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Autore: heliodor    21/02/2021    1 recensioni
Valya sogna di diventare una grande guerriera, ma è solo la figlia del fabbro.
Quando trova una spada magica, una delle leggendarie Lame Supreme, il suo destino è segnato per sempre.
La guerra contro l’arcistregone Malag e la sua orda è ormai alle porte e Valya ingaggerà un epico scontro con forze antiche e potenti per salvare il suo mondo, i suoi amici… e sé stessa.
Aggiunta la Mappa in cima al primo capitolo.
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di Anaterra'
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Ricordi
 
“Trecentodiciannove” disse l’uomo affacciandosi sulla soglia della gabbia.
Un ragazzo si alzò in piedi su gambe malferme. Indossava un’armatura fatta di pezzi spaiati e ammaccati, come se li avesse messi insieme a caso. Dalla cintura spuntava l’elsa di una spada.
Valya ci fece caso appena mentre lo osservava incamminarsi verso l’uscita con passo malfermo.
“Sei tu il trecentodiciannove?” gli chiese l’uomo.
Doveva essere stato incaricato dagli organizzatori di chiamare i combattenti o qualcosa del genere, Valya non ne era sicura. Non aveva chiesto a Rann come funzionava il torneo e quali erano le regole.
Il ragazzo mostrò all’uomo una pergamena. Lui la guardò appena. “Vieni con me.”
Il ragazzo lo seguì a testa bassa.
Uno dei combattenti seduti nella gabbia insieme a lei emise un brontolio e sputò a terra. “Lo conosco quel ragazzo” disse scuotendo la testa. “Viene da un villaggio vicino al mio. A malapena sa reggere la spada. Non durerà a lungo.”
“Se la pensi così” gli rispose uno dei combattenti con l’armatura migliore nella gabbia. Valya l’aveva notato perché sedeva in silenzio e osservava tutti con gli occhi socchiusi. Si era soffermato anche su di lei e aveva proseguito subito. “Perché non scommetti contro di lui?”
Il tizio che aveva parlato per primo ghignò. “Chi ti dice che non l’abbia fatto?”
Dall’arena giunse un boato che la fece sussultare, seguito da uno scroscio di applausi e grida.
Il tizio che osservava tutti gettò una rapida occhiata verso l’esterno per poi tornare a interessarsi dei suoi compagni.
“Ti conosco?” le domandò con gli occhi ridotti a due fessure.
Valya deglutì a fatica e scosse la testa.
“Da dove vieni?”
“Cambolt” disse sperando che il tizio non fosse di quelle parti. Non conosceva il suo volto ma poteva venire da un villaggio vicino o essersi passato per caso.
Il tizio si strinse nelle spalle. “Mai sentito nominare. Io sono di Ferias e mi chiamo Bazon.”
Valya lo fissò in silenzio mentre lui sembrava in attesa di una sua risposta.
L’uomo che aveva sputato a terra emise una risata roca. “Non ha molta voglia di chiacchierare questo qui” disse con tono allegro.
“Nemmeno io” fece Bazon. “Ma è da maleducati non rispondere a una domanda.” Si alzò di scatto. “Forse qualcun dovrebbe insegnargli un po’ di buone maniere a questo qui.”
Valya si concesse qualche istante per studiare la sua figura. Bazon era alto e massiccio e indossava una cotta di maglia con spallacci di metallo e un elmo aperto che lasciava intravedere un viso duro, col naso a patata e la barba ispida.
Quando si alzò a sua volta, l’uomo la superava ancora di una testa e mezzo.
Bazon le scoccò un’occhiata in tralice. “Mi devi delle scuse, Cambolt.”
Da dietro la celata Valya sperò che non si accorgesse che stava sudando. “Se ti ho offeso, ti chiedo scusa.”
Bazon grugnì qualcosa. “Certo che mi hai offeso, pezzo d’idiota. Nessuno ignora una domanda di Bazon Spadanera. E se lo fa vuol dire che sta cercando guai. Guai grossi.”
Il tizio che aveva sputato esplose in una sonora risata.
Bazon si voltò di scatto. “Che hai da ridere tu?”
Il tizio si piegò in due e rise fino a singhiozzare.
Bazon marciò verso di lui con passo deciso, come se volesse travolgerlo. “Ti ho chiesto” iniziò a dire.
Il vecchio si sollevò di scatto e gli assestò un pugno in pieno viso.
Bazon indietreggiò di un paio di passi, il naso che colava sangue come una fontana.
Nelle mani del vecchio guerriero apparve un bastone di legno che fece roteare un paio di volte fendendo l’aria.
Bazon fece per impugnare la spada ma il bastone del vecchio scattò in avanti colpendolo al dorso della mano. Bazon grugnì per il dolore e si ritrasse.
Il vecchio avanzò di un passo senza smettere di roteare il bastone.
Valya lo guardò senza riuscire a staccare gli occhi mentre eseguiva una danza veloce sulle punte evitando un affondo di Bazon e rispondendo con due colpi veloci assestati al ventre dell’avversario.
