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Autore: Bored94    22/02/2021    0 recensioni
Le vite dei jōi4 (o una parte di loro) prima dell'incontro con Yoshida Shōyō
+ un capitolo extra dal punto di vista di Shōyō sensei
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gintoki Sakata, Kotaro Katsura, Takasugi Shinsuke
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo II: Katsura Kotarō

 

«Kotarō, ti ho detto di uscire da lì» lo sgridò sua nonna, tirandolo per un braccio. Il bambino si allontanò dalla porta con passo strascicato. Sapeva perché non poteva entrare: i suoi genitori erano malati, il dottore non sapeva come curarli e stava andando sempre peggio. Sapeva che doveva stare a distanza per non farsi contagiare, ma avrebbe tanto voluto poter parlare con loro. Non pretendeva di poter giocare con sua madre o allenarsi con suo padre, voleva solo poterci parlare senza dover restare sulla soglia della camera, chiedendo solo il minimo indispensabile per non affaticarli troppo.

Sapeva che doveva fare la sua parte, ma avrebbe tanto voluto che le cose tornassero alla normalità. A volte avrebbe semplicemente voluto buttarsi tra i suoi genitori e lasciarsi abbracciare, come quando era piccolo, invece più passava il tempo e meno contatti poteva avere con loro.
Sapeva anche di dover tenere questi pensieri per sé, per non farli preoccupare, ma iniziava a sentire il peso di quella situazione: per primo si era ammalato suo padre, ma almeno aveva ancora la mamma con cui parlare... dopo poco tempo però si era ammalata anche lei, contagiata da suo padre.

Erano rimasti solo lui e la nonna ad occuparsi di tutto.

Le cose andarono avanti così per mesi, al punto che per il bambino quella diventò una nuova normalità: diventò obbediente, serio e responsabile. Si aggirava per la casa in silenzio per non disturbare, non faceva capricci, si allenava da solo con il bokken in cortile e aiutava sua nonna con le faccende di casa.

La vecchia ogni tanto gli rivolgeva uno sguardo preoccupato: aveva soltanto sette anni, avrebbe dovuto essere iperattivo e sorridente, ma ormai di quel bambino sembrava essere rimasta solo l'ombra. Certo, era sempre gentile e disponibile, ma la donna poteva dire con una certa sicurezza che il suo ultimo sorriso, un sorriso vero, non la smorfia di circostanza che si stampava in faccia per non preoccupare i genitori, risaliva a mesi prima.

La verità era che il piccolo faticava a ricordare che la normalità fosse mai stata qualcosa di diverso da quella che viveva in quel momento, ma sapeva che lo era stata.

Doveva esserlo stata.

Doveva esserci stato un tempo in cui si allenava, giocava, ascoltava storie raccontate dai suoi genitori e uscivano insieme nei giorni di festa.

Non poteva essere stato sempre così. Non potevano essere solo sogni che gli facevano visita di notte, per fargli vedere ciò che non poteva avere.
Dovevano essere ricordi, giusto?


Quella normalità venne di nuovo stravolta quando una mattina sua nonna non lo fece avvicinare all'ala della casa in cui si trovavano i suoi genitori.
C'era il dottore all'interno, li stava visitando.
Non poteva entrare in quel momento, stavano riposando.

Uscì di casa per qualche ora e, dopo essersi allenato un po' con il bokken, si diresse verso il parco, dove sapeva ci sarebbero stati degli altri bambini. Si sedette con la schiena contro un albero e restò ad osservarli mentre correvano e ridevano. Uno di loro si avvicinò e lo invitò a giocare, serviva un nuovo giocatore perché un altro bambino era dovuto andare a casa prima, lo sconosciuto ci mise un po', ma alla fine Katsura si lasciò convincere.
Verso l'ora di cena si incamminò verso casa, era di buon umore per la prima volta da settimane e non vedeva l'ora di raccontare a sua nonna e ai suoi genitori che si era fatto dei nuovi amici quel pomeriggio. Quando arrivò a casa sua nonna lo aspettava sulla soglia, un'espressione seria in viso, si abbassò in modo che i propri occhi fossero all'altezza di quelli del bambino e gli mise una mano su una spalla.

