Videogiochi > Zelda
Segui la storia  |       
Autore: An13Uta    20/02/2021    1 recensioni
"...E tu sei tutto ciò che mi rimane al mondo."
Un viaggio attraverso Termina, alla caccia di risposte nascoste in una visione dal sorriso dolcissimo.
-
Ambientata dopo Twilight Princess
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Happy Mask Salesman, Link, Skull Kid
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'occhi d'ambra'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

3


Chi li ha fabbricati li deve aver amati.

Precisi organi di metallo e legno hanno scandito con il passaggio di decenni, se non di secoli; ma mani devote li hanno strappati, anno dopo anno, dal cadere in una trascuratezza assassina, per salvare la loro ineguagliabile percussione costante per il piacere della quale il mondo stesso alterna il giorno alla notte.

Un'ascia luminosa spacca il suo occhio in due.

Alza la mano per proteggerlo, e la quieta frescura tra pareti di rocce soccombe.
 

Brulica di vita.

Come un formicaio.

Il rumore lo fa barcollare.

La corrente della folla in pieno lo travolge.


Dozzine di persone urlano, bisbigliano, blaterano, chiacchierano, cantano in una lingua che capisce a malapena. Alcuni uomini portano sulle spalle grosse travi con cui innalzare torri di tessuto colorato gridando più di tutti. Un piccolo stuolo di cani bastardi abbaia incessantemente nel frastuono rincorrendo bambini sfortunati; una specie di sottile tubero antropomorfo strilla (che voglia vendere il mondo alla ragazza che gli passa accanto) mezzo affondato in quello che pare essere un grosso fiore avvizzito.

Si volta per osservare meglio il mare di gente compreso in queste mura – e voltandosi prende coscienza, finalmente, del colossale orologio alle sue spalle, il moto armonico dei cui ingranaggi ha sentito appena prima di uscire dalla porta di legno della torre.

Non vi sono lancette a muoversi, bensì il quadrante stesso gira con scatti sordi e solenni; l'intricato disegno su di esso si inclina senza sbilanciarsi.


Piccole dita si stringono attorno al suo palmo.


Lo tira, lo tira, lo tira – e per la confusione lui si lascia tirare docile tra la gente indaffarata, che somiglia tanto a visi noti nei tratti e nel colore, e registra solo per sbaglio il cenno della guardia al portale.


Passano attraverso l'arco, e qui si bloccano: perché la folla non è diminuita per niente, anzi, e la sua guida di legno ha le unghie conficcate nel suo palmo dal terrore, ed è persa quanto lui.

Le voci salgono, gridano, urlano, chiamano, e la testa gli gira mentre cerca in tutti i modi di ascoltare, di capire ogni singola parola la miriade di voci che gli saltano addosso da ogni direzione.


Non è hyliano quello che parlano – ma ci assomiglia abbastanza; la lingua arriva alle sue orecchie come la parlata di bambini troppo grandi per essere infanti e infanti troppo piccoli per essere bambini, quando nella bocca le parole nuotano molli quanto meduse in un mare di sillabe inventate, perline infilate in una collana senza alcuna logica a dettarne gli accostamenti, e lo sconvolge, lo frastorna, lo colpisce nel vano delle ginocchia per forzarlo a crollare in una nuvola di polvere e sabbia.


Una parola lo riscuote.


Forse perché, nella strada che ora va liberandosi di gran fretta, l'urlo è indirizzato solamente a lui.


Dita silvestri lo stritolano, stivali di stoffa spingono contro il lastricato per scappare dalla traiettoria che intende travolgerli.


Ma rimane fermo, ghermito già dalla fredda solidità di nervi che lo assale quando il panico lo azzanna. Ripete i movimenti ed i pensieri: i piedi si spostano in una posizione solida, le mani pronte a guizzare, alza le braccia per poter afferrare le corna più semplicemente. Stringi forte, ribalta sulla schiena; si spaventerà, ma calmarlo sarà più semplice.



I cavalli non hanno corna.



