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Autore: Elsira    23/02/2021    1 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Pagina 13.

(Ain't nobody hurt you like I hurt you
But ain't nobody love you like I do)

Non c'è nessuno a farti del male come te ne ho fatto io 
Ma non c’è nessuno ad amarti più di quanto abbia fatto io 
 
Happier, Ed Sheeran
 
 

Uscii dalla macchina non ancora completamente arrestatasi e mi fiondai in ospedale alla velocità della luce, attraversando a corsa corridoi su corridoi. 

Cercai di orientarmi con le indicazioni dei cartelli che vedevo di sfuggita, ma avevo il cervello completamente in blackout, perciò dopo poco fermai la prima infermiera che vidi. Le dissi nome e cognome di Camilla, quando era stata ricoverata e perché, stringendo la presa su quelle spalline esili che sembravano essere sul punto di spezzarsi nelle mie mani da un momento all’altro. 

La giovane, probabilmente ancora studentessa universitaria e tirocinante, mi indicò esitante le scale, quasi terrorizzata dal mio tono e dal mio comportamento irrequieto, dicendomi di dirigermi al terzo piano e chiedere allo staff della desk. E se, per cortesia, potevo farlo camminando. 

Non fece in tempo a finire di parlare, che avevo già imboccato la tromba delle scale e le stavo salendo quattro a quattro.

Arrivato in cima, feci come indicatomi e scoprii la camera della mia amica: la 14. “Assurdo, pare che la nostra vita ruoti attorno a 'sto numero.” Scossi la testa per scacciare quel pensiero: non era il momento.

Mi fiondai nella stanza, incurante dell’infermiera dietro di me che stava riprendendomi irritata, ordinando di attendere l’orario di visita; la ignorai, semplicemente. 

Aprii la porta impulsivo, gridando il nome di Camilla, ma la voce mi morì in gola: «Ca…» Le mie sopracciglia quasi si unirono, da quanto corrucciate, nel vedere il ragazzo al bordo del letto dove si trovava la mia stella. Non potei fare a meno di guardarlo male, ancora bloccato sulla porta. «E tu chi cazzo saresti?»

Lui si accigliò, guardandomi male ma rispondendo con tono calmo e composto: «Chi sei tu, piuttosto.» 

Non risposi, chinai appena la testa e la voltai verso il viso dormiente della mia amica, avvicinandomi a lei con passi lenti, mentre l'adrenalina cominciava a scemare. Anche lui seguì il mio sguardo, aggiungendo pacato: «A ogni modo, fa' silenzio per favore. Camilla deve riposare.»

Attraversando la stanza, con la coda dell’occhio notai la fasciatura al polso sinistro del tizio e il cerotto sulla fronte. Con una punta di nervosismo, aprii bocca e chiesi con il tono più tranquillo che riuscii a fare: «Com’è successo? Tu lo sai, vero?» Mi rispose senza distogliere lo sguardo da Camilla: «FIPILI, era tardi. Siamo entrati troppo piano e nel tentare di accelerare, la quinta non entrava. Ha guardato il cambio per mezzo secondo e abbiamo strusciato sul guardrail. Presa dalla paura, ha inchiodato… la macchina ha girato su stessa, attraversando la carreggiata, picchiato ancora.»

«Che cosa si è fatta lei?» Feci per allungare la mano e sfiorare la pelle di Cam, ma mi arrestai; con la coda dell’occhio vidi lui precedermi e accarezzarle la guancia, mentre sussurrava: «Solo, se così si può dire, colpo di frusta e due costole rotte… Ringrazio solo che non sia andata peggio, altrimenti non so cosa avrei fatto.» 

Quella vista mi fece andare il sangue al cervello, sensazione negativa che venne solo alimentata ulteriormente dal nervosismo che avevo provato da quando Gemma mi aveva chiamato quella notte. 

Per fortuna, in parte, venni distratto dalla vibrazione del mio cellulare. Guardai lo schermo e lessi il nome del mittente, il quale mi fece storcere la bocca e serrare con forza gli occhi. Prima di rispondere, guardai brevemente il volto di Cam e uscii dalla stanza.

Nemmeno il tempo di portarmi il telefono all’orecchio, che dall’altro capo udii la voce di Svein: «Arkin, tid utløpt, må vi gå. (Arkin, tempo scaduto, dobbiamo andare.)» Non risposi, premetti semplicemente le labbra tra loro, come per trattenere ciò che avrei voluto dire. Un sospiro dall’altra parte della cornetta e mio cugino aggiunse, con voce più calma e comprensiva: «Jeg beklager mannen, men jeg advarte deg. Du vil kunne holde bare noen få minutter. (Mi dispiace, ma ti avevo avvertito. Saresti potuto stare solo una manciata di minuti.)»