«Kotarō, mi dispiace» disse rivolgendogli uno sguardo triste e preoccupato. «I tuoi genitori non ci sono più.»

 

I primi giorni furono i peggiori.
Era come se Katsura non riuscisse a registrare il fatto che i suoi fossero morti: a volte sentiva ancora l'impulso di andarli a controllare nella loro stanza, o di andare da loro a raccontargli qualcosa che era successo durante il giorno... si trattava però solo di pochi secondi. Era stato al funerale, sapeva che non c'erano più, ma a volte era come avere un arto fantasma.

Sua nonna aveva allentato un po' le regole e lo spingeva a uscire di casa più spesso, aveva scoperto che aveva conosciuto altri bambini e voleva che passasse il tempo con persone della sua età, gli avrebbe fatto bene allontanarsi da quella casa di tanto in tanto.

Quella sera Katsura stava tornando a casa coperto di fango dalla testa ai piedi, ma decisamente di buonumore. Ad un tratto si ricordò che sua nonna lo aveva incaricato di passare a comprare del latte e alcune uova, così affrettò il passo e andò a sbrigare le commissioni così sporco com'era. Il negoziante parve divertito dalla scena che gli si dipingeva davanti: non era raro che i bambini venissero incaricati di svolgere qualche piccola commissione dalle loro famiglie e che si perdessero in giochi e scherzi, presentandosi da lui tutti malconci, ma era da molto tempo che non vedeva Katsura così sporco e soddisfatto; sapeva cosa era successo alla sua famiglia e negli ultimi tempi lo aveva sempre visto comportarsi in modo serio e responsabile, era bello sapere che aveva ricominciato a comportarsi come un bambino, anche solo per qualche ora.

Katsura salutò con un inchino veloce e corse verso casa, a mano a mano che si avvicinava però poteva sentire che il buonumore se ne andava gradualmente. Sua nonna lo accolse sulla porta sorridendo, prese ciò che aveva comprato e lo spedì a farsi un bagno. Il bambino restò taciturno per il resto della serata. Lei gli si avvicinò e si sedette accanto a lui.

«Non hai incontrato nessuno oggi al parco?»

Scosse la testa. «C'erano tutti.»

«Non ti hanno lasciato giocare?»

Scosse di nuovo la testa. «Abbiamo giocato a pallone.»

«Allora cosa c'è che non va?» gli chiese sua nonna, immaginava che Katsura stesse sentendo la mancanza dei genitori, ma voleva che le parlasse. Erano passate ormai due settimane dalla loro morte, aveva pianto per conto proprio, ma davanti a lei era sempre stato stoico, voleva che si lasciasse andare e lasciasse a qualcun altro la responsabilità di fare l'adulto. «Kotarō?»

«Abbiamo giocato a oni-gokko, mi sono nascosto in tanti posti strani, sono andato anche su un albero, solo che poi sono caduto in una pozzanghera enorme» adesso si spiega tutto il fango pensò la nonna, Katsura intanto continuava a raccontare e stava iniziando ad animarsi. «A un certo punto ho dovuto fare io l'oni e li ho trovati tutti, nonna! Uno si era anche nascosto in riva al fiume! Un altro era andato in una stalla» decisamente il fango non è più un mistero.

«Quindi ti sei divertito» commentò la donna.

Il bambino annuì, poi si fece serio. «Solo che mentre tornavo a casa ho pensato che dovevo raccontarlo alla mamma e al papà, perché sicuramente loro conoscevano un sacco di posti in cui nascondersi. Solo che poi...» la voce gli tremò e abbassò lo sguardo, «mi sono dimenticato» disse con voce tremolante, la nonna lo attirò a sé e lui si lasciò abbracciare, appoggiando la testa alla spalle della donna. «Mi sono dimenticato che non ci sono più» terminò scoppiando a piangere.

