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Autore: Chinasky76    19/02/2021    0 recensioni
Comprese immediatamente che ciò che stava facendo era un'azione disperata, quanto cercare di deviare il corso di un fiume adoperando un ombrello.
-Sta calmo e tieni premuto- gli disse ancora, cercando di sorridere -Io cerco il vecchio, gli faccio sputare i soldi e poi... e poi lo ammazzo comunque! Poi ti porto all'ospedale!-
-Adesso...- biascicò Due Dita, il cui colorito ricordava ormai quello di un cero.
-Amico, ormai ci siamo! Tanti soldi! E' quasi fatta!-
-Che si fottano anche i sol...-
Due Dita non riuscì a terminare la frase.
Il ballo con la morte era belle che finito.
Genere: Noir | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA CASA NELLA NEBBIA

 

Castelmonti è uno dei mille paesi, tutti uguali, che si trovano a punteggiare le campagne  comprese tra la città di Brescia e quella di Mantova.

Si adagia proprio sul confine tra le due provincie, sentinella silenziosa a guardia del territorio.

Gli abitanti sono gente semplice, generazioni di agricoltori e commercianti legati al passato che osservano con occhio critico e ormai disilluso un futuro incerto e imperscrutabile, come se lo studiassero, cercando di metterlo a fuoco attraverso un muro di nebbia che ne confonde i tratti rendendoli irriconoscibili.

Uno di quei tanti paesi in cui tutti conoscono tutti, nonostante la popolazione ormai sfiori le ventiseimila anime; una città, che tuttavia conserva l'anima e la personalità di un piccolo borgo, nel quale i segreti e i pettegolezzi la fanno ancora da padroni.

Il BarSport, sorge nella piazza principale, proprio dinnanzi al sagrato dell'imponente basilica neoclassica, da quando, nel lontano 1963 il signor Luigi Chiarini decise di aprirlo, e da allora, è passato di padre in figlio attraverso i decenni, fino ad arrivare ad oggi.

Ed è proprio qui che la nostra vicenda ha inizio.

Era una sera di novembre del 2016, il primo sabato dopo la festa dei morti.

Nella sala del biliardo, quella riservata a certi ceffi che vi raccomando, seduti ad un tavolo, tre figuri erano intenti a confabulare tra loro, gettando di quando in quando occhiatacce verso la porta, e chi avesse la malaugurata idea di varcarne la soglia.

Si trattava di tre elementi ben conosciuti sia alla popolazione che dalle forze dell'ordine.

Mauro Rossi detto “il Lungo”, a causa della sua altezza che sfiorava i due metri, classe 1976 teneva banco, snocciolando una serie di informazioni alle quali gli altri due parevano esser molto interessati.

La sua carriera di piccolo criminale, era iniziata presto, quando non ancora sedicenne era stato pescato a smerciare marijuana nella piazzetta antistante il teatro. Quella volta se l'era cavata con un paio di scapaccioni da parte del maresciallo dei carabinieri, pena che non doveva aver sortito nessun effetto, visto che non più di quattro mesi più tardi, era stato pizzicato nuovamente dal militare nel medesimo posto a compiere l'identico reato. Solo che questa volta la merce in questione era bianca e confezionata in bustine da un grammo. Erano scattate le manette, e da li a poco le porte del carcere minorile di Verziano si erano chiuse alle sue spalle, e tanti saluti alla prospettiva di una vita decente.

Una volta uscito, con lo status di delinquente marchiato in fronte, la vita non gli aveva dato molte occasioni. Non che lui ne avesse chieste, ben inteso.

La sua convinzione, che un'esistenza ordinaria fatta di lavoro, famiglia, un mutuo, una casa e dei figli, fossero solo cose da sfigati, lo spingeva continuamente sulla via dell'illegalità, in un escalation criminale che oltre alla fama di poco di buono non gli aveva fruttato molto di più; fino al giorno in cui il noto regista cinematografico Oreste Campi, vedovo e ormai in pensione, aveva acquistato un vecchio rustico appena fuori paese, in campagna, e dopo averlo ristrutturato vi si era trasferito in totale solitudine.

-Ma ne sei sicuro?- gli chiese di nuovo Mohammed, detto “Magreb”.

-Cazzo, sì! Quante volte te lo devo ripetere! Si è trasferito lunedì scorso. C'hanno messo un giorno a portare tutta la sua roba da Roma! Pareva un cazzo di circo... una colonna di furgoni del genere non l'avevo mai vista- asserì il Lungo spazientito.

-Di'... ma l'allarme? Cioè sto vecchio trombone ce l'avrà un cazzo di allarme! Magari collegato direttamente con gli sbirri!- saltò su “DueDita”, all'anagrafe Gianluca Zanetti, l'ennesimo esponente della schiera dei ruba galline del paese, bollato con quel soprannome da quando, l'unica volta che aveva cercato di guadagnarsi da vivere onestamente facendosi assumere da un falegname, aveva avuto la brillante idea di lasciare due dita, per l'appunto, in pegno a una delle seghe circolari presenti nel laboratorio. Da allora aveva avuto la certezza che la legalità nuocesse gravemente alla salute.

-Certo che ce l'ha l'allarme... ma non è ancora attivo. E non lo sarà fino a lunedì. Me l'ha detto uno di fiducia, il tecnico che gliel'ha installato- concluse ghignando il Lungo, mettendo in bella mostra i pochi denti marci che gli restavano in bocca, subito prima di trangugiare d'un fiato il Montenegro che da dieci minuti buoni stava reggendo in mano.

