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Autore: Mitsutsuki    26/08/2009    3 recensioni
[1 Fratelli] [2 Flagello]
Accademia Militare. A circa tre anni dalla tentata invasione aliena.
Aveva la brutta abitudine di attribuirsi qualità che in realtà non aveva. Ed era per convincere se stesso e gli altri che cercava di comportarsi in funzione di quelle.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kisshu Ikisatashi/Ghish
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
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Fratelli
Posso avere il tuo cognome?



Sarebbe andato all’Accademia.
Dopotutto, non sapeva cos’altro fare della sua vita.
Sì, aveva deciso. Non gli importava di non essere raccomandato come le signorine che si atteggiavano a pomposi galli da pollaio, solo perché un loro parente era chissà quale grado dell’esercito.
Non gli interessava nemmeno dover stare in fila ore ed ore, in piedi, ed attendere il proprio turno ai moduli d’iscrizione.
Era solo un piccolo prezzo da pagare per poi poter picchiare qualcuno e non venire ripreso dal corpo di guardie.
Kisshu si sistemò un lembo della maglia, ripetendosi che l’avrebbe fatto: sarebbe entrato, passato le selezioni e fatto vedere alle signorine raccomandate chi comandava.
Si sporse alla sua destra. Davanti a una ventina di persone, ragazzi mediamente della sua età o poco più grandi, un tavolo. Un banalissimo pezzo di metallo grigio. Immaginò che il tizio smilzo ricurvo su di esso stesse scrivendo il proprio nome da qualche parte, su un registro.
Tornò in fila.
Forse aveva un problema.

Quando giunse il turno del ragazzo davanti a sé, era da poco passato mezzogiorno. Il che non era niente male, considerando il fatto che era in fila dalle dieci.
Era alto. Molto più di lui, che dovette alzarsi sulle punte per sbirciare cosa stesse scrivendo.
Dopo toccò a Kisshu.
Nome. Cognome.
Problema risolto.

