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Autore: Miss Phebe    26/02/2021    0 recensioni
Hermione lo aveva avvisato: cose orribili accadono quando i maghi interferiscono col tempo.
E’ un peccato che Kilian Magbob non ricordi più questa conversazione, proprio come non ricorda quale sia il suo vero nome, perché un’antica congrega lo stia perseguitando, come abbia fatto ad attirare l’attenzione del più potente mago oscuro di tutti i tempi o anche chi lo abbia maledetto con quella cicatrice a forma di saetta che ha sulla fronte. E’ determinato a svelare i misteri che si celano nel suo passato, però, e nessuno, nemmeno lo stregone che ha dato inizio alle sue disavventure, potrà fermarlo.
Comunque, nonostante tutto ciò, in qualche modo, Kilian, essendo Harry, troverà anche il tempo per occuparsi degli intrighi dei Cavalieri di Walpurgis.
«Allora, qual è il piano?» s’informò Mulciber, nervoso «Perché c’è un piano, giusto?».
«Oh, quanto a questo, puoi stare tranquillo: ce ne sono ben due» lo rassicurò Rosier con tono soave. «Quale vuoi sentire? Il piano di Magbob su come farci ammazzare o il piano di Tom su come ottenere una condanna a vita ad Azkaban?».
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alphard Black, Dorcas Meadowes, Harry Potter, Mangiamorte, Tom Riddle/Voldermort | Coppie: Harry/Voldemort
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
Capitoli:
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Qui, potete trovare la versione inglese della storia
https://archiveofourown.org/works/29700234/chapters/73036425

Capitolo I
Il Libro dell’Ammissione

Il tredicenne Alphard Black (alto, magro e, in quel momento, con folti capelli argentati e occhi viola) aveva trascorso gli ultimi tre giorni in quella stanzetta del San Mungo per vegliare sullo Sconosciuto privo di sensi, sperando di poter essere presente al suo risveglio. La sua pazienza era destinata ad essere premiata, infatti, stava ripassando il significato della runa Uruz quando lo Sconosciuto si svegliò urlando. Alphard lasciò cadere per terra il Sillabario dei sortilegi e corse al suo fianco. Il ragazzo era ancora disteso nel letto con gli occhi chiusi ma era sudato, si dimenava, urlava e continuava a sfregarsi la fronte dove c’era la cicatrice a forma di Sowilo che aveva tanto incuriosito Alphard. Non occorreva essere un Guaritore per intuire che doveva essere una cicatrice da maledizione nonché la causa della sua attuale sofferenza, ma non sapeva come aiutarlo. Proprio mentre stava per suonare la campanella d’oro che avrebbe richiamato un Guaritore, lo Sconosciuto cominciò a calmarsi, smise di agitarsi e, se pur ansimante, aprì gli occhi.

Aveva dei begli occhi, a mandorla, di un verde brillante, e la maniera in cui continuava a sbattere le palpebre, completamente disorientato, intenerì Alphard.

«I tuoi occhiali sono qua» lo rassicurò afferrandoli dal comodino e porgendoglieli.

Lo sconosciuto se li infilò subito, ma non perse la sua aria smarrita.

«Sono Alphard, Alphard Black, sono stato io a trovarti» gli spiegò «Stai meglio, ora? La cicatrice ha smesso di farti male?».

Lo sconosciuto annuì e poi, dopo essersi guardato attorno, con una voce sottile, chiese: «Dove sono?». Erano in una piccola stanza quadrata con pareti e mobili bianchi. Non aveva neanche una finestra e il mobilio consisteva esclusivamente nel letto a baldacchino, la sedia dove Alphard stava leggendo e un comodino che conteneva solo l’uniforme di Hogwarts che lo sconosciuto indossava quando Alphard lo aveva trovato.

«Siamo al San Mungo» gli spiegò Alphard, l’informazione non pareva essere stata chiarificatrice e Alphard iniziò a preoccuparsi: chi, in Gran Bretagna, non conosceva il San Mungo? Alphard non si era dimenticato che era senza bacchetta quando era apparso: poteva davvero essere un Babbano come aveva suggerito Ignatius Tuft? E se lo era, Alphard, continuando a parlargli, rischiava d’infrangere lo Statuto Internazionale di Segretezza?

Esitò: avrebbe dovuto chiamare un Guaritore per avvisare che lo sconosciuto si era svegliato e lo avrebbe fatto. Dopo.
«Come ti chiami?» gli chiese con un sorriso incoraggiante. Non c’erano molte persone in grado di destare il suo interesse, ma quel ragazzo c’era riuscito e voleva che rispondesse a un po’ di domande, dopotutto era andato a trovarlo tutti i giorni, proprio nella speranza che si svegliasse mentre era presente. Sfortunatamente, lo sconosciuto non sembrava voler collaborare. Alla sua domanda, infatti, s’irrigidì e cominciò a guardarsi attorno, spaventato.

«Non sei in pericolo» cercò di tranquillizzarlo. «Fra poco arriveranno i Guaritori per controllare come stai».

A quelle parole, il ragazzo parve rasserenarsi un poco: «Quindi siamo in una specie di ospedale?» chiese.

«Siamo al San Mungo» ripeté Alphard. «Studi a Hogwarts?» gli chiese poi. Dopotutto quando lo aveva trovato indossava un’uniforme. Alphard non ricordava di averlo mai visto prima, ma non poteva esserne certo. A occhio e croce, sembrava avere più o meno l’età di suo fratello minore, quindi poteva essere una matricola e se fosse stato smistato in un'altra Casa, Alphard avrebbe potuto non notarlo.

Lo sconosciuto, che ad Alphard cominciava a ricordare l’elfa di famiglia quando temeva di aver contrariato sua madre, si morse il labbro inferiore e non rispose.

Il giovane Black sospirò profondamente, continuando così non avrebbe ottenuto nulla. “Sii amichevole” si disse. Gli sorrise nel modo più rassicurante di cui era capace e in risposta i suoi capelli divennero di un caldo color mogano e gli occhi si scurirono. Il ragazzo lo fissò sorpreso, ma non gli chiese nulla. «Sono un Metamorphmagus e studio a Hogwarts, terzo anno, Slytherin». A giudicare dalla sua espressione, quasi sicuramente, il ragazzo aveva riconosciuto il nome della sua Casa, ma non commentò.

«Cos’è un Metamorphmagus?» chiese invece.

«Sono capace di modificare il mio aspetto con estrema facilità». E glielo fece vedere: in un lampo i suoi capelli divennero arancioni, gli occhi gialli, il naso a patata e crebbe di diversi centimetri. Lo sconosciuto lo gratificò con un piccolo sorriso che Alphard ricambiò.

«Come ho detto, sono stato io a trovarti» continuò mentre tornava ad assumere il suo solito aspetto con capelli argentei e gli occhi viola. «Eri svenuto nella biblioteca dei Potter, ero lì per il loro ballo di Yule».

«Eri in una biblioteca per un ballo?» ripeté il ragazzo.

Alphard gli rivolse un altro sorriso. «I balli non sono la mia cosa».

Gli occhi dello sconosciuto brillavano per il divertimento: ogni minuto che passava assomigliava meno ad un elfo domestico maltrattato e di più al bambino che avrebbe dovuto essere.

«E i libri, sì?».

«I Potter hanno una biblioteca interessante che, secondo mia zia Dorea, comprende l’Almagesto».

«Il grimorio di Claudius Ptolemy?» chiese lo Sconosciuto.

«Esatto» si rallegrò Alphard: non aveva mai parlato con un Babbano in vita sua, ma dubitava che conoscessero le Case di Hogwarts e i teorici greci. «Sono sgattaiolato fuori dalla sala da Ballo, mi sono infilato in biblioteca e stavo cercando il grimorio quando sei apparso dal nulla, sdraiato sul pavimento. Non riuscivano a farti riprendere i sensi, quindi ti hanno portato al San Mungo: è accaduto tutto tre giorni fa». Tacque, aspettando che lo Sconosciuto dicesse qualcosa -era ora che desse lui qualche spiegazione, giusto?-, tuttavia ben presto fu evidente che non ne aveva nessuna intenzione. Alphard esitò giusto qualche secondo. Era convinto che per reperire informazioni, i modi diretti fossero i meno efficaci, ma in realtà non aveva molta scelta, non lo conosceva e non aveva tempo per pensare a qualche strategia: a un certo punto sarebbe arrivato un Guaritore per la visita di controllo ed era possibile che dopo aver scoperto chi fosse, l’avrebbero dimesso e Alphard non avrebbe più saputo come raggiungerlo.

«Quindi come hai fatto?»

«Come ho fatto a fare cosa?»

«Come hai fatto a comparire nel bel mezzo della biblioteca dei Potter. Ero lì, non ti sei Materializzato e non hai neanche usato una Passaporta, d’altra parte non sarebbe stato possibile: quella casa è ben protetta».

«Non lo so, non so come ho fatto». La desolazione e l’impotenza che esprimevano i suoi occhi erano tali che Alphard non dubitò neanche per un istante della sincerità di quelle parole.

«Ma sai cosa ti è capitato? Perché eri svenuto?»

Lo Sconosciuto scosse la testa.

«Beh, qual è il tuo ultimo ricordo?».

Fu quando quel ragazzino, che doveva avere più o meno l’età di suo fratello, riassunse quell’espressione da elfo spaventato, che Alphard intuì in che situazione si trovava.

«Non lo so» borbottò.

«Come ti chiami?» insistette Alphard, sperando, per il bene dello Sconosciuto, di aver tratto la conclusione sbagliata.

«Non lo so» ripeté lui, facendosi piccolo.

Istintivamente, Alphard gli posò una mano sulla spalla.

«Non ti devi preoccupare. I Guaritori, tramite pozioni e la Legilmanzia, sono in grado anche di recuperare i ricordi perduti». Evitò di aggiungere che la capacità di recuperare i ricordi dipendeva dalla causa della perdita di memoria: le cause non magiche non erano un problema, ma Alphard sospettava che un incidente che aveva portato all’apparizione dal nulla di un ragazzo amnesico in una delle case meglio protette della Gran Bretagna, doveva essere stato molto magico.

Il ragazzino stava per rispondergli quando la porta della stanza venne aperta ed entrò un uomo alto con indosso vesti verde acido. Appena li vide, sorrise, raggiante. «Il nostro bell’addormentato si è svegliato, dunque». Si avvicinò al letto quasi saltellando e puntò la bacchetta verso il petto del ragazzo, il quale cominciò ad emettere una debole luce. Alphard non aveva idea di cosa volesse dire, ma l’esame sembrava aver soddisfatto il Guaritore che annuì e continuò a sorridere.

«Hai avuto un esaurimento, piccolo» spiegò il Guaritore. «Devi aver fatto qualcosa di magicamente molto impegnativo. Eravamo molto preoccupati perché potevamo solo farti riposare e sperare che lo sforzo che avevi sostenuto non fosse superiore alle sue forze».

Alphard si chiese se lo Sconosciuto sarebbe morto in quel caso.

«Sai, negli ultimi tre giorni non si è parlato che di te» continuò il Guaritore con un tono fastidiosamente allegro. «Posso chiederti come ti chiami? E che ci facevi dai Potter?»

Queste parole furono accolte da un silenzio assoluto. Alphard, che aveva ancora una mano posata sulla spalla dello sconosciuto, la strinse dolcemente: «Non ti succederà nulla» gli sussurrò all’orecchio, «Vuole sapere cos’è successo solo per capire come aiutarti».

In realtà, Alphard non era sicuro di ciò. Volente o nolente che fosse stata, quella effettuata dallo Sconosciuto si chiamava violazione di domicilio con utilizzo di mezzi magici e i Potter erano abbastanza influenti da potersi assicurare che non la passasse liscia. Comunque, il ragazzino parve credergli e, con voce esitante, rispose al Guaritore: «Non lo so, io… non ricordo nulla. Intendo proprio nulla, non so chi sono».

C’era stupore e pietà nello sguardo dell’uomo, che tuttavia continuò a sorridere e a mantenere un tono di voce gaio. «Beh, nulla di cui preoccuparsi. I migliori Guaritori del Paese lavorano tutti qui: troveranno il modo di recuperare i tuoi ricordi in un batter d’occhio».

Alphard era molto meno ottimista.

«Personalmente, spero che sia stato causato tutto da una Passaporta difettosa: ci ho scommesso dieci galeoni» continuò il Guaritore. Se quella rivelazione aveva lo scopo di far ridere i due ragazzi, fallì. Poi il Guaritore volse lo sguardo verso il giovane Black. «E tu chi sei, quindi?» gli chiese.

Questa era una bella domanda, non è vero? Alphard non poteva sostenere di essere un parente o un amico di un ragazzo amnesico comparso dal nulla.

«Sono quello che lo ha trovato» disse Alphard. La sua affermazione non spiegava cosa ci faceva lì, tre giorni dopo il ritrovamento, in una camera riservata, fuori dall’orario di visita.

Lo sguardo del Guaritore fu attratto dal Sillabario dei Sortilegi che si trovava ancora per terra, Alphard lo raccolse e lo infilò nella borsa.
«La stanza riservata di un ospedale è uno strano posto in cui studiare» osservò l’uomo.

«Non stavo studiando» mentì Alphard. «Ero venuto solo per una rapida visita. Lei chi è, comunque? Dov’è il Guaritore Longbottom?».

«E’ il suo giorno di riposo» rispose l’uomo. «Mi chiamo Andrew Taylor, e tu?».

«Alphard Black».

Il viso del Guaritore si contrasse per un attimo in un’espressione diffidente. Alphard non si chiese il perché.
«Beh, temo di dover fare al tuo amico qualche esame più approfondito» disse, tornando a sorridergli. «Puoi tornare domani. Magari avrà già recuperato la memoria» concluse allegramente.

Alphard, che teneva ancora una mano sulla schiena dello sconosciuto, non voleva andarsene e lo sconosciuto, a giudicare dal suo sguardo implorante, non voleva che lui se ne andasse. Era comprensibile: Alphard riusciva solo vagamente ad immaginare quanto si sentisse smarrito e vulnerabile, tuttavia, non avevano scelta.

«Torno domani» gli promise.

Il ragazzino annuì. Alphard, un po’ imbarazzato, gli accarezzò i capelli con fare affettuoso.

«A domani» rispose lo sconosciuto e Alphard uscì dalla stanza, lasciandosi dietro un Guaritore fastidiosamente allegro e un ragazzino pallido con un pigiama blu troppo grande per lui.

Percosse tutto il corridoio e poi scese le scale che si trovavano alla sua destra finché raggiunse l’affollata sala di accettazione. Si stava dirigendo verso l’uscita quando entrò un’attraente strega con un’elegante veste viola, folti capelli neri raccolti, un grazioso cappellino e occhi grigio cupo: era sua zia Dorea.

«Cosa ci fai qui?» le chiese dopo averla raggiunta.

«Non dovrei chiederlo io a te, ragazzino?» replicò lei con un tono beffardo. «Ti stavo cercando» continuò. «Tua madre mi ha mandato un gufo: teme che io ti abbia rapito».

Alphard corrugò la fronte, perplesso.

«Dovevi essere a casa, tre ore fa: hai perso la cena» gli fece notare sua zia.

Alphard diede una rapida occhiata al suo orologio da taschino: era vero, era riuscito a non accorgersi di stare violando il coprifuoco.

«La parte curiosa» continuò Dorea «è che Irma sembra convinta che tu abbia trascorsogli ultimi tre giorni con me: ha scritto che esci di casa al mattino presto, a volte prima di colazione, e che torni appena in tempo per la cena».

Alphard non replicò, non occorreva: in quel momento doveva esserle evidente cosa aveva fatto in quei tre giorni.

«Allora, posso sapere il perché di tutto questo?».

«Ero curioso».

«Anch’io, ma come ti avevo spiegato Charlus ci avrebbe riferito subito ogni novità». Charlus, l’ex Caposcuola Potter, il fidanzato di zia Dorea, stava studiando per diventare Guaritore. In effetti, era grazie a lui, e alla condiscendenza del Guaritore Preston Longbottom, se Alphard era riuscito ad andare a trovare lo sconosciuto, nonostante fosse in una stanza in cui era vietato l’accesso ai visitatori.

«C’è una novità: si è risvegliato e l’ho saputo prima di te e Charlus».

Zia Dorea era accigliata. «Quindi pensi che ne sia valsa la pena? E’ valsa la pena stare chiuso qui dentro per tre giorni per scoprire che si era svegliato qualche ora prima di quando lo avresti comunque scoperto?».

Alphard ripensò a come lo stava guardando lo sconosciuto quando se ne era andato: sì, ne era valsa la pena, ma non lo disse a sua zia.

«Allora,» continuò lei «ti ha detto qualcosa? Com’è entrato a Casa Potter?».

«Non lo sa, ha perso la memoria».

Sua zia ridacchiò. «Conveniente».

«Credi che menta?» Era una possibilità, ovviamente, anche se ad Alphard, lo sconosciuto era parso sincero.

Zia Dorea scosse le spalle con noncuranza. «Se mente, i Guaritori lo scopriranno subito».

«Ma pensi che abbia bisogno di mentire? I Potter potrebbero decidere di denunciarlo?».

«Oh, no, lo escludo. Il signor Potter, Euphemia e Flea non sono quel tipo di persone -Merlino, è un bambino!- Certo avranno delle domande da porgli, le avranno tutti».

Alphard annuì, pensieroso. Zia Dorea gli posò una mano sulla spalla e lo spinse, dolcemente, verso l’uscita. Quando furono sulla strada, tese il braccio con la bacchetta e, con un BANG assordante, si materializzò un autobus viola a tre piani. Ne scese il bigliettaio -basso, grassoccio, con un uniforme viola- che recitò le solite parole di benvenuto. Zia Dorea gli spiegò dov’erano diretti, gli allungò qualche moneta e poi, seguito dal nipote, si diresse verso uno dei letti in fondo al pullman. Dopo che si furono seduti, Alphard ruppe il silenzio. «Tu cosa ne pensi?» chiese mentre il pullman ripartiva, sobbalzando. Entrambi si strinsero forte al letto per non cadere. «Come credi abbia perso la memoria?».

Dorea si tolse il cappello dalla testa. «Hai posto la domanda meno interessante. Ammesso che non stia fingendo, l’amnesia potrebbe essere stata causata da praticamente qualsiasi cosa: pozioni, incantesimi, maledizioni o, chissà, forse ha solo subito un grande shock. Come ti è parso? Voglio dire, ho capito che non ricorda nulla, ma era in sé?».

Alphard ci pensò su. Ovviamente, siccome non lo conosceva prima dell’incidente, era un po’ difficile determinare se lo sconosciuto si fosse comportato in maniera diversa dal solito.
«Sembrava intimidito e molto disorientato, ma non credo abbia perso la coscienza sé stesso» sentenziò infine.

Zia Dorea annuì. «Cosa che invece, di solito, accadde con le maledizioni».

«Quindi, forse è solo sotto shock?» dedusse Alphard.

«O è stato avvelenato o è sotto incanto» ripeté sua zia. «Ma che importanza ha? Ai Guaritori serve comprenderlo per capire come curarlo, ma personalmente sono più interessata a scoprire chi è e da dove viene, perché può aver perso la memoria accidentalmente, ma non può essere entrato nel Nido di Iolanthe accidentalmente».

Alphard annuì. Sua zia aveva più volte definito la casa dei Potter come una delle abitazioni più sicure della Gran Bretagna. «In che modo è protetta?».

«Beh, è irrivelabile, ci sono incantesimi respingi babbani, non ci si può materializzare, né usare passaporte o camini senza il permesso di un membro della famiglia e soprattutto l’intera abitazione è circondata da un cerchio di Estia che tiene lontano qualunque intruso per un raggio di cento metri».

«Lievemente ossessionati».

Dorea rivolse al nipote uno sguardo tagliente: «Puoi dare loro torto?».

No, Alphard non poteva. Cinque anni prima, una Euphemia Potter in cinta era stata rapita da un mago oscuro, Fauntleroy Nott. Gli Auror l’avevano ritrovata dopo una settimana, rinchiusa in una grotta della Cornovaglia. Si supponeva che il rapimento fosse stato un modo di Nott per vendicarsi di una legge tutela-Babbani scritta dal suocero di Euphemia, Henry Potter. La signora Potter non ricordava cosa fosse accaduto durante la sua prigionia, ma sembrava che una maledizione le avesse fatto perdere il bambino che aspettava. Tutt’ora questa storia era uno dei pettegolezzi preferiti dei salotti buoni della comunità magica britannica.
       
«Quindi, non può essere entrato per caso al Nido di Iolanthe» continuò Alphard, riprendendo il ragionamento della zia «Allora, come ha fatto?».

«Ovviamente Flea e Euphemia temono che sia stato mandato da qualcuno».

«E a che scopo? Farsi ammazzare? Cosa poteva fare un ragazzino disarmato in una casa che pullulava di maghi adulti?».