-Pare troppo facile...- ribatté DueDita con aria pensierosa.

-Ma lo è!- rispose il Lungo sbattendo con forza il bicchiere sul tavolo -Sentite, questo stronzo si è rintanato in quel casolare per starsene in pace mentre fa le ultime cagate della sua vita. E' solo, senza allarme e con la casa piena di chissà quale ben di Dio che aspetta solo noi! Sarà una passeggiata, fidatevi! Entriamo, lo leghiamo come un salame e gli svuotiamo casa in men che non si dica! Un lavoretto facile facile ma che con ogni probabilità ci frutterà una bella somma!-

-E quando lo vorresti fare?- gli chiese Magreb.

-Domani. Lo facciamo domani sera-

-Facile, facile? Sicuro?- continuò DueDita che proprio convinto non lo era. -Io non c'ho voglia di tornare al gabbio!-

-Ma finiscila di lagnarti! Nessuno andrà in gabbia! Hai la mia parola!- concluse il Lungo, intravedendo il successo della sua arringa sui volti dei due soci.

-Per me va bene- asserì dopo alcuni istanti Magreb.

-E tu? Tu cazzone sei dei nostri?- domandò alla volta di DueDita.

-Ma sì... che problemi può darci un vecchio rincoglionito?- rispose in fine il titubante, sotto al peso degli sguardi dei due complici, uniche persone che più si avvicinavano al concetto di amici che potesse sperare di avere in tutta la sua vita.

-E' deciso!- sentenziò quindi il Lungo battendo un pugno sul tavolo in un moto di esultanza.

-E' deciso- ripeterono  gli altri due con un filo meno di enfasi.

Rimasero nel bar fino a notte tarda, bevendo del vinaccio scadente, suggellando l'intento che prometteva di cambiare le loro vite.

Infine, quando il bar e la piazza antistante furono deserti, e il paese dormiente già da un pezzo, con andatura precaria e traballante ognuno dei tre membri di quel gruppo sghembo si diresse finalmente alla propria abitazione, con il cervello sballato dall'alcol e lo stomaco a pezzi.

Dormirono per buona parte della giornata.

Il primo a scendere dal letto fu Due Dita.

Aveva dormito male, invischiato in un sonno tormentato, pieno di incubi e di presagi nefasti.

Erano quasi le tre di pomeriggio quando sbadigliando si fece largo attraverso la calca di vestiti sporchi e pacchetti di sigarette che ricoprivano quasi per intero la superficie del pavimento, abbandonando la camera da letto e facendo il suo ingresso nel piccolo soggiorno con annesso un buco di angolo cottura.

La luce del sole filtrava attraverso i vetri unti dell'unica finestra del locale.

Il puzzo di marijuana era notevole, come altrettanto notevole era stato il numero di canne che l'uomo si era sparato la notte precedente, appena rientrato in casa, quando i fantasmi dei dubbi lo avevano aggredito senza pietà, urlandogli nel cervello che si era imbarcato in una cazzata di proporziono bibliche.

Lui lo sapeva, ne era convinto, e per far tacere quelle maledette sirene che gli trapanavano la testa non aveva trovato miglior rimedio che fumare.

E diavolo, aveva funzionato!

Tutti i dubbi e le paure erano volati via assieme alle corpose boccate di fumo che espelleva dalle narici.

Incertezze, preoccupazioni e thc se ne svanivano a braccetto fuori dalla finestra, avviluppandosi su sé stesse, fondendosi con la nebbia che come una coltre grigiastra abbracciava tutto il paese.

Imprecando tra sé e sé, aprì il frigorifero.

I crampi che gli aggrovigliavano lo stomaco cozzarono con violenza contro la desolante vuotezza dell'elettrodomestico.

Una bottiglia di birra da 66cl piena a metà, una crosta di Parmigiano mezza ammuffita e un vasetto di cetrioli sottaceto ormai vuoto.

Riprendendo a imprecare afferrò la birra, trangugiandone il contenuto svanito tutto d'un fiato.

“Se il buongiorno si vede dal mattino...- pensò, piazzato davanti alla finestra, osservando il muro di nebbia che si poteva tagliare con un coltello, mentre si grattava le terga sovrappensiero “...credo mi aspetti proprio una giornata di merda”

Il Lungo varcò l'ingresso del BarSport alle ventuno in pacca.

Era già bello su di giri, non vi era dubbio.

Salutò il barista con un'alzata di braccio, dirigendosi di volata nella saletta del biliardo, smandibolando come un ossesso.

-Oi, Lungo...- lo salutò Due Dita.

Lui rispose alzando il mento e nulla più.

-Siete in canna?- chiese meccanicamente, mentre con l'indice si tappava la narice sinistra, dando una bella tirata con la destra, sentendo quel misto amarognolo e  familiare di muco e residui di coca scendergli rapido in gola.

-Di'...- riattaccò DueDita, la cui agitazione aumentava di minuto in minuto -...non è che te ne avanza un po'... giusto per darmi un po' di fiducia extra...-

Il Lungo tirò un ghigno da far accapponare la pelle, infilando una mano nella tasca interna del chiodo, gettando una bustina di polvere proprio sotto agli occhi del compare.

-Non fare complimenti...- 

Luciano Chiarini, il titolare della baracca raggiunse il tavolo, depositando un bicchiere di Montenegro alla destra del Lungo, sparendo subito dopo.

Era abituato a certe cose e in fin dei conti non gli faceva né caldo né freddo, a patto che quei tre non iniziassero a smerciare la roba li dentro.