«È tutto a posto, è normale. Oggi ho quasi preparato la cena anche per loro, sai?» disse in modo cospiratorio, Katsura sgranò gli occhi. «Sai che sono morti, il fatto che ogni tanto vorresti raccontare loro qualcosa, significa solo che per te è una cosa importante e che non ti sei ancora abituato al fatto che se ne siano andati. Ci vorrà un po' di tempo... nel frattempo, devi fare quello che hai voglia di fare. Se vuoi uscire a giocare, esci. Se ti vuoi allenare, allenati. Se vuoi piangere, piangi. Non serve a niente fingere quando siamo tra di noi, hai capito?»
Il bambino annuì e nascose il viso contro il suo petto, lasciando scorrere le lacrime.

 

Aveva compiuto da poco otto anni e ormai si era abituato all’assenza dei genitori. Aveva anche trovato qualcuno con cui allenarsi e le sue capacità, già molto sviluppate per un bambino della sua età, stavano migliorando rapidamente, tanto che il suo istruttore non escludeva che sarebbe potuto entrare all’accademia militare. Purtroppo però, anche questa nuova vita non durò a lungo. Dopo la morte dei suoi genitori, le condizioni economiche della famiglia di Katsura peggiorarono sempre di più: avevano dovuto contrarre dei debiti per pagare le cure e il funerale dei genitori di Kotarō, così sua nonna iniziò a vendere vestiti e gioielli, soprammobili e tutto ciò che non era strettamente necessario alla loro sopravvivenza.

 

«Ma non è giusto!» si lamentò il bambino pestando i piedi. La vecchia sospirò, niente affatto sorpresa. «Perché il sensei non può più venire?!»

«Non ci sono più soldi per pagarlo, piccolo. E ci sono ancora delle spese da pagare per le cure e il funerale dei tuoi.»

Katsura mise il broncio e incrociò le braccia sul petto. «Tu avevi detto che mi avrebbe insegnato a combattere!»

«Lo so, ma non possiamo più pagarlo, dovrà andare via.»

«Ma io ho già venduto i giochi! Perché deve andare via anche lui? Sei cattiva!» urlò il bambino pestando un piede per terra e scappando via.

 

Katsura tenne il broncio a sua nonna per giorni, limitandosi a rispondere a monosillabi e ad allenarsi in giardino da solo. La nonna non lo punì per quel comportamento: c'erano stati troppi cambiamenti in un solo anno, era normale che il bambino fosse sconvolto. Almeno per una volta si stava comportando in modo normale per la sua età. Dopo un'altra settimana però, la vita del piccolo samurai venne stravolta per l'ennesima volta in poco più di un anno.

Stava tornando a casa dal parco, con il suo bokken in cintura, quando si accorse che c'erano delle persone in casa sua che parlavano con sua nonna.

Anzi litigavano.

Si avvicinò con cautela e sentì che stavano parlando di soldi. Quegli uomini volevano dei soldi da sua nonna e a quanto pare si erano stancati di aspettare. Le urla si fecero sempre più concitate e a un certo punto uno dei due uomini spinse la donna, mandandola lunga distesa sul pavimento.

Katsura brandì il bokken che portava in cintura e si avventò sui due uomini agitando la spada di legno, colpendoli in tutti i punti che fosse in grado di raggiungere. Dopo un primo momento di sconcerto, uno dei due «ospiti» realizzò che erano stati attaccati da un bambino e gli mollò un calcio nello stomaco. Katsura si piegò in due senza fiato, mentre l'uomo lo afferrava per il bavero e lo sollevava di peso.

«E tu da dove spunti? Non ti hanno insegnato a non intrometterti nelle faccende degli adulti, moccioso?» chiese lanciandolo accanto a sua nonna, che lo tirò rapidamente verso di sé e si mise tra lui e i due uomini. «Hai tempo fino a domani» le ricordarono loro prima di andarsene.