Abbassa testa e braccia appena in tempo. I suoi palmi si scontrano le spalle della bestia; le sue, ben più piccole, tentano di schizzare fuori dai trapezi (manca il suono schioccante che segna la loro uscita, e a meno che non sia diventato sordo all'improvviso tira un sospiro di sollievo), ma il galoppo si arresta con un nitrito contro un ragazzo contadino che ha passato la sua infanzia a prendere cornate ricurve nello stomaco da capre (che ha provato sulla sua pelle graffiata cose che spera nessun altro abbia dovuto, debba o dovrebbe mai affrontare).


Abbraccia il collo enorme e lo accarezza nello scalpiccio degli zoccoli confusi, mormora scuse e rassicurazioni come fosse la puledra con cui è cresciuto.

Un altro urlo, e si ritira spaventato.

Dietro alla criniera, in piedi sul carro, una ragazza. Inveisce contro di lui: una tra le parole simile gli pare essere 'impazzito'.


Ha i capelli rossi.


Li ha già visti.


Crede.

Non è sicuro.

Così, di fuoco d'arancio – li ha già visti.

Crede.


Lisci, come i suoi – che cadono sulla sua fronte.

Un'aureola dietro a un sorriso dolcissimo.


Non è sicuro.


Un altro insulto mentre lei scende e impreca, controllando le grosse taniche di latte che trasporta – la strada è ancora libera e ramoscelli secchi ancora incastrati nel suo polso lo prendono a forza e lo trascinano in una corsa pazza attraverso una marea bassa di persone che torna ad alzarsi e fuori.


Finalmente, fuori.


La città, così claustrofobica all'interno delle sue due cinta di mura, occupa buona parte della pianura circostante.

Una nuvola d'oro e porpora attrae la sua attenzione.

Lo spiritello, forse sfiancato, non reagisce quando comincia a camminare. Come un pupazzo penzola dalla sua mano contro erba alta in cui si nascondono piccoli e utili tesori. Rinviene quando riconosce l'odore... l'odore di acque che stagnano, ma non abbastanza da rimanere perfettamente immobili.


Una palafitta malmessa si erge sulla sponda. Il legno marcio rimane in piedi grazie alle radici di grossi fiori avvizziti; un'insegna scritta in due alfabeti sbiaditi pende appena.

Deve essere stato un qualche negozio, un'attrazione per visitatori.

Sembra abbandonato.


Gambe di legno si rialzano di scatto mentre gli occhi che le hanno trascinate fino alle sponde della palude spiano incuriositi attraverso le spesse radici degli alberi dalle chiome spioventi.


Si sporge appena, attento perché l'acqua non arrivi a lambirgli gli stivali: è certo di aver scorto, tra il fogliame di tonalità calde, mura altrettanto colorate che penetrano profonde nell'acqua, nella sabbia di limo e fango di cui è fatto lo scialbo fondale.


Dita di rovi afferrano il suo polso.

-No,- scuote la testa di legno, -No. Non di là, no.

Tira.

-Non di là,- insiste, -Non di là, non di là.

Tira più forte.

Lui si impunta, confuso.

Pupille di occhi arancioni tremano.

-Non gli piacciono gli altri.- mormora con un fil di voce.


Non capisce.


Tira ancora, con i calcagni che scavano buche nel terreno appiccicoso.

-Via.- con un fil di voce -Via, via, via.

Trema.


Un suono, un tuono: un roboante concerto di ottoni lignei dietro di loro tradisce e annuncia un arrivo importante (per sbaglio accompagnate da una piccola percussione di ossa silvestri che tremano, tremano contro gambe di carne), e molte lunghe gambe di radici frusciano veloci contro lunghe vesti di foglie e attraverso il fango, per immergersi, sollevarsi sulle acque – ma la musica si arresta con orrende grida furibonde: collari si alzano fremendo minacciosi, occhi di acquosa brace si assottigliano adirati, bocche lunghe e strette come cannucce di cerbottane inalano, si caricano, pronti a sparare, e per un momento solo sente la paura venirgli iniettata in vena dalle unghie grigie che si infilano nel suo polpaccio e allunga il braccio, per coprire il corpicino -

Uno strillo acutissimo; una manica lunga, che sfuma da un rosso intenso al rosa al bianco spuma, si erge da sotto il baldacchino della portantina.