Se volevano spararsi un paio di colpi per tirarsi su, che facessero pure, ma spacciare nel suo locale era fuori discussione.

Due Dita vuotò metà bustina buona sul dorso della mano monca e, avvicinato il naso, fece sparire la coca con un bel tirone.

Magreb osservava il tutto agitando contrariato il capo restando in silenzio.

-Allora...- riattaccò il Lungo passandosi una mano nella chioma ingrigita e unta -...ho sentito il mio contatto, e quello mi ha garantito ancora che l'allarme è fuori gioco, sino a domani... ovviamente una fetta di quello che prenderemo stasera dovremo darla a lui... ma non è un problema... tanto quello stronzo mica sa cosa c'è in quella casa. Ce lo rigireremo come un pollo-

I due annuirono in silenzio.

-Appena entriamo in casa cerchiamo subito il vecchio, lo leghiamo e ci facciamo dire dove tiene i soldi. Certi stronzi ce l'hanno sempre un po' di grana nascosta in casa, ci potrei giurare! Poi rovistiamo in giro, arraffiamo quello che c'è di valore, che so'... argenteria, gioielli e cazzate del genere, e in men che non si dica, ce la filiamo con il bottino! Tutto chiaro?-

-Chiaro!- starnazzò Due Dita a cui la coca doveva aver iniziato a fare effetto.

-Bene!- chiosò il Lungo, incassando anche l'approvazione di Magreb, che non era tipo da tante parole.

-Andiamo?- chiese DueDita iniziando a masticarsi i denti.

-No, no...- rispose il Lungo afferrando dal tavolo la mezza busta avanzata dal socio -...ci si muove verso la mezza... ora è troppo presto- concluse, svuotandola del tutto sul dorso della  mano.

-E che si fa fino a quell'ora?- continuò Due Dita che ormai di rimanere fermo non ne poteva più. La fiducia extra assunta poco prima lo stava facendo raspare come un gallo nel mezzo dell'aia.

-Boh...- sbottò il Lungo digrignando i pochi denti rimasti, mentre con una smorfia sentiva la polvere bruciargli dentro al naso fino su al cervello -...che ne dite di andare dalla Marcella? Una scopata prima del colpo male non farebbe...-

-Sì, sì!- urlò Due Dita che era già scattato in piedi afferrando il piumino, lercio e costellato di bruciature di sigaretta.

-Tu vieni?- chiese il Lungo a Magreb.

-Io passo... mi bevo ancora un po' di vino e vi aspetto- rispose, agitando il bicchiere di Amarone, rancido che stava bevendo.

-Come vuoi- rispose il Lungo alzando le spalle.

Tre ragazzi, poco più che ventenni iniziarono a ridere.

Il Lungo voltò la testa, osservandoli attraverso la stanza appoggiati al bancone intenti a fissarli.

Lentamente portò la mano alla cintura dietro alla schiena, serrandone la presa sull'impugnatura del ferro che s'era portato appresso.

-Oi Lungo... stai buono- gli disse Due Dita, che una volta alzatosi lo aveva raggiunto, poggiandogli la mano sulla spalla -Non è mica il caso sai? Sono solo tre stronzetti. Li pizzichiamo in giro un'altra volta. Stasera abbiamo altro da fare che non impelagarci con quelli la...-

-Ma sì- ringhiò lui non del tutto convinto -stasera a quei tre gli ha detto bene. Andiamo dai, per strada chiamo la Marcella e le dico di apparecchiarsi il culo che stasera la faccio urlare- concluse ghignando, senza levare per un solo istante gli occhi dai tre ragazzi.

Uscirono alla spicciolata, lasciando Magreb a trangugiare quel dozzinale vino annacquato, venendo inghiottiti all'istante dalla nebbia che nel frattempo era aumentata, appiccicandosi addosso agli edifici, facendoli apparire come acquerelli sbiaditi su una tela logora.

Alle 23.40, Magreb montava sulla Nissan Primera di Due Dita, sistemandosi sul divano posteriore.

L'auto stava ancora assieme solo per miracolo, e gli interni non erano certo da meno di come appariva conciata la carrozzeria.

Ammaccata, arrugginita e con uno sportello di un improbabile blu elettrico che risaltava immediatamente sul resto della stessa, color topo.

Il tessuto dei sedili era color crema, in un materiale simile alla ciniglia, tempestato di macchie scure delle quali era meglio ignorare la natura.

C'era cenere ovunque, e un tanfo di chiuso da levare il respiro.

Il Lungo e Due Dita erano già belle che carichi, in parte per la coca che si erano fatti, e in parte per la loro personale competizione su chi dei due avesse montato meglio la Marcella che, a sentir lei, due amanti così mica li trovava tutti i giorni.

Per quanto nella testa di Magreb, risultasse assai arduo riuscire a dimostrare a una puttana tutto il vigore di cui si può esser dotati in un lasso di tempo che superava appena i dieci minuti, preferì non fare commenti.

Si avviarono lungo Via Martiri della Libertà, raggiungendo la strada che dalla periferia del paese si snodava verso il ponte sul fiume. Lo attraversarono, costantemente immersi in quella bruma maledetta che sembrava zucchero filato.

Oltrepassarono l'edificio dell’Ente Fiera, se ne accorsero perché l'illuminazione del complesso creava una palla di luce, che amplificata da quell'odiosa caligine sembrava levitare nel buio.