Si abbandonò contro il muro del campo, un polveroso spiazzo circolare dove lasciare allenare le matricole.
Sbuffò contrariato, scostandosi una ciocca di capelli da davanti agli occhi. Si annoiava a morte.
Possibile che in guerra fosse necessario conoscere tanta teoria? Lui voleva combattere, non starsene in piedi a scalciare sabbia, ascoltando distrattamente la voce stridula di un istruttore mezzo femmina.
Si mise le mani in tasca, fissando truce l’uomo al centro di un gruppo di matricole. Muoveva comicamente la bocca, sbrodolando chissà quali “perle” di teoria addosso a ragazzini che gli pendevano dalle labbra come collane d’aglio.
Quando si accorse della sua assenza - cosa che avvenne terribilmente troppo presto, essendo Kisshu il suo preferito - lo richiamò ad avvicinarsi: ad una tale distanza era difficile che riuscisse a sentire.
Il ragazzo schioccò la lingua, scocciato.
Stava per obbedire, quando un’altra voce lo chiamò alla sua destra. Si voltò. Tutte le matricole e l’istruttore fecero come lui e presero a fissare curiosi il nuovo arrivato: ovvero, il signor vice comandante, con quella sua irritante barbetta bianca da capra e il naso schiacciato.
— Sto cercando Kisshu Ikisatashi. — Ripeté con voce nasale, spostando lo sguardo dall’interessato, al gruppo di ragazzi. Si dondolò sui piedi piccoli e tozzi, aspettando una risposta.
I ragazzini si guardarono tra di loro, mentre Kisshu, sotto lo sguardo dell’istruttore, estrasse una mano dalla tasca e la alzò in un gesto svogliato.
— Presente. —
L’uomo arricciò il naso in sua direzione, mettendosi ben dritto con le spalle e alzando il mento, come a voler guadagnare qualche centimetro in più dei suoi centoquaranta scarsi. La punta dei capelli grigiastri gli arrivava al massimo alle spalle.
— Venga con me. — E lo precedette fuori dal campo.
Kisshu aspettò che girasse l’angolo, si strinse nelle spalle guardando l’istruttore con un’espressione che sembrava recitare: “Qualsiasi cosa vogliano, non è colpa mia. Le prove sono costruite, sono stato incastrato, voglio un avvocato”, e seguì il vice comandante.
Camminarono parecchi metri, lungo monotoni corridoi illuminati al neon.
Al passaggio di sua piccolezza il vice si facevano tutti da parte, consci del fatto che una parola dell’uomo al comandante vero e proprio sarebbe bastata per un’espulsione permanente. Piccolo, ma un concentrato di pignoleria unico al mondo. Kisshu smise presto di contare quanti ragazzi ebbe modo di riprendere per la loro presunta condotta indecente, quando parevano semplicemente farsi i fattacci loro. Certo, a quell’ora sarebbero dovuti essere tutti ad allenarsi, ma se stavano saltando dell’inutile teoria, avevano tutta la sua comprensione, approvazione e benedizione. Addirittura.
Finalmente giunsero ai cosiddetti “Piani Alti”, esattamente all’altro capo dell’Accademia rispetto a dove Kisshu era stato prelevato.
Un insieme di studioli più o meno grandi, pieni zeppi di scartoffie e premi al valore. Non che qualcuno ricordasse grandi guerre, ma la consegna dei riconoscimenti era divenuta una sorta di cerimonia da celebrare ogni anno. Molti dicevano che la maggior parte delle battaglie, che le alte cariche andavano raccontando piene d’orgoglio e amor patriottico, erano state inventate di sana pianta. Ed in effetti, a parte due o tre litigi - perché di litigi si parlava, alla fine delle finite - tra città che si erano sempre odiate, e che avrebbero continuato a odiarsi anche dopo centinaia di esodi in pianeti diversi, non c’era davvero qualcosa che meritasse medaglie al valore o altri gingilli dorati.
Il comandante, in piedi davanti a una finestra dietro la propria scrivania, contemplava le tecnologie di un mondo sotterraneo, passandosi pensieroso una mano sulla barba incolta.
All’udire la porta automatica richiudersi dietro i due ospiti, girò sui tacchi degli stivali, lo sguardo serio filtrato da un paio di piccole lenti in vetro.
Portò le mani dietro la schiena, schiarendosi la voce — Lei si crede furbo, non è vero? — Domandò rivolto a Kisshu, con tutta l’intenzione di lasciarlo in piedi davanti alla porta.
Ma Kisshu era il classico tipo di ragazzo che è abituato a prendersi le cose per conto proprio, quindi si sedette senza tante cerimonie, presso una delle seggiole vicino alla scrivania. Incrociò le braccia al petto, ignorando gli sguardi torvi del comandante e del collega.
Sorrise, beffardo — Quando serve. —
Il comandante prese posto alla scrivania, scostando vari registri e prendendo a sfogliarne uno in particolare: quello delle iscrizioni.
Passata in rassegna una lunga lista di nomi, si fermò. Girò il registro e glielo mise sotto il naso.
— Immagino che questa sia la sua calligrafia. —
Annuì senza neanche sprecarsi a guardare.
L’uomo davanti a lui si abbandonò contro lo schienale, sorridendo di sbieco — Ah sì? Allora immagino anche che sia la prima volta che il suo nome compare su un registro pubblico. — Riprese gli stessi registri che aveva scansato poco prima — Niente all’Istituto, niente negli archivi, niente negli ospedali. Nulla di nulla. — Poggiò i gomiti sul tavolo e congiunse le mani, gli occhi blu piantati in quelli innaturalmente giallo oro di Kisshu — Perché? —
Il ragazzo si strinse nelle spalle, inabissandosi sulla sedia fino a stendere le gambe sotto la scrivania — E che ne so? Non li scrivo io questi vostri stupidi registri. Ma, per quanto riguarda gli ospedali, non sono mai stato ricoverato. —
Il comandante assunse un’espressione ostica, serrando la mandibola. Sbuffò.
— Sa qual è la mia teoria? Che Kisshu Ikisatashi non sia il suo nome. —
Kisshu lo fissò impassibile.
— Anche se — proseguì il comandante indisturbato, presto affiancato dal vice — sarei curioso di sapere chi sia la persona che c’è prima di lei. Avete lo stesso cognome. — Osservò, puntando un dito sul registro.
Il ragazzo lo pregiò di uno dei suoi più falsi e strafottenti sorrisi in cui le sue labbra ebbero mai il piacere di piegarsi — Mio fratello. —
— Oh. Certo. — Rispose il comandante annoiato. Certe persone non sapevano proprio perdere.
— Quindi, immagino che non le dispiacerà se scambieremo quattro chiacchiere con lui. No? —
— Assolutamente. —

