visto Anthony avanzare, passandole davanti e parandosi davanti a lei, le spalle ampie la proteggevano da Amycus. Sentiva appena il suo profumo di muschio bianco e tabacco.

Il suo urlo le aveva lacerato le crettature scomposte di quel cuore che per un anno aveva battuto indefessamente per lui, riducendolo a frammenti. Il suo corpo mosso dai tremiti di dolore aveva spinto Susan ad accasciarsi su di lui.

“Spostati, scema!”

“La smetta, la prego!” aveva urlato Susan, coprendo col suo corpo il petto di Anthony scosso da sospiri spezzati.  

“Smettetela!” le voci scomposte dei compagni di studio echeggiavano per l’aula. Terry Steeval ed Ernie stavano aggredendo verbalmente Carrow.

Mentre la classe si stava scagliando contro il Mangiamorte, Susan aveva trascinato il corpo di Anthony contro la parete. Rannicchiata a terra, Susan gemeva contro la spalla di Anthony.

“Come hai potuto fare questo?”

Anthony, gli occhi dolorosamente chiusi dietro le lenti, scuoteva la testa.

“Non permetterò che ti facciano ancora del male. Questa sera dobbiamo trovare rifugio nella Stanza delle Necessità. Non possiamo più rimanere qui”.

Era stato così che, quella notte, mano nella mano – come mai avevano fatto prima – avevano percorso i corridoi un tempo così accoglienti di Hogwarts per rifugiarsi là dove nessuno li avrebbe mai trovati.
 
***
 
Non sarebbero più tornati a lezione. La battaglia di quel due maggio aveva sventrato il castello, mietuto vittime. Anthony e Susan contemplavano la fila dei cinquanta caduti ordinati in Sala Grande. Le gambe di entrambi tremavano per la stanchezza, per l’adrenalina che era scorsa nei loro corpi quella notte. Rivedere Harry Potter, sapere che Hogwarts era sotto attacco aveva ravvivato in tutti quella speranza di mettere una volta per tutte fine a quella guerra.


Avevano sfiorato la morte, toccato la tragedia da vicino. Avevano appena diciassette anni. Il profumo di primavera che si respirava era coperto brutalmente di povere, dall’odore di sangue.  

Susan aveva sentito il braccio di Anthony stringerle un fianco, costringendola a girarsi per guardarlo negli occhi. Era la prima volta che avevano osato toccarsi, quella notte, da quando la resistenza dell’ES era iniziata, nella Stanza delle Necessità, nonostante avessero combattuto vegliando l’un sull’altra in quella terribile notte.

Non c’era stato tempo per l’amore, in quei concitati mesi di guerriglia – quando si erano ritrovati ad essere clandestini nella loro stessa scuola. Susan aveva dimenticato – o cercato di farlo – tutto il suo dolore per quel che Anthony le aveva detto l’anno prima. Perché il vento del perdono si era fatto strada in lei: Anthony l’aveva salvata, si era offerto lui per non vederla soffrire. Susan, nel profondo, sapeva quanto quel gesto significasse amore. Soltanto lui era stato capace di farlo. Perché lui era la sua persona, l’anima che quella di Susan aveva riconosciuta come sua complementare.

Non ne avevano mai più parlato, di quel che era successo quel giorno a lezione. La preoccupazione per il futuro incerto, la convivenza dell’ES nello stesso posto li aveva frenati.  

E ora che si erano ritrovato lì, uno accanto all’altra, nessuno dei due avrebbe voluto aspettare oltre il momento liberatorio in cui realizzare che tutto era finito e altro stava iniziando. Susan aveva affondato i suoi occhi in quelli di Anthony e ci aveva visto un uomo.

“Hai ancora ambizioni accademiche?” aveva chiesto Susan ad Anthony, con un’amara ironia che chissà da dove le veniva fuori; le sue mani si stavano intrecciando a quelle di Anthony. Entrambe erano sporche di polvere, sangue e vita.

Anthony aveva scosso appena la testa.

“No. Rivoglio soltanto il mio posto dove stare”.

E senza aspettarselo – come la prima volta – Susan aveva sentito le labbra di Anthony sulle sue. Questa volta, però, senza incertezze. Erano forti e sicure. Erano affamate di vita, di respiro. Avevano voglia di lei, di scoprirla forte e fragile - come si era dimostrata quella notte e ogni giorno prima di quella mattina. Susan sentiva la sua lingua insinuarsi in lei, inducendola ad accoglierlo come mai aveva fatto prima. Sentiva le sue mani decise stringerla e premerla contro il suo corpo, come se, solo facendo così, potesse riappropriarsi di tutto quel che poteva sembrare perduto.

Susan – in quella ambigua mattina di morte e vita - viveva, come mai lo aveva fatto prima, stretta tra le braccia di Anthony, baciata da lui con quei baci che si facevano insistenti, che la facevano godere come mai si sarebbe concessa prima di quel giorno.
 
Quella mattina di morte e vita, entrambi avevano trovato il proprio posto nel mondo. Erano finalmente loro stessi.  
 
 
 
 
 
 
 

[1] Da Harry Potter e l’Ordine della Fenice, capitolo 16.

Cari lettori... Ammetto di non sapere davvero cos'abbia combinato con questa oneshot che mi ha completamente assorbito l'anima. 
Forse è stato uno sfogo: è stato terapeutico scrivere di Susan ed Anthony - due personaggi che hanno iniziato a bussare forte qualche settimana fa e che non ho saputo tener fermi. Anthony - che non riesco ad immaginare diverso da quello che ho desceritto - brillante, distaccato, passionale; Susan - dolce, fragile, insicura - l'ho plasmata su quello che è la mia anima, le mie paure, le mie insicurezze. Ho messo forse troppi elementi sul fuoco, ma è stato uno scorrere continuo di pensieri e parole che hanno portato a tutto questo. 
Ringrazio chi - nonostante l'interminabile flusso scomposto di parole, è giunto fino a qui. 
Un abbraccio. 
Milagar
  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Milagar