-Stai attento monco...- gli disse il Lungo accendendosi una sigaretta -...la strada dev'essere qua vicino, sulla sinistra-

Lui rallentò, aguzzando lo sguardo nella direzione indicatagli dal compare.

La sterrata iniziava proprio li.

Pigiò il freno con decisione, sterzando nel contempo.

Gli stop della vettura esplosero di luce rossa, colorando la nebbia, facendola apparire come una delle bocche dell'inferno.

La Primera ebbe un accenno di sbandata, ma Due Dita la controllò senza problemi.

Alcun istanti più tardi, tra le bestemmie dei suoi occupanti, la vettura procedeva spedita sul tracciato della sterrata, sollevando appena sbuffi di polvere al suo passaggio.

Procedettero per circa un chilometro, e quando raggiunsero lo spiazzo, sul lato del quale sorgeva un enorme olmo secolare, spensero l'auto parcheggiandola sotto i rami spogli della pianta.

Smontarono.

Il Lungo stava già saltellando per scaldarsi, avvicinando le mani a coppa alla bocca alitandovi all'interno.

-Dove si va?- chiese DueDita battendo i denti.

-Per di la- rispose il Lungo, indicando un sentiero che dallo spiazzo si perdeva nella nebbia -Attraversiamo il campo e sbuchiamo sul retro della proprietà-

Gli altri due annuirono, incamminandosi nella direzione indicata dall'ideatore di tutto.

Giunsero in prossimità della tenuta una decina di minuti più tardi, intirizziti dal freddo e dall'umidità che gli si appiccicava addosso.

Il perimetro dell'area era delimitato da una serie di faretti, luci fluttuanti nella nebbia.

Non c'erano muri o recinzioni a delimitare l'area.

Solo il praticello d'erba, leggermente bruciacchiato dal freddo ma comunque ordinato, ne delimitava i confini, risaltando nettamente in contrasto al bruno smosso dei campi ancora incolti che la circondavano.

Si trovavano sul retro dell'imponente cascinale che il regista aveva appena ristrutturato.

I muri della costruzione, interamente in pietra, parevano ondeggiare ed emergere da un ricordo, sfumati com'erano dalla bruma.

-Ci dovrebbe essere una porta...- sussurrò il Lungo cercando di fendere con lo sguardo la caligine -...eccola!- sbottò quindi una volta individuata.

Si mossero in fila, leggermente piegati in avanti avanzavano alla pari di una colonna di pinguini in marcia per la vita.

Raggiunsero il muro della casa, appiattendovisi contro.

Magreb poggiò una mano sulla maniglia, abbassandola leggermente.

Era aperta.

Uno via l'altro si intrufolarono attraverso l'apertura.

-Facile, facile. Come rubare le caramelle a un bambino- pensò il Lungo ghignando nell'oscurità, richiudendo il battente alle sue spalle.

Da ciò che riuscivano a vedere, si trovavano in cucina. Una cucina drasticamente enorme, molto probabilmente più grande da sola di uno qualsiasi dei loro appartamenti.

-E ora? Che facciamo?- chiese Due Dita, tirando su con il naso nell'oscurità.

Ma il Lungo si era già buttato nell'azione, procedendo spedito verso la porta che sorgeva sulla parete opposta della stanza.

La raggiunse, aprendola, scostandone un poco il battente, fino a quando gli fu possibile gettarvi attraverso una rapida occhiata.

C'era un salone oltre la porta, una stanza della quale, dalla posizione in cui si trovava, non riusciva a determinare le dimensioni.

Lentamente spalancò il battente sul locale immerso nella penombra e nel silenzio.

La poca luce che illuminava la stanza proveniva dalla mastodontica parete, interamente in vetro, che dava sulla corte della cascina, racchiusa dalle due ali esterne della stessa.

Senza indecisioni il Lungo entrò nel locale, svoltando a sinistra, seguendo le indicazioni che gli erano state spifferate dal tecnico dell'allarme, che quella casa a furia di lavorarci, la conosceva ormai a menadito.

Oltrepassarono il pianoforte a coda, costeggiando la parete tappezzata dalle memorabilia più assurde che scandivano la carriera del regista.

Locandine di pellicole, premi, riconoscimenti e onorificenze facevano bella mostra, appese ai muri come teste di animali in casa di un cacciatore.

Raggiunsero le scale che portavano al piano superiore.

Il Lungo vi si fermò ai piedi, voltandosi di scatto verso i due complici che lo seguivano come ombre.

-La camera del vecchio è al piano di sopra, terza porta a destra-

Gli altri due annuirono in silenzio.

-Lo svegliamo, gliene suoniamo quattro, giusto per fargli capire chi comanda e gli facciamo spifferare dove sono i soldi- concluse, avviandosi lungo la scalinata.

Un riflesso dinnanzi a sé attirò la sua attenzione.

Meccanicamente allungò una mano, serrandone la presa sull'impugnatura del coltellaccio che qualcuno aveva maldestramente abbandonato sulle scale.

-Magari può tornare utile- pensò tra sé e sé.

Il pensiero che un oggetto di quelle fattezze non stesse attendendo altro che essere raccolto, così lontano dal posto in cui naturalmente si sarebbe dovuto trovare, non parve sfiorarlo nemmeno lontanamente.

Raggiunsero l'inizio del corridoio. Contando le porte il Lungo prese ad avanzare, sino a giungere dinnanzi a quella che doveva essere del regista.

Si voltò, osservando le due sagome scure che con andatura incerta lo raggiungevano, emergendo dall'oscurità.