Assolutamente un corno!
Affondò il volto tra le mani.
Doveva inventarsi qualcosa o l’avrebbero espulso. Probabilmente, anche denunciato per dichiarata falsa persona o qualcosa del genere.
Portò i pugni chiusi sotto il mento, assumendo un’espressione imbronciata.
Non è colpa mia”, disse mentalmente alla schiena del comandante, perso negli intricati dedali di roccia fuori dalla finestra.
Si guardò attorno, in cerca d’ispirazione. Solo allora sembrò notare una sorta di torre, o faro, in vetro. Svettava sulla scrivania come di vedetta. Sul piedistallo scuro doveva esserci qualche scritta commemorativa o un’altra baggianata al valore.
Sorrise, cattivo.
Attento a non dar motivo al comandante di voltarsi prima del tempo, allungò una mano poco più in là di una pila di libri sul combattimento e afferrò la statuetta.
— Che roba è questa? — Domandò disinteressato, rigirandosi il vetro tra le mani. Non era molto spesso e neanche estremamente lavorato. Comunque fu certo trattarsi di un faro, o gli scogli sul piedistallo sarebbero stati fuori luogo.
Dapprima, il comandante si limitò a guardarlo da sopra una spalla, come a voler valutare se valesse la pena girarsi completamente, poi decise che fosse meglio tenere d’occhio Kisshu, piuttosto che filosofeggiare sulle gallerie.
Quel ragazzo non gli piaceva. Per niente.
— E’ un regalo di mia moglie. — Gli rispose, squadrandolo diffidente, quasi fosse un animale feroce pronto a saltargli addosso.
— Ah. Carino. — Commentò, mentre negli occhi gli balenava una luce sinistra.
Quando il comandante si piegò a riprendersi la statuetta, Kisshu si era già alzato e aveva fatto qualche passo verso uno scaffale sepolto da suppellettili inutili e altri libri.
— La sto solo guardando. Vedrà che non si sciuperà per un po’ di attenzione. —
L’uomo ritrasse il braccio, altrimenti teso nel vuoto.
— Me lo ridia. — Ordinò, allungando una mano e facendo un altro tentativo, ma Kisshu si scansò di lato.
Il comandante imprecò, muovendosi per riprendersi con la forza la statuetta.
Fece una finta, girò su se stesso e riuscì ad afferrare Kisshu per un polso.
Il ragazzo sorrise — Mi ha preso. — Osservò, lasciando scivolare per terra il faro, che andò in frantumi giusto sul piede del comandante.
Non poté trattenere un ghigno, mentre l’uomo si abbassava dolorante e peggiorava da sé la situazione, tagliandosi con le schegge di vetro sparse sul pavimento.
Certa gente era proprio idiota.
Si accovacciò anche lui, le mani sulle ginocchia e la miglior espressione preoccupata che gli riuscì di fare.
— Dovrebbe andare in infermeria. — Disse — Quella mano sanguina parecchio. —
Figlio del Diavolo... — Mormorò l’uomo a denti stretti, alzandosi malfermo. Da una tasca estrasse un fazzoletto bianco e, con quello, si fasciò alla meno peggio.
Saettò con lo sguardo su Kisshu come a volerlo incenerire e spargerne le ceneri al vento. L’altro, ancora accucciato per terra, non sembrava fare molto caso all’odio traboccante del comandante, che, prese le chiavi con la mano buona, si avviò zoppicante all’uscita dell’ufficio.
— Chiudo a chiave. Quindi, non sperarci nemmeno. —
Non sapeva neanche a cosa si stesse riferendo con esattezza, per questo rimase sul vago. Di gente dalla doppia identità ne aveva conosciuta parecchia: per lo più piccoli truffatori che si guadagnavano da vivere rubando agli abitanti di un mondo marcio.
Una volta scoperti, si dileguavano nel nulla. Ecco, forse era a questo che alludeva. Con la porta chiusa a chiave e la finestra ermetica, non sarebbe potuto andare lontano, a meno che non si fosse smaterializzato. Cosa che una matricola, di norma, non sapeva fare.
Scrollò le spalle, inserì la chiave, un tubicino in metallo rettangolare, e sigillò la porta automatica. Se ne andò zoppicando, guardando torvo chiunque sentisse bisbigliare alle sue spalle.