 

Quell'incontro si rivelò un punto di non ritorno, l'unico possedimento di valore rimasto alla sua famiglia era la casa in cui vivevano e furono costretti ad abbandonarla. La nonna si accorse della rabbia e della tristezza del bambino, erano successe troppe cose in un solo anno, quella serie di sfortune avrebbe reso un inferno la vita di chiunque, eppure suo nipote restava serio e composto, anche quando poteva vedere nei suoi occhi la frustrazione, il dolore, la confusione e la rabbia agitarsi dentro di lui. Non pretendeva che Katsura, ancora così piccolo, fosse in grado di capire la serie di avvenimenti che avevano colpito la loro famiglia, ma doveva assicurarsi che non ripetesse di nuovo un gesto tanto sciocco quanto attaccare qualcuno con cui non aveva nessuna possibilità di vittoria. Per quanto fosse un gesto onorevole e coraggioso, così facendo avrebbe finito per farsi uccidere. Fu per quel motivo che lo portò davanti alla tomba dei genitori e decise di fargli un discorso che sapeva sarebbe suonato come qualcosa di completamente opposto al codice di un samurai.

«Kotarō,» disse una volta davanti alla lapide «per un generale a capo di un'armata, quale credi che sia la qualità più importante? Anche se è un guerriero di forza incomparabile o un virtuoso di raro valore nel saper disporre i suoi soldati sul campo, se il generale viene a mancare la battaglia è già bella che perduta. Se morisse, non riuscirebbe più a proteggere i suoi uomini e il suo paese, o nient'altro. Per questo motivo, un generale deve essere il più codardo di tutti in battaglia. Quindi Kotarō, non preoccuparti, piangi quanto vuoi. Piangi pure, comportati pure da smidollato. Finché il suo generale è vivo, finché tu sei vivo, la famiglia Katsura non si estinguerà. Non importa se ti danno del codardo. Resta in vita, Kotarō. Per quanto possano schernirti, noi sappiamo che tipo di persona sei. Sappiamo che saresti un generale con i fiocchi.»

Katsura si lasciò sfuggire qualche lacrima silenziosa, ma non reagì a quelle parole. Era così stanco. Perché tutte quelle erano dovuto succedere proprio a loro? Voleva solo che la sua vita tornasse ad essere normale.

E invece adesso non aveva più nemmeno una casa a cui tornare.

 

Le settimane seguenti furono dure: dovettero dormire nei templi e nelle case abbandonate, andando a elemosinare cibo al villaggio. Inoltre sua nonna iniziò a diventare sempre più debole e Katsura dovette presto occuparsi di trovare i posti migliori per dormire e andare a cercare il cibo. Non passò molto e anche sua nonna lo lasciò. Katsura non era in grado di capirne la causa, non avevano soldi per un medico e lui non sapeva cosa fare per gestire a situazione, non aveva potuto fare altro che guardarla spegnersi. Così si era trovato completamente solo e senza un posto in cui vivere.

 

Si svegliò con lo stomaco che gli brontolava, ma non si alzò. Era dal giorno prima che non mangiava nulla e se ne stava sdraiato in quella casa abbandonata con lo sguardo perso nel vuoto. Era rimasto solo. Un rumore catturò la sua attenzione, una porta si aprì ed entrarono un paio di uomini.

«Ehi ma tu cosa ci fai qui?» chiesero sorpresi vedendo il bambino. «Questa casa dovrebbe essere vuota. Ehi tu! Non puoi restare qui, questo edificio verrà demolito tra poche ore. Dai, vattene!» Katsura se ne andò senza rivolgere loro la parola. Vagò per il villaggio per qualche ora senza una meta, ignorando gli sguardi di compatimento e i bisbigli delle persone che lo vedevano passare. Ormai tutti sapevano chi fosse e quali vicende lo avessero portato a vivere per strada ed alcune persone avevano tentato di avvicinarlo ma avevano ricevuto in risposta solo uno sguardo distaccato e vuoto, così con il tempo tutti avevano smesso di tentare.
Le cose iniziarono a cambiare per caso. Quel giorno, dopo essere stato cacciato dalla casa in demolizione, Katsura stava vagando per il villaggio assorto nei suoi pensieri, quando andò a sbattere contro qualcuno per strada. Il bambino non reagì in nessun modo, semplicemente fece un passo indietro, girò attorno alla persona contro cui aveva sbattuto e riprese a camminare senza guardarla in faccia.