Rinfrancato dalla loro presenza pose la mano sulla maniglia, abbassandola, spingendo il battente sull'inchiostro nero che colorava per intero il locale.

Tutto era immerso nel silenzio.

A tentoni trovò l'interruttore sul muro, alla destra della porta.

Lo fece scattare, lanciandosi quindi verso l'imponente letto a due piazze che ora vedeva chiaramente, un paio di metri davanti a lui.

Coprì la distanza in un paio di balzi, attraversando la superficie intonsa del pavimento, nell'intento di non dare al padrone di casa nemmeno il tempo di aprire gli occhi.

In un lampo fu sul letto, prendendo ad avanzare a quattro zampe, in preda a una frenesia crescente.

-Sveglia testa di cazzo!- urlò, afferrando le coperte strattonandole via, puntando la lama contro alla sagoma che vi si trovava al di sotto.

Ci mise un minuto buono a realizzare la scena che gli si parava dinnanzi agli occhi, quindi, intuitane la gravità, cacciò un urlo, rotolandosi di lato, cadendo malamente dal letto sul quale con tanta furia si era gettato.

Il coltello roteò nell'aria, per ricadere a terra.

Due Dita e Magreb irruppero nella stanza, varcandone finalmente la soglia sulla quale erano rimasti appollaiati fino a quell'istante.

-Cazzo succede?- chiese il primo, non cogliendo la natura dell'impeto con il quale il suo compare si era letteralmente tuffato dal talamo.

Poi vide.

Semicoperto dalle lenzuola, un cadavere era adagiato sul materasso, nel mezzo di un'enorme pozza di sangue che dalla testa e dalle altre innumerevoli ferite presenti sul corpo, si allargava fino a disegnare un'enorme uovo cremisi che lo racchiudeva del tutto.

-Ma che cazzo...- mormorò Magreb, incurante del fatto che Due Dita avesse preso a vomitare li accanto a lui.

Il Lungo si rialzò, fissando inorridito prima il cadavere e poi le sue mani colorate di rosso.

In un atto convulso iniziò a sfregarsele istericamente sulle cosce, nel tentativo di levarsi il sangue di dosso.

-E questo chi cazzo è?- mormorò Magreb, al quale quella vista cruenta non pareva fare lo stesso effetto che faceva agli altri due.

-E' Davide...- riuscì a dire il Lungo dopo alcuni istanti, riacquistata una parvenza di controllo -...è lo stronzo che mi ha dato la dritta sull'allarme- aggiunse, subito prima di lasciarsi scappare un lungo sospiro.

Dal canto suo, Due Dita, era ancora piegato in due e continuava a vomitare.

In un istante la luce sparì, gettando l'intero edificio nel buio.

Bestemmie sommesse e imprecazioni fantasiose esplosero all'istante, sottolineando la sorpresa dei tre.

-Andiamocene, andiamocene Lungo...- piagnucolò nell'oscurità Due Dita, che non avendo più nulla da rimettere aveva finalmente ripreso l'uso della parola.

Dal canto suo il Lungo aveva già estratto il ferro, facendolo danzare alla cieca in quella melma di buio.

-Ma che cazzo succede?- ringhiò a bassa voce.

-Non lo so, ma non mi piace- rispose sussurrando Magreb, ostentando una calma serafica.

-Andiamocene per Dio! Qua butta male!- miagolò ancora Due Dita, invischiato sempre più nelle sabbie mobili della paura.

-Nessuno va da nessuna parte!- sibilò il Lungo, accendendo il flash del suo smartphone, usandolo a mo' di torcia. -Cerchiamo il vecchio... dev'essere da qualche parte, non vi è dubbio...-

-Ma cazzo! C'è un morto ammazzato qua! Nessuno aveva mai parlato di un morto!- continuò Due Dita che ormai il sangue freddo l'aveva esaurito.

-Chiudi la bocca monco, o di cadaveri ce ne saranno due!- gli rispose il Lungo spazientito da quella continua lamentela.

Aveva bisogno di un istante di calma, doveva riflettere.

Imprecando si fece strada fino alla porta, uscendo dalla stanza e riemergendo nel corridoio.

Vi erano altre cinque porte che vi si affacciavano.

Una a una le aprirono.

Tre chiudevano altrettante stanze non ancora arredate, le rimanenti due apparivano camere da letto approntate per eventuali ospiti.

Imbufalito il Lungo si incamminò a passo spedito verso le scale, scendendo al piano terra seguito a ruota da Magreb e da Due Dita che di smettere con le lagne proprio non voleva saperne.

-Cristo! Vedi di finirla o quant'è vero Iddio ti pianto un colpo in zucca!- sbottò in fine il Lungo, una volta messo piede sul pavimento del salone.

Due Dita obbedì.

-Vediamo di stare calmi- riprese il Lungo controllandosi un poco -ora la cosa importante è cercare di trov...-

Una serie di picchietti cadenzati attirò la sua attenzione, provenendo dal lato opposto del salone.

Lentamente tutti e tre volsero la testa in quella direzione.

Illuminato appena dalla luce che entrava dalle vetrate, la sagoma imponente e minacciosa di un cane si stagliava contro l'oscurità.

Era grosso. Dannatamente grosso.

Le orecchie, tagliate a triangolo irte sul capo a mo' di corna ricordavano la sagoma di un diavolo, il ringhio cupo che li raggiunse, li fece impallidire.

Il Dobermann caricò. Il suono degli artigli che grattavano il pavimento non lasciò loro dubbi.