«Ja… Jeg kommer… (Sì… Arrivo…)» Sussurrai, abbassando la testa scoraggiato e terminando la chiamata. 

Prima di chiudere completamente la porta della stanza d’ospedale alle mie spalle, rimasta socchiusa, lanciai un’ultima breve occhiata a Camilla e al ragazzo al suo fianco. Si era portato la mano di lei al volto e ne stava baciando delicatamente il dorso, come stesse cercando di risvegliarla dolcemente dal suo sonno. “Tanto non hai bisogno di me.” Pensai, chiudendo la porta con una morsa al petto e dirigendomi verso l’uscita dell’edificio.

 

“Questo odore…” Non appena aprii gli occhi, vidi Mattia al mio fianco che mi sorrideva dolce, la mia mano stretta delicatamente nella sua a pochi centimetri dalle labbra gentili.

«Ben svegliata tesoro mio.» Mi disse con un sorriso dei suoi, donandomi un altro bacio leggero sul dorso della mano. Non potei fare a meno di contraccambiare la sua espressione.

Tentai di alzarmi, ma un forte dolore al torace mi spezzò il fiato, facendomi nuovamente poggiare sul cuscino con una smorfia in volto.

Percepii la mano di Mattia accarezzarmi la guancia, mentre mi parlava con tono preoccupato: «Non muoverti, devi stare a letto finché le costole non ti si rimettono in sesto.»

Annuii brevemente, in modo distratto, ricordandomi in maniera molto vaga solo in quel momento del perché fossi in ospedale. Dopodiché, quando riuscii a respirare regolarmente, lo guardai meglio, notando il cerotto sulla fronte e la fasciatura al braccio: «Tu come stai?»

Lui mi sorrise gentile: «Non preoccuparti per me, sto benissimo. Sono già clinicamente dimesso, io.» 

«Lasceranno andar via in fretta anche me, vero?» Sussurrai, un poco preoccupata, passandomi una mano sul volto. «Dove devo firmare?» 

«Tu devi aspettare le lastre e il responso del medico, tesoro.» Mi sorrise dolcemente lui, facendomi imprecare tra i denti. Non vedevo l'ora di andarmene da lì, l'ospedale non faceva per me. E odiavo l'odore del disinfettante. Pregai solo che ci fosse Alberto di turno, almeno mi avrebbe dato una mano ad andare via da lì più in fretta possibile.

“Sono ancora qui solo per via di mio padre, altrimenti mi avrebbero dimessa già stanotte.” Tirai un sospiro infastidito, ma venni presto strappata via da quei pensieri. “Questo non è disinfettante.”

«Mattia... Non lo senti anche tu questo profumo?» Lui mi guardò con occhi interrogativi, inclinando appena la testa di lato. «Di che profumo parli?»

«Non so… È debole ma…» Chiusi gli occhi, per concentrarmi meglio sul senso dell’olfatto. «Sento un odore frizzante e fresco… come quello delle foreste di abete…» Un’improvvisa realizzazione mi fece aprire gli occhi di scatto. L’immagine di Arkin mi aveva appena sfiorato la mente. “No, non è possibile che sia il profumo di Arkin… Lui è in Norvegia adesso…”

«Camilla? Che hai?»

“Ma allora… Perché sento il suo profumo… Trauma cranico?”

«Camilla, ehi!»

“Come mai io…”

«Camilla!» Sentii il calore della mano di Mattia sulla guancia e quel contatto dolce mi riportò alla realtà. Alzai lo sguardo e lo incrociai con il suo, tanto vicino da poter vedere il mio riflesso nei suoi occhi. «Perché piangi?»

“Io… sto piangendo?” Non me ne ero nemmeno accorta. Il suo pollice andò a interrompere il percorso di una lacrima sulla guancia. Mi scostai, asciugai con il dorso della mano gli occhi, per poi tirare un sorriso e dirgli con il tono più tranquillo di cui ero capace, per evitare che si preoccupasse ulteriormente per me: «Sto bene, è solo il dolore delle costole per essermi alzata prima… Tutto qui...»