«Katsura?» cercò di attirare la sua attenzione l'uomo, lui si girò più per un automatismo che per aver riconosciuto la voce che lo chiamava. Quando vide il volto dell'uomo però sgranò gli occhi.

«Sensei?»

«Sono stato via a lungo. È molto tempo che non ci vediamo, vero?» sorrise l'altro, poi aggrottò le sopracciglia vedendo lo stato in cui si trovava il suo ex allievo. «Cos'è successo?»

Katsura sospirò e distolse lo sguardo, non aveva ancora deciso se raccontare tutto che il suo stomaco brontolò con forza. Il sensei scoppiò a ridere. «Forse è meglio che prima di parlare, mangi qualcosa. Vieni, casa mia è qui vicino.»

Dopo un momento di indecisione, la fame ebbe la meglio e il bambino dai capelli neri seguì il maestro. Una volta a casa sua poté finalmente mangiare come non faceva da settimane, il sensei rimase in silenzio ad osservarlo e lo lasciò terminare con calma. Quando ebbe finito, l'uomo gli rivolse uno sorriso e uno sguardo preoccupato: lo aveva trovato a vagare da solo per il villaggio, sporco e chiaramente affamato, inoltre il suo sguardo assente non lo tranquillizzava affatto.

«Hai ancora fame?» il piccolo scosse la testa. «Bene, mi vuoi dire cos'è successo? Perché se in giro da solo, tutto sporco. Dov'è tua nonna?»

Lo sguardo del bambino si fece di nuovo assente e il maestro attese in silenzio che si convincesse a parlare.

«È morta» disse finalmente Katsura dopo qualche minuto. «Qualche giorno fa. Come la mamma e il papà. Ci sono solo io adesso.»

L'uomo rimase un attimo interdetto. Da solo? Aveva soltanto otto anni, come poteva cavarsela da solo? Perché nessuno al villaggio lo aveva preso con sé? Perché non era stato avvertito?

«Mi... mi dispiace, non lo sapevo, nessuno mi ha detto nulla» il bambino non rispose. «Quindi... adesso vivi da solo in quella casa?»

Katsura scosse la testa. «Quegli uomini l'hanno presa.»

«Quali uomini?»
«Quelli che volevano i soldi. Abbiamo dato via i vestiti della mamma e del papà, i gioielli, i miei giocattoli... però volevano degli altri soldi, così hanno preso la casa.»

Il maestro si portò una mano davanti alla bocca, il gomito appoggiato al tavolo, incapace di trovare qualcosa da dire. Ci mise un paio di minuti a decidere il da farsi. «Ascolta» disse infine «adesso vai a farti un bagno, va bene? Stanotte dormirai qui. Domani decideremo per bene cosa fare. Ho un paio di idee, ma dovrai essere d'accordo anche tu.»

Katsura lo guardò con occhi sgranati. «Posso stare qui?»

«Certo, adesso che so cosa stai combinando non posso di certo lasciarti dormire dove capita a digiuno. Visto che ci siamo ritrovati dobbiamo festeggiare: stasera sukiyaki. Intanto tu vatti a lavare, io esco a prendere gli ingredienti che mi mancano e magari qualche vestito pulito che puoi usare, d'accordo?»

Il bambino restò a fissarlo in silenzio, per poi scoppiare a piangere all'improvviso, spaventando non poco il sensei che si avvicinò e lo abbracciò, lasciandolo sfogare per un po'. Avrebbe mangiato quella sera. E avrebbe dormito in un futon in una casa vera. E aveva ritrovato il sensei, quindi non sarebbe stato da solo.