Colti alla sprovvista da quell’apparizione minacciosa, d'istinto si voltarono, cercando di trovar riparo lungo le scale, ma quel demonio nero in quattro balzi aveva già coperto la distanza che lo separava dagli intrusi.

Il più sfortunato fu Magreb, che chiudeva la fila.

Le possenti zampe dell'animale lo colpirono alla schiena, mandandolo a terra pressoché all'istante.

Il pavimento impattò con violenza la testa dell’uomo, tramortendolo.

Le fauci della bestia che gli si serrarono implacabili sul collo lo fecero rinvenire all'istante.

Urlò, mentre i denti dell'animale si chiudevano in una morsa implacabile.

Magreb prese a dimenarsi, sotto al peso del cane che, come nulla fosse lo teneva costretto a terra, standogli sulla schiena, intento a lacerargli le carni del collo.

Le urla si abbassarono, cedendo il passo a una serie di gorgogli da far rizzare la pelle. Poi fu solo una lunga serie di schiocchi secchi. Carni strappate, ossa rotte. Nulla veniva risparmiato dalla furia dell'animale.

Uno specchio di liquido scuro si allargava sulla superficie tirata a lucido della stanza, portando con se la danza macabra della poca luce che incurante vi balenava al di sopra, come mille frenetici cristalli di stelle rosso cupo.

Due Dita osservava stregato tutta la scena, ammaliato dal fascino brutale della morte.

-Muoviti per Dio!- tuonò il Lungo, scuotendolo da quel torpore di cui era preda.

Il cane alzò la testa, osservandoli, mostrando loro la serrata di zanne grondante sangue.

Due Dita fece un passo indietro. L'animale ringhiando scattò in avanti.

Gli fu addosso in un attimo, travolgendolo con il proprio peso, costringendolo sulla schiena con le mani protese nel tentativo di evitare l'incontro che ormai appariva ineludibile con quei denti bramosi di altro sangue.

Il Dobermann morse due volte a vuoto.

Due Dita strinse le mani attorno al collo dell'animale, cercando di limitarne i movimenti del capo.

Gli spuntoni del collare gli si piantarono nei palmi, facendolo urlare di dolore, e più lui serrava la presa, più il cane agitava la testa, allargando le ferite, dilaniandogli le carni.

Inferocito da quella reazione, l'animale prese a raspare con le zampe anteriori, graffiando,  strappando il piumino, il maglione e in fine il torace dell'uomo.

Due Dita urlò di nuovo, gettando indietro la testa.

Il cane affondò, assestandogli un morso alla gola.

Poi fu un boato, e poi subito un altro.

Il corpo senza vita della bestia si accasciò sulla sua preda, aprendo finalmente le fauci.

Un ultimo tremito scosse il corpo dell'animale, un istante prima che il Lungo, con un calcio lo facesse rotolare a lato del compare ferito, reggendo ancora ben saldo in mano il revolver.

-Dio Buono!- urlò inginocchiandosi accanto a Due Dita

Lui lo fissò con gli occhi colmi di terrore, di chi sa che l'ultimo ballo con la morte non è poi così lontano.

-A-aiutami- disse, prima di tossire sangue -Portami in ospedale-

-Stai buono balordo- gli rispose lui, afferrando il fazzoletto lercio che aveva in tasca, poggiandolo sulle lacerazioni che gli ornavano il collo, premendo un poco per cercare di arrestare l'emorragia.

Comprese immediatamente che ciò che stava facendo era un'azione disperata, quanto cercare di  deviare il corso di un fiume adoperando un ombrello.

-Sta calmo e tieni premuto- gli disse ancora, cercando di sorridere -Io cerco il vecchio, gli faccio sputare i soldi e poi... e poi lo ammazzo comunque! Poi ti porto all'ospedale!-

-Adesso...- biascicò Due Dita, il cui colorito ricordava ormai quello di un cero.

-Amico, ormai ci siamo! Tanti soldi! E' quasi fatta!-

-Che si fottano anche i sol...-

Due Dita non riuscì a terminare la frase.

Il ballo con la morte era belle che finito.

“Facile, facile...-  continuava a ripetergli quella vocina nella propria testa, mentre lui, incapace di distogliere lo sguardo dal volto distorto dal dolore del suo compare, continuava ostinatamente a tenergli il fazzoletto premuto attorno al collo.

“Facilefacilefacilefacile!”

Gocce di pioggia iniziarono ad abbattersi sulla superficie della vetrata.

Lui voltò il capo.

Fuori, la nebbia aveva preso a vorticare, apparendo ora come un infinita distesa di fumo liquido in perenne movimento, danzando, aggrovigliandosi su sé stessa, al pari delle sue budella.

Si alzò.

La semioscurità ingoiò Due Dita, lasciando al suo sguardo solamente la sagoma scura dei suoi lineamenti.

Il Lungo si passò il dorso della mancina sulla bocca, cercando di levarsi gli schizzi di sangue che dall'ultimo colloquio con l'amico gli adornavano il viso.

-Da dove diavolo era sbucato quel cane?- si chiese infine.

Quando erano entrati in casa l'animale doveva essere rinchiuso da qualche altra parte, e a meno che quel demonio non sapesse aprire le porte... qualcuno doveva averlo liberato al momento giusto.

Una rabbia mai provata gli esplose nel profondo.

Il vecchio... dietro tutto ci doveva per forza essere lui.

-Oh... vecchio stronzo, pagherai anche per questo- ringhiò, facendo balenare lo sguardo nel buio, cercando di ricordare da che direzione fosse apparsa la bestia.