«Senti davvero così tanto dolore? Vuoi che ti chiami l’infermiera?» Mi chiese, seriamente preoccupato e con occhi da cane bastonato. Si era già alzato, ma lo fermai trattenendolo per la manica della camicia. «Per carità!» Gli risposi con un sorriso, stavolta sincero: «Nah, non importa tranquillo! Sono abituata a farmi male, questa è una cosa da nulla! Sono una pellaccia, io.» Mattia si sedette sul bordo del letto e io potei perdermi in quegli smeraldi, sentendomi subito meglio. Gli accarezzai una guancia e gli lasciai un bacio leggero sulla fronte, per poi guardarlo negli occhi con sicurezza: «Sto benissimo ora.»

 

«Idra!»

Aurora entrò in casa di mia madre con la forza di un uragano. Un uragano biondo pronto a spazzare via qualunque cosa si fosse frapposta tra lei e il suo obiettivo, ovvero io. Tutto, tranne Leo, il quale l’afferrò per il collo della maglia e la tirò indietro, permettendomi così di respirare.

«Ehi Cami, come và?» Mi chiese con uno dei suoi sorrisi speciali. 

Adoravo Leonardo. Era un bravissimo ragazzo e se c'era una cosa che avevo sempre apprezzato di lui era la sua capacità di far sentire le persone a proprio agio, chiunque esse fossero. Un sorriso, una parola o un semplice gesto al momento giusto, nel modo giusto. Anche per questo era una delle poche persone che riusciva a bilanciare l'entusiasmo di Elsa, alle volte esagerato, ad aiutarla a tenere in check le sue emozioni.

Avevamo un rapporto strano, io e lui, cui non ero mai riuscita a dare un nome. Se avessi dovuto classificarlo in qualche modo, poteva essere un incrocio tra quello di un migliore amico e un fratello maggiore. Era un tipo di amicizia speciale, quella particolare tipologia che poteva nascere tra due persone che non provavano nessun tipo di attazione l’uno per l’altra, ma che si volevano comunque un mondo di bene, senza legami di parentela di mezzo. Avevo avuto tante amicizie maschili, soprattutto durante il periodo di canottaggio, ma con Leo c’era sempre stata questa sensazione diversa, quasi fosse qualcosa a pelle, anche prima che si mettesse con Elsa.

«Va’.» Risposi io in sorriso di rimando, risistemando la borsa dell'acqua calda sul collo, che l'abbraccio stritola ossa della mia amica aveva inevitabilmente spostato.

La nostra scimmietta bionda si espresse in una serie di mugolii rivolti al suo futuro consorte, che stavano a significare di lasciarla andare, dato che stava ancora venendo trattenuta a un passo di distanza. Leo acconsentì solo dopo essersi scambiato uno sguardo significativo con me e aver avuto la mia approvazione.

Elsa iniziò a invadermi di domande su cosa fosse accaduto, su come mi sentissi e cosa mi avessero prescritto i medici, come se non le avessi già raccontato tutto per telefono quello stesso pomeriggio. Il tutto intervallato da ringraziamenti a tutte le divinità che conoscevamo, al fatto che Mattia fosse con me e a insulti molto poco velati verso i costruttori di macchine, aggiungendo poi che non ce l'aveva con loro, ma che se fosse successo qualcosa lei per prima non avrebbe più guidato un'auto in vita sua. 

Stava giusto iniziando a paragonare i cambi manuali ad altro di ben poco carino e inerente, quando il suono del campanello di casa ci fece voltare verso l'entrata di camera. 

«È permesso? C'era la porta aperta…» Sulla soglia apparve Mattia, in mano un mazzo di girasoli, tulipani e papaveri, in volto un'espressione che avrebbe fatto innamorare chiunque. «Come ti senti?» Chiese titubante, fermo sulla soglia. Io, Elsa e Leo eravamo ancora a bocca aperta e con gli occhi sbarrati, quando aggiunse: «Posso… avvicinarmi?»

«Ma ci mancherebbe pure!» Rispose la mia amica per me, facendo tornare anche noi due alla realtà. Ancora colta dalla sorpresa dei fiori, notai Elsa dare una patta sul pettorale di Leo e la udii bisbigliare: «Com'è che te non mi fai mai regali del genere?»

Il suo compagno non fece in tempo a ribattere però, che le squillò il cellulare. Elsa non rispose, probabilmente era un numero sconosciuto. Intanto, Mattia si era avvicinato a me e mi aveva sfiorato la fronte con un bacio leggero, porgendomi il mazzo di fiori. «Come ti senti?»