Kisshu attese per un po’, prima di alzarsi. Giusto il tempo che poteva servire ad uno zoppo per girare il primo angolo del corridoio.
Scavalcò i cocci di vetro sul pavimento e prese a frugare senza ritegno nei cassetti della scrivania, attento a non sconvolgerne l’ordine. Ficcanaso sì, ma non così scemo.
Non c’era bravo comandante che non avesse una copia di chiavi di riserva, nascosta da qualche parte.
Sollevò carte, libri, palmari, stilografiche e penne d’uccello (che diavolo se ne faceva delle penne?!), ma non trovò nulla.
Sbatté i piedi, impaziente. Il vice sarebbe potuto tornare da un momento all’altro.
E se avesse avuto lui le famigerate chiavi?
Scrollò il capo, come a voler scacciare la sfiga, che si menava da solo.
Poi gli occhi gli caddero su di una mensola e ai suoi soprammobili. Tra questi c’erano anche un paio di piccole coppe, sicuramente in finto oro. Pensò fosse il posto perfetto per una chiave da tenere nascosta.
Prese la poltrona del grande capo ferito, provando un certo gusto infantile a salirci sopra, e allungò un braccio dentro le coppe.
La prima, la seconda, la terza.
Sorrise, tronfio, estraendo un piccolo bastoncino in metallo. Il cartellino che lo accompagnava recitava inequivocabile: “Riserva”.
Si lasciò cadere seduto sulla poltrona e, datosi una piccola spinta, fece girare le ruote sotto di essa fino all’ostacolo della porta, chiusa.
Stava per aprire, quando venne distratto dalla voce nasale del vice, in corridoio. Brontolò qualcosa che non riuscì ad afferrare in pieno e poi si allontanò. Dieci a uno se ne stava andando a cercare il comandante.
Sorpreso da un così ampio sorriso da parte della Fortuna, girò la chiave nella toppa. La porta si aprì e lui, ancora placidamente accomodato sulla poltrona del comandante, si trovò davanti a quello che doveva aver “adottato” come fratello, qualche giorno prima.
Avrebbe voluto averne la certezza guardandolo di spalle, ma non gli andava ancora di abbandonare il proprio “trono”, che non poteva passare in corridoio.
L’altro ragazzo, dal canto suo, si limitava a fissarlo in silenzio, domandandosi probabilmente cosa potesse avere a che fare con un tipo simile.
— Pai Ikisatashi, suppongo. — Proferì Kisshu, poggiandosi allo schienale della poltrona quasi a volersi ribaltare indietro.
Per tutta risposta, lo vide incrociare le braccia al petto.
Simpatico”, commentò Kisshu mentalmente. Chissà se la sua eccessiva loquacità gli avrebbe mai permesso di esporre le proprie ragioni.
— Devo chiederti un favore. —
Silenzio.
— D’accordo, facciamola breve. Ti ho rubato il cognome. —
Come a dimostrazione del fatto che lo stava effettivamente ascoltando, Pai inarcò un sopracciglio, scettico.
— Sì, detta così sembra una cosa alquanto idiota. — Osservò da sé il più giovane, passandosi una mano tra i capelli — Il fatto è che... ehm... ho scoperto dell’esistenza di queste schifezze chiamate “cognomi” due anni fa. Credo. Avevo dieci anni quindi... sì, due anni fa. — Confermò, facendo ruotare la poltrona su se stessa per prendere tempo.
— Tralasciando come abbia fatto fino ad ora senza cognome, — riprese mentre ancora girava e constatava quanto fosse disordinato il comandante — me ne serviva uno per iscrivermi qua dentro, così ho preso il tuo. —
Cadde il silenzio, presto interrotto dal suono della campana di richiamo alla mensa.
In breve si levò un brusio di chiacchiere come a colonna sonora dell’Accademia. I ragazzi si precipitavano a mangiare l’unico pasto caldo assicurato nel corso della giornata, rumorosi come un branco di Chimera Animal.