Vide la porta poco dopo.

I suoi occhi, ormai abituati alla gradazione di buio la individuarono, socchiusa, all’altro capo della stanza.

Tenendo il ferro puntato davanti a sé, attraversò il locale, masticando odio e convivendo a stento con quella sensazione che gli solleticava lo stomaco e seccava la bocca. 

Paura.

Con un calcio spalancò il battente che di rimando ruotò sui cardini, rivelando agli occhi dell'uomo una rampa di scale che si tuffava nell'oscurità.

Maledisse la sorte per avergli fatto perdere il telefono e con esso l'unica fonte di luce a disposizione durante il trambusto di poco prima.

Avrebbe dovuto andare a cercarlo... in casa non doveva rimanere nessuna traccia che potesse l'indomani collocarlo in quel luogo a chiunque fosse arrivato per investigare sull'accaduto.

“Poco male...- si ritrovò a pensare mentre poggiava un piede sul primo gradino “...prima di andarmene tornerò a recuperarlo”

Avanzò, un passo dopo l'altro, sprofondando in quel buio vischioso.

Giunse al piano interrato.

Davanti a lui si apriva una porta, attraverso la quale poteva scorgere un'enorme stanza, illuminata debolmente da una serie di luci tremule.

Tenendo il revolver ben saldo in mano avanzò.

Si trattava di uno stanzone per lo più vuoto, ma la cosa che lo attirò, era la serie di monitor, di diverse dimensioni che tappezzava la parete opposta, e la poltrona, enorme, sulla quale un uomo se ne stava tranquillamente seduto a fumare una sigaretta, stagliato contro la luce degli schermi.

Percepì lo sguardo dello sconosciuto trafiggerlo come un dardo infuocato.

Il Lungo avanzò ancora, sull'onda dell'euforia generata dal profumo della vendetta che poteva ora respirare a pieni polmoni.

La porta alle sue spalle si chiuse di scatto, rispondendo a un gesto impercettibile della mano dell'uomo seduto davanti a lui.

Il Lungo sobbalzò, voltandosi di getto.

I suoi occhi danzavano rapidi dallo sconosciuto alla porta, in un susseguirsi di balzi da far girare la testa.

La fuga interdetta da un lato, la vendetta dall'altro.

Dopo un rapido esame, optò per la seconda.

D'altro canto era lui ad avere il cannone in mano, quello era solo uno stupido vecchio che con un bel po' di fortuna aveva accoppato i suoi due soci.

Non che quei due rappresentassero una gran perdita per l'umanità, e non erano nemmeno le due persone più sveglie che conoscesse.

Far fuori il Lungo, sarebbe stata cosa un po' più difficile, si ritrovò a pensare, mentre quell'odiosa vocina ricominciava a intonare la solita sinistra litania nella sua testa.

“Facilefacilefacilefacile”

Ignorando il sudore che gli stava rigando il viso, prese ad avanzare.

In preda a una frenesia di sangue alzò il ferro, allineandone la tacca di mira con il suo occhio e la testa del vecchio che tuttavia non pareva muoversi, quasi che fosse rassegnato alla fine che lo attendeva.

-Fine dei giochi vecchio stronzo!- rimbombò la voce del Lungo, anticipando di un soffio i boati dei quattro spari che il delinquente esplose in rapida successione.

Quattro ragnatele cristalline apparvero dal nulla diramandosi attorno a proiettili immobili al loro centro, sospesi a mezz'aria all'altezza della testa del vecchio, lasciando di stucco l'uomo che li aveva appena sparati.

Il vecchio lentamente si chinò di lato, raccogliendo qualcosa dal pavimento, accanto alla poltrona, qualcosa di lungo, affusolato e dall'aria minacciosa. Quindi, dopo aver gettato a terra il mozzicone si alzò in piedi.

Le luci si accesero all'istante, inondando la stanza, annientando l'oscurità che vi aveva regnato, rivelando agli occhi del Lungo l'esistenza di una parete trasparente che divideva in due il locale, contro la quale i proiettili dell'uomo avevano terminato la loro corsa.

-Una panic room- esordì Oreste Campi con voce pacata.

Il Lungo spiazzato compì un impercettibile passo indietro.

-Una bella trovata non credi?- aggiunse il regista, mentre una porzione di parete, scorreva silenziosa di lato rivelando la porta di quel rifugio.

Campi avanzò, fino ad attraversarla.

Il Lungo vide cosa aveva raccolto da terra. Un fucile. Un grosso fucile da caccia.

In preda al panico tirò di nuovo il grilletto del revolver che ostinatamente teneva puntato sul vecchio, avendo solo un suono metallico in risposta.

-Sei colpi. I revolver hanno solo sei colpi... e tu li ha già sparati- sottolineò Campi, tuffando la mano nella tasca delle braghe, estraendone due cilindretti metallici, inserendoli nella feritoia  sul fianco dell'arma.

Il Lungo deglutì.

-Immagino vorrai sapere come hai fatto a cacciarti in una situazione del genere?- continuò Campi.