«Devi stare tranquillo, sto bene.» Sorrisi, sinceramente felice delle sue attenzioni e dell'affetto con cui mi ricopriva. Mi faceva sentire al sicuro, oltre che un po' in imbarazzo. Ma avevo la sensazione che finché ci fosse stato lui al mio fianco, avrei potuto superare tutto con serenità, senza scenate madri di alcun genere. Era presto per pensieri del genere, stavamo insieme da pochi mesi, ma una piccola parte di me era sempre più convinta che al suo fianco avrei avuto una vita serena e tranquilla, stabile.

E quella tranquillità emotiva era una cosa che anelavo da sempre. “Chi non lo farebbe? Solo un pazzo…”

«Le costole come stanno? I medicinali funzionano?» Chiese, mentre gli facevo spazio per sedersi sul bordo del letto. E scostavo lo sguardo.

Sentii Leo soffocare una risata e lo guardai di sbieco, mentre l'espressione di Mattia diventava confusa. Il fidanzato della mia amica alzò lo sguardo e chiarì la situazione: «Deformazione sportiva.» Fece un gesto per indicare Elsa e me. «Queste due non prendono nemmeno il Polase, né bevono cose come il Gatorade. Non vogliono roba chimica che scorra loro nel corpo.»

«Io ogni tanto una birra posso anche farmela se sono con gli amici e il giorno dopo non ho gare o allenamenti mattutini pesanti, Idra nemmeno quello. Ma per entrambe l'uso di antidolorifici e antibiotici è ridotto per quando ci troviamo veramente in fin di vita.» Aggiunse Elsa, in tutta naturalezza.

Incrociai lo sguardo con Mattia. «Io e Elsa abbiamo avuto delle esperienze… particolari, e abbiamo convinzioni un po’ ortodosse su certi argomenti. Fuori dall'ideologia comune.»

Leo cinse le spalle della sua ragazza, mentre il sorriso di lutto le appariva sul volto.In un certo senso… è come non fossimo ancora pronti a lasciarlo del tutto andare. Sentii il nodo alla bocca dello stomaco stringersi, mi voltai verso il cielo oltre la finestra della mia stanza. “Non mi scorderò mai la visione di lui che ci manda a fare in culo, quando abbiamo cercato di fermarlo dallo spalare la mota dal pontile portata dal fiume, durante il ciclo di chemio… Mantenere vivo ciò che mi ha insegnato, è il mio modo di farlo continuare a vivere.”

Fuori il cielo era limpido, non vi era nemmeno una nuvola. Era lo stesso cielo di due anni prima. Io sapevo benissimo di essere stata graziata, salvata da un angelo in quell'incidente, forse anche due, e nessuno al mondo mi avrebbe tolto dalla testa che c'era anche il suo zampino in quel miracolo.

«Che palle!» Mi voltai verso la mia amica, la quale ributtava giù al cellulare per la terza volta. 

«Sempre quel numero sconosciuto? Non puoi bloccarlo?» Le chiesi.

«Vuoi che risponda io?» Si offrì Leo, ma Elsa scosse la testa: «Se richiama un'altra volta rispondo e lo mando al diavolo.»

«Non potrebbe essere qualcuno che conosci che magari ha perso il telefono?» Chiese Mattia. 

«Sì, con un numero extracomunitario? +47, ma che cavolo di posto è?» Esclamò lei in risposta. “Pubblicità internazionale?” Noi non avemmo la possibilità di aggiungere nulla, che il telefono riprese a suonare. 

«Ah no, ora basta!» Elsa si alzò di scatto e andò alla porta, portandosi il telefono all'orecchio ed esclamando un seccato: «Pronto? Ma si può sapere chi cazzo sei?»

«La delicatezza…» Commentai ironica, ricevendo la risposta da Leo: «È comprensibile… È da questa mattina che riceve le chiamate dal solito numero.»

«Tutto il giorno?» Chiedemmo io e Mattia, in coro. “Certo che è strano…” 

Lanciai un'occhiata alla mia amica, notando l'abbassamento innaturale delle spalle, i muscoli del trapezio quasi tremare da quanto tesi, la mano libera stretta a pugno tanto da far sbiancare le nocche. “Qualcosa non và, Elsa è furiosa.” Una breve occhiata a Leo mi fece intuire che anche lui aveva visto ciò che avevo avvertito io.

La seguii con lo sguardo mentre usciva dalla porta senza dire nulla, né voltarsi, il telefono sempre all'orecchio.