Le labbra di zia Dorea si piegarono in una smorfia. «Non ho la risposta alle tue domande, Al, ma è naturale che i Potter siano preoccupati: Fauntleroy Nott è ancora libero e corre voce che si sia unito a Grindelwald. Quel ragazzino disarmato poteva essere parte di un piano più grande, anzi potrebbe ancora essere parte di un piano più grande».

Alphard, per qualche ragione, sentì una fitta d’angoscia alla bocca dello stomaco. «Hai detto che i Potter non lo avrebbero denunciato».

«E non lo faranno» confermò zia Dorea. «Flea e Euphemia sono convinti che tutti i bambini siano intrinsecamente innocenti. Vogliono scoprire chi c’è dietro quel ragazzino, chi sta cercando di colpirli questa volta, ma non vogliono che venga processato».

Alphard, rasserenato, si poggiò sulla testata del letto «I Potter sono piuttosto sfortunati, non è vero?».

«Henry Potter si è fatto molti nemici nel corso della sua carriera politica e i suoi figli tendono a pagarne le conseguenze» spiegò Dorea.

Alphard ghignò: «Sicura di voler entrare a far parte della loro famiglia, zia?».

«Al momento, non c’è nulla che desideri di più» replicò zia Dorea con tono fermo.

E Alphard sapeva che non era solo perché amava Charlus, Dorea era impaziente di sbarazzarsi del nome di famiglia. Volse la testa verso il finestrino, lievemente a disagio. Tra la sua zia preferita e suo nonno, al momento, c’era un clima di belligeranza che rischiava di portare al rinnegamento. Anzi che avrebbe già portato al rinnegamento se non fosse intervenuta la Nonna, così affezionata a quella sua pronipote “sentimentale e ribelle”.

In quel momento il bus si fermò. Alphard e Dorea salutarono il bigliettaio e il conducente e scesero su una macchia d’erba al centro di una piazzetta; attraversarono la strada e giunsero al marciapiede proprio di fronte ai gradini di pietra che portavano alla porta nera senza serratura, ma con un batacchio d’argento a forma di serpente intrecciato.

«Immagino che domani tornerai al San Mungo» disse sua zia.

Alphard non sprecò tempo ed energie per negarlo.

«Charlus ed io verremo con te».

«Per poter riferire tutto ai Potter?».

«Esattamente» sorrise lei «e poi voglio conoscere il ragazzo del mistero» poggiò una mano sulla sua testa, scompigliandoli i capelli. «Ci vediamo domani alle due, nella reception». Dorea girò su sé stessa e scomparve nel nulla.

Ad Alphard non rimase altro da fare che emettere un respiro profondo e colpire la porta con la bacchetta per entrare.

Appese alle pareti del corridoio della sala d’ingresso, c’erano delle lampade a gas a forma di serpente che diffondevano una luce verdastra, luce che si abbinava al colore della moquette, della tappezzeria e delle poltroncine di pelle.  Alphard era convinto che non potesse esistere al mondo, una famiglia più orgogliosa della sua tradizione Slytherin.

Ovviamente, ad aspettarlo, seduta su una delle poltrone, c’era sua madre, Irma Black nata Crabbe.

«Finalmente sei tornato» lo accolse sorseggiando una tazza di the. «Siediti» indicò la poltrona di fronte a sé.

Alphard obbedì. Sua madre aveva da poco superato i trent’anni. I suoi lineamenti erano troppo marcati per poterla definire bella, ma risultava elegante con i suoi lunghi capelli color limone raccolti in uno chignon. Accoccolato ai suoi piedi, c’era il suo fedele gatto, Belzebù.

La signora Black gli versò del the.

«Alphard, dimmi, credi che io sia eccessivamente severa?» chiese dopo che Alphard ebbe bevuto.

«No, madre».

Irma annuì. «No, neanche a me pare eccessivo chiedere a un bambino di tredici anni…»

…Fra meno di due settimane ne avrebbe compiuti quattordici…

«…Di tornare a casa entro l’ora di cena».

«Mi spiace, madre, ho perso la cognizione del tempo. Non ricapiterà».

«Cosa stavate facendo tu e tua zia di tanto appassionante?».

«Studiavamo» Alphard estrasse dalla borsa il libro di Antiche Rune per farglielo vedere.

Sua madre sembrava perplessa. «Ho sempre apprezzato la tua dedizione agli studi, ma adesso mi sembra che tu stia esagerando. Hai problemi in questa materia?».

«No, anzi mi piace molto, volevo approfondire e zia Dorea è un’esperta di Antiche Rune».

«Sì, lo è, ma non comprendo perché hai bisogno del suo aiuto per approfondire una materia scolastica. Se Hogwarts non è in grado di soddisfare la tua curiosità accademica, posso assumere un tutor che ti segua durante le vacanze».

«Non serve» si affrettò a replicare Alphard. «Semplicemente mi piace passare del tempo con mia zia e Antiche Rune è una passione che abbiamo in comune».

Sua madre annuì docilmente. «Sì, so che ti piace trascorrere il tempo con tua zia e che avete molte passioni in comune, ma ritengo che durante queste vacanze abbiate trascorso abbastanza tempo insieme. Negli ultimi giorni, non ti ho quasi visto, senza contare che hai trascorso il Natale con lei, un giorno che dovrebbe essere dedicato alla famiglia».

Ad Alphard sarebbe piaciuto sottolineare che la sorella di suo padre, nonché sua madrina, era parte della famiglia. «Ho pranzato qui» disse, invece «e padremi aveva dato il permesso di partecipare al ballo dei Potter».

«Sì, tuo padre ha delle opinioni curiose su dove è meglio che i miei figli stiano» replicò Irma. Finì di sorseggiare il the per poi far sparire tutto con movimento distratto della bacchetta.

«Bene, come ho già detto, credo che tu e tua zia abbiate trascorso abbastanza tempo insieme. Fino alle fine delle vacanze invernali, non hai più il permesso di uscire».

Alphard non osò ribattere, sapeva che avrebbe solo peggiorato la situazione, ma cominciò freneticamente a pensare ad una soluzione.

«E’ tardi, è ora che tu vada a dormire». Sua madre gli sorrise e lo baciò sulla fronte per augurargli la buona notte.

Alphard si diresse verso la scalinata di marmo che portava ai piani superiori e salì fino al quarto piano, dove si trovavano la sua camera da letto e quelle dei suoi fratelli. Erano entrambi svegli e lo stavano aspettando sull’ampio pianerottolo che usavano come salotto.

«Ma quanto puoi essere idiota?» lo salutò la sua dolce sorella maggiore, seduta sulla chaise longue posta vicino alla finestra. Tra loro era l’unica ad avere qualcosa della loro madre (nei lineamenti marcati, nell’espressione del viso, nel portamento), ma i sottili capelli biondi di Irma erano stati sostituiti da una folta chioma nera, e i freddi e piccoli occhi chiari dei Crabbe erano stati rimpiazzati da grandi occhi scuri e ardenti. Inoltre, Walburga era più alta della madre e aveva un fisico androgino.

«Non volevo disubbidire» si difese Alphard. «Ho perso la cognizione del tempo».

«Il fatto che tu abbia fatto qualcosa che non volevi fare, ti rende ancora più idiota» sostenne Walburga.
Cygnus, che era un Metamorphmagus come Alphard e il loro padre, in quel momento aveva ondulati capelli biondi che gli sfioravano le spalle e grandi occhi azzurri. Gli porse un orologio da taschino con un sorriso angelico: «Te lo regalo, serve per misurare il trascorrere del tempo. Domani mattina, t’insegno a leggerlo, se vuoi».

«Ah, ah, ah. Sei esilarante, fratellino». Alphard si lasciò cadere su un pouf verde smeraldo, mentre suo fratello, convito di essere davvero esilarante o forse solo lieto che il fratello maggiore fosse finito nei guai, ridacchiava sottovoce: i suoi occhi divennero più scuri e i suoi capelli più corti, a spazzola, e verde bosco.

Walburga teneva le braccia incrociate e lo fissava accigliata: «Nostra madre ti ha messo in punizione?».

«Non posso uscire di casa fino alla fine delle vacanze» confermò Alphard.

Walburga scosse la testa. «Lo sai quanto tiene al coprifuoco, che stavi facendo di tanto interessante da non renderti conto di essere in ritardo per la cena?».

«Zia Dorea mi stava parlando di come la runa sowilo…»

«Sei senza speranza» lo interruppe Walburga, poi si alzò, si diresse verso la sua stanza, la più grande tra le tre, e ci si chiuse dentro.

Suo fratello, che ancora ridacchiava, sembrava volerla imitare, ma Alphard lo fermò.

«Cygnus, conosci tutti gli studenti del tuo anno, vero?» gli chiese.

Cygnus parve sorpreso dall’improvviso cambio di argomento. «Sì, anche se non bene».

Alphard annuì. Cyguns era abbastanza socievole, quanto meno più di lui. «Per caso, conosci un ragazzino coi capelli neri, gli occhi verdi, gli occhiali e una cicatrice a forma di saetta sulla fronte? E’ alto più o meno quanto te ed è molto magro».

«No, non mi viene in mente nessuno».

Alphard avvertì una fitta di delusione: lo Sconosciuto non era una matricola, quindi.

«Perché questa domanda?» indagò suo fratello. «Oh, aspetta, ha a che fare col ragazzo che si è materializzato a casa dei Potter?»

«Sì, indossava un’uniforme di Hogwarts, ma io non ricordo di averlo mai visto»

Cygnus assunse un’espressione sospettosa. «E perché mi hai posto questa domanda proprio adesso?»

«Perché zia Dorea mi ha detto che oggi si è risvegliato».

Cygnus sembra stupito: «E’ andata a trovarlo?»

«No, è in una stanza riservata, dove non sono ammessi visitatori, ma casualmente è stato affidato al Guaritore Longbottom, il fratello del cugino Harfang, nonché un amico dei Potter: è stato lui a dirglielo».

«Beh? Chi è? Perché si è intrufolato a Casa Potter?».

«Sostiene di aver perso la memoria».

«Ed è vero?».

«Chi lo sa. Sarà compito dei Guaritori appurarlo».

Cygnus, per qualche ignota ragione, sorrise. «Beh, sembra una storia interessante e tu sei l’unico testimone».

«Difficilmente. C’era un sacco di gente a casa dei Potter, stavano dando una festa».

Suo fratello gli rivolse un ghigno. «Ma sei l’unico ad averlo visto comparire, no? C’eri solo tu in biblioteca in quel momento, giusto?».

Alphard si chiese cos’avrebbe detto se avesse saputo che era anche l’unico ad averlo visto rinvenire, che era stato il primo a parlargli e che era deciso a trovare un modo per andarlo a trovare l’indomani.

«Cosa vuoi raccontare? Che è apparso avvolto dalle fiamme dell’Ardemonio e ha evocato il marchio di Grindelwald?»

Cygnus alzò gli occhi al cielo. «Niente di tanto melodrammatico, ovviamente. In effetti, non dobbiamo neanche dire cosa sai, sarà sufficiente lasciar intendere che tu sappia qualcosa».

Alphard sbuffò. Suo fratello respirava l’aria rarefatta di Slytherin da soli quattro mesi, Alphard non riusciva a concepire come potesse essere già così profondamente avvinghiato negli intrighi dei loro compagni di Casa; intrighi che lui aveva abilmente evitato per quasi tre anni. Ma, con ogni probabilità, la differenza tra loro era tutta lì: Alphard non voleva farsi coinvolgere; Cygnus, invece, sguazzava felice nelle trame segrete e nelle lotte di potere.

«Racconta quello che ti pare,» gli concesse «ma assicurati che nessuno m’infastidisca».

Suo fratello annuì, ma, a giudicare, dall’espressione del viso e dai suoi capelli divenuti color cenere, disapprovava la sua noncuranza. Fortunatamente, ad Alphard non importava della sua opinione. Gli augurò la buonanotte e si diresse verso la sua stanza.

La sua camera era nei toni del blu, con un enorme letto a baldacchino, mobili lucidi, un camino in cui ardeva un fiocco scoppiettante e una comoda poltrona -Alphard ci aveva trascorso innumerevoli notti a leggere per poi addormentarsi alle luci dell’alba-. Affianco alla porta c’era una grande scrivania con poggiato sopra un vassoio pieno di sandwich e una caraffa colma di succo di zucca. Alphard sorrise alla vista. Sapeva chi aveva provveduto alla sua cena e sapeva anche che lo aveva fatto di sua iniziativa, senza aver ricevuto ordini da nessuno. Afferrò il vassoio e si sedette sulla poltrona, sollevando i piedi per poggiarli sul pouf. A volte, si chiedeva cosa dicesse di lui, il fatto che colei che gli piaceva di più, tra gli abitanti di Grimmauld Place, era Rella, la loro elfa domestica.

Gaheris, il suo kneazle maculato bianco e nero, stava dormendo sul tappetto posto di fronte al camino, ma quando il suo padrone entrò, si svegliò stiracchiandosi e si avvicinò a lui. Alphard gli grattò la testa mentre mangiucchiava con aria pensierosa. Pensare a Rella gli aveva fatto tornare in mente lo Sconosciuto. A Grimmauld Place c’erano parecchi passaggi segreti, un paio dei quali portavano fuori dalla casa, ma Alphard scartò subito la possibilità di uscire di nascosto. Sua madre non era una stupida, anche con l’aiuto dei suoi fratelli (su cui comunque, non era certo di poter contare) non sarebbe riuscito a coprire la sua assenza per più di un paio d’ore e se sua madre lo avesse scoperto sarebbe stata capace di segregarlo in casa per tutta l’estate. Anche affrontare direttamente sua madre non avrebbe funzionato: non cambiava mai idea dopo aver preso una decisione, quindi, quello che gli serviva era di essere autorizzato ad uscire da qualcuno che in quella casa aveva maggiore autorità di lei: cioè suo padre, suo nonno e la Nonna.

Suo padre lo avrebbe aiutato volentieri, ma al momento, stava sorvolando il Sahara su un tappeto volante alla ricerca di manufatti magici; anche se gli avesse mandato un gufo, Alphard sapeva che non avrebbe mai abbandonato le sue ricerche solo per costringere la moglie a far uscire di casa il figlio. Suo nonno, nei confronti del quale sua madre provava un timore reverenziale, sfortunatamente era irragionevole e testardo quanto Irma su qualunque questione riguardasse la figlia minore. Quindi, in realtà, c’era solo una persona a cui Alphard poteva chiedere.

L’indomani, quando Alphard entrò nella sala d’accettazione del San Mungo, zia Dorea e Charlus erano già lì ad aspettarlo. Charlus, che indossava l’uniforme bianca degli apprendisti Guaritori ed era alto con capelli castani tagliati alla militare e occhi scuri, lo salutò con una pacca sulla spalla. «Ero convinto che tua madre non ti avrebbe permesso di uscire di casa» disse.

«Mi ha aiutato la Nonna» spiegò Alphard.

Dorea ghignò. «Come sempre, coglie al volo ogni occasione per contrariarla».

Alphard si limitò a scrollare le spalle, con noncuranza. Trovava estenuanti e anche un po’ infantili gli innumerevoli conflitti all’interno della sua famiglia –tra sua zia e suo nonno, tra sua madre e la Nonna, tra sua madre e suo padre-, ma la disapprovazione non gli aveva mai impedito di sfruttarli per ricavarne benefici personali.

Charlus indicò le scale che portavano ai piani superiori: «Andiamo?».

Zia Dorea annuì e aprì la strada.

«Novità?» chiese Alphard mentre salivano.

«Poche,» rispose Charlus «sono qui dall’alba: è dalle sei che viene esaminato, ma, per ora, possiamo solo dire che è un mago».

Alphard si era dimenticato che c’era ancora quella questione in ballo. «Ed è davvero amnesico?» indagò.

«Senza dubbio. Rita Schneider, la nostra migliore Guaritrice della Psiche, ha esaminato la sua mente per due ore. Ha coscienza di sé stesso, un carattere ben definito e varie nozioni sia sul nostro mondo che su quello babbano, ma nessun ricordo legato alla storia personale».

«Avete già contattato il Ministero per ottenere informazioni?».

«Sì, grazie a mio padre, il Guaritore Prewett è riuscito ad ottenere un colloquio via camino con la signora Rookwood del Dipartimento Catastrofi e Incidenti magici, ma lei ci ha solo dato altri quesiti a cui rispondere».

«Cosa intendi?».

«Non ha la Traccia» rispose Charlus con un sussurro.

Zia Dorea era visibilmente sorpresa. «Com’è possibile?».

«Ce lo stiamo chiedendo tutti».

«Non ho mai capito come funzioni la Traccia,» intervenne Alphard «né a cosa serva».

«In che senso “non hai capito a cosa serve”?» gli chiese zia Dorea.

«Beh, non è come se avesse mai impedito a Walburga di fare magie fuori dalla scuola».

Charlus annuì. «La Traccia è in grado di rilevare i luoghi dove viene compiuta una magia e di dire quali maghi e streghe ci sono in quella zona in quel momento, ma non è in grado di associare la magia effettuata al mago o alla strega, perciò è sostanzialmente inefficace con i maghi e le streghe minorenni con una famiglia magica».

«E allora a cosa serve?» insistette Alphard.

«Serve a tenere sotto controllo i figli dei Babbani» fu la schietta replica di zia Dorea. «Ci si aspetta che un bambino nato magico, cresca con la consapevolezza dell’importanza dello Statuto Internazionale di Segretezza, o quanto meno che abbia una famiglia in grado di assicurarsi che non dia mostra di sé davanti ai Babbani, ma in pochi avevano fiducia che i Nati Babbani avrebbero avuto la stessa accortezza. Il Ministero, quindi, ha una mappa della Gran Bretagna e dell’Irlanda in cui sono stati applicati incantesimi di rivelamento. Vi sono puntini rossi col nome per i maghi minorenni, puntini azzurri senza nome per i maghi adultie scie dorate che compaiono quando viene effettuata una magia. Se compare una scia dorata dove ci sono puntini rossi, ma nessun puntino azzurro, scatta l’allarme».

«Come si fa a ingannarla?».

«Non si può, è un manufatto magico molto potente» spiegò Charlus «e non mente mai».

«Ma adesso sta mentendo» disse Alphard «perché non rivela la presenza e il nome di questo ragazzo».

Charlus annuì: «E non è tutto».

«Che altro c’è?». Per qualche ignota ragione, zia Dorea sorrideva e aveva l’aria elettrizzata. Sembrava che stessero discutendo di un nuovo entusiasmante enigma comparso su Il numero sette, invece che del destino di un ragazzino.  

«E’ un mago, nessun dubbio su questo, e dev’essere inglese visto che parla solo inglese e con accento britannico, eppure non ha la Traccia e il professor Dumbledore sostiene che il suo nome non è presente nel Libro dell’Ammissione di Hogwarts».

«Un mago inglese minorenne che non è stato ammesso a Hogwarts e che non ha la Traccia» Ricapitolò zia Dorea con tono eccitato. «Potrebbe essere un ottimo oggetto di studio».

Sia Alphard che Charlus s’irrigidirono. «E’ un paziente del San Mungo» disse quest’ultimo con tono severo.

Zia Dorea alzò gli occhi al cielo. «Giuro di non compromettere il suo stato psicofisico» promise con tono cantilenante.
Charlus non sembrava convinto e neanche Alphard lo era, ma zia Doreali ignorò, superò velocemente gli ultimi tre gradini che portavano al quarto piano e con passo svelto raggiunse rapidamente la stanza dello Sconosciuto. Aveva già la mano sulla maniglia quando Charlus l’avvertì: «Ho promesso a Preston che sarà una visita breve: è ancora debilitato, si stanca facilmente, e questa mattina l’hanno già stressato molto».

Zia Dorea annuì ed entrò, Alphard e Charlus la seguirono velocemente.

Lo Sconosciuto era disteso sul letto e fissava Dorea con un’espressione guardinga, tuttavia appena vide Alphard sorrise calorosamente. Alphard non poté evitare di ricambiare.

«Come stai?» gli chiese avvicinandosi.

«Bene» rispose con un sussurro, rivolgendo sguardi sottecchi a Dorea e Charlus.

«Mi hanno detto che è stata una mattinata impegnativa».

Lo Sconosciuto scrollò le spalle. «E’ solo che tutti continuano a pormi domande di cui non conosco le risposte».

Alphard gli accarezzò i capelli, sperando di riuscire a confortarlo.

«Alphard, ci presenti?». Alphard rivolse lo sguardo verso sua zia. L’aria eccitata di prima era svanita e adesso volgeva lo sguardo da lui allo Sconosciuto, accigliata.

«Certo, lei è mia zia Dorea e lui è il suo fidanzato, Charlus».

«Charlus Potter» precisò lui.

Lo Sconosciuto sbiancò, ma Dorea si affrettò a chiarire: «Tranquillo, non è qui in veste di Potter».