— E’ stata una cosa molto stupida. — Commentò Pai lapidale — I registri sono controllati. —
Ehi, allora una lingua ce l’aveva!
Kisshu bloccò la poltrona davanti al ragazzo — Grazie, adesso lo so anch’io. — Replicò scocciato.
Doveva muoversi, o il comandante sarebbe tornato e lui sbattuto fuori. Non doveva succedere.
Per lo meno, non prima di aver mangiato.
— Beh? Cosa vuoi? —
— Ah già. — Fece Kisshu, ormai rapito dal principio del corridoio — Dovresti coprirmi. Fingerti mio fratello, ecco. —
Pai sbuffò divertito — Non ti conosco nemmeno. — Obiettò, come a voler dire: “Non può esserci motivo al mondo che mi spinga ad aiutarti”.
Ma Kisshu non prestava mai molta attenzione alle ragioni degli altri e, se lo faceva, le ignorava.
— Cosa vuoi? — Domandò, ormai desideroso di richiudersi la porta alle spalle e lasciare che se la sbrigasse qualcun altro per lui.
Stava perdendo troppo tempo. Certo, il comandante era zoppo, ma non poteva impiegarci un’eternità per tornare.
Imprecò tra sé e sé, deciso a giocarsi tutte le carte — Qualunque cosa. — Disse, senza pensare davvero alle conseguenze di quelle due parole, pronte a ritorcersi contro il proprio padrone come una lama a doppio taglio.
— Qualunque? — Chiese conferma Pai, con un sorriso poco rassicurante a fior di labbra.
Kisshu lasciò perdere di vista il corridoio, concentrandosi piuttosto sulla condanna da lui appena firmata.
Provò a fare una faccia da “Sì, ma non essere troppo cattivo. Non è colpa mia”, ma non sembrò sortire un grande effetto.
— Io ce l’ho già un fratello. — Lo informò, scandendo lentamente le parole così da essere inteso senza aver bisogno di ripetere — Adesso sta da una signora giù in città. Purtroppo ho sentito che per due giorni alla settimana non potrà occuparsene. —
Kisshu corrucciò la fronte, vedendo delinearsi all’orizzonte la propria fine come una macchia d’inchiostro cupo e denso si allarga su un pavimento. Provò a dire qualcosa in sua difesa, ma venne preceduto.
— Ci alterneremo. — Tagliò corto Pai — Prendere o lasciare. A me, in fondo, non importa. —
— Aspetta un attimo. — Intervenne l’altro, cominciando ad agitarsi. Quella condizione non gli piaceva per niente.
— Questo tuo fratello... —
Pai lo interruppe — Si chiama Taruto e ha sette anni. —
In risposta al silenzio di Kisshu, che si masticava un labbro indeciso sul da farsi, aggiunse, con un tono che non ammetteva repliche — O così, o non se ne fa niente. Ma ti consiglio di decidere in fretta, qualcuno deve aver visto il comandante aggirarsi da queste parti. —
Kisshu valutò attentamente l’ipotesi di rifiutare e cercare di cavarsela lo stesso. Fingendosi un malato mentale, per esempio, o ricorrendo alle sue doti d’attore sprecato per impietosire qualche giudice e lasciarlo vivere senza cognome.
Alla fine, un angolo del suo cervello cominciò a lanciargli segnali d’allarme, scanditi dal ticchettare di un orologio immaginario.
Non avrebbe potuto scegliere un fratello meno stronzo?
Sbuffò — Va bene. D’accordo. Facciamo come dici tu, ma vedi di essere convincente. —
Si spinse dentro lo studio — Ti odio. — Sibilò a denti stretti, mentre la porta automatica si richiudeva e lui la bloccava nuovamente.
Scocciato, lanciò la chiavetta metallica a canestro, dentro la coppa. Riportò la poltrona al suo posto d’onore e decise di aspettare lì, giocando con il palmare del comandante e brontolando tra sé.