«Stai tranquilla.» Mi voltai verso Leo, che mi sorrideva rassicurante. «Fosse successo qualcosa di grave, saresti la prima a saperlo, sai che Aurora non ti terrebbe nulla nascosto.»

Tentai di sorridere, sapendo che diceva il vero, e lo sguardo mi cadde sui fiori che aveva portato Mattia. «Hey! Dobbiamo trovare un vaso in cui metterli! Subito!»

Passando davanti la porta finestra per andare in sala a prendere un contenitore adatto, incrociai lo sguardo con quello di Elsa, fuori sotto il porticato. Le sorrisi contenta, alzando le mani per mostrarle il vaso che eravamo andate a comprare insieme qualche tempo prima, colmo di colore e profumo grazie ai fiori di Mattia. Vidi le sue labbra distendersi in un sorriso colmo d'affetto, quasi materno, dire qualcosa al microfono del telefono e riagganciare.

Quando varcò la soglia per tornare da me, non ebbi bisogno di chiederle nulla: i suoi occhi color miele erano sereni, e questo mi bastava.

 

«Pronto? Ma si può sapere chi cazzo sei?»

«Björn.» Dall’altro capo del telefono calò il silenzio. Ma non era affatto un buon silenzio: quasi mi pareva di sentire i denti di Aurora scricchiolare per l’ira. Nel poco tempo che avevo avuto per conoscerla, avevo ben compreso che fosse un carattere abbastanza simile al mio: molto fumino, che basta un nonnulla per far accendere la fiamma e farla incazzare. Peccato che, in quella situazione, io rappresentavo una gettata di benzina del calibro da far scatenare un vero e proprio incendio. 

Ne ero perfettamente consapevole, ma d’altronde non avevo potuto resistere: dovevo sapere come stava Camilla, altrimenti sarei impazzito. E Aurora era il mio unico tramite.

Feci un respiro profondo e cercai le parole più giuste per non far scatenare l’incendio: «Immagino che mi odi e non posso darti torto per questo. Io stesso mi odio per come ho trattato Cam e…»

«Che cosa vuoi, Arkin.»

Un altro sospiro, dovevo riuscire in tutti i modi a controllare la voce. Non potevo permettere che ne percepisse il tremore. «Voglio solo sapere come sta Cam… Tutto qui…»

«Hai saputo? Come hai fatto?»

«Mia sorella è volontaria della misericordia. C'era lei in ambulanza quando l'hanno portata in ospedale l’altra notte.»

Dovetti attendere un po’ la risposta. «Camilla sta bene. Adesso è a casa e non appena le costole si saranno rimesse, sarà come non fosse successo nulla.»

La tensione parve scorrere via dal mio corpo tutta insieme, lasciandomi uno strano senso di leggerezza addosso. Parvi come sciogliermi sulla sedia. Mi passai una mano sul volto e ringraziai il cielo e tutte le divinità, passate, presenti e anche quelle future.

Raccolsi tutto il coraggio che avevo e, con il nodo alla gola tornato a farsi prepotente, chiesi: «È felice?»

Quei secondi che attesi la sua risposta mi parvero non finire più. E forse non avrebbe potuto dire altro per farmi stare peggio: «Sì, lo è. È circondata da persone che le vogliono bene e che non la farebbero mai soffrire.»

Lei chiuse la chiamata, io affondai il volto nelle mani. Le lacrime si riunirono sui palmi. Le dita si chiusero in un moto di rabbia e il braccio si mosse da solo, andando a buttare a terra tutte le bottiglie di alcool che avevo sull'isola della cucina, il frastuono di vetri rotti venne accompagnato dal mio grido. 

Iniziai a prendere a pugni il pavimento, nel vano tentativo di sfogarmi, la vista annebbiata dalle lacrime e la testa completamente in tilt dal dolore e l'alcool che mi scorreva in corpo. 

 

Mi accorsi di Svein solo quando mi trovai le sue mani a stringermi i polsi, tenendoli lontani dalle mattonelle ormai a chiazze color cremisi.

«Rolig, Arkin! Hva faen skjedde? (Datti una calmata, Arkin! Che cazzo è successo?)» La sua voce mi pareva distante anni luce, percepivo tutto in modo troppo ovattato. “Dimenticare... La devo dimenticare...” L'unica cosa che mi diceva la testa era di sfogarmi, in qualsiasi modo, per cercare di far tacere il cuore una volta per tutte.

Svein alleggerì appena la presa sui miei polsi quel tanto che bastò per farmi voltare verso di lui. Gli strinsi la maglia dell'uniforme al petto, guardandolo disperato, senza sapere cosa dire.