«Sono un apprendista Guaritore» spiegò Charlus «Trascorro la maggior parte del tempo due piani più su, nella scuola di Guarigione, volevo solo sincerarmi che stessi bene. Mio padre, mio fratello e mia cognata erano molto preoccupati: temono che a farti perdere i sensi siano state le protezioni che circondano la casa».

Il che, Alphard ci avrebbe scommesso, era solo parzialmente vero. I Potter di certo, in primo luogo, volevano capire come quelragazzo le avesse superate quelle protezioni. Beh, avrebbero dovuto rassegnarsi, lo Sconosciuto non poteva rivelare ciò che non sapeva.

«I Guaritori dicono che mi riprenderò del tutto a breve» li rassicurò. «Quindi sono apparso a casa tua?».

«Nella casa di famiglia, in realtà, il Nido di Iolanthe» specificò Charlus. «Al momento, io vivo a Londra».

«E dove si trova il Nido di Iolanthe?».

Alphard si accigliò: non gli avevano neanche raccontato i particolari sulla sua apparizione?

«A Stinchcombe». Il ragazzo aveva un’aria perplessa. «E’ un piccolo villaggio nel Gloucestershire». Questa volta, il ragazzo riconobbe il nome del posto, anche se non sembrava che il Gloucestershire avesse un significato particolare per lui.

«Sei un bambino» commentò sommessamente zia Dorea, come se parlasse tra sé e sé.

Quelle parole parvero irritare lo Sconosciuto che, con tono secco, replicò: «Ho quasi quattordici anni».

«Come lo sai?» gli chiese Alphard.

Lo Sconosciuto si rivolse a lui: «Quel Guaritore, il Guaritore Taylor, mi ha fatto salire su una pesa con incise sopra delle rune e poi ha detto che ho tredici anni e dieci mesi: a quanto pare sono nato il 14 febbraio del 1927».

Charlus e zia Dorea si scambiarono uno sguardo sorpreso. Alphard li comprendeva: quel piccoletto aveva la sua età?

«Ti hanno dato un nome?» chiese poi Charlus «Mi sembra strano non sapere come chiamarti» spiegò.

Lo Sconosciuto annuì: «E’ venuta una donna del Ministero… ha detto che fino a quando non scopriranno chi sono, per il Ministero sarò Magbob».

Alphard sorrise: Magbob, cioè il termine arcaico che nell’undicesimo secolo veniva usato per definire i Nati Babbani e che voleva dire letteralmente “Spuntato dal nulla”. Adeguato. Zia Dorea doveva pensarla allo stesso modo, a giudicare dal suo sguardo divertito.

Charlus, invece, fece una smorfia. «Vada per Magbob allora, per il momento ci accontenteremo». Poi guardò l’orologio che portava al polso «Bene, credo che ti abbiamo disturbato abbastanza, hai bisogno di riposarti».

Lo Sconosciuto, Magbob, rivolse uno sguardo rapido ad Alphard. «Non sono stanco» asserì «e sto riposando: sono sdraiato a letto».

Charlus sorrise «Sì, ma ho promesso al Guaritore Preston Longbottom che non ci saremmo fermati molto».
Magbob annuì, rassegnato. Era stato privo di coscienza per tre giorni, aveva perso la memoria, era in totale balia di perfetti estranei e non aveva neanche voce in capitolo sulle persone con cui poteva stare e per quanto tempo.

Alphard era davvero dispiaciuto per lui. Cominciò a tirare fuori dalla borsa ciò che aveva portato con sé.
«Ci rivedremo presto e, per evitare che ti annoi, ti ho portato un po’ di cose» disse. «Non so cosa preferisci, ma rileggere Gli Animali Fantastici non fa mai male» disse poggiando il libro sul comodino. «In alternativa, se ti piace il Quidditch…» Estrasse Prima che il Boccino venga catturato. Gli occhi di Magbob s’illuminarono.

Gli occhi di Magbob s’illuminarono. «Oh, sì, mi piace quel libro».

Alphard sorrise. Probabilmente a Magbob piaceva il Quidditch, era una buona notizia, tuttavia per quanto riguardava quel libro in particolare… «Non credo sia possibile» disse piano. «E’ uscito a Natale».

Magbob aggrottò le sopracciglia.

«Questi, invece, sono fra i miei preferiti» concluse tirando fuori Teoria della Magia e Hogwarts: Una Storia. «E nel caso non ti piacesse leggere…» Alphard stesso faceva fatica ad accettare di essersi preoccupato per qualcuno a cui poteva non piacere leggere, ma tirò fuori un piccolo mappamondo, una scacchiera con cui si poteva giocare anche da soli e un mazzo di carte auto rimescolabili.

Magobob pareva incantato. «Io… grazie, non dovevi» balbettò, ammirando tutti gli oggetti sul suo comodino. «Sei davvero gentile».

«Sì, Alphard è famoso per la sua gentilezza» commentò zia Dorea: il suo tono grondava di sarcasmo e suo nipote la guardò male. Magbob sembrava solo perplesso.

«Bene, ora andiamo» disse Charlus lasciando vagare lo sguardo da Magbob, ad Alpahard alla pila di oggetti sul comodino.

Magbob li salutò scuotendo la mano, mentre uscivano, chiudendo la porta dietro di sé.

«Che ne pensate?» chiese Charlus dopo che si furono allontanati.

«Che nulla di tutto questo ha il minimo senso» rispose zia Dorea.

«Sì, quel ragazzo dovrebbe essere impossibile. E’ impossibile che sia comparso al Nido di Iolanthe, è impossibile che non abbia la Traccia, è impossibile che non sia stato ammesso a Hogwarts».

Zia Dorea volse lo sguardo verso Alphard: «Gli hai dato la tua scacchiera?».

Alphard era sorpreso dalla domanda, ma si limitò a scrollare le spalle: «Ne ho un’altra».

«Ma quella era la tua preferita».

«Proprio per questo gliel’ho data: i pezzi conoscono parecchie mosse e potranno essere un buon avversario».

«E gli hai dato anche alcuni dei tuoi libri preferiti».

«Che conosco a memoria e che ricomprerò».

«Di certo non conosci a memoria Prima che il Boccino venga catturato: lo hai acquistato da poco».

«Ricomprerò anche quello, ovviamente».

Dorea scosse la testa, incredula.

«Cosa t’infastidisce tanto, zia?».

«Non sono infastidita,» ribatté Dorea «solo perplessa. Sei lo stesso ragazzo che a otto anni ha affatturato il fratello perché aveva osato macchiare con la cioccolata il suo libro preferito?».

«Era magia accidentale» ribatté Alphard con tono esasperato.

«Sto solo dicendo che, di solito, sei geloso dei tuoi beni personali».

Alphard scrollò nuovamente le spalle. Effettivamente, non sapeva spiegare del tutto neanche a sé stesso il suo comportamento, ma Magbob aveva suscitato in lui curiosità e compassione. Voleva conoscere la sua storia e voleva aiutarlo… In quest’ordine.

«Cos’accadrà adesso?» chiese Zia Dorea al suo fidanzato.

«Non ne ho idea» fu l’utile risposta di Charlus. «Fisicamente, sta bene e visto che ha coscienza di sé stesso e controlla i suoi poteri, non è un pericolo per lo Statuto Internazionale di Segretezza: se non fosse minorenne o se avesse un posto dove andare, lo dimetteremmo».

«Ma è minorenne e non ha un posto dove andare» riepilogò zia Dorea.

«Allora, dovremo trovarglielo».       
 
***
 
Hogwarts si stava ripopolando e Albus ne era felice. Le lezioni sarebbero riiniziate solo lunedì, ma già da dopo Capodanno, molti studenti avevano cominciato a ritornare. In effetti a tutti gli studenti che decidevano di trascorrere a casa le vacanze invernali, veniva chiesto di indicare il giorno, l’ora e il mezzo con cui pensavano di ritornare al castello e, solo se non era possibile scaglionare gli arrivi, veniva imposto loro di ritornare tutti insieme la sera prima dell’inizio delle lezioni con l’Hogwarts Express.

Albus sorseggiò il suo cocktail a base di fragola da un bicchiere con un ombrellino mentre osservava gli studenti seduti in Sala Grande.
Al tavolo di Slytherin, lo studente più brillante della scuola, Tom Riddle, mangiava silenziosamente il suo arrosto circondato dai suoi amici. Albus sorrise tra sé e sé. Davvero, li definiva amici per mancanza di un termine migliore, ma ad Albus, Tom sembrava un giovane sovrano circondato dai suoi cortigiani. Osservò meglio il gruppetto. Alla destra e alla sinistra di Tom, c’erano Dorcas Meadowes e Balthazar Selwyn, tutti e due, come ogni anno, avevano deciso di trascorrere le vacanze a scuola. Dorcas, una graziosa e brillante ragazza del terzo anno, in quel momento stava discutendo con Theodore Nott e Icarus Greengrass, seduti di fronte a lei. Anche Theodore e Icarus erano del terzo anno, entrambi avevano trascorso il Natale a casa ed erano tornati il giorno prima. Xenos Avery, invece, si stava ingozzando di purè e arrosto, interrompendosi solo per annaffiare il tutto col succo di zucca. Accanto a lui, Alaric, l’erede dei Rosier, non avrebbe potuto rappresentare un contrasto maggiore: il giovane (ondulati capelli biondi, occhi azzurri e lineamenti delicati) stava seduto in maniera regale e si portava, con fare elegante, piccoli bocconi alla bocca, senza parlare, ma, Albus non ne dubitava, ascoltando tutto con molta attenzione. Ogni tanto, s’interrompeva per rivolgere occhiate disgustate a Xenos. Balthazar Selwyn sembrava, invece, stare spiegando qualcosa a Owen Mulciber: c’era un libro, tra loro, sul tavolo, e Balthazar ne indicava dei paragrafi. Probabilmente era un tomo d’Incantesimi. Albus si servì di una fetta di torta al limone. Owen era fra i migliori del suo anno e quasi sicuramente sarebbe stato nominato Prefetto l’anno seguente, ma Incantesimi era il suo punto debole mentre era fra le materie migliori di Balthazar.

Nel terzo anno di Slytherin, oltre a Dorcas, c’erano solo altre due studentesse: Nyx Malfoy e Michelle Zabini che, tuttavia, erano sedute il più lontano possibile dalla loro compagna di dormitorio e dal gruppetto di Riddle. Entrambe si trovavano di fronte al fratello maggiore di Nyx, il Prefetto Abraxas Malfoy, anch’egli circondato da quelli che Albus non poteva che definire seguaci, qualcosa a metà tra servi e guardie del corpo. Per finire, seduta in mezzo al tavolo, impegnata a godere del privilegio di poter ignorare tutti, c’era la Caposcuola Amanda Bailey.
Dei membri più popolari della Casa, mancavano solo Roland Lestrange e i cugini Black che sarebbero tornati domenica, nel pomeriggio. Mentre Albus si chiedeva in che modo sarebbe arrivato il giovane Lestrange quell’anno (non tornava mai nel modo in cui aveva indicato), un ragazzo tozzo, con lineamenti marcati e capelli castani lunghi fino alle spalle entrò in Sala Grande. Era Augustus Rookwood, l’unico del gruppetto di Tom a non essere di Slytherin. Quell’anno, per la prima volta, Rookwood era rimasto a Hogwarts per le vacanze invernali. Albus sospettava fosse stata una decisione dei suoi genitori, entrambi impegnatissimi (la signora Rookwood al Ministero, il signor Rookwood alla Conferenza Internazionali dei teorici della Magia che stava avendo luogo a Damasco). Probabilmente avevano ritenuto inutile che il figlio tornasse a casa per Natale, visto che non avrebbero comunque avuto tempo da dedicargli. Augustus si avvicinò al suo “capo”, gli sussurrò qualcosa all’orecchio, poi salutò gli altri e si diresse al tavolo dei Ravenclaw. Si accomodò tra il suo migliore amico, Alexander Bagman, e uno degli studenti preferiti di Albus, Filius Flitwick. Filius era seduto sulla sua solita pila di libri e chiacchierava animatamente con altri due studenti cari ad Albus, Sowa Shacklebolt e Millicent Bagnold.

E a proposito di studenti preferiti… Albus volse lo sguardo verso il tavolo di Gryffindor. I due fratelli McGonagall (Minerva, quarto anno e Malcolm, terzo anno) erano tornati quella mattina. Stavano seduti uno accanto all’altro, circondati dagli altri membri della squadra di Quidditch: la Cacciatrice Susan Bennet; il Portiere Dustin McKinnon; i Battitori Benjamin Fenwick e Richard McLaggen e il Capitano Rolanda Hooch. Discutevano animatamente e Albus supponeva che stessero ideando nuovi schemi di gioco: al momento, Gryffindor era in cima alla classifica della Coppa di Quidditch. Albus aggrottò le sopracciglia. Anche se stava facendo di tutto per non darlo a vedere, Minerva era di malumore e Albus si chiedeva se avesse qualcosa a che fare con la sua situazione familiare. La madre di Minerva, Isobel, era stata una delle sue prime allieve. Era una ragazza affascinante, brillante e dotata: la migliore della classe in Incantesimi, nonché Capitano della squadra di Quidditch di Gryffindor. Sembrava destinata al successo e Albus era fra coloro che erano rimasti delusi nello scoprire che si era sposata con un Babbano e aveva rinunciato alla Magia. Non aveva mai incontrato il reverendo Robert McGonagall, ma la figlia sembrava amarlo molto, quindi Albus poteva solo dedurre che fosse un uomo onorevole, ma non si faceva illusioni su come doveva essere la vita a casa McGonagall: quando mai i matrimoni tra streghe e Babbani erano felici? Come potevano donne cresciute con modelli di ruolo quali Rowena Ravenclaw, Helga Hufflepuff, Morgana LaFay, Morrigan Sayre e Artemisia Lufkin stare con uomini che vivevano in un mondo in cui le donne avevano ottenuto diritto di voto solo ventitré anni prima?

«Dunque, oggi pomeriggio, avete un incontro con Lynette Rookwood?».

La domanda di Horace, seduto al suo fianco, lo distolse dai suoi pensieri.

Rispose il preside, seduto all’altro lato di Albus: «Sì, ci ha chiesto un colloquio via camino».

«Tempo perso, come se i criteri di ammissione di Hogwarts potessero essere modificati» borbottò Geoffrey Binns.

Albus realizzò che doveva essersi perso grande parte della conversazione mentre osservava gli studenti. Comunque, era chiaro di cosa stavano parlando o meglio di chi.

«Davvero, non capisco» intervenne Silvanus Kettleburn «perché non possiamo ammetterlo a Hogwarts».

La domanda non era rivolta a nessuno in particolare, ma Albus essendo il vicepreside, e quindi il responsabile delle procedure di ammissione, si sentì in dovere di rispondere: «I Fondatori hanno vincolato l’ammissione alla scuola a due oggetti magici senzienti: il Libro dell’Ammissione e la Penna dell’Accettazione. La Penna avverte la nascita di ogni bambino magico britannico e irlandese, il Libro decide se egli ha abbastanza magia da poter essere ammesso a Hogwarts. Solo se entrambe sono d’accordo, un bambino può diventare uno studente di questa scuola e il loro giudizio è inappellabile».

«Cosa succederebbe se accogliessimo qualcuno che non è stato ammesso?» chiese Peter Swan, l’insegnante di Babbanologia.

«La scuola non lo accetterebbe» disse Maho Miyazawa, la nuova insegnante di Aritmanzia. L’Alma Mater di Maho era Mahoutokoro ma, come Albus aveva avuto modo di appurare, in quei mesi aveva studiato a fondo l’architettura della scuola. «In primo luogo il Cappello non potrebbe smistarloe le armature potrebbero addirittura attaccarlo, anche se, ora che ci penso è più probabile che i cancelli d’ingresso non lo facciano neanche entrare».

Peter era sbalordito: «Perché? Questa scuola ha ospitato Maghinò e pure dei Babbani, in effetti».

«Non come studenti» sottolineò Binns. «Hogwarts è magica e senziente: non riusciremmo mai ad ingannarla».

«Nessuno ha intenzione di provarci» disse Albus con tono vivace. «Personalmente, sono molto grato ai Fondatori per la procedura d’ammissione che hanno ideato: non voglio neanche pensare quanto sarebbe stato seccante dover esaminare personalmente i figli di maghi e streghe e spiegare ai loro genitori perché non potevo ammetterli a Hogwarts».

«Ma se i Guaritori del San Mungo hanno ragione, e questo ragazzo è al livello dei nostri studenti, vuol dire che il nostro sistema di ammissione è fallato» osservò Galatea Merrythought, sorseggiando del vino elfico. Galatea, che era stata l’insegnate di Difesa contro le Arti Oscure di Albus, era cinque centimetri buoni più alta di lui e sembrava ancora più imponente a causa della massa di riccioli argentei e dei cappelli stravaganti che era solita portare: al momento, un cappello a punta con in cima un'enorme testa di topo.

«Non credo che il problema sia il nostro sistema d’ammissione» rispose Albus. «Non dimentichiamoci che stiamo parlando di un minorenne senza Traccia: è evidente che la storia di questo ragazzoè unica. Inoltre, in realtà la Penna e il Libro si stanno comportando in maniera singolare».

«Cioè?» chiese Silvanus.

Albus emise un sospiro profondo. «Come ho detto, la Penna rileva la nascita di ogni bambino magico mentre, di fatto, è il Libro a decidere se si tratta di un Mago o di una Strega, quindi, di solito, è la Penna ad essere meno esigente e restrittiva».

«Tuttavia… ?» Galatea lo incoraggiò a continuare.

«Tuttavia, questa volta sta accadendo l’esatto contrario. La Penna pare non volersi muovere dal suo calamaio mentre il Libro è spalancato e, ogni tanto, svolazza attorno alla Penna come per convincerla a scriverci qualcosa. Non ho mai assistito a un comportamento simile».

«Neanch’io» confermò Armando.

«Beh, ci sono un sacco di misteri in questa storia, non è vero?» commentò Horace. «Eri al ballo dei Potter, vero, Galatea?».

Galatea annuì. «E mi aspettavo di vederti» disse.

«Mi avevano invitato,» spiegò Horace «ma, ahimè, l’invito di Brutus è arrivato prima».

Si riferiva a Brutus Malfoy, il padre di Abraxas e Nyx.

«Allora, il ragazzo è veramente apparso dal nulla, come dicono?» indagò Horace.

Galatea scrollò le spalle: «Bisognerebbe chiederlo al giovane Alphard Black» rispose. «Era l’unico in biblioteca, in quel momento».

«Se stavano dando un ballo, perché era in biblioteca?» chiese Albus.

«Penso che ci fosse troppa gente per i suoi gusti. E’ un ragazzo timido».

“Timido” non era il termine che avrebbe utilizzato Albus. Riteneva che “riservato” fosse più calzante o anche “asociale”. Poi, certo, se la pietra di paragone era la sorella, chiunque sarebbe parso timido.

«Comunque, sì, lui sostiene che sia apparso dal nulla».

«E quando è rinvenuto si è scoperto che è amnesico?» riassunse Horace.

«Esatto, che io sappia, è ancora al San Mungo» rispose Galatea.

«E’ così» confermò Albus.

Horace sospirò. «Povera Lynette, ha una bella gatta da pelare. Uno ragazzo minorenne, amnesico e senza Traccia: un vero pericolo per lo Statuto Internazionale di Segretezza e il Ministero ha già così tanti problemi in questo periodo…» s’interruppe, ma tutti avevano bene in mente di quali problemi stesse parlando.

Galatea aggrottò le sopracciglia «Pensate che Grindelwald c’entri qualcosa?».

Anche Albus, se lo era chiesto. Grindelwald non si fermava davanti a nulla, neanche davanti a dei bambini, tutto ciò poteva fare parte di un qualche piano contorto.

«A che scopo?» ribatté invece Horace. «Perché mai avrebbe dovuto mandare un minorenne disarmato a casa dei Potter?».

Galatea non rispose.

«A prescindere da cosa c’è dietro,» intervenne Armando «mi spiace per il ragazzo. Solo e senza ricordi: vorrei che potessimo accoglierlo».

«Beh, non possiamo» disse Geoffrey con tono secco. «E’ Hogwarts a decidere chi può essere ammesso a Hogwarts e questo è ciò che spiegheremo alla signora Rookwood. Il Ministero dovrà cavarsela da solo. La cosa non ci riguarda».

Ma, come spesso capitava, Geoffrey Binns sbagliava.

Due ore dopo, Albus e il preside Armando erano nell’ufficio di quest’ultimo e stavano discutendo con Lynette Rookwood, la cui testa bionda galleggiava tra le fiamme del camino.

La signora Rookwood, coerentemente con la persona che era, non perse tempo in convenevoli: «Magbob deve essere ammesso a Hogwarts».

Albus, seduto su una comoda poltrona di pelle marrone, rivolse uno sguardo rapido al professor Dippet, che era accartocciato su sé stesso in un angolo del divano, e poi, sorridendo, replicò: «Non possiamo farlo».