 

Katsura si sentiva estremamente nervoso. Il maestro gli aveva spiegato che lo avrebbe tenuto molto volentieri con sé, ma che presto sarebbe dovuto partire di nuovo per la guerra e non era il posto adatto per un bambino. L'idea del sensei era quella di ripassare le tecniche di spada che avevano imparato insieme tempo prima e poi cercare di farsi ammettere all'accademia militare.
In quel momento si trovava davanti agli esaminatori dopo solo una settimana di allenamento, non si sentiva affatto pronto e continuava a muoversi, spostando il peso da un piede all'altro. Il sensei gli mise una mano sulla spalle e Katsura fece un respiro profondo. Appena gli misero in mano un bokken però tutto il suo nervosismo si placò. Gli chiesero qualche tecnica di base e qualche kata. Alla fine chiamarono un altro bambino della sua età, sembrava particolarmente annoiato mentre si metteva in posizione. Al segnale iniziarono a fare qualche scambio leggero, ma all'improvviso Katsura si sentì incalzare così iniziò anche lui a combattere con più foga, trasformando quella dimostrazione in un vero e proprio duello. La noia scomparve dagli occhi verdi del suo avversario, che aveva assunto un'espressione sorpresa e improvvisamente interessata.

Gli esaminatori dovettero richiamarli all'ordine tre volte prima che i due bambini si fermassero, ansanti.

«Ottimo, puoi andare» dissero gli esaminatori, rivolti al bambino sconosciuto che si strinse nelle spalle e se ne andò, non senza aver rivolto uno sguardo incuriosito a Katsura. «Molto bene, molto bene. Sembra che il tuo allievo sia all'altezza degli iscritti della nostra scuola. E hai detto di aver allenato questo bambino solo saltuariamente? Incredibile...»

«È proprio per questo che l'ho portato qui oggi. Credo che dovrebbe essergli riconosciuto il diritto di frequentare l'accademia.»

«Nella nostra accademia però sono tutti figli di samurai, lo sai bene. Inoltre il piccolo non ha né casa né famiglia, chi pagherà la sua retta?» un borbottio sommesso si sollevò tra le fila degli esaminatori, mentre Katsura vedeva allontanarsi sempre di più la possibilità di essere accettato in quella scuola.

«Sarebbe però un'aggiunta conveniente alla nostra accademia» si intromise un secondo esaminatore. «Se il livello del bambino è questo con così poco allenamento, immaginate cosa potrebbe diventare con uno studio continuato e strutturato. Il ragazzo è un prodigio, non possiamo sprecare un talento del genere» alcuni esaminatori borbottarono il proprio assenso, Katsura tenne lo sguardo inchiodato a terra sentendosi avvampare. Un prodigio? Lui?

«D'accordo, d'accordo...» intervenne il rettore dell'accademia. «Valuteremo la possibilità di assegnare una borsa di studio al bambino.»

 

La risposta fu recapitata il giorno seguente al sensei: Katsura avrebbe dovuto iniziare a seguire le lezioni la settimana seguente senza perdere ulteriore tempo, dal momento che doveva recuperare molte nozioni di base per essere in pari con gli altri studenti. Il bambino passò i mesi seguenti a studiare senza sosta e ad allenarsi con il bokken sia all'accademia che a casa del sensei e presto colmò il divario che lo separava dagli altri allievi. I suoi progressi stupirono molto gli insegnanti e arrivarono anche alle orecchie dei genitori dei suoi compagni di scuola, presto tutti non facevano che parlare del bambino prodigio spuntato dal nulla. Fu più o meno in quel periodo che il suo sensei dovette ripartire per la guerra e Katsura si trovò di nuovo a vivere da solo, la novità però era che avrebbe potuto tornare a vivere nella propria vecchia casa, l'accademia aveva riscattato il suo debito.