Bazon si piegò in due e il vecchio ne approfittò per colpirlo alla schiena e poi al collo.
Il vecchio andò a sedersi un attimo prima che nella cella entrasse uno degli organizzatori. I suoi occhi caddero su Bazon, chinato a terra e dolorante.
“Che sta succedendo qui?” chiese guardandosi attorno.
Valya valutò se fosse il caso di dirgli che cosa era accaduto, ma decise di restare zitta e aspettare che fossero il vecchio e Bazon a spiegare.
“Allora?” chiese l’organizzatore. “Niente risse nelle gabbie o vi faccio squalificare. Risparmiate le forze per l’arrena.” Trasse un foglio di pergamena dalla tasca. “Il numero seicentodiciassette.”
Un uomo dalla barba nera e folta si alzò di scatto. “Sono io.”
“Con me” rispose l’uomo.
Bazon rimase a terra per qualche minuto, poi si trascinò dolorante verso la panca e vi sedette. Ogni tanto guardava il vecchio e Valya, ma non disse una parola.
Valya trovò il coraggio di alzarsi e andò a sedersi accanto al vecchio. “Grazie” disse. “Per avermi aiutato.”
Il vecchio ghignò. “Non l’ho fatto certo per te. Mi andava di tirare due affondi, tutto qui. A stare seduto nella gabbia le mie povere ossa arrugginiscono come il ferro di cattiva qualità.”
“Tu usi quello per combattere?”
Il vecchio diede due colpi a terra con la punta del bastone. “Bello, vero? Ed è anche poco costoso.”
“Credevo si potesse partecipare solo con una spada.”
“Le regole non lo vietano” disse il vecchio. “Basta usare qualsiasi arma che non tagli o sfondi un’armatura e sei a posto. È per questo che ti fanno usare quelle strisce di cuoio.”
Valya ci aveva messo un po’ per capire come andava avvolta attorno alla lama e poi fissata, ma aveva fatto un buon lavoro a suo parere.
“Hai già partecipato ad altri tornei come questo?”
“Per me è il primo” rispose il vecchio. “Ma nelle gabbie ci sono dei veterani. È gente che gira per il continente partecipando a tornei e giostre. Quelli sono pericolosi, non come quel fatokk lì” concluse indicando Bazon con un gesto del capo.
Valya non aveva idea di cosa significasse fatokk, ma non doveva essere un complimento.
Bazon gli rivolse un’occhiata piena di livore.
“Anche per me è il primo” disse lei cercando di essere cortese.
“È il primo per quasi tutti quelli che vedi qui dentro” disse il vecchio rilassandosi sulla panca.
“Tu perché partecipi?”
“Per i soldi” disse il vecchio. “La governatrice ha messo un bel premio per chi vince.”
“E speri di prenderlo tu?”
Lui sorrise. “Non sono così forte, anche se potrei mettere sotto la maggior parte dei combattenti. Mi basta vincere quattro o cinque scontri e poi ritirarmi. Il premio per ogni vittoria è di venti monete.”
Valya fissò un punto tra i suoi piedi. “Io voglio vincere” disse dopo un breve silenzio.
Il vecchio tossì. “Sai cosa diceva mio fratello prima di andare in battaglia? Prima di vincere pensa a sopravvivere.”
Valya cercò di sistemarsi meglio sulla panca. L’armatura le dava fastidio all’altezza delle giunture, dove Rann non aveva avuto il tempo di perfezionare le cerniere che tenevano insieme i vari pezzi. Ogni tanto doveva allungare un braccio o una gamba per rilassare i muscoli e impedire che si intorpidissero.
Dopo qualche tempo trovò una posizione comoda e si rilassò, lasciando correre i pensieri.
Dall’esterno giunsero i suoni della folla. Urla, rumore di metallo che veniva battuto, persino il pianto di un bambino in lontananza. Tutto si mischiò in una cacofonia di rumori che le giungevano attutiti.
Tornò con la mente a Cambolt, ai tornei che aveva fatto con Hagen e gli altri ragazzi del villaggio, mentre Brenye ed Enye li osservavano annoiate e desiderose di tornare a esplorare i dintorni invece di stare lì a fingere di essere famosi cavalieri e principesse.
Erano stati Hagen e Faald, il ragazzo della fattoria dei Logrin, a costruirle la prima spada di legno, quasi per gioco.
Faald l’aveva sconfitta facendole sfuggire di mano l’arma improvvisata tra le risate di tutti quelli che guardavano. Valya aveva raccolto l’arma e aveva sfidato di nuovo il ragazzo.
A Faald erano bastati due affondi per disarmarla di nuovo.
La spada era pesante e sbilanciata e l’impugnatura troppo grossa per le sue mani da ragazza, ma Valya l’aveva portata a casa e di nascosto dal padre aveva usato il raschiello per adattarla alla sua misura.
Quando il giorno dopo era tornata dai ragazzi, aveva subito sfidato Faald.