«Ta ut øynene mine… (Cavami gli occhi…)»

“Non voglio più vedere niente... Non voglio più avere a che fare con niente... Liberami dai miei occhi...”

«Hva… (Cosa…)»

«Du kan gjøre det... Du vet gjøre det! Ta ut disse forbannede øynene! (Tu puoi farlo... Tu sai farlo! Cavami questi maledetti occhi!)»

“Liberami da questi zaffiri che mi ricordano lei, di Paolo... Che mi sbattono in faccia il mio passato e quel maledetto dolore...”

Chinai il capo, ancora in ginocchio. «Hver gang… hver gang jeg ser i speilet, ser jeg de tre barna leke lykkelig sammen ... Jeg ser Paolo livløs i armene mine… Jeg ser Camilla gråte og gå bort fra meg… (Ogni volta... ogni volta che mi guardo allo specchio, vedo quei tre bambini che giocano felici assieme... vedo Paolo senza vita tra le mie braccia...vedo Camilla che piange e se ne va da me…)»

“Liberami dalla loro maledizione.”

«Jeg ser dem nedsenket i de hvite sykehus- og likhusteppene... hånden min prøver å berøre dem… men… kan ikke klare det… (Li vedo immersi in quelle coperte bianche d’ospedale e dobitorio… la mia mano che cerca di sfiorarli… ma... non ci riesco…)»

“Perché non li posso raggiungere?”

Mi portai le mani sanguinanti al volto, a coprirlo. «Det er deres feil hvis jeg ser alt jeg elsker å forlate meg… Jeg tåler dem ikke lenger… (È colpa loro se vedo tutto ciò che amo andarsene da me... Non li sopporto più…)» Infilai le unghie nella pelle, come per lacerarla, ma Svein mi fermò, prendendomi nuovamente i polsi e allontanandomi le mani dalla faccia. Mi guardò e, con tono fermo, affermò: «Du er full, Arkin. Skaff deg bakrus, så kan vi snakke om hvorfor du ødela hele dette alkoholkammeret i dette huset (Tu sei ubriaco, Arkin. Fatti passare la sbronza e poi possiamo parlare del motivo che ti ha fatto distruggere l'intera dispensa di alcool di questa casa.)»

“Sì... È vero, sono ubriaco... Ma non è colpa dell'alcool.”

Mi mossi con un moto di stizza per cercare di liberarmi dalla sua presa, senza avere successo. «Ikke gjør det, lille kusine. Du kan ikke slå meg mot meg, det vet du veldig godt. (Non farlo, cuginetto. Non puoi vincere contro di me a botte, lo sai benissimo.)»

Con un velo rosso dovuto nemmeno io so a cosa, gli assestai una ginocchiata all'addome, nel tentativo di liberarmi. «Jeg vil at du skal bringe disse jævla øynene til meg! (Voglio che mi cavi questi maledetti occhi!)»

Lo sguardo di ghiaccio di Svein si incrociò con il mio, troppo ubriaco per accorgermi che mio cugino fosse entrato in modalità militare d'élite.

Un pugno. 

Un suo solo pugno. Bastò per stendermi, e farmi perdere i sensi.


 

 


 

Devo essere una persona davvero sadica, mi è piaciuto un mondo scrivere queste scene di Arkin, soprattutto quelle che vengono da qui in poi. 
In effetti, ci sono già stati molti indizi passati che avrebbero dovuto farmi arrivare a questa conclusione.
Una volta un'amica mi disse che, più un autore tende a far soffrire un suo personaggio, più significa che gli vuole bene. Secondo questa teoria, io dovrei essere follemente innamorata di un sacco di miei pg.... il che non è propriamente falso, ma comunque... Un certo Arni e un certo Egil, in particolar modo, avrebbero parecchio da dire a riguardo. Forse dovrei semplicemente smettterla di amare i miei personaggi, in questo modo, forse, potrei dar loro delle vite più semplici.
...Nah!
Ora che ci penso, può anche benissimo darsi che, per questo caso specifico, sia il fattore lingua norvegese che mi emozioni mentre scrivo. Cioè dai, provate a leggerla... Non è una lingua meravigliosa? E' bellissima. Dev'essere, anzi lo è sicuramente, merito suo se le parti di Arkin in Norvegia sono le mie preferite dell'intero racconto.


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p.s.
Era tanto che volevo dare un pungno ad Arkin. Svein ha realizzato questo mio desiderio. Grazie Svein.
 
   
 
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