La strega, dopo avergli lanciato uno sguardo irato, parve decidere di cambiare tattica e, con tono più quieto, disse: «Professor Dumbledore, preside Dippet, vi assicuro che mi spiace dovervi imporre uno studente. Sono sempre stata convinta che il Ministero non dovrebbeinterferire con gli affari di Hogwarts, ma questa è una questione di sicurezza nazionale».

«Addirittura!» commentò Albus sempre sorridendo. Armando, invece, assunse un’espressione ansiosa.

Un lampo d’irritazione attraversò nuovamente gli occhi chiari della donna. «In tutta onestà, quando il signor Potter mi ha svegliata alle cinque del mattino per discutere di un ragazzino che aveva perso la strada di casa, ero assai irritata, ma ben presto l’eccezionalità dell’evento è diventata evidente. Non è solo un ragazzo amnesico, è un mago inglese adolescente senza Traccia, che non è stato ammesso in nessuna scuola magica, ma che ha ricevuto un’educazione. Quando gli ho fatto visita, ho avuto modo d’interrogarlo su molte questioni: è confuso, soprattutto riguardo agli eventi recenti, ma ha talento ed è evidente che a un certo punto qualcuno lo ha istruito. Dobbiamo scoprire come sia possibile, da dove viene, chi c’è dietro di lui e soprattutto se ci sono altri minori di cui ignoriamo l’esistenza. Va tenuto d’occhio».

Aveva parlato con tono molto concitato e una vena aveva iniziato a pulsarle sulla tempia. Armando pendeva dalle sue labbra.

«Sarebbe una situazione rischiosa per lo Statuto Internazionale di Segretezza anche in condizioni normali, ma siamo in guerra: potrebbe esserci un disegno ben definito dietro e non possiamo permetterci di essere colti impreparati».

«Tutto molto interessante, ma non capisco cosa c’entri Hogwarts» commentò Albus. «Immagino che al San Mungo siano perfettamente in grado di tenerlo d’occhio».

«Ovviamente, il problema è che non può restare al San Mungo: è in perfetta salute».

«Intende, a parte il fatto che non ha alcun ricordo della sua vita?».

Se la signora Rookwood colse il sarcasmo, non lo diede a vedere. «I Guaritori non sanno come aiutarlo a recuperare i ricordi perduti, potrebbe restare così per sempre, ma non può restare al San Mungo per sempre».

«Perché no? C’è chi lo fa: hanno ancora il reparto lungodegenti, vero?»

A giudicare dallo sguardo che gli rivolse, era evidente che la signora Rookwood pensava che fosse impazzito.
«Il reparto lungodegenti è per le persone che hanno perso il senno».

«E che quindi sarebbero un pericolo per lo Statuto Internazionale di Segretezza» precisò Albus.

«Esatto, non è il caso di quel ragazzo».

«Sì, invece. Un minore amnesico e senza Traccia è un pericolo per lo Statuto Internazionale di Sicurezza. Lo ha detto lei, è di questo che stiamo parlando».

La Rookwood era stata evidentemente presa in contropiede, ma non demorse:«Il reparto lungodegenti è per persone difficili da gestire».

«Eppure ci finisce anche chi avrebbe una famiglia in grado di prendersi cura di loro. Questo ragazzino spuntato dal nulla, di cui nessuno sa niente…»

«La smetta, Dumbledore! Non lo rinchiuderemo nel reparto riservato con un gruppo di matti!» scattò infine la donna.

Albus sorrise: «Capisco, non lo vuole rinchiudere perché è dispiaciuta per lui. E cosa suggerisce, allora?».

La signora Rookwood che ormai aveva perso la pazienza, assunse un’espressione caustica: «Beh, è un mago inglese di quasi quattordici anni, cosa fanno di solito i maghi inglesi di quattordici anni?».

«Non può frequentare Hogwarts».

«Perché?» sbottò la strega. «E’ il luogo a cui appartiene».

«Signora Rookwood sa il perché. Sa del Libro e della Penna, sa che il loro giudizio è inappellabile. Siamo vincolati magocamente. Spero di non dover spiegare a un alto funzionario del Ministero cosa significa ciò».

La donna glirivolse uno sguardo iroso. «Speravo di poter risolvere la questione pacificamente, ma ora mi rendo conto che sfortunatamente il Ministero dovrà interferire negli affari di Hogwarts. Interpellerò il Ministro. Se Hogwarts esclude un ragazzo come Magbob, allora è arrivato il momento di rimettere in discussione i suoi criteri di selezione con un decreto didattico».

Armando sbiancò e Albus non gli diede torto: ogni decreto didattico, ogni legge che diminuiva l’indipendenza di Hogwarts era un fallimento per la presidenza e il Consiglio, tuttavia Albus era convinto che fosse una minaccia a vuoto.

«Sarò ben lieto di discorrere della questione direttamente con Leo».

Se la signora Rookwood era infastidita dal fatto che le venisse ricordato quanto Albus fosse in buoni rapporti col Ministro che avrebbe dovuto prendere tale decisione, non lo diede a vedere e con un brusco e ultimo cenno di saluto, sparì.

«Possiamo stare tranquilli» disse subito Albus. «Le sue sono minacce a vuoto: non può realmente imporre l’iscrizione del ragazzo tramite decreto».

«Sì,» convenne Armando «ma ha ragione, no? Quel ragazzo non può stare al San Mungo per sempre e come qualunque giovane mago merita un’istruzione magica».

«Sono d’accordo, la mia era una provocazione, ma davvero non c’è nulla che possiamo fare. Conosci il Libro e la Penna».

Armando tacque, si alzò e fissò con sguardo malinconico il Cappello Parlante appoggiato su una mensola d’oro.

«Helga Hufflepuff voleva che Hogwarts fosse disposta ad accogliere tutti i bambini che desideravano imparare la magia, voleva che fosse la casa di ogni giovane mago e di ogni giovane strega senza casa».

L’espressione di Albus si addolcì: «Cosa vuoi che faccia?» chiese.

Armando si voltò verso di lui. «Occupati del ragazzo. Trovagli una casa, un posto che abbia l’approvazione del Ministero e in cui sarà tutelato e al sicuro. Lo farei personalmente, ma hai molte più conoscenze di me, sia in Gran Bretagna che all’estero».

Albus sorrise, divertito. Armando si sottovalutava, la verità era che in pochi avrebbero rifiutato un favore al preside di Hogwarts, ma Albus era felice che il suo vecchio insegnante fosse convinto che qualunque cosa lui potesse fare, il suo vice la poteva fare meglio.

«D’accordo» acconsentì. «Mi occuperò del ragazzo».

Ore dopo, mentre ascoltava Magnificat, disteso sul suo letto ad occhi chiusi, si chiese cosa avrebbe fatto.
Armando desiderava che quel ragazzo trovasse una casa e ricevesse un’educazione, Lynette Rookwood voleva che suddetta casa fosse dove il Ministero poteva tenerlo d’occhio. “E io?” Si chiese Albus. “Io cosa voglio?”. Ripensò all’ipotesi di Galatea. Se tutto questo riguardava Grindelwald, doveva assicurarsi che la nuova casa del ragazzo fosse dove lui poteva tenerlo d’occhio. Hogwarts sarebbe stato il luogo perfetto, ma…

«Ci sono alternative a Hogwarts, ovviamente» borbottò a mezza voce.

Scuole di magia straniere, meno prestigiose, con procedure di ammissione meno rigide e, nel peggiore dei casi, Albus supponeva che sarebbe riuscito a trovargli un insegnante privato.

«Tina Scamander accetterebbe e anche Adalbert, forse» sussurrò.

Fawkes, appollaiato sopra l’armadio, trillò dolcemente e Albus si ritrovò a ridere di sé stesso.

«Hai ragione, dovrei almeno conoscere questoragazzo prima di cominciare a pianificare il resto della sua vita».

Fu così che il giorno dopo, verso le dieci del mattino, Albus varcò la soglia della Sala d’attesa del San Mungo. Ad attenderlo c’era il Guaritore Preston Longbottom, a cui aveva mandato un gufo il giorno prima per annunciare il suo arrivo.

Il mago gli sorrise. «Era da molto tempo che non ci vedevamo».

«Questo trimestre è stato molto impegnativo» spiegò Albus mentre si dirigevano ai piani superiori.

Preston annuì. «Jasper e Algie sono tornati ieri?».

Albus sorrise «Sì, certo». Il maggiore dei figli di Preston, Jasper, era Caposcuola; il minore, invece, era al terzo anno ed entrambi erano Gryffindor.

«I bambini crescono così in fretta. Non posso credere che Jasper sia al suo ultimo anno e neanche che dal prossimo sarà un apprendista Auror. Cioè, se viene ammesso, certo».

«Verrà ammesso» lo rassicurò Albus. «Hai cresciuto un ragazzo in gamba».

Gli occhi di Preston brillarono dell’orgoglio che un figlio come Jasper non poteva fare a meno di suscitare.

«Allora, come sta il bambino sperduto?» chiese Albus, cambiando argomento.

L’espressione di Preston s’incupì. «Bene fisicamente. E’ sottopeso, ma non sembra malnutrito. Le uniche note sono le
ossa del braccio destro che hanno meno di due anni, la cicatrice di un morso su un braccio e una cicatrice da maledizione sulla fronte».

«Due cicatrici e un braccio disossato: un curriculum notevole per un tredicenne» osservò Albus. «E psicologicamente, come sta? Come gestite la situazione?».

Preston s’irrigidì. «Cosa intendi?».

Albus scrollò le spalle con noncuranza «Immagino che per lui non sia facile stare chiuso qui dentro, tutto il giorno».

«No, non lo è».

«E questo è un ospedale, non una nursery».

«Magbob sarebbe troppo grande per una nursery, comunque».

«Quindi? Come state gestendo questo adolescente? Resta chiuso nella sua stanza tutto il giorno? E’ così docile? O forse c’è qualche Guaritore che gli tiene compagnia?».

«Come hai detto tu, questo è un ospedale. No, nessun Guaritore può permettersi di trascorre le giornate a intrattenere un ragazzino» replicò Preston con tono secco.

Albus represse un sospiro. Lui e Preston avevano discusso più volte del modo in cui il San Mungo gestiva le persone con malattie mentali incurabili, Albus avrebbe dovuto immaginare che il Guaritore avrebbe pensato che la sua curiosità nascondesse una critica: provò a spiegarsi. «Ho una certa esperienza con gli adolescenti» disse. «Non riesco a credere che unragazzo in salute sopporti di stare tutto il giorno chiuso in una stanza».

Preston gli rivolse uno sguardo cauto. «Non resta tutto il giorno chiuso in una stanza. L’abbiamo spostato nel reparto riservato, ma è libero di girare per l’ospedale pur con alcune regole» spiegò.

«Com’è di carattere?».

«Sembra un bravo ragazzo. E’ timido, tranquillo e obbediente. Sta tollerando bene la situazione, quanto meno. Certo, probabilmente è grazie alle visite frequenti che riceve».

«Visite?» ripeté Albus sorpreso. «Visite da chi?».

«Da uno dei bimbi Black, quello che lo ha trovato. Viene tutti i giorni. Ora sono insieme nella sala da the» aggiunse mentre superavano il piano in cui si trovava il reparto riservato. «E’ quasi un peccato che Alphard debba tornare a Hogwarts, Magbob sentirà molto la sua mancanza».

Erano giunti davanti alle porte in legno battuto della sala da the e Albus prese una decisione. Sorrise a Preston e gli disse: «Se non ti dispiace, preferirei entrare da solo».

Preston era stato preso in contropiede. «Non vuoi che ti presenti?».

«Posso fare da solo, Alphard mi conosce e credo di averti già rubato abbastanza tempo».

Preston esitò un attimo, ma poi annuì e lo salutò.

Albus aspettò che si fosse allontanato, poi chiuse gli occhi e pronunciò un incantesimo di Disillusione. Entrò, aprendo le porte il minimo indispensabile e scivolò dentro, silenziosamente. Nella sala c’erano solo una decina di persone, individuò immediatamente Alphard Black e Magbob. Erano seduti su un divano posto di fronte a un tavolino e ridacchiavano giocando con uno di quei costosi mappamondi in miniatura che ti permettevano di fare viaggi virtuali in giro per il mondo. Albus si avvicinò alla coppia, e si piazzò alle loro spalle.

«Mio padre adesso è qui,» stava spiegando Alphard indicando un qualche luogo nel nord africa. «Si è comprato un tappeto volante: non vedo l’ora di provarlo».

«In quanti modi si può volare?» chiese Magbob.

«Per ora? Solo con manici di scopa, tappeti o creature magiche volanti. La famiglia del migliore amico di mia sorella, Roland Lestrange, alleva cavalli alati. In effetti, è così che torneremo a scuola domani: a cavallo dei suoi Aethonan».

Albus sollevò un sopracciglio, Roland Lestrange e i cugini Black avevano dichiarato che sarebbero tornati a scuola col Nottetempo.

«Come farete a non farvi vedere dai Babbani?» chiese Magbob che pendeva dalle labbra di Alphard.

«Nostro cugino Arcturus è un Maestro d’Incantesimi. Coprirà tutti con un incantesimo di Disillusione».

«Suona grandioso» sospirò Magbob, col volto rivolto verso la finestra.

Alphard aggrottò le sopracciglia e incrociò lo sguardo del ragazzo. «Quest’estate» disse con fermezza «ti porterò a casa di Roland così potrai provare».

Magbob riuscì a gestire un sorriso.

«E in questi mesi ti scriverò spessissimo: Hogwarts ha una guferia, disponibile a tutti gli studenti».

Albus era piuttosto sorpreso. Nonostante Alphard non fosse nella sua Casa, credeva di conoscerlo bene, tuttavia questo suo lato premuroso era una novità per lui. Di certo non si comportava così con suo fratello e sua sorella, ma d’altronde, Albus stesso, alla sua età, era più gentile con i suoi compagni di scuola che con Aberforth e preferiva trascorrere il tempo con i suoi amici piuttosto che con Ariana.

«Lo so» disse Magbob, forse riferendosi alla guferia.

Alphard non gli chiese come facesse a saperlo, quindi poteva trattarsi di un’informazione che il giovane Black non ricordava di aver già condiviso oppure era un’informazione che Magbob già aveva e Alphard era troppo abituato a lui che improvvisamente tirava fuori dal cilindro curiose informazione per fare domande.
Albus decise che era arrivato il momento di farsi vedere e mormorò un contro incantesimo mentre entrambi guardavano in un’altra direzione.

«Buongiorno Alphard, mi presenti il tuo nuovo amico?».

Entrambi i ragazzi sussultarono e si voltarono verso di lui. Era evidente che si stavano chiedendo da dove fosse spuntato e come avessero fatto a non notarlo prima.

«Professor Dumbledore… Buongiorno» disse Alphard, esitò un attimo prima di continuare: «Magbob, il professor Dumbledore. Professore, lui è Magbob».

Albus rivolse al ragazzo moro uno dei suoi sorrisi più rassicuranti. «E’ un piacere conoscerti».

Lo Sconosciuto non reagì, aveva uno sguardo trasognato.

«Mi spiace dover essere scortese,» continuò Albus «ma ho davvero bisogno di parlare da solo con Magbob, Alphard».

Il giovane Black non sembrava felice, ma annuì e si alzò. Magbob si rianimò. «Torni?» gli chiese ansioso.

«Non credo» gli rispose Alphard e sembrava realmente dispiaciuto. «Mia madre vuole che ci prepariamo per il ritorno a casa».

«Quindi… è l’ultima volta che ci vediamo».

«Fino alle vacanze primaverili» gli assicurò Alphard.

Si salutarono con un malinconico cenno della mano e Albussi ritrovò solo con lo Sconosciuto. Prese il posto di Alphard e ordinò una cioccolata calda al gestore. Dopo essere stato servito, tornò a rivolgere tutta l’attenzione al giovane che aveva affianco. 

«Sai chi sono?» chiese.

Il ragazzo annuì. «Alphard mi ha parlato un po’ di Hogwarts. Lei è il professor Dumbledore: vicepreside, direttore della Casa di Gryffindor e docente di Trasfigurazione».

«Cos’altro sai di Hogwarts?».

«Non molto. E’ la migliore scuola di magia del mondo ed è divisa in quattro Case: Gryffindor, Hufflepuff, Ravenclaw e Slytherin. Gli studenti vengono smistati con un cappello che legge nel pensiero e…»

«Te lo ha detto Alphard?» lo interruppe Albus. Continuava a sorridere, nel tentativo di non far trapelare nessuna emozione, ma in realtà era esterrefatto. Non molti ne erano a conoscenza, ma il Cappello Parlante era tutelato dall’incanto Fidelius di cui il Custode Segreto era il preside: questa era la ragione per cui neanche le matricole provenienti da antiche famiglie sapevano in cosa sarebbe consistito lo Smistamento. Dunque, come aveva fatto questo ragazzo a scoprirlo?

«No, non me lo ha detto Al. Io… Lo so e basta».

Albus cominciava a inquietarsi. «C’è qualcos’altro che sai e basta?» gli chiese con tono incoraggiante.

«So che è un castello, che si trova in Scozia e che ci si arriva con un treno a vapore scarlatto» rispose il ragazzo.

Queste almeno erano informazioni che avrebbe potuto reperire anche leggendo Hogwarts: Una Storia.

Magbob era inquieto, anche se cercava di nasconderlo. I suoi occhi erano fissi su Albus e scrutavano ogni suo minimo movimento, come se si aspettasse di essere attaccato, poi si portò una mano tra i capelli, torcendosi un ciuffo ribelle, nervosamente. Fu allora che Albus notò la cicatrice da maledizione di cui gli aveva parlato Preston. Aveva davvero una forma particolare, inoltre non c’erano molto cicatrici a cui la magia non poteva porre rimedio.

«Posso?» gli chiese con un sorriso rassicurante e una mano sospesa a mezz’aria che indicava la sua fronte.

Il ragazzo annuì e Albus gli scostò dei ciuffi ribelli dal viso per esaminare la cicatrice. Mentre ne tracciava i confini con le dita, poteva quasi sentirla pulsare. Sì, indubbiamente magia oscura.  I suoi occhi incontrarono quelli del ragazzo, il cui coloregli fece venire in mente l’anatema che uccide. Il movimento della bacchetta associato all’Avada Kedavra era quello della runa sowilo, la cui forma era identica alla cicatrice di questo ragazzo.

«Ti crea problemi di qualche tipo? Sanguina a volte? O ti fa male?».

«Non ha mai sanguinato, ma quando mi sono risvegliato…» s’interruppe, esitante. «Anzi, credo che a svegliarmi sia stato il dolore alla cicatrice,» concluse infine «ma è capitato solo quella volta».

Un incubo, colse Albus con la Legilmanzia, il ragazzo stava avendo un incubo, poi aveva cominciato a fargli male la cicatrice e si era svegliato. Aveva l’impressione che si trattasse di un sogno importante, ma non riusciva a ricordarlo, beh, come non riusciva ricordare nulla.

«Interessante» disse Albus. Era indeciso. Sapeva qual era l’opinione di suo fratello sul suo uso della Legilmanzia e lui stesso si rendeva perfettamente conto di fare qualcosa che non avrebbe dovuto fare, ma come poteva scegliere di non indagare? Come poteva non utilizzare tutti i mezzi che aveva per cercare di scoprire qualcosa in più? Soprattutto ora che erano in guerra?

Albus fissò il ragazzo dritto negli occhi e pensò: “Legilimens!”.

Una serie di immagini si susseguirono velocemente nella sua testa. Alphard Black soprattutto, Alphard Black che sorrideva, Alphard Black che gli raccontava divertenti aneddoti su Hogwarts, Alphard Black che lo batteva a scacchi… Ora, invece, era solo e stava fissando la parete con aria malinconica, aveva paura anche se non voleva ammetterlo neanche con sé stesso… Quella era la signora Rookwood e gli faceva un sacco di domande a cui non sapeva rispondere… Adesso la Guaritrice Schneider gli stava leggendo la mente, la Schneider era gentile, ma lui si sentiva talmente violato… Ora leggeva un libro sul Quidditch, gustandosi ogni parola, anche se era certo di averlo già letto… Cosa avrebbe dato per poter volare… Aveva una famiglia? C’era qualcuno che lo stava cercando?

Albus sbatté le palpebre un paio di volte per poi rivolgere al ragazzo uno sguardo attento: no, non si era accorto di nulla. Si sentiva sollevato. A quanto pare, Magbob non aveva realmente nulla da nascondere.

«Come hai detto,» iniziò «sono un insegnante di Hogwarts, ma sono anche un membro del Wizengamot. Sai cos’è il Wizengamot?».

«Il parlamento della Gran Bretagna magica» rispose il ragazzo.

«Sì, immagino sia ciò che più assomiglia al parlamento babbano» convenne Albus. «Sono stato nominato due anni fa ed è soprattutto in questa veste che sono qui, oggi».

Magbob sembrava aver capito. «Avete deciso… dove andrò?» chiese.