-Nella mia carriera...- riattaccò l’uomo senza nemmeno attendere una risposta-...mi sono sempre dato da fare per cercare di raggiungere la perfezione. Tutti i miei film sono stati girati con una pignoleria che spesso ha rasentato il maniacale, arrivando a girare la stessa scena innumerevoli volte. A mio giudizio, nulla era mai abbastanza. Per bravi che fossero gli attori, non riuscivano ad emulare appieno la realtà, e la cosa mi mandava in bestia, pur sapendo che non avevano responsabilità. Questa incapacità mi ha tormentato per tutta la vita. Nonostante tutti i premi ricevuti, i riconoscimenti, le onorificenze, il mio più aspro critico, me stesso, ha continuato ad assillarmi e tormentarmi. Sarei stato uno dei tanti. Uno dei mille registi, considerati grandi, ma che con l'andare del tempo sono destinati a perdersi nell'oblio. Le basti pensare che la maggior parte dei giovani di oggi ignorano chi sia Hitchcock, e se ci penso... se penso che questo è il destino che aspetta anche me, non posso far altro che rabbrividire. Poi, d'improvviso, cinque mesi fa mi è stato diagnosticato un tumore al cervello, inoperabile, viste ormai le sue dimensioni e la mia età. Questa malattia mi ha fatto riflettere. Il tempo ormai stringeva e l'ansia per il destino della mia opera mi assillava. Poi, la folgorazione.

Avevo già comprato questo posto ed ero ormai pronto a trasferirmi, abbandonando il caos cittadino per la vita tranquilla della campagna, dovevo solo attendere che ultimassero i lavori di ristrutturazione, lavori ai quali, potevo ancora metter mano. E così feci, includendo nel progetto questa camera, e apportando una serie di modifiche tali da permettermi di installare delle videocamere ad alta risoluzione in tutto l'edificio, videocamere che potessi muovere a piacimento da qua.-

Il Lungo gettò lo sguardo alle spalle dell'uomo che incessantemente continuava a parlare.

Aguzzò un poco la vista, fino a mettere a fuoco i monitor. Creavano un collage vivace di immagini che provenivano dall'interno e dall'esterno della proprietà. In uno vide chiaramente il corpo di Due Dita accasciato sulle scale, con gli occhi ancora aperti che osservavano vitrei il nulla. Su quello centrale, invece, vide sé stesso e l'espressione di terrore che trasudava dal suo volto, come una star consumata che sa di calcare la scena per l'ultima volta.

Atterrito portò lo sguardo in alto, verso il soffitto, scorgendo le tre telecamere, fissate in posizioni diverse che gli ammiccavano dai piccoli led rossi posti poco sotto agli obbiettivi.

Quel dannato pazzo stava riprendendo tutto.

Riportò lo sguardo all'uomo mentre la paura, quella vera e mai provata fino in fondo sino a quel momento iniziava a morderlo con la furia di una belva affamata.

-...eliminare Davide dopo che mi aveva aiutato a gettarvi l'amo è stato abbastanza arduo vista la differenza di età e di vigore. Ma ho fatto anche quello. Mai sottovalutare la volontà di chi non ha più nulla da perdere. Poi ho solo dovuto attendere che arrivaste voi. E non mi avete deluso. La morte dei tuoi due complici è stata grandiosa. Ma la tua signor Rossi... la tua sarà epica, perché hai avuto il tempo di assimilarla, di comprendere che ormai è inevitabile, e le espressioni che le videocamere cattureranno, rendendole immortali, saranno la più ampia gamma che qualsiasi cineasta abbia mai racchiuso in un unico, singolo ciack. Questo sarà il mio lascito. Questa sarà la mia eredità. La perfezione. La finzione che muta in realtà, la recitazione perfetta del più devastante dei passaggi della vita. La morte- concluse imbracciando di scatto il fucile, puntandolo verso il Lungo e facendo fuoco.

L'ultima cosa che Mauro vide, fu un lampo fugace esplodere dalla canna dell'arma, udendo solo l'eco di un boato giungergli alle orecchie, mentre la morte, assunta la forma di un'ogiva di piombo, lo investiva spietata all'altezza del petto, strappandogli  le carni e la vita.

Oreste lasciò cadere il fucile, estraendo con calma lo smartphone dalla tasca dei pantaloni, avviando l'applicazione che gestiva l'intera rete di telecamere della casa. Salvò l'intero girato della sera nella memoria del dispositivo, cancellandolo da quella dell'impianto.

Quindi spense l'impianto di sorveglianza.

A chiunque avesse fatto domande, avrebbe confermato che l'allarme e la videosorveglianza non erano ancora state attivate al momento dell'incursione dei malviventi, quindi, accendendosi una sigaretta compose il 112.

-Pronto...- esordì con voce rotta dall'emozione -...sono Oreste Campi, abito nella cascina Giulia, poco fuori paese... venite... oh mio Dio... dei ladri hanno fatto irruzione in casa mia...- 

Riattaccò, senza nemmeno attendere una risposta, incamminandosi verso il piano superiore, oltrepassando il cadavere del Lungo che giaceva inerme sul pavimento.

Salì gli scalini fumando, soddisfatto per la prima volta nella sua vita del risultato raggiunto dal proprio lavoro.

Si sedette su una poltrona, in compagnia dei due cadaveri che giacevano in soggiorno.

Attese. 

Attese fino a quando in lontananza l'eco delle sirene non spezzò il silenzio che dominava la campagna, e i lampeggianti blu, come giostre impazzite ebbero gettato i loro fasci nella nebbia, colorandola vivacemente.

-Si va in scena- si disse compiaciuto, mentre una slavina di pugni si abbatteva sul battente della porta d'ingresso, accompagnata dal vociare chiassoso dei carabinieri che annunciavano il loro arrivo, con la consapevolezza di aver finalmente afferrato l'immortalità.

 

 

   
 
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