Kisshu odiava i bambini. Tutti.
Ma Taruto, con quei suoi capelli marroncino vomito, faceva eccezione.
La famosa eccezione che conferma la regola. Anche se, a ben vedere, un’eccezione non conferma affatto una regola, ma, al contrario, la smentisce.
Infatti, Kisshu odiava tutti i bambini. Tranne uno.
Non poteva odiare Taruto. Sarebbe stato un eufemismo.
Era giusto dire che Kisshu lo detestasse con quanto avesse in corpo: desiderava ucciderlo tra lente agonie almeno trentasette volte nel corso della giornata e cercava di scoprire da dove un moccioso di sette anni traesse tutte quelle energie, così da potergli recidere il cavo alimentatore a vita, lasciandolo vegetare come le piante che faceva comparire dagli angoli più remoti della casa.
Poggiò una mano su di un mobile della cucina, massaggiandosi con l’altra una tempia. Avrebbe dovuto farsi spiegare dalla signora “mi ha detto come si chiama, ma non me lo ricordo (di nuovo)” come faceva a non farsi sfasciare casa perché lui, il terzo giorno che la sostituiva, era anche il terzo giorno che vedeva l’abitazione di lei invasa da piante rampicanti, insetti in cerca di cibo, muschio e resina.
Respirò a fondo, cercando di sollevare, invano, la mano incollata al mobile. La guardò con la coda nell’occhio affondare sempre di più sotto uno strato di resina alto, sì e no, cinque centimetri buoni.
Nel mentre, la peste figlia del demonio evocava altre adorabili piantine.
Ma che cavolo se ne faceva un moccioso del pollice verde?!
— Taruto! — Chiamò, dilungandosi sulle vocali.
Il bambino comparve saltellante sulla porta che dava sul corridoio.
— Che c’è? — Domandò innocentemente, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
— Fa. Sparire. Questa. Roba. — Scandì, additando la resina gialla che colava sul pavimento — E tutto il resto. — Soggiunse, usando la mano libera per indicare la casa ridotta a un macello ortofrutticolo.
Il bambino si strinse nelle spalle — Te l’ho detto che non so come fare. —
Non so come fare. — Gli fece eco l’altro, alterando la voce — Stai mentendo, mocciosetto irritante che non sei altro. Quando te l’ha chiesto Pai, hai ripulito tutto, manco fosse sceso un dio in terra! —
Taruto sembrò ammutolirsi, colpevole, ma si riprese subito dopo — Già. — Ammise — E’ un peccato, però, che tu sia solo Kisshu. —
E sparì dietro il muro.
Kisshu chiuse la mano pulita a pugno. Fremeva di collera.
Voleva la guerra? E guerra avrebbe avuto.

Ma, prima, avrebbe dovuto capire come fare a staccarsi la resina di dosso.


Fratelli - Posso avere il tuo cognome?
Fanfiction One Shot scritta da Mitsutsuki Chan

Tokyo Mew Mew è © Mia Ikumi e Reiko Yoshida


Mitsu-Mitsu Tea Time~
Il primo racconto che scrivo davvero bene dopo tanto tempo, sebbene all'inizio dovesse essere il classico raccontino di un'ipotetica infanzia aliena. Poi ho pensato che il Fandom ne fosse già pieno, così ho stravolto il tutto e ho scritto di Kisshu & Co. già grandicelli. Perché io amo distinguermi dalla massa *conduce una vita controcorrente*
Perdonate il titolo idiota alla raccolta, inizialmente pensavo di scrivere One Shot distinte e a sé stanti, ma non posso evitare dei collegamenti, così le metto tutte assieme.

Boh, c'è altro? *Gli inquilini nel cervello di Mitsutsuki fanno cenno di "no" col capo*

Sono tornata *O*!

Mitsutsuki Chan

  
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