Albus annuì. «La tua è una situazione unica. Non riusciamo a comprendere perché tu non sia stato ammesso a Hogwarts, ma sei un magoe in quanto giovane mago meriti un’istruzione».

«Quindi?» lo incalzò Magbob.

«Una mia amica, Aisling Jordan, ha fondato una piccola scuola nell’Irlanda del sud, la Green Accademy. La maggior parte degli studenti sono in età pre-Hogwarts o maghinò, ma le ho parlato e lei ha acconsentito a diventare la tua maestra».

Le sue parole furono accolte dal silenzio. Albus comprese che Magbob aveva un sacco di domande da fargli e non sapeva da dove iniziare.

«Io… quindi volete che mi trasferisca in Irlanda?» disse infine.

«Beh, sì, questa era l’idea» confermò Albus sorseggiando la sua cioccolata. «Ti risulterebbe difficile frequentare la Green Accademy da Londra».

Magbob non sembrava molto felice, probabilmente stava pensando ad Alphard, ma fu un’altra la domanda che pose: «Come… ?» si morse il labbro inferiore. «Voglio dire, io non ho soldi, come…»

«Il preside Dippet ha deciso di coprire interamente la spesa del tuo soggiorno e dei tuoi studi alla Green Accademy».

«Perché? Non mi conosce neanche».

«Perché hai tredici anni e sei solo: per lui è una ragione sufficiente per volerti aiutare in ogni modo possibile, è quel genere di persona».

«Vorrei ringraziarlo» disse Magbob arrossendo, ma guardandolo fermamente dritto negli occhi.

«Sono certo che avrai l’occasione per farlo» lo rassicurò Albus rivolgendo un’occhiata rapida al suo orologio da taschino: se voleva avvisare Horace che il giovane Lestrange e i cugini Black sarebbero arrivati volando, doveva sbrigarsi. «Direi che è rimasta una sola questione da sistemare».

«Cioè?».

Albus gli sorrise. «Non possiamo continuare a chiamarti solo Magbob, puoi tenerlo come cognome, ma hai bisogno anche di un vero nome».

«Del tipo?».

«Quello che vuoi, deve diventare il tuo nome, dopotutto».

Lo Sconosciuto rifletté un attimo. «Non so».

«Forse un nome con un significato che possa ispirarti?» propose Albus. «O magari il nome di qualche mago famoso? Finché non scegli Merlin, il Ministero acconsentirà».

«Forse… potrei… potrei chiamarmi Kilian?».

«Cioè “guerra” in gaelico?».

«Pensavo a Kilian come Kilian McKinnon, quel famoso magonò».

«Conosco un solo Kilian McKinnon» commentò Albus «e non è un Magonò».

Magbob sembrava confuso. «Ma è esistito un magonò di nome Kilian McKinnon» insistette. «E’ morto tentando di difendere un villaggio babbano da dei potenti maghi oscuri».

«Sicuro che non fosse la trama di qualche romanzo?» chiese Albus dolcemente. «Una storia del genere, me la ricorderei».

Lo Sconosciuto arrossì. «Forse» borbottò.

«Comunque sia, il nome che hai scelto mi piace e il Kilian McKinnon che conosco è un brav’uomo».

Magbob annuì.

«Quindi, d’ora in poi sarai Kilian Magbob?».

«Sì» disse Kilian con decisione.

Entrambi lo avrebbero scoperto solo il giorno seguente, ma appena lo Sconosciuto ebbe confermato, il Libro dell’Ammissione si aprì e la Penna dell’Accettazione con una nitida calligrafia vergò un nuovo nome: Kilian Magbob era stato ammesso a Hogwarts.
 Qui, potete trovare la versione inglese della storia
https://archiveofourown.org/works/29700234/chapters/73036425

Capitolo I
Il Libro dell’Ammissione

Il tredicenne Alphard Black (alto, magro e, in quel momento, con folti capelli argentati e occhi viola) aveva trascorso gli ultimi tre giorni in quella stanzetta del San Mungo per vegliare sullo Sconosciuto privo di sensi, sperando di poter essere presente al suo risveglio. La sua pazienza era destinata ad essere premiata, infatti, stava ripassando il significato della runa Uruz quando lo Sconosciuto si svegliò urlando. Alphard lasciò cadere per terra il Sillabario dei sortilegi e corse al suo fianco. Il ragazzo era ancora disteso nel letto con gli occhi chiusi ma era sudato, si dimenava, urlava e continuava a sfregarsi la fronte dove c’era la cicatrice a forma di Sowilo che aveva tanto incuriosito Alphard. Non occorreva essere un Guaritore per intuire che doveva essere una cicatrice da maledizione nonché la causa della sua attuale sofferenza, ma non sapeva come aiutarlo. Proprio mentre stava per suonare la campanella d’oro che avrebbe richiamato un Guaritore, lo Sconosciuto cominciò a calmarsi, smise di agitarsi e, se pur ansimante, aprì gli occhi.

Aveva dei begli occhi, a mandorla, di un verde brillante, e la maniera in cui continuava a sbattere le palpebre, completamente disorientato, intenerì Alphard.

«I tuoi occhiali sono qua» lo rassicurò afferrandoli dal comodino e porgendoglieli.

Lo sconosciuto se li infilò subito, ma non perse la sua aria smarrita.

«Sono Alphard, Alphard Black, sono stato io a trovarti» gli spiegò «Stai meglio, ora? La cicatrice ha smesso di farti male?».

Lo sconosciuto annuì e poi, dopo essersi guardato attorno, con una voce sottile, chiese: «Dove sono?». Erano in una piccola stanza quadrata con pareti e mobili bianchi. Non aveva neanche una finestra e il mobilio consisteva esclusivamente nel letto a baldacchino, la sedia dove Alphard stava leggendo e un comodino che conteneva solo l’uniforme di Hogwarts che lo sconosciuto indossava quando Alphard lo aveva trovato.

«Siamo al San Mungo» gli spiegò Alphard, l’informazione non pareva essere stata chiarificatrice e Alphard iniziò a preoccuparsi: chi, in Gran Bretagna, non conosceva il San Mungo? Alphard non si era dimenticato che era senza bacchetta quando era apparso: poteva davvero essere un Babbano come aveva suggerito Ignatius Tuft? E se lo era, Alphard, continuando a parlargli, rischiava d’infrangere lo Statuto Internazionale di Segretezza?

Esitò: avrebbe dovuto chiamare un Guaritore per avvisare che lo sconosciuto si era svegliato e lo avrebbe fatto. Dopo.
«Come ti chiami?» gli chiese con un sorriso incoraggiante. Non c’erano molte persone in grado di destare il suo interesse, ma quel ragazzo c’era riuscito e voleva che rispondesse a un po’ di domande, dopotutto era andato a trovarlo tutti i giorni, proprio nella speranza che si svegliasse mentre era presente. Sfortunatamente, lo sconosciuto non sembrava voler collaborare. Alla sua domanda, infatti, s’irrigidì e cominciò a guardarsi attorno, spaventato.

«Non sei in pericolo» cercò di tranquillizzarlo. «Fra poco arriveranno i Guaritori per controllare come stai».

A quelle parole, il ragazzo parve rasserenarsi un poco: «Quindi siamo in una specie di ospedale?» chiese.

«Siamo al San Mungo» ripeté Alphard. «Studi a Hogwarts?» gli chiese poi. Dopotutto quando lo aveva trovato indossava un’uniforme. Alphard non ricordava di averlo mai visto prima, ma non poteva esserne certo. A occhio e croce, sembrava avere più o meno l’età di suo fratello minore, quindi poteva essere una matricola e se fosse stato smistato in un'altra Casa, Alphard avrebbe potuto non notarlo.

Lo sconosciuto, che ad Alphard cominciava a ricordare l’elfa di famiglia quando temeva di aver contrariato sua madre, si morse il labbro inferiore e non rispose.

Il giovane Black sospirò profondamente, continuando così non avrebbe ottenuto nulla. “Sii amichevole” si disse. Gli sorrise nel modo più rassicurante di cui era capace e in risposta i suoi capelli divennero di un caldo color mogano e gli occhi si scurirono. Il ragazzo lo fissò sorpresa, ma non gli chiese nulla. «Sono un Metamorphmagus e studio a Hogwarts, terzo anno, Slytherin». A giudicare dalla sua espressione, quasi sicuramente, il ragazzo aveva riconosciuto il nome della sua Casa, ma non commentò.

«Cos’è un Metamorphmagus?» chiese invece.

«Sono capace di modificare il mio aspetto con estrema facilità». E glielo fece vedere: in un lampo i suoi capelli divennero arancioni, gli occhi gialli, il naso a patata e crebbe di diversi centimetri. Lo sconosciuto gli fece un piccolo sorriso che Alphard ricambiò.

«Come ho detto, sono stato io a trovarti» continuò mentre tornava ad assumere il suo solito aspetto con capelli argentei e gli occhi viola. «Eri svenuto nella biblioteca dei Potter, ero lì per il loro ballo di Yule».

«Eri in una biblioteca per un ballo?» ripeté il ragazzo.

Alphard gli rivolse un altro sorriso. «I balli non sono la mia cosa».

Gli occhi dello sconosciuto brillavano per il divertimento: ogni minuto che passava assomigliava meno ad un elfo domestico maltrattato e di più al bambino che avrebbe dovuto essere.

«E i libri, sì?».

«I Potter hanno una biblioteca interessante che, secondo mia zia Dorea, comprende l’Almagesto».

«Il grimorio di Claudius Ptolemy?» chiese lo Sconosciuto.

«Esatto» si rallegrò Alphard: non aveva mai parlato con un Babbano in vita sua, ma dubitava che conoscessero le Case di Hogwarts e i teorici greci. «Sono sgattaiolato fuori dalla sala da Ballo, mi sono infilato in biblioteca e stavo cercando il grimorio quando sei apparso dal nulla, sdraiato sul pavimento. Non riuscivano a farti riprendere i sensi, quindi ti hanno portato al San Mungo: è accaduto tutto tre giorni fa». Tacque, aspettando che lo Sconosciuto dicesse qualcosa -era ora che desse lui qualche spiegazione, giusto?-, tuttavia ben presto fu evidente che non ne aveva nessuna intenzione. Alphard esitò giusto qualche secondo. Era convinto che per reperire informazioni, i modi diretti fossero i meno efficaci, ma in realtà non aveva molta scelta, non lo conosceva e non aveva tempo per pensare a qualche strategia: a un certo punto sarebbe arrivato un Guaritore per la visita di controllo ed era possibile che dopo aver scoperto chi fosse, l’avrebbero dimesso e Alphard non avrebbe più saputo come raggiungerlo.

«Quindi come hai fatto?».

«Come ho fatto a fare cosa?».

«Come hai fatto a comparire nel bel mezzo della biblioteca dei Potter. Ero lì, non ti sei Materializzato e non hai neanche usato una Passaporta, d’altra parte non sarebbe stato possibile: quella casa è ben protetta».

«Non lo so, non so come ho fatto». La desolazione e l’impotenza che esprimevano i suoi occhi erano tali che Alphard non dubitò neanche per un istante della sincerità di quelle parole.

«Ma sai cosa ti è capitato? Perché eri svenuto?».

Lo Sconosciuto scosse la testa.

«Beh, qual è il tuo ultimo ricordo?».

Fu quando quelragazzino, che doveva avere più o meno l’età di suo fratello, riassunse quell’espressione da elfo spaventato, che Alphard intuì in che situazione si trovava.

«Non lo so» borbottò.

«Come ti chiami?» insistette Alphard, sperando, per il bene dello Sconosciuto, di aver tratto la conclusione sbagliata.

«Non lo so» ripeté lui, facendosi piccolo.

Istintivamente, Alphard gli posò una mano sulla spalla.

«Non ti devi preoccupare. I Guaritori, tramite pozioni e la Legilmanzia, sono in grado anche di recuperare i ricordi perduti». Evitò di aggiungere che la capacità di recuperare i ricordi dipendeva dalla causa della perdita di memoria: le cause non magiche non erano un problema, ma Alphard sospettava che un incidente che aveva portato all’apparizione dal nulla di un ragazzo amnesico in una delle case meglio protette della Gran Bretagna, doveva essere stato molto magico.

Il ragazzino stava per rispondergli quando la porta dellastanza venne aperta ed entrò un uomo alto con indosso vesti verde acido. Appena li vide, sorrise, raggiante. «Il nostro bell’addormentato si è svegliato, dunque». Si avvicinò al letto quasi saltellando e puntò la bacchetta verso il petto del ragazzo, il quale cominciò ad emettere una debole luce. Alphard non aveva idea di cosa volesse dire, ma l’esame sembrava aver soddisfatto il Guaritore che annuì e continuò a sorridere.

«Hai avuto un esaurimento, piccolo» spiegò il Guaritore. «Devi aver fatto qualcosa di magicamente molto impegnativo. Purtroppo, l’unica cosa da fare in questi casi, è lasciare riposare il soggetto e sperare che lo sforzo che ha sostenuto non fosse superiore alle sue forze».

Alphard si chiese se lo Sconosciuto sarebbe morto in quel caso.

«Sai, negli ultimi tre giorni non si è parlato che di te» continuò il Guaritore con un tono fastidiosamente allegro. «Posso chiederti come ti chiami? E che ci facevi dai Potter?»

Queste parole furono accolte da un silenzio assoluto. Alphard, che aveva ancora una mano posata sulla spalla dello sconosciuto, la strinse dolcemente: «Non ti succederà nulla» gli sussurrò all’orecchio, «Vuole sapere cos’è successo solo per capire come aiutarti».

In realtà, Alphard non era sicuro di ciò. Volente o nolente che fosse stata, quella effettuata dallo Sconosciuto si chiamava violazione di domicilio con utilizzo di mezzi magici e i Potter erano abbastanza influenti da potersi assicurare che non la passasse liscia. Comunque, il ragazzino parve credergli e, con voce esitante, rispose al Guaritore: «Non lo so, io… non ricordo nulla. Intendo proprio nulla, non so chi sono».

C’era stupore e pietà nello sguardo dell’uomo, che tuttavia continuava a sorridere e a mantenere un tono di voce gaio. «Beh, nulla di cui preoccuparsi. I migliori Guaritori del Paese lavorano tutti qui: troveranno il modo di recuperare i tuoi ricordi in un batter d’occhio».

Alphard era molto meno ottimista.

«Personalmente, spero che sia stato causato tutto da una Passaporta difettosa: ci ho scommesso dieci galeoni» continuò il Guaritore. Se quella rivelazione aveva lo scopo di far ridere i due ragazzi, fallì. Poi il Guaritore volse lo sguardo verso il giovane Black. «E tu chi sei, quindi?» gli chiese.

Questa era una bella domanda, non è vero? Alphard non poteva sostenere di essere un parente o un amico di un ragazzo amnesico comparso dal nulla.

«Sono quello che lo ha trovato» disse Alphard. La sua affermazione non spiegava cosa ci faceva lì, tre giorni dopo il ritrovamento, in una camera riservata, fuori dall’orario di visita.

Lo sguardo del Guaritore fu attratto dal Sillabario dei Sortilegi che si trovava ancora per terra, Alphard lo raccolse e lo infilò nella borsa.
«La stanza riservata di un ospedale è uno strano posto in cui studiare» osservò l’uomo.

«Non stavo studiando» mentì Alphard. «Ero venuto solo per una rapida visita. Lei chi è, comunque? Dov’è il Guaritore Longbottom?».

«E’ il suo giorno di riposo» rispose l’uomo. «Io sono Andrew Taylor, e tu?».

«Alphard Black».

Il viso del Guaritore si contrasse per un attimo in un’espressione diffidente. Alphard non si chiese il perché.
«Beh, temo di dover fare al tuo amico qualche esame più approfondito» disse, tornando a sorridergli. «Puoi tornare domani. Magari avrà già recuperato la memoria» concluse allegramente.

Alphard, che teneva ancora una mano sulla schiena dello sconosciuto, non voleva andarsene e lo sconosciuto, a giudicare dal suo sguardo implorante, non voleva che lui se ne andasse. Era comprensibile: Alphard riusciva solo vagamente ad immaginare quanto si sentisse smarrito e vulnerabile, tuttavia, non avevano scelta.

«Torno domani» gli promise.

Ilragazzino annuì. Alphard, un po’ imbarazzato, gli accarezzò i capelli con fare affettuoso.

«A domani» rispose lo sconosciuto e Alphard uscì dalla stanza, lasciandosi dietro un Guaritore fastidiosamente allegro e un ragazzino pallido con un pigiama blu troppo grande per lui.

Percosse tutto il corridoio e poi scese le scale che si trovavano alla sua destra finché raggiunse l’affollata sala di accettazione. Si stava dirigendo verso l’uscita quando entrò un’attraente strega con un’elegante veste viola, aveva folti capelli neri raccolti sotto un grazioso cappellino e occhi di un grigio cupo: era sua zia Dorea.

«Cosa ci fai qui?» le chiese dopo averla raggiunta.

«Non dovrei chiederlo io a te, ragazzino?» replicò lei con un tono beffardo. «Ti stavo cercando» continuò. «Tua madre mi ha mandato un gufo: teme che io ti abbia rapito».

Alphard corrugò la fronte, perplesso.

«Dovevi essere a casa, tre ore fa: hai perso la cena» gli fece notare sua zia.

Alphard diede una rapida occhiata al suo orologio da taschino: era vero, era riuscito a non accorgersi di stare violando il coprifuoco.

«La parte curiosa» continuò Dorea «è che Irma sembra convinta che tu abbia trascorsogli ultimi tre giorni con me: ha scritto che esci di casa al mattino presto, a volte prima di colazione, e che torni appena in tempo per la cena».

Alphard non replicò, non occorreva: in quel momento doveva esserle evidente cosa aveva fatto in quei tre giorni.

«Allora, posso sapere il perché di tutto questo?».

«Ero curioso».

«Anch’io, ma come ti avevo spiegato Charlus ci avrebbe riferito subito ogni novità». Charlus, l’ex Caposcuola Potter, il fidanzato di zia Dorea, stava studiando per diventare Guaritore. In effetti, era grazie a lui, e alla condiscendenza del Guaritore Preston Longbottom, se Alphard era riuscito ad andare a trovare lo sconosciuto, nonostante fosse in una stanza in cui era vietato l’accesso ai visitatori.

«C’è una novità: si è risvegliato e l’ho saputo prima di te e Charlus».

Zia Dorea era accigliata. «Quindi pensi che ne sia valsa la pena? E’ valsa la pena stare chiuso qui dentro per tre giorni per scoprire che si era svegliato qualche ora prima di quando lo avresti comunque scoperto?».

Alphard ripensò a come lo stava guardando lo sconosciuto quando se ne era andato: sì, ne era valsa la pena, ma non lo disse a sua zia.

«Allora,» continuò lei «ti ha detto qualcosa? Com’è entrato a Casa Potter?».

«Non lo sa, ha perso la memoria».

Sua zia ridacchiò. «Conveniente».

«Credi che menta?» Era una possibilità, ovviamente, anche se ad Alphard, lo sconosciuto era parso sincero.

Zia Dorea scosse le spalle con noncuranza. «Se mente, i Guaritori lo scopriranno subito».

«Ma pensi che abbia bisogno di mentire? I Potter potrebbero decidere di denunciarlo?».

«Oh, no, lo escludo. Il signor Potter, Euphemia e Flea non sono quel tipo di persone -Merlino, è un bambino!- Certo avranno delle domande da porgli, le avranno tutti».

Alphard annuì, pensieroso. Zia Dorea gli posò una mano sulla spalla e lo spinse, dolcemente, verso l’uscita. Quando furono sulla strada, tese il braccio con la bacchetta e, con un BANG assordante, si materializzò un autobus viola a tre piani. Ne scese il bigliettaio -basso, grassoccio, con un uniforme viola- che recitò le solite parole di benvenuto. Zia Dorea gli spiegò dov’erano diretti, gli allungò qualche moneta e poi, seguito dal nipote, si diresse verso uno dei letti in fondo al pullman. Dopo che si furono seduti, Alphard ruppe il silenzio. «Tu cosa ne pensi?» chiese mentre il pullman ripartiva, sobbalzando. Entrambi si strinsero forte al letto per non cadere. «Come credi abbia perso la memoria?».

Dorea si tolse il cappello dalla testa. «Hai posto la domanda meno interessante. Ammesso che non stia fingendo, l’amnesia potrebbe essere stata causata da praticamente qualsiasi cosa: pozioni, incantesimi, maledizioni o, chissà, forse ha solo subito un grande shock. Come ti è parso? Voglio dire, ho capito che non ricorda nulla, ma era in sé?».

Alphard ci pensò su. Ovviamente, siccome non lo conosceva prima dell’incidente, era un po’ difficile determinare se lo sconosciuto si fosse comportato in maniera diversa dal solito.
«Sembrava intimidito e molto disorientato, ma non credo abbia perso la coscienza sé stesso» sentenziò infine.

Zia Dorea annuì. «Cosa che invece, di solito, accadde con le maledizioni».

«Quindi, forse è solo sotto shock?» dedusse Alphard.

«O è stato avvelenato o è sotto incanto» ripeté sua zia. «Ma che importanza ha? Ai Guaritori serve comprenderlo per capire come curarlo, ma personalmente sono più interessata a scoprire chi è e da dove viene, perché può aver perso la memoria accidentalmente, ma non può essere entrato nel Nido di Iolanthe accidentalmente».

Alphard annuì. Sua zia aveva più volte definito la casa dei Potter come una delle abitazioni più sicure della Gran Bretagna. «In che modo è protetta?».

«Beh, è irrivelabile, ci sono incantesimi respingi babbani, non ci si può materializzare, né usare passaporte o camini senza il permesso di un membro della famiglia e soprattutto l’intera abitazione è circondata da un cerchiodi Estia che tiene lontano qualunque intruso per un raggio di cento metri».

«Lievemente ossessionati».

Dorea rivolse al nipote uno sguardo tagliente: «Puoi dare loro torto?».

No, Alphard non poteva. Cinque anni prima, una Euphemia Potter in cinta era stata rapita da un mago oscuro, Fauntleroy Nott. Gli Auror l’avevano ritrovata dopo una settimana, rinchiusa in una grotta della Cornovaglia. Si supponeva che il rapimento fosse stato un modo di Nott per vendicarsi di una legge tutela-Babbani scritta dal suocero di Euphemia, Henry Potter. La signora Potter non ricordava cosa fosse accaduto durante la sua prigionia, ma sembrava che una maledizione le avesse fatto perdere il bambino che aspettava. Tutt’ora questa storia era uno dei pettegolezzi preferiti dei salotti buoni della comunità magica britannica.
       
«Quindi, non può essere entrato per caso al Nido di Iolanthe» continuò Alphard, riprendendo il ragionamento della zia «Allora, come ha fatto?».

«Ovviamente Flea e Euphemia temono che sia stato mandato da qualcuno».

«E a che scopo? Farsi ammazzare? Cosa poteva fare un ragazzino disarmato in una casa che pullulava di maghi adulti?».

Le labbra di zia Dorea si piegarono in una smorfia. «Non ho la risposta alle tue domande, Al, ma è naturale che i Potter siano preoccupati: Fauntleroy Nott è ancora libero e corre voce che si sia unito a Grindelwald. Quel ragazzinodisarmatopoteva essere parte di un piano più grande, anzi potrebbe ancora essere parte di un piano».

Alphard, per qualche ragione, sentì una fitta d’angoscia alla bocca dello stomaco. «Hai detto che i Potter non lo avrebbero denunciato».

«E non lo faranno» confermò zia Dorea. «Flea e Euphemia sono convinti che tutti i bambini siano intrinsecamente innocenti. Vogliono scoprire chi c’è dietro quel ragazzino, chi sta cercando di colpirli questa volta, ma non vogliono che venga processato».

Alphard, rasserenato, si poggiò sulla testata del letto «I Potter sono piuttosto sfortunati, non è vero?».

«Henry Potter si è fatto molti nemici nel corso della sua carriera politica e i suoi figli tendono a pagarne le conseguenze» spiegò Dorea.

Alphard ghignò: «Sicura di voler entrare a far parte della loro famiglia, zia?».

«Al momento, non c’è nulla che desideri di più» replicò zia Dorea con tono fermo.

E Alphard sapeva che non era solo perché amava Charlus, Dorea era impaziente di sbarazzarsi del nome di famiglia. Volse la testa verso il finestrino, lievemente a disagio. Tra la sua zia preferita e suo nonno, al momento, c’era un clima di belligeranza che rischiava di portare al rinnegamento. Anzi che avrebbe già portato al rinnegamento se non fosse intervenuta la Nonna, così affezionata a quella sua pronipote “sentimentale e ribelle”.

In quel momento il bus si fermò. Alphard e Dorea salutarono il bigliettaio e il conducente e scesero su una macchia d’erba al centro di una piazzetta; attraversarono la strada e giunsero al marciapiede proprio di fronte ai gradini di pietra che portavano alla porta nera senza serratura, ma con un batacchio d’argento a forma di serpente intrecciato.

«Immagino che domani tornerai al San Mungo» disse sua zia.

Alphard non sprecò tempo ed energie per negarlo.

«Charlus ed io verremo con te».

«Per poter riferire tutto ai Potter?».

«Esattamente» sorrise lei «e poi voglio conoscere il ragazzo del mistero» poggiò una mano sulla sua testa, scompigliandoli i capelli. «Ci vediamo domani alle due, nella reception». Dorea girò su sé stessa e scomparve nel nulla.

Ad Alphard non rimase altro da fare che emettere un respiro profondo e colpire la porta con la bacchetta per entrare.

Appese alle pareti del corridoio della sala d’ingresso, c’erano delle lampade a gas a forma di serpente che diffondevano una luce verdastra, luce che si abbinava al colore della moquette, della tappezzeria e delle poltroncine di pelle che circondavano un tavolino.  Alphard era convinto che non poteva esserci una famiglia più orgogliosa della sua tradizione Slytherin.

Ovviamente, ad aspettarlo, seduta su una delle poltrone, c’era sua madre, Irma Black nata Crabbe.

«Finalmente sei tornato» lo accolse sorseggiando una tazza di the. «Siediti» indicò la poltrona di fronte a sé.

Alphard obbedì. Sua madre aveva da poco superato i trent’anni. I suoi lineamenti erano troppo marcati per poterla definire bella, ma risultava elegante con i suoi lunghi capelli color limone raccolti in uno chignon. Accoccolato ai suoi piedi, c’era il suo fedele gatto, Belzebù.

La signora Black gli versò del the.

«Alphard, dimmi, credi che io sia eccessivamente severa?» chiese dopo che Alphard ebbe bevuto.

«No, madre».

Irma annuì. «No, neanche a me pare eccessivo chiedere a un bambino di tredici anni…»

…Fra meno di due settimane ne avrebbe compiuti quattordici…

«…Di tornare a casa entro l’ora di cena».

«Mi spiace, madre, ho perso la cognizione del tempo. Non ricapiterà».

«Cosa stavate facendo tu e tua zia di tanto appassionante?».

«Studiavamo» Alphard estrasse dalla borsa il libro di Antiche Rune per farglielo vedere.

Sua madre sembrava perplessa. «Ho sempre apprezzato la tua dedizione agli studi, ma adesso mi sembra che tu stia esagerando. Hai problemi in questa materia?».

«No, anzi mi piace molto, volevo approfondire e zia Dorea è un’esperta di Antiche Rune».

«Sì, lo è, ma non comprendo perché hai bisogno del suo aiuto per approfondire una materia scolastica. Se Hogwarts non è in grado di soddisfare la tua curiosità accademica, posso assumere un tutor che ti segua durante le vacanze».

«Non serve» si affrettò a replicare Alphard. «Semplicemente mi piace passare del tempo con mia zia e Antiche Rune è una passione che abbiamo in comune».

Sua madre annuì docilmente. «Sì, so che ti piace trascorrere il tempo con tua zia e che avete molte passioni in comune, ma ritengo che durante queste vacanze abbiate trascorso abbastanza tempo insieme. Negli ultimi giorni, non ti ho quasi visto, senza contare che hai trascorso il Natale con lei, un giorno che dovrebbe essere dedicato alla famiglia».

Ad Alphard sarebbe piaciuto sottolineare che la sorella di suo padre, nonché sua madrina, era parte della famiglia. «Ho pranzato qui» disse, invece «e padremi aveva dato il permesso di partecipare al ballo dei Potter».

«Sì, tuo padre ha delle opinioni curiose su dove è meglio che i miei figli stiano» replicò Irma. Finì di sorseggiare il the per poi far sparire tutto con movimento distratto della bacchetta.

«Bene, come ho già detto, credo che tu e tua zia abbiate trascorso abbastanza tempo insieme. Fino alle fine delle vacanze invernali, non hai più il permesso di uscire».

Alphard non osò ribattere, sapeva che avrebbe solo peggiorato la situazione, ma cominciò freneticamente a pensare ad una soluzione.

«E’ tardi, è ora che tu vada a dormire». Sua madre gli sorrise e lo baciò sulla fronte per augurargli la buona notte.

Alphard si diresse verso la scalinata di marmo che portava ai piani superiori e salì fino al quarto piano, dove si trovavano la sua camera da letto e quelle dei suoi fratelli. Erano entrambi svegli e lo stavano aspettando sull’ampio pianerottolo che usavano come salotto.

«Ma quanto puoi essere idiota?» lo salutò la sua dolce sorella maggiore, seduta sulla chaise longue posta vicino alla finestra. Tra loro era l’unica ad avere qualcosa della loro madre (nei lineamenti marcati, nell’espressione del viso, nel portamento), ma i sottili capelli biondi di Irma erano stati sostituiti da una folta chioma nera, e i freddi e piccoli occhi chiari dei Crabbe erano stati rimpiazzati da grandi occhi scuri e ardenti. Inoltre, Walburga era più alta della madre e aveva un fisico androgino.

«Non volevo disubbidire» si difese Alphard. «Ho perso la cognizione del tempo».

«Il fatto che tu abbia fatto qualcosa che non volevi fare, ti rende ancora più idiota» sostenne Walburga.
Cygnus, che era un Metamorphmagus come Alphard e il loro padre, in quel momento aveva ondulati capelli biondi che gli sfioravano le spalle e grandi occhi azzurri. Gli porse un orologio da taschino con un sorriso angelico: «Te lo regalo, serve per misurare il trascorrere del tempo. Domani mattina, t’insegno a leggerlo, se vuoi».

«Ah, ah, ah. Sei esilarante, fratellino». Alphard si lasciò cadere su un pouf verde smeraldo, mentre suo fratello, convito di essere davvero esilarante o forse solo lieto che il fratello maggiore fosse finito nei guai, ridacchiava sottovoce: i suoi occhi divennero più scuri e i suoi capelli più corti, a spazzola, e verde scuro.

Walburga teneva le braccia incrociate e lo fissava accigliata: «Nostra madre ti ha messo in punizione?».

«Non posso uscire di casa fino alla fine delle vacanze» confermò Alphard.

Walburga scosse la testa. «Lo sai quanto tiene al coprifuoco, che stavi facendo di tanto interessante da non renderti conto di essere in ritardo per la cena?».

«Zia Dorea mi stava parlando di come la runa sowilo…»

«Sei senza speranza» lo interruppe Walburga, poi si alzò, si diresse verso la sua stanza, la più grande tra le tre, e ci si chiuse dentro.

Suo fratello, che ancora ridacchiava, sembrava volerla imitare, ma Alphard lo fermò.

«Cygnus, conosci tutti gli studenti del tuo anno, vero?» gli chiese.

Cygnus parve sorpreso dall’improvviso cambio di argomento. «Sì, anche se non bene».

Alphard annuì. Cyguns era abbastanza socievole, quanto meno più di lui. «Per caso, conosci un ragazzino coi capelli neri, gli occhi verdi, gli occhiali e una cicatrice a forma di saetta sulla fronte? E’ alto più o meno quanto te ed è molto magro».

«No, non mi viene in mente nessuno».

Alphard avvertì una fitta di delusione: lo Sconosciuto non era una matricola, quindi.

«Perché questa domanda?» indagò suo fratello. «Oh, aspetta, ha a che fare colragazzo che si è materializzato a casa dei Potter?».

«Sì, indossava un’uniforme di Hogwarts, ma io non ricordo di averlo mai visto».

Cygnus assunse un’espressione sospettosa. «E perché mi hai posto questa domanda proprio adesso?».

«Perché zia Dorea mi ha detto che oggi si è risvegliato».

Cygnus sembra stupito: «E’ andata a trovarlo?».

«No, è in una stanza riservata, dove non sono ammessi visitatori, ma casualmente è stato affidato al Guaritore Longbottom, il fratello del cugino Harfang, nonché un amico dei Potter: è stato lui a dirglielo».

«Beh? Chi è? Perché si è intrufolato a Casa Potter?».

«Sostiene di aver perso la memoria».

«Ed è vero?».

«Chi lo sa. Sarà compito dei Guaritori appurarlo».

Cygnus, per qualche ignota ragione, sorrise. «Beh, sembra una storia interessante e tu sei l’unico testimone».

«Difficilmente. C’era un sacco di gente a casa dei Potter, stavano dando una festa».

Suo fratello gli rivolse un ghigno. «Ma sei l’unico ad averlo visto comparire, no? C’eri solo tu in biblioteca in quel momento, giusto?».

Alphard si chiese cos’avrebbe detto se avesse saputo che era anche l’unico ad averlo visto rinvenire, che era stato il primo a parlargli e che era deciso a trovare un modo per andarlo a trovare l’indomani.

«Cosa vuoi raccontare? Che è apparso avvolto dalle fiamme dell’Ardemonio e ha evocato il marchio di Grindelwald?».

Cygnus alzò gli occhi al cielo. «Niente di tanto melodrammatico, ovviamente. In effetti, non dobbiamo neanche dire cosa sai, sarà sufficiente lasciar intendere che tu sappia qualcosa».

Alphard sbuffò. Suo fratello respirava l’aria rarefatta di Slytherin da soli quattro mesi, Alphard non riusciva a concepire come potesse essere già così profondamente avvinghiato negli intrighi dei loro compagni di Casa; intrighi che lui aveva abilmente evitato per quasi tre anni. Ma, con ogni probabilità, la differenza tra loro era tutta lì: Alphard non voleva farsi coinvolgere; Cygnus, invece, sguazzava felice nelle trame segrete e nelle lotte di potere.

«Racconta quello che ti pare,» gli concesse «ma assicurati che nessuno m’infastidisca».

Suo fratello annuì, ma, a giudicare, dall’espressione del viso e dai suoi capelli divenuti color cenere, disapprovava la sua noncuranza. Fortunatamente, ad Alphard non importava della sua opinione. Gli augurò la buonanotte e si diresse verso la sua stanza.

La sua camera era nei toni del blu, con un enorme letto a baldacchino, mobili lucidi, un camino in cui ardeva un fiocco scoppiettante e una comoda poltrona -Alphard ci aveva trascorso innumerevoli notti a leggere per poi addormentarsi alle luci dell’alba-. Affianco alla porta c’era una grande scrivania con poggiato sopra un vassoio pieno di sandwich e una caraffa colma di succo di zucca. Alphard sorrise alla vista. Sapeva chi aveva provveduto alla sua cena e sapeva anche che lo aveva fatto di sua iniziativa, senza aver ricevuto ordini da nessuno. Afferrò il vassoio e si sedette sulla poltrona, sollevando i piedi per poggiarli sul pouf. A volte, si chiedeva cosa dicesse di lui, il fatto che colei che gli piaceva di più, tra gli abitanti di Grimmauld Place, era Rella, la loro elfa domestica.

Gaheris, il suo kneazle maculato bianco e nero, stava dormendo sul tappetto posto di fronte al camino, ma quando il suo padrone entrò, si svegliò stiracchiandosi e si avvicinò a lui. Alphard gli grattò la testa mentre mangiucchiava con aria pensierosa. Pensare a Rella gli aveva fatto tornare in mente lo Sconosciuto. A Grimmauld Place c’erano parecchi passaggi segreti, un paio dei quali portavano fuori dalla casa, ma Alphard scartò subito la possibilità di uscire di nascosto. Sua madre non era una stupida, anche con l’aiuto dei suoi fratelli (su cui comunque, non era certo di poter contare) non sarebbe riuscito a coprire la sua assenza per più di un paio d’ore e se sua madre lo avesse scoperto sarebbe stata capace di segregarlo in casa per tutta l’estate. Anche affrontare direttamente sua madre non avrebbe funzionato: non cambiava mai idea dopo aver preso una decisione, quindi, quello che gli serviva era di essere autorizzato ad uscire da qualcuno che in quella casa aveva maggiore autorità di lei: cioè suo padre, suo nonno e la Nonna.

Suo padre lo avrebbe aiutato volentieri, ma al momento, stava sorvolando il Sahara su un tappeto volante alla ricerca di manufatti magici; anche se gli avesse mandato un gufo, Alphard sapeva che non avrebbe mai abbandonato le sue ricerche solo per costringere la moglie a far uscire di casa il figlio. Suo nonno, nei confronti del quale sua madre provava un timore reverenziale, sfortunatamente era irragionevole e testardo quanto Irma su qualunque questione riguardasse la figlia minore. Quindi, in realtà, c’era solo una persona a cui Alphard poteva chiedere.

L’indomani, quando Alphard entrò nella sala d’accettazione del San Mungo, zia Dorea e Charlus erano già lì ad aspettarlo. Charlus, che indossava l’uniforme bianca degli apprendisti Guaritori ed era alto con capelli castani tagliati alla militare e occhi scuri, lo salutò con una pacca sulla spalla. «Ero convinto che tua madre non ti avrebbe permesso di uscire di casa» disse.

«Mi ha aiutato la Nonna» spiegò Alphard.

Dorea ghignò. «Come sempre, coglie al volo ogni occasione per contrariarla».

Alphard si limitò a scrollare le spalle, con noncuranza. Trovava estenuanti e anche un po’ infantili gli innumerevoli conflitti all’interno della sua famiglia –tra sua zia e suo nonno, tra sua madre e la Nonna, tra sua madre e suo padre-, ma la disapprovazione non gli aveva mai impedito di sfruttarli per ricavarne benefici personali.

Charlus indicò le scale che portavano ai piani superiori: «Andiamo?».

Zia Dorea annuì e aprì la strada.

«Novità?» chiese Alphard mentre salivano.

«Poche,» rispose Charlus «sono qui dall’alba: è dalle sei che viene esaminato, ma, per ora, possiamo solo dire che è un mago».

Alphard si era dimenticato che c’era ancora quella questione in ballo. «Ed è davvero amnesico?» indagò.

«Senza dubbio. Rita Schneider, la nostra migliore Guaritrice della Psiche, ha esaminato la sua mente per due ore. Ha coscienza di sé stesso, un carattere ben definito e varie nozioni sia sul nostro mondo che su quello babbano, ma nessun ricordo legato alla sua storia personale».

«Avete già contattato il Ministero per ottenere informazioni?».

«Sì, grazie a mio padre, il Guaritore Prewett è riuscito ad ottenere un colloquio via camino con la signora Rookwood del Dipartimento Catastrofi e Incidenti magici, ma lei ci ha solo dato altri quesiti a cui rispondere».

«Cosa intendi?»

«Non ha la Traccia» rispose Charlus con un sussurro.

Zia Dorea era visibilmente sorpresa. «Com’è possibile?».

«Ce lo stiamo chiedendo tutti».

«Non ho mai capito come funzioni la Traccia,» intervenne Alphard «né a cosa serva».

«In che senso “non hai capito a cosa serve”?» gli chiese zia Dorea.

«Beh, non è come se avesse mai impedito a Walburga di fare magie fuori dalla scuola».

Charlus annuì. «La Traccia è in grado di rilevare i luoghi dove viene compiuta una magia e di dire quali maghi e streghe ci sono in quella zona in quel momento, ma non è in grado di associare la magia effettuata al mago o alla strega, perciò è sostanzialmente inefficace con i maghi e le streghe minorenni con una famiglia magica».

«E allora a cosa serve?» insistette Alphard.

«Serve a tenere sotto controllo i figli dei Babbani» fu la schietta replica di zia Dorea. «Ci si aspetta che un bambino nato magico, cresca con la consapevolezza dell’importanza dello Statuto Internazionale di Segretezza, o quanto meno che abbia una famiglia in grado di assicurarsi che non dia mostra di sé davanti ai Babbani, ma in pochi avevano fiducia che i Nati Babbani avrebbero avuto la stessa accortezza. Il Ministero, quindi, ha una mappa della Gran Bretagna e dell’Irlanda in cui sono stati applicati incantesimi di rivelamento. Vi sono puntini rossi col nome per i maghi minorenni, puntini azzurri senza nome per i maghi adulti e scie dorate che compaiono quando viene effettuata una magia. Se compare una scia dorata dove ci sono puntini rossi, ma nessun puntino azzurro, scatta l’allarme».

«Come si fa a ingannarla?»

«Non si può, è un manufatto magico molto potente» spiegò Charlus «e non mente mai».

«Ma adesso sta mentendo» disse Alphard «perché non rivela la presenza e il nome di questo ragazzo».

Charlus annuì: «E non è tutto».

«Che altro c’è?». Per qualche ignota ragione, zia Dorea sorrideva e aveva l’aria elettrizzata. Sembrava che stessero discutendo di un nuovo entusiasmante enigma comparso su Il numero sette, invece che del destino di un ragazzino.  

«E’ un mago, nessun dubbio su questo, e dev’essere inglese visto che parla solo inglese e con accento britannico, eppure non ha la Traccia e il professor Dumbledore sostiene che il suo nome non è presente nel Libro dell’Ammissione di Hogwarts».