Un’altra sconfitta peggiore della prima e Valya aveva trattenuto a stento le lacrime.
Era stato Hagen a dirle come doveva tenere la guardia bassa quando Faald faceva quella finta con le gambe che lei non riusciva mai ad anticipare.
Aveva sfidato di nuovo Faald e questi di nuovo l’aveva battuta, anche se Valya si era allenata sulla finta e la guardia.
“Non lo batterò mai” aveva detto ad Hagen.
“Sì, è probabile.”
Lei gli aveva rivolto un’occhiata furente e lui aveva sorriso.
“Faald ha un fratello maggiore che fa la guardia alla fortezza. So che gli fa usare la sua spada per tirare qualche colpo. Faald se ne vanta spesso quando ne parliamo.”
Dunque è questo il suo segreto? Si era detta Valya. Faald può allenarsi usando una vera spada e io ho solo questa.
E poi aveva trovato la vecchia spada arrugginita che suo padre aveva gettato tra quelle che doveva fondere per ricavarne una nuova.
Valya l’aveva presa senza quasi pensarci.
Non la sto rubando, si era detta. La rimetterò a posto dopo che avrò finito. Devo trovare solo un posto tranquillo dove potermi allenare.
Nelle lunghe camminate che lei e i ragazzi del villaggio facevano, avevano scoperto parecchi posti tranquilli attorno alle colline e dentro i boschi che le circondavano.
Uno di questi era una radura che si poteva raggiungere dopo una faticosa arrampicata. Valya vi era passata un paio di volte studiando il percorso, facendo caso se vi fossero le tracce di qualcuno che fosse passato di lì e assicurandosi che dall’esterno non fosse visibile chi si trovava all’interno.
Due giorni dopo era uscita di casa dicendo a suo padre che andava da Brenye, ma in realtà si era diretta alla radura. E aveva con sé la spada, nascosta dietro la schiena. Non che Simm Keltel le avesse rivolto una sola occhiata mentre usciva di casa, ma le era sembrato più prudente fare così.
Aveva raggiunto la radura e aveva saggiato la spada fendendo l’aria. Un tronco spezzato in due dal vento e rinsecchito era diventato il suo manichino di allenamento. Ogni giorno immaginava che fosse un avversario diverso: a volte era un cavaliere senza nome che insidiava i dintorni di Cambolt, altre il povero Faald che cadeva sotto i suoi colpi, altre l’arcistregone Malag o uno dei suoi leccapiedi.
Aveva perso il conto di quante volte aveva affondato la spada nel legno marcito del tronco…
Quattrocentoquaranta.
Sì, forse un numero del genere, pensò.
Era andata alla radura tutte le volte che poteva assentarsi senza destare sospetti in suo padre. Ogni volta usava una scusa diversa ma dopo un po’ lui aveva smesso di chiederle dove andasse tutti i giorni. Forse pensava che alla figlia piacesse fare lunghe passeggiate nei boschi o forse non gli importava.
Valya non se l’era chiesto e aveva approfittato della distrazione di suo padre per allenarsi con la spada. Era andata avanti per intere Lune, finché Ros Chernin non l’aveva scoperta.
Non aveva idea di come avesse fatto a trovarla, ma un giorno se l’era ritrovato di fronte all’improvviso. Per un attimo aveva temuto che la stesse spiando, ma anche lui sembrava sorpreso di vederla lì.
O forse stava solo mentendo, si era detta molto dopo, quando suo padre aveva cercato di cacciarli dalla forgia minacciando i loro clienti.
Ros aveva anche osato offrirle delle monete.
Quattrocentoquaranta.
No, si disse, erano di meno. Non molto, forse trecento. In quel momento non ricordava bene e nemmeno le importava. Ricordava ancora la soddisfazione che aveva provato buttando le monete nel pozzo e il viso costernato di Ros Chernin non faceva altro che aumentare il piacere che provava ricordando quel giorno.
Ci è rimasto davvero male, pensò. Ci sarei rimasta male anche io.
Non era pentita di averlo fatto. In fondo suo padre era responsabile del debito che avevano.
Quattrocentoquaranta.
No, pensò. Erano almeno duemila, aveva detto papà.
“Quattrocentoquaranta dannazione” gridò qualcuno. “È l’ultima volta che ti chiamo. Se non ti alzi e vieni qui dirò ai giudici che non vuoi combattere e ti farò squalificare.”
Quattrocentoquaranta, pensò. Sono io. È il mio numero.
Valya si alzò di scatto e quai inciampò quando fece un passo avanti.
Davanti all’ingresso uno degli organizzatori la fissò con astio. “Sei tu il quattrocentoquaranta?”
“Sì” disse Valya.
“Ti eri addormentato per caso? Ti ho chiamato tre volte.”
“Chiedo perdono” disse cercando di mostrarsi dispiaciuta. “Ero distratto.”
L’altro grugnì qualcosa. “Vieni con me” disse indicando l’uscita.
“Dove?”
“All’arena, dove se no? È il tuo turno. Devi combattere.”

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