 

Con il passare degli anni Katsura si abituò a quella nuova vita: studiava, si allenava, si occupava delle faccende di casa e passava le proprie giornate con il bambino dagli occhi verdi, che aveva scoperto chiamarsi Takasugi Shinsuke. Takasugi sembrava l'unico a non essere impressionato o infastidito dalla fama di Katsura, gli altri compagni di classe avevano iniziato ad evitarlo pensando che si volesse mettere in mostra. La verità era che tutto gli sembrava abbastanza semplice. Takasugi dal canto suo si annoiava a morte perché nessuno dei loro compagni ci metteva realmente dell'impegno, nemmeno quando si trattava di combattere, quindi finiva puntualmente per batterli e farsi odiare, per poi cacciarsi nei guai. Fu proprio durante uno di quei guai che conobbero Gin e il suo sensei. Dei ragazzi più grandi, fratelli di alcuni loro compagni di scuola, volevano attaccare briga con Takasugi perché aveva umiliato i loro fratelli minori, inutile dire che il bambino non li aveva presi sul serio nemmeno per un attimo. Quando sembrava che la situazione stesse per degenerare, una katana si piantò in mezzo ai due gruppi e sollevando lo sguardo tutti notarono che era stata lanciata da un bambino con i capelli argentati dallo sguardo annoiato, era evidente che non aspettava altro che un diversivo del genere per buttarsi nella mischia insieme a loro due. Non esplose però nessuna rissa, con grande disappunto di Takasugi e del nuovo arrivato, perché il maestro di quest'ultimo intervenne dando una lezione sia a lui che ai bulletti che erano andati a infastidirli. Incuriositi da quello strano ragazzino e dal suo insegnante, Takasugi e Katsura fecero qualche ricerca e scoprirono che facevano parte di una nuova scuola che insegnava ai bambini poveri a leggere e a scrivere, oltre che l'arte della spada. Takasugi presto si mise in testa di voler sfidare il sensei della Shoka Sonjuku, così si chiamava la scuola, cosa che non stupì affatto Katsura, finendo per iniziare una rivalità con Sakata Gintoki, il bambino con i capelli d'argento, che sembrava non fare alcuna fatica a tenere a testa al bambino dagli occhi verdi. In qualche modo, nemmeno questa rivalità sorprese particolarmente Katsura. Gintoki però non sembrava infastidito, anzi sembrava divertirsi molto a combattere contro Takasugi, al punto che aveva iniziato a comportarsi come se loro fossero allievi della Shoka Sonjuku a loro volta. Katsura riconobbe che il loro nuovo amico non aveva tutti i torti, visto che ormai erano lì quasi ogni giorno. Il bambino dai capelli d'argento aveva addirittura iniziato a chiamare Kotarō Zura, cosa che non lo entusiasmava particolarmente all'inizio, ma l'amico non sembrava intenzionato a smetterla (anzi, anche Takasugi aveva iniziato a chiamarlo in quel modo) e ci dovette fare l'abitudine.

 

Le cose cambiarono definitivamente con il complotto ai danni della Shoka Sonjuku, dovuto alle accuse rivolte al sensei Shōyō secondo le quali lui stesse cercando di far cadere il governo. Zura non aveva potuto starsene con le mani in mano, aveva trovato tanti nuovi amici e non aveva nessuna intenzione di perdere anche quelli. Con Takasugi aveva così avvertito Gintoki e Shōyō, che avevano mandato via tutti gli studenti, ma non bastava: a Zura piaceva allenarsi con Takasugi e Gintoki e preferiva cento volte la Shoka Sonjuku all'accademia militare. La scelta quindi, non fu difficile, quando il sensei Shōyō e Gin comunicarono ai due bambini che se ne sarebbero andati, loro li seguirono senza batter ciglio.

 

Nonna, essere un generale è davvero dura. Si ritrovò a pensare una sera mentre si trovava con i suoi nuovi compagni. Cerco di sfuggire a ogni possibile pericolo, ma visto che sono l'ultimo rimasto, non posso sfuggire alla solitudine. Non riesco a superare le notti soltanto fingendomi un codardo. Ecco perché diventerò il samurai più codardo e allo stesso tempo più forte di tutti. Ma non lo farò da solo. Voglio diventare tanto forte e tanto codardo da poter proteggere gli amici con cui ora riesco a superare le notti.

  
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