«Un mago inglese minorenne che non è stato ammesso a Hogwarts e che non ha la Traccia» Ricapitolò zia Dorea con tono eccitato. «Potrebbe essere un ottimo oggetto di studio».

Sia Alphard che Charlus s’irrigidirono. «E’ un paziente del San Mungo» disse quest’ultimo con tono severo.

Zia Dorea alzò gli occhi al cielo. «Giuro di non compromettere il suo stato psicofisico» promise con tono cantilenante.
Charlus non sembrava convinto e neanche Alphard lo era, ma zia Dorea li ignorò, superò velocemente gli ultimi tre gradini che portavano al quarto piano e con passo svelto raggiunse rapidamente la stanza dello Sconosciuto. Aveva già la mano sulla maniglia quando Charlus l’avvertì: «Ho promesso a Preston che sarà una visita breve: è ancora debilitato, si stanca facilmente, e questa mattina l’hanno già stressato molto».

Zia Dorea annuì ed entrò, Alphard e Charlus la seguirono velocemente.

Lo Sconosciuto era disteso sul letto e fissava Dorea con un’espressione guardinga, tuttavia appena vide Alphard sorrise calorosamente. Alphard non poté evitare di ricambiare.

«Come stai?» gli chiese avvicinandosi.

«Bene» rispose con un sussurro, rivolgendo sguardi sottecchi a Dorea e Charlus.

«Mi hanno detto che è stata una mattinata impegnativa».

Lo Sconosciuto scrollò le spalle. «E’ solo che tutti continuano a pormi domande di cui non conosco le risposte».

Alphard gli accarezzò i capelli, sperando di riuscire a confortarlo.

«Alphard, ci presenti?». Alphard rivolse lo sguardo verso sua zia. L’aria eccitata di prima era svanita e adesso volgeva lo sguardo da lui allo Sconosciuto, accigliata.

«Certo, lei è mia zia Dorea e lui è il suo fidanzato, Charlus».

«Charlus Potter» precisò lui.

Lo Sconosciuto sbiancò, ma Dorea si affrettò a chiarire: «Tranquillo, non è qui in veste di Potter».

«Sono un apprendista Guaritore» spiegò Charlus «Trascorro la maggior parte del tempo due piani più su, nella scuola di Guarigione, volevo solo sincerarmi che stessi bene. Mio padre, mio fratello e mia cognata erano molto preoccupati: temono che a farti perdere i sensi siano state le protezioni che circondano la casa».

Il che, Alphard ci avrebbe scommesso, era solo parzialmente vero. I Potter di certo, in primo luogo, volevano capire come quel ragazzo le avesse superate quelle protezioni. Beh, avrebbero dovuto rassegnarsi, lo Sconosciuto non poteva rivelare ciò che non sapeva.

«I Guaritori dicono che mi riprenderò del tutto a breve» li rassicurò. «Quindi sono apparso a casa tua?».

«Nella casa di famiglia, in realtà, il Nido di Iolanthe» specificò Charlus. «Al momento, io vivo a Londra».

«E dove si trova il Nido di Iolanthe?».

Alphard si accigliò: non gli avevano neanche raccontato i particolari sulla sua apparizione?

«A Stinchcombe». Il ragazzo aveva un’aria perplessa. «E’ un piccolo villaggio nel Gloucestershire». Questa volta, il ragazzo riconobbe il nome del posto, anche se non sembrava che il Gloucestershire avesse un significato particolare per lui.

«Sei un bambino» commentò sommessamente zia Dorea, come se parlasse tra sé e sé.

Quelle parole parvero irritare lo Sconosciuto che, con tono secco, replicò: «Ho quasi quattordici anni».

«Come lo sai?» gli chiese Alphard.

Lo Sconosciuto si rivolse a lui: «Quel Guaritore, il Guaritore Taylor, mi ha fatto salire su una pesa con incise sopra delle rune e poi ha detto che ho tredici anni e dieci mesi: a quanto pare sono nato il 14 febbraio del 1927».

Charlus e zia Dorea si scambiarono uno sguardo sorpreso. Alphard li comprendeva: quel piccoletto aveva la sua età?

«Ti hanno dato un nome?» chiese poi Charlus «Mi sembra strano non sapere come chiamarti» spiegò.

Lo Sconosciuto annuì: «E’ venuta una donna del Ministero… ha detto che fino a quando non scopriranno chi sono, per il Ministero sarò Magbob».

Alphard sorrise: Magbob, cioè il termine arcaico che nell’undicesimo secolo veniva usato per definire i Nati Babbani e che voleva dire letteralmente “Spuntato dal nulla”. Adeguato. Zia Dorea doveva pensarla allo stesso modo, a giudicare dal suo sguardo divertito.

Charlus, invece, fece una smorfia. «Vada per Magbob allora, per il momento ci accontenteremo». Poi guardò l’orologio che portava al polso «Bene, credo che ti abbiamo disturbato abbastanza, hai bisogno di riposarti».

Lo Sconosciuto, Magbob, rivolse uno sguardo rapido ad Alphard. «Non sono stanco» asserì «e sto riposando: sono sdraiato a letto».

Charlus sorrise «Sì, ma ho promesso al Guaritore Preston Longbottom che non ci saremmo fermati molto».
Magbob annuì, rassegnato. Era stato privo di coscienza per tre giorni, aveva perso la memoria, era in totale balia di perfetti estranei e non aveva neanche voce in capitolo sulle persone con cui poteva stare e per quanto tempo.

Alphard era davvero dispiaciuto per lui. Cominciò a tirare fuori dalla borsa ciò che aveva portato con sé.
«Ci rivedremo presto e, per evitare che ti annoi, ti ho portato un po’ di cose» disse. «Non so cosa preferisci, ma rileggere Gli Animali Fantastici non fa mai male» disse poggiando il libro sul comodino. «In alternativa, se ti piace il Quidditch…» Estrasse Prima che il Boccino venga catturato. Gli occhi di Magbob s’illuminarono.

Gli occhi di Magbob s’illuminarono. «Oh, sì, conosco quel libro. Mi piace».

Alphard sorrise. A Magbob piaceva il Quidditch, era una buona notizia, tuttavia per quanto riguardava quel libro in particolare… «Non credo sia possibile che tu lo conosca» disse piano. «E’ uscito a Natale».

Magbob aggrottò le sopracciglia.

«Questi, invece, sono fra i miei preferiti» concluse tirando fuori Teoria della Magia e Hogwarts: Una Storia. «E nel caso non ti piacesse leggere…» Alphard stesso faceva fatica ad accettare di essersi preoccupato per qualcuno a cui poteva non piacere leggere, ma tirò fuori un piccolo mappamondo, una scacchiera con cui si poteva giocare anche da soli e un mazzo di carte auto rimescolabili.

Magobob pareva incantato. «Io… grazie, non dovevi» balbettò, ammirando tutti gli oggetti sul suo comodino. «Sei davvero gentile».

«Sì, Alphard è famoso per la sua gentilezza» commentò zia Dorea: il suo tono grondava di sarcasmo e suo nipote la guardò male. Magbob sembrava solo perplesso.

«Bene, ora andiamo» disse Charlus lasciando vagare lo sguardo da Magbob, ad Alpahard alla pila di oggetti sul comodino.

Magbob li salutò scuotendo la mano, mentre uscivano, chiudendo la porta dietro di sé.

«Che ne pensate?» chiese Charlus dopo che si furono allontanati.

«Che nulla di tutto questo ha il minimo senso» rispose zia Dorea.

«Sì, quel ragazzo dovrebbe essere impossibile. E’ impossibile che sia comparso al Nido di Iolanthe, è impossibile che non abbia la Traccia, è impossibile che non sia stato ammesso a Hogwarts».

Zia Dorea volse lo sguardo verso Alphard: «Gli hai regalato la tua scacchiera?».

Alphard era sorpreso dalla domanda, ma si limitò a scrollare le spalle: «Ne ho un’altra».

«Ma quella era la tua preferita».

«Proprio per questo gliel’ho data: i pezzi conoscono parecchie mosse e potranno essere un buon avversario».

«E gli hai dato anche alcuni dei tuoi libri preferiti».

«Che conosco a memoria e che ricomprerò».

«Di certo non conosci a memoria Prima che il Boccino venga catturato: lo hai acquistato da poco».

«Ricomprerò anche quello, ovviamente».

Dorea scosse la testa, incredula.

«Cosa t’infastidisce tanto, zia?»

«Non sono infastidita,» ribatté Dorea «solo perplessa. Sei lo stesso ragazzo che a otto anni ha fatto cadere un lampadario sopra al fratello perché aveva osato macchiare con la cioccolata la sua copia delle fiabe di Beda il Bardo?».

«Era magia accidentale» ribatté Alphard con tono esasperato.

«Sto solo dicendo che, di solito, sei geloso dei tuoi beni personali».

Alphard scrollò nuovamente le spalle. Effettivamente, non sapeva spiegare del tutto neanche a sé stesso il suo comportamento, ma Magbob aveva suscitato in lui curiosità e compassione. Voleva conoscere la sua storia e voleva aiutarlo… In quest’ordine.

«Cos’accadrà adesso?» chiese Zia Dorea al suo fidanzato.

«Non ne ho idea» fu l’utile risposta di Charlus. «Fisicamente, sta bene e visto che ha coscienza di sé stesso e controlla i suoi poteri, non è un pericolo per lo Statuto Internazionale di Segretezza: se non fosse minorenne o se avesse un posto dove andare, lo dimetteremmo».

«Ma è minorenne e non ha un posto dove andare» riepilogò zia Dorea.

«Allora, dovremo trovarglielo».       
 
***
 
Hogwarts si stava ripopolando e Albus ne era felice. Le lezioni sarebbero riiniziate solo lunedì, ma già da dopo Capodanno, molti studenti avevano cominciato a ritornare. In effetti a tutti gli studenti che decidevano di trascorrere a casa per le vacanze invernali, veniva chiesto di indicare il giorno, l’ora e il mezzo con cui pensavano di ritornare al castello e, solo se non era possibile scaglionare gli arrivi, veniva imposto loro di ritornare tutti insieme la sera prima dell’inizio delle lezioni con l’Hogwarts Express.

Albus sorseggiò il suo cocktail a base di fragola da un bicchiere con un ombrellino mentre osservava gli studenti seduti in Sala Grande.
Al tavolo di Slytherin, lo studente più brillante della scuola, Tom Riddle, mangiava silenziosamente il suo arrosto circondato dai suoi amici. Albus sorrise tra sé e sé. Davvero, li definiva amici per mancanza di un termine migliore, ma ad Albus, Tom sembrava un giovane sovrano circondato dai suoi cortigiani. Osservò meglio il gruppetto. Alla destra e alla sinistra di Tom, c’erano Dorcas Meadowes e Balthazar Selwyn, tutti e due, come ogni anno, avevano deciso di trascorrere le vacanze a scuola. Dorcas, una graziosa e brillante ragazza del terzo anno, in quel momento stava discutendo con Theodore Nott e Icarus Greengrass, seduti di fronte a lei. Anche Theodore e Icarus erano del terzo anno, entrambi avevano trascorso il Natale a casa ed erano tornati il giorno prima. Xenos Avery, invece, si stava ingozzando di purè e arrosto, interrompendosi solo per annaffiare il tutto col succo di zucca. Accanto a lui, Alaric, l’erede dei Rosier, non avrebbe potuto rappresentare un contrasto maggiore: il giovane (ondulati capelli biondi, occhi azzurri e lineamenti delicati) stava seduto in maniera regale e si portava, con fare elegante, piccoli bocconi alla bocca, senza parlare, ma, Albus non ne dubitava, ascoltando tutto con molta attenzione. Ogni tanto, s’interrompeva per rivolgere occhiate disgustate a Xenos. Balthazar Selwyn sembrava, invece, stare spiegando qualcosa a Owen Mulciber: c’era un libro, tra loro, sul tavolo, e Balthazar ne indicava dei paragrafi. Probabilmente era un tomo d’Incantesimi. Albus si servì di una fetta di torta al limone. Owen era fra i migliori del suo anno e quasi sicuramente sarebbe stato nominato Prefetto l’anno seguente, ma Incantesimi era il suo punto debole mentre era fra le materie migliori di Balthazar.

Nel terzo anno di Slytherin, oltre a Dorcas, c’erano solo altre due studentesse: Nyx Malfoy e Michelle Zabini che, tuttavia, erano sedute il più lontano possibile dalla loro compagna di dormitorio e dal gruppetto di Riddle. Entrambe si trovavano di fronte al fratello maggiore di Nyx, il Prefetto Abraxas Malfoy, anch’egli circondato da quelli che Albus non poteva che definire seguaci, qualcosa a metà tra servi e guardie del corpo. Per finire, seduta in mezzo al tavolo, impegnata a godere del privilegio di poter ignorare tutti, c’era la Caposcuola Amanda Bailey.
Dei membri più popolari della Casa, mancavano solo Roland Lestrange e i cugini Black che sarebbero tornati domenica, nel pomeriggio. Mentre Albus si chiedeva in che modo sarebbe arrivato il giovane Lestrange quell’anno (non tornava mai nel modo in cui aveva indicato), un ragazzo tozzo, con lineamenti marcati e capelli castani lunghi fino alle spalle entrò in Sala Grande. Era Augustus Rookwood, l’unico del gruppetto di Tom a non essere di Slytherin. Quell’anno, per la prima volta, Rookwood era rimasto a Hogwarts per le vacanze invernali. Albus sospettava fosse stata una decisione dei suoi genitori, entrambi impegnatissimi (la signora Rookwood al Ministero, il signor Rookwood alla Conferenza Internazionali dei teorici della Magia che stava avendo luogo a Damasco). Probabilmente avevano ritenuto inutile che il figlio tornasse a casa per Natale, visto che non avrebbero comunque avuto tempo da dedicargli. Augustus si avvicinò al suo capo, gli sussurrò qualcosa all’orecchio, poi salutò gli altri e si diresse al tavolo dei Ravenclaw. Si accomodò tra il suo migliore amico, Alexander Bagman, e uno degli studenti preferiti di Albus, Filius Flitwick. Filius era seduto sulla sua solita pila di libri e chiacchierava animatamente con altri due studenti cari ad Albus, Sowa Shacklebolt e Millicent Bagnold.

E a proposito di studenti preferiti… Albus volse lo sguardo verso il tavolo di Gryffindor. I due fratelli McGonagall (Minerva, quarto anno e Malcolm, terzo anno) erano tornati quella mattina. Stavano seduti uno accanto all’altro, circondati dagli altri membri della squadra di Quidditch: la Cacciatrice Susan Bennet; il Portiere Dustin McKinnon; i Battitori Benjamin Fenwick e Richard McLaggen e il Capitano Rolanda Hooch. Discutevano animatamente e Albus supponeva che stessero ideando nuovi schemi di gioco: al momento, Gryffindor era in cima alla classifica della Coppa di Quidditch. Albus aggrottò le sopracciglia. Anche se stava facendo di tutto per non darlo a vedere, Minerva era di malumore e Albus si chiedeva se avesse qualcosa a che fare con la sua situazione familiare. La madre di Minerva, Isobel, era stata una delle sue prime allieve. Era una ragazza affascinante, brillante e dotata: la migliore della classe in Incantesimi, nonché Capitano della squadra di Quidditch di Gryffindor. Sembrava destinata al successo e Albus era fra coloro che erano rimasti delusi nello scoprire che si era sposata con un Babbano e aveva rinunciato alla Magia. Non aveva mai incontrato il reverendo Robert McGonagall, ma la figlia sembrava amarlo molto, quindi Albus poteva solo dedurre che fosse un uomo onorevole, ma non si faceva illusioni su come doveva essere la vita a casa McGonagall: quando mai i matrimoni tra streghe e Babbani erano felici? Come potevano donne cresciute con modelli di ruolo quali Rowena Ravenclaw, Helga Hufflepuff, Morgana LaFay, Morrigan Sayre e Artemisia Lufkin stare con uomini che vivevano in un mondo in cui le donne avevano ottenuto diritto di voto solo ventitré anni prima?

«Dunque, oggi pomeriggio, avete un incontro con Lynette Rookwood?».

La domanda di Horace, seduto al suo fianco, lo distolse dai suoi pensieri.

Rispose il preside, seduto all’altro lato di Albus: «Sì, ci ha chiesto un colloquio via camino».

«Tempo perso, come se i criteri di ammissione di Hogwarts potessero essere modificati» borbottò Geoffrey Binns.

Albus realizzò che doveva essersi perso grande parte della conversazione mentre osservava gli studenti. Comunque, era chiaro di cosa stavano parlando o meglio di chi.

«Davvero, non capisco» intervenne Silvanus Kettleburn «perché non possiamo ammetterlo a Hogwarts».

La domanda non era rivolta a nessuno in particolare, ma Albus essendo il vicepreside, e quindi il responsabile delle procedure di ammissione, si sentì in dovere di rispondere: «I Fondatori hanno vincolato l’ammissione alla scuola a due oggetti magici senzienti: il Libro dell’Ammissione e la Penna dell’Accettazione. La Penna avverte la nascita di ogni bambino magico britannico e irlandese, il Libro decide se egli ha abbastanza magia per poter essere ammesso a Hogwarts. Solo se entrambe sono d’accordo, un bambino può diventare uno studente di questa scuola e il loro giudizio è inappellabile».

«Cosa succederebbe se accogliessimo qualcuno che non è stato ammesso?» chiese Peter Swan, l’insegnante di Babbanologia.

«La scuola non lo accetterebbe» disse Maho Miyazawa, la nuova insegnante di Aritmanzia. L’Alma Mater di Maho era Mahoutokoro ma, come Albus aveva avuto modo di appurare, in quei mesi aveva studiato a fondo l’architettura della scuola. «In primo luogo il Cappello non potrebbe smistarlo e le armature potrebbero addirittura attaccarlo, anche se, ora che ci penso è più probabile che i cancelli d’ingresso non lo facciano neanche entrare».

Peter era sbalordito: «Perché? Questa scuola ha ospitato Maghinò e pure dei Babbani, in effetti».

«Non come studenti» sottolineò Binns. «Hogwarts è magica e senziente: non riusciremmo mai ad ingannarla».

«Nessuno ha intenzione di provarci» disse Albus con tono vivace. «Personalmente, sono molto grato ai Fondatori per la procedura d’ammissione che hanno ideato: non voglio neanche pensare quanto sarebbe stato seccante dover esaminare personalmente i figli di maghi e streghe e spiegare ai loro genitori perché non potevo ammetterli a Hogwarts».

«Ma se i Guaritori del San Mungo hanno ragione, e questo ragazzo è al livello dei nostri studenti, vuol dire che il nostro sistema di ammissione è fallato» osservò Galatea Merrythought, sorseggiando del vino elfico. Galatea, che era stata l’insegnate di Difesa contro le Arti Oscure di Albus, era cinque centimetri buoni più alta di lui e sembrava ancora più imponente a causa della massa di riccioli argentei e dei cappelli stravaganti che era solita portare: al momento, un cappello a punta con in cima un'enorme testa di topo.

«Non credo che il problema sia il nostro sistema d’ammissione» rispose Albus. «Non dimentichiamoci che stiamo parlando di un minorenne senza Traccia: è evidente che la storia di questo ragazzo è unica. Inoltre, in realtà la Penna e il Libro si stanno comportando in maniera singolare».

«Cioè?» chiese Silvanus.

Albus emise un sospiro profondo. «Come ho detto, la Penna rileva la nascita di ogni bambino magico mentre, di fatto, è il Libro a decidere se si tratta di un Mago o di una Strega, quindi, di solito, è la Penna ad essere meno esigente e restrittiva».

«Tuttavia… ?» Galatea lo incoraggiò a continuare.

«Tuttavia, questa volta sta accadendo l’esatto contrario. La Penna pare non volersi muovere dal suo calamaio mentre il Libro è spalancato e, ogni tanto, svolazza attorno alla Penna come per convincerla a scriverci qualcosa. Non ho mai assistito a un comportamento simile».

«Neanch’io» confermò Armando.

«Beh, ci sono un sacco di misteri in questa storia, non è vero?» commentò Horace. «Eri al ballo dei Potter, vero, Galatea?».

Galatea annuì. «E mi aspettavo di vederti» disse.

«Mi avevano invitato,» spiegò Horace «ma, ahimè, l’invito di Brutus è arrivato prima».

Si riferiva a Brutus Malfoy, il padre di Abraxas e Nyx.

«Allora, il ragazzo è veramente apparso dal nulla, come dicono?» indagò Horace.

Galatea scrollò le spalle: «Bisognerebbe chiederlo al giovane Alphard Black» rispose. «Era l’unico in biblioteca, in quel momento».

«Se stavano dando un ballo, perché era in biblioteca?» chiese Albus.

«Penso che ci fosse troppa gente per i suoi gusti. E’ un ragazzo timido».

“Timido” non era il termine che avrebbe utilizzato Albus. Riteneva che “riservato” fosse più calzante o anche “asociale”. Poi, certo, se la pietra di paragone era la sorella, chiunque sarebbe parso timido.