Silenzio.


-Straniero.- comincia.

Parla in hyliano. Lentamente. Scandisce le parole con cura.

-Le. Vostre. Vesti.


La tunica.

Non se la è mai tolta, mai tolta, dopo tutto quello che è passato. È una seconda pelle, ormai – sporca e verde sotto la sua panciera.


-Abbiamo. Ragione. Di. Immaginare. Siano. Ricordo. Di. Un. Vostro. Antenato?

Annuisce piano.

Da sotto petali di foglie appare, una treccia di fogliame che fatica quasi a misurare la sua intera altezza: e se non avesse appresso il suo seguito, se fosse anche a piedi, ugualmente un singolo sguardo alla sua persona sarebbe colpito dalla sua assoluta regalità.

Abbassa la testa e gli occhi. Lei (qualsiasi cosa sia) allunga una mano (le dita sono rami finissimi, con unghie appuntite) verso i suoi indumenti.

-A. Quella. Tunica. La. Nostra. Stirpe. Deve. La. Vita. E. La. Salubrità. Delle. Nostre. Acque.

Tiene la testa bassa.

-I. Nostri. Cugini. Hyliani. Non. Ve. Ne. Hanno. Mai. Parlato?

Scuote la testa.

-Ah. Capisco. Siete. Nato. Troppo. Tardi.

Immagina debba essere così.


Scende dal baldacchino piano: gli offre il polso. Prima che lei possa dire qualcosa, di riflesso, sperando sia la cosa giusta, le fa un baciamano. Il risolino sorpreso che scappa dalla sua bocca non è ostile, né oltraggiato.


-Un. Galantuomo...

Ringrazia le Dee.

-Voi. E. La. Vostra. Progenie. Sarete. Sempre. Benvenuti. Nel. Nostro. Regno.

La ringrazia appena, con un inchino.

Non osa guardare, mentre ritorna sul suo trono ombreggiato, e con un ordine silenzioso riprende la sua processione.


-E. Speriamo.- aggiunge, piano, sibilando, -Che. La. Piaga. Maledetta. Dietro. Le. Vostre. Ginocchia. Sia. Grata. Della. Nostra. Clemenza.


La bambola trema attaccata alle sue gambe.

Non risponde.


La regina sparisce con un fruscio dietro il tanfo inebriante della palude.


I pantaloni si inumidiscono.

Guarda in basso.

Occhi d'ambra piangono resina senza nemmeno un bisbiglio.

Le dita strette attorno a lui tremano ininterrottamente.


Un tonfo lontano, le urla rispettose di quello che sembra un gruppo di scimmie: la porta del palazzo mezzo affondato si apre, e la portatrice della corona è fatta entrare, mentre primati dal pelo ispido e bianco la salutano da rami simili ai suoi regali arti.

È aperta.

Anche per lui.


Un soffio appena sale alle sue orecchie.

Denti di legno riescono a malapena a parlare.

Singhiozza: via.

Trema ancora.


Stacca le manine da bambola dalla sua gamba, tenendo gentilmente i suoi polsi. Si abbassa; copre con il suo corpo la palude. Lo afferra piano, lo tira su. Fa attenzione che la sua testa sia ben appoggiata al suo petto.

Se ne stanno raggomitolati, nel fango, mentre trema.

La percussione delle gambe sottili ha un ritmo senza ritmo.

Trema.

Tira su col naso.

La sua mano è così grande, rispetto alla sua schiena, che a malapena deve muoversi per accarezzarla.

È un bambino.

È solo un bambino.

Lo guarda.

Trema ancora.

È solo un bambino.


-Via.- pigola.


Prova a poggiarlo a terra: le gambe si piegano senza sostenerlo.

Si alza piano, tenendolo al petto.

È solo un bambino.


Vanno.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Zelda / Vai alla pagina dell'autore: An13Uta