«Comunque, sì, lui sostiene che sia apparso dal nulla».

«E quando è rinvenuto si è scoperto che è amnesico?» riassunse Horace.

«Esatto, che io sappia, è ancora al San Mungo» rispose Galatea.

«E’ così» confermò Albus.

Horace sospirò. «Povera Lynette, ha una bella gatta da pelare. Uno ragazzo minorenne, amnesico e senza Traccia: un vero pericolo per lo Statuto Internazionale di Segretezza e il Ministero ha già così tanti problemi in questo periodo…» s’interruppe, ma tutti avevano bene in mente di quali problemi stesse parlando.

Galatea aggrottò le sopracciglia «Pensate che Grindelwald c’entri qualcosa?».

Anche Albus, se lo era chiesto. Grindelwald non si fermava davanti a nulla, neanche davanti a dei bambini, tutto ciò poteva fare parte di un qualche piano contorto.

«A che scopo?» ribatté invece Horace. «Perché mai avrebbe dovuto mandare un minorenne disarmato a casa dei Potter?».

Galatea non rispose.

«A prescindere da cosa c’è dietro,» intervenne Armando «mi spiace per il ragazzo. Solo e senza ricordi: vorrei che potessimo accoglierlo».

«Beh, non possiamo» disse Geoffrey con tono secco. «E’ Hogwarts a decidere chi può essere ammesso a Hogwarts e questo è ciò che spiegheremo alla signora Rookwood. Il Ministero dovrà cavarsela da solo. La cosa non ci riguarda».

Ma, come spesso capitava, Geoffrey Binns sbagliava.

Due ore dopo, Albus e il preside Armando erano nell’ufficio di quest’ultimo e stavano discutendo con Lynette Rookwood, la cui testa bionda galleggiava tra le fiamme del camino.

La signora Rookwood, coerentemente con la persona che era, non perse tempo in convenevoli: «Magbob deve essere ammesso a Hogwarts».

Albus, seduto su una comoda poltrona di pelle marrone, rivolse uno sguardo rapido al professor Dippet, che era accartocciato su sé stesso in un angolo del divano, e poi, sorridendo, replicò: «Non possiamo farlo».

La strega, dopo avergli lanciato uno sguardo irato, parve decidere di cambiare tattica e, con tono più quieto, disse: «Professor Dumbledore, preside Dippet, vi assicuro che mi spiace dovervi imporre uno studente. Sono sempre stata convinta che il Ministero non dovrebbe interferire con gli affari di Hogwarts, ma questa è una questione di sicurezza nazionale».

«Addirittura!» commentò Albus sempre sorridendo. Armando, invece, assunse un’espressione ansiosa.

Un lampo d’irritazione attraversò nuovamente gli occhi chiari della donna. «In tutta onestà, quando il signor Potter mi ha svegliata alle cinque del mattino per discutere di un ragazzino che aveva perso la strada di casa, ero assai irritata, ma ben presto l’eccezionalità dell’evento è diventata evidente. Non è solo un ragazzo amnesico, è un mago inglese adolescente senza Traccia, che non è stato ammesso in nessuna scuola magica, ma che ha ricevuto un’educazione. Quando gli ho fatto visita, ho avuto modo d’interrogarlo su molte questioni: è confuso, soprattutto riguardo agli eventi recenti, ma ha talento ed è evidente che a un certo punto qualcuno lo ha istruito. Dobbiamo scoprire come sia possibile, da dove viene, chi c’è dietro di lui e soprattutto se ci sono altri minori di cui ignoriamo l’esistenza. Va tenuto d’occhio».

Aveva parlato con tono molto concitato e una vena aveva iniziato a pulsarle sulla tempia. Armando pendeva dalle sue labbra.

«Sarebbe una situazione rischiosa per lo Statuto Internazionale di Segretezza anche in condizioni normali, ma siamo in guerra: potrebbe esserci un disegno ben definito dietro e non possiamo permetterci di essere colti impreparati».

«Tutto molto interessante, ma non capisco cosa c’entri Hogwarts» commentò Albus. «Immagino che al San Mungo siano perfettamente in grado di tenerlo d’occhio».

«Ovviamente, il problema è che non può restare al San Mungo: è in perfetta salute».

«Intende, a parte il fatto che non ha alcun ricordo della sua vita?».

Se la signora Rookwood colse il sarcasmo, non lo diede a vedere. «I Guaritori non sanno come aiutarlo a recuperare i ricordi perduti, potrebbe restare così per sempre, ma non può restare al San Mungo per sempre».

«Perché no? C’è chi lo fa: hanno ancora il reparto lungodegenti, vero?»

A giudicare dallo sguardo che gli rivolse, era evidente che la signora Rookwood pensava che fosse impazzito.
«Il reparto lungodegenti è per le persone che hanno perso il senno».

«E che quindi sarebbero un pericolo per lo Statuto Internazionale di Segretezza» precisò Albus.

«Esatto, non è il caso di quel ragazzo».

«Sì, invece. Un minore amnesico e senza Traccia è un pericolo per lo Statuto Internazionale di Sicurezza. Lo ha detto lei, è di questo che stiamo parlando».

La Rookwood era stata evidentemente presa in contropiede, ma non demorse: «Il reparto lungodegenti è per persone difficili da gestire».

«Eppure ci finisce anche chi avrebbe una famiglia in grado di prendersi cura di loro. Questo ragazzino spuntato dal nulla, di cui nessuno sa niente…»

«La smetta, Dumbledore! Non lo rinchiuderemo nel reparto riservato con un gruppo di matti!» scattò infine la donna.

Albus sorrise: «Capisco, non lo vuole rinchiudere perché è dispiaciuta per lui. E cosa suggerisce, allora?».

La signora Rookwood che ormai aveva perso la pazienza, assunse un’espressione caustica: «Beh, è un mago inglese di quasi quattordici anni, cosa fanno di solito i maghi inglesi di quattordici anni?».

«Non può frequentare Hogwarts».

«Perché?» sbottò la strega. «E’ il luogo a cui appartiene».

«Signora Rookwood sa il perché. Sa del Libro e della Penna, sa che il loro giudizio è inappellabile. Siamo vincolati magicamente. Spero di non dover spiegare a un alto funzionario del Ministero cosa significa ciò».

La donna glirivolse uno sguardo iroso. «Speravo di poter risolvere la questione pacificamente, ma ora mi rendo conto che sfortunatamente il Ministero dovrà interferire negli affari di Hogwarts. Interpellerò il Ministro. Se Hogwarts esclude un ragazzo come Magbob, allora è arrivato il momento di rimettere in discussione i suoi criteri di selezione con un decreto didattico».

Armando sbiancò e Albus non gli diede torto: ogni decreto didattico, ogni legge che diminuiva l’indipendenza di Hogwarts era un fallimento per la presidenza e il Consiglio, tuttavia Albus era convinto che fosse una minaccia a vuoto.

«Sarò ben lieto di discorrere della questione direttamente con Leo».

Se la signora Rookwood era infastidita dal fatto che le venisse ricordato quanto Albus fosse in buoni rapporti col Ministro che avrebbe dovuto prendere tale decisione, non lo diede a vedere e con un brusco e ultimo cenno di saluto, sparì.

«Possiamo stare tranquilli» disse subito Albus. «Le sue sono minacce a vuoto: non può realmente imporre l’iscrizione del ragazzo tramite decreto».

«Sì,» convenne Armando «ma ha ragione, no? Quel ragazzo non può stare al San Mungo per sempre e come qualunque giovane mago merita un’istruzione magica».

«Sono d’accordo, la mia era una provocazione, ma davvero non c’è nulla che possiamo fare. Conosci il Libro e la Penna».

Armando tacque, si alzò e fissò con sguardo malinconico il Cappello Parlante appoggiato su una mensola d’oro.

«Helga Hufflepuff voleva che Hogwarts accogliesse tutti i bambini che desideravano imparare la magia, voleva che ogni giovane mago e ogni giovane strega senza casa, potesse trovarne una qui».

L’espressione di Albus si addolcì: «Cosa vuoi che faccia?» chiese.

Armando si voltò verso di lui. «Occupati del ragazzo. Trovagli una casa, un posto che abbia l’approvazione del Ministero e in cui sarà tutelato e al sicuro. Lo farei personalmente, ma hai molte più conoscenze di me, sia in Gran Bretagna che all’estero».

Albus sorrise, divertito. Armando si sottovalutava, la verità era che in pochi avrebbero rifiutato un favore al preside di Hogwarts, ma Albus era felice che il suo vecchio insegnante fosse convinto che qualunque cosa lui potesse fare, il suo vice la poteva fare meglio.

«D’accordo» acconsentì. «Mi occuperò del ragazzo».

Ore dopo, mentre ascoltava la sua cantata preferita di Bach, Magnificat, disteso sul suo letto ad occhi chiusi, si chiese cosa avrebbe fatto.
Armando desiderava che quel ragazzo trovasse una casa e ricevesse un’educazione, Lynette Rookwood voleva che suddetta casa fosse dove il Ministero poteva tenerlo d’occhio. “E io?” Si chiese Albus. “Io cosa voglio?”. Ripensò all’ipotesi di Galatea. Se tutto questo riguardava Grindelwald, doveva assicurarsi che la nuova casa del ragazzo fosse dove lui poteva tenerlo d’occhio. Hogwarts sarebbe stato il luogo perfetto, ma…

«Ci sono alternative a Hogwarts, ovviamente» borbottò a mezza voce.

Scuole di magia straniere, meno prestigiose, con procedure di ammissione meno rigide e, nel peggiore dei casi, Albus supponeva che sarebbe riuscito a trovargli un insegnante privato.

«Tina Scamander accetterebbe e anche Adalbert, forse» sussurrò.

Fawkes, appollaiato sopra l’armadio, trillò dolcemente e Albus si ritrovò a ridere di sé stesso.

«Hai ragione, dovrei almeno conoscere questo ragazzo prima di cominciare a pianificare il resto della sua vita».

Fu così che il giorno dopo, verso le dieci del mattino, Albus varcò la soglia della Sala d’attesa del San Mungo. Ad attenderlo c’era il Guaritore Preston Longbottom, a cui aveva mandato un gufo il giorno prima per annunciare il suo arrivo.

Il mago gli sorrise. «Era da molto tempo che non ci vedevamo».

«Questo trimestre è stato molto impegnativo» spiegò Albus mentre si dirigevano ai piani superiori.

Preston annuì. «Jasper e Algie sono tornati ieri?».

Albus sorrise «Sì, certo». Il maggiore dei figli di Preston, Jasper, era Caposcuola; il minore, invece, era al terzo anno ed entrambi erano Gryffindor.

«I bambini crescono così in fretta. Non posso credere che Jasper sia al suo ultimo anno e neanche che dal prossimo sarà un apprendista Auror. Cioè, se viene ammesso, certo».

«Verrà ammesso» lo rassicurò Albus. «Hai cresciuto un ragazzo in gamba».

Gli occhi di Preston brillarono dell’orgoglio che un figlio come Jasper non poteva fare a meno di suscitare.

«Allora, come sta il bambino sperduto?» chiese Albus, cambiando argomento.

L’espressione di Preston s’incupì. «Bene fisicamente. E’ sottopeso, ma non sembra malnutrito. Le uniche note sono le
ossa del braccio destro che hanno meno di due anni, la cicatrice di un morso su un braccio e una cicatrice da maledizione sulla fronte».

«Due cicatrici e un braccio disossato: un curriculum notevole per un tredicenne» osservò Albus. «E psicologicamente, come sta? Come gestite la situazione?».

Preston s’irrigidì. «Cosa intendi?».

Albus scrollò le spalle con noncuranza «Immagino che per lui non sia facile stare chiuso qui dentro, tutto il giorno».

«No, non lo è».

«E questo è un ospedale, non una nursery».

«Magbob sarebbe troppo grande per una nursery, comunque».

«Quindi? Come state gestendo questo adolescente? Resta chiuso nella sua stanza tutto il giorno? E’ così docile? O forse c’è qualche Guaritore che gli tiene compagnia?».

«Come hai detto tu, questo è un ospedale. No, nessun Guaritore può permettersi di trascorre le giornate a intrattenere un ragazzino» replicò Preston con tono secco.

Albus represse un sospiro. Lui e Preston avevano discusso più volte del modo in cui il San Mungo gestiva le persone con malattie mentali incurabili, Albus avrebbe dovuto immaginare che il Guaritore avrebbe pensato che la sua curiosità nascondesse una critica: provò a spiegarsi. «Ho una certa esperienza con gli adolescenti» disse. «Non riesco a credere che un ragazzo in salute sopporti di stare tutto il giorno chiuso in una stanza».

Preston gli rivolse uno sguardo cauto. «Non resta tutto il giorno chiuso in una stanza. L’abbiamo spostato nel reparto riservato, ma è libero di girare per l’ospedale pur con alcune regole» spiegò.

«Com’è di carattere?».

«Sembra un bravo ragazzo. E’ timido, tranquillo e obbediente. Sta tollerando bene la situazione, quanto meno. Certo, probabilmente è grazie alle visite frequenti che riceve».

«Visite?» ripeté Albus sorpreso. «Visite da chi?».

«Da uno dei bimbi Black, quello che lo ha trovato. Viene tutti i giorni. Ora sono insieme nella sala da the» aggiunse mentre superavano il piano in cui si trovava il reparto riservato. «E’ quasi un peccato che Alphard debba tornare a Hogwarts, Magbob sentirà molto la sua mancanza».

Erano giunti davanti alle porte in legno battuto della sala da the e Albus prese una decisione. Sorrise a Preston e gli disse: «Se non ti dispiace, preferirei entrare da solo».

Preston era stato preso in contropiede. «Non vuoi che ti presenti?».

«Posso fare da solo, Alphard mi conosce e credo di averti già rubato abbastanza tempo».

Preston esitò un attimo, ma poi annuì e lo salutò.

Albus aspettò che si fosse allontanato, poi chiuse gli occhi e pronunciò un incantesimo di Disillusione. Entrò, aprendo le porte il minimo indispensabile e scivolò dentro, silenziosamente. Nella sala c’erano solo una decina di persone, individuò immediatamente Alphard Black e Magbob. Erano seduti su un divano posto di fronte a un tavolino e ridacchiavano giocando con uno di quei costosi mappamondi in miniatura che ti permettevano di fare viaggi virtuali in giro per il mondo. Albus si avvicinò alla coppia, e si piazzò alle loro spalle.

«Mio padre adesso è qui,» stava spiegando Alphard indicando un qualche luogo nel nord africa. «Si è comprato un tappeto volante: non vedo l’ora di provarlo».

«In quanti modi si può volare?» chiese Magbob.

«Per ora? Solo con manici di scopa, tappeti o creature magiche volanti. La famiglia del migliore amico di mia sorella, Roland Lestrange, alleva cavalli alati. In effetti, è così che torneremo a scuola domani: a cavallo dei suoi Aethonan».

Albus sollevò un sopracciglio, Roland Lestrange e i cugini Black avevano dichiarato che sarebbero tornati a scuola col Nottetempo.

«Come farete a non farvi vedere dai Babbani?» chiese Magbob che pendeva dalle labbra di Alphard.

«Nostro cugino Arcturus è un Maestro d’Incantesimi. Coprirà tutti con un incantesimo di Disillusione».

«Suona grandioso» sospirò Magbob, col volto rivolto verso la finestra.

Alphard aggrottò le sopracciglia e incrociò lo sguardo del ragazzo. «Quest’estate» disse con fermezza «ti porterò a casa di Roland così potrai provare».

Magbob riuscì a gestire un sorriso.

«E in questi mesi ti scriverò spessissimo: Hogwarts ha una guferia, disponibile a tutti gli studenti».

Albus era piuttosto sorpreso. Nonostante Alphard non fosse nella sua Casa, credeva di conoscerlo bene, tuttavia questo suo lato premuroso era una novità per lui. Di certo non si comportava così con suo fratello e sua sorella, ma d’altronde, Albus stesso, alla sua età, era più gentile con i suoi compagni di scuola che con Aberforth e preferiva trascorrere il tempo con i suoi amici piuttosto che con Ariana.

«Lo so» disse Magbob, forse riferendosi alla guferia.

Alphard non gli chiese come facesse a saperlo, quindi poteva trattarsi di un’informazione che il giovane Black non ricordava di aver già condiviso oppure Magbob già lo sapeva e Alphard era troppo abituato a lui che improvvisamente tirava fuori dal cilindro nozioni su Hogwarts per fare domande.
Albus decise che era arrivato il momento di farsi vedere e mormorò un contro incantesimo mentre entrambi guardavano in un’altra direzione.

«Buongiorno Alphard, mi presenti il tuo nuovo amico?».

Entrambi i ragazzi sussultarono e si voltarono verso di lui. Era evidente che si stavano chiedendo da dove fosse spuntato e come avessero fatto a non notarlo prima.

«Professor Dumbledore… Buongiorno» disse Alphard, esitò un attimo prima di continuare: «Magbob, il professor Dumbledore. Professore, lui è Magbob».

Albus rivolse al ragazzo moro uno dei suoi sorrisi più rassicuranti. «E’ un piacere conoscerti».

Lo Sconosciuto non reagì, aveva uno sguardo trasognato.

«Mi spiace dover essere scortese,» continuò Albus «ma ho davvero bisogno di parlare da solo con Magbob, Alphard».

Il giovane Black non sembrava felice, ma annuì e si alzò. Magbob si rianimò. «Torni?» gli chiese ansioso.

«Non credo» gli rispose Alphard e sembrava realmente dispiaciuto. «Mia madre vuole che ci prepariamo per il ritorno a casa».

«Quindi… è l’ultima volta che ci vediamo».

«Fino alle vacanze primaverili» gli assicurò Alphard.

Si salutarono con un malinconico cenno della mano e Albus si ritrovò solo con lo Sconosciuto. Prese il posto di Alphard e ordinò una cioccolata calda al gestore. Dopo essere stato servito, tornò a rivolgere tutta l’attenzione al giovane che aveva affianco. 

«Sai chi sono?» chiese.

Il ragazzo annuì. «Alphard mi ha parlato un po’ di Hogwarts. Lei è il professor Dumbledore: vicepreside, direttore della Casa di Gryffindor e docente di Trasfigurazione».

«Cos’altro sai di Hogwarts?»

«Non molto. E’ la migliore scuola di magia del mondo ed è divisa in quattro Case: Gryffindor, Hufflepuff, Ravenclaw e Slytherin. Gli studenti vengono smistati con un cappello che legge nel pensiero e…»

«Te lo ha detto Alphard?» lo interruppe Albus. Continuava a sorridere, nel tentativo di non far trapelare nessuna emozione, ma in realtà era esterrefatto. Non molti ne erano a conoscenza, ma il Cappello Parlante era tutelato dall’incanto Fidelius di cui il Custode Segreto era il preside: questa era la ragione per cui neanche le matricole provenienti da antiche famiglie sapevano in cosa sarebbe consistito lo Smistamento. Dunque, come aveva fatto questo ragazzo a scoprirlo?

«No, non me lo ha detto Al. Io… Lo so e basta».

Albus cominciava a inquietarsi. «C’è qualcos’altro che sai e basta?» gli chiese con tono incoraggiante.

«So che è un castello, che si trova in Scozia e che ci si arriva con un treno a vapore scarlatto» rispose il ragazzo.

Queste almeno erano informazioni che avrebbe potuto reperire anche leggendo Hogwarts: Una Storia.

Magbob era inquieto, anche se cercava di nasconderlo. I suoi occhi erano fissi su Albus e scrutavano ogni suo minimo movimento, come se si aspettasse di essere attaccato, poi si portò una mano tra i capelli, torcendosi un ciuffo ribelle, nervosamente. Fu allora che Albus notò la cicatrice da maledizione di cui gli aveva parlato Preston. Aveva davvero una forma particolare, inoltre non c’erano molto cicatrici a cui la magia non poteva porre rimedio.

«Posso?» gli chiese con un sorriso rassicurante e una mano sospesa a mezz’aria che indicava la sua fronte.

Il ragazzo annuì e Albus gli scostò dei ciuffi ribelli dal viso per esaminare la cicatrice. Mentre ne tracciava i confini con le dita, poteva quasi sentirla pulsare. Sì, indubbiamente magia oscura.  I suoi occhi incontrarono quelli del ragazzo, il cui colore gli fece venire in mente l’anatema che uccide. Il movimento della bacchetta associato all’Avada Kedavra era quello della runa sowilo, la cui forma era identica alla cicatrice di questo ragazzo.

«Ti crea problemi di qualche tipo? Sanguina a volte? O ti fa male?».

«Non ha mai sanguinato, ma quando mi sono risvegliato…» s’interruppe, esitante. «Anzi, credo che a svegliarmi sia stato il dolore alla cicatrice,» concluse infine «ma è capitato solo quella volta».

Un incubo, colse Albus con la Legilmanzia, il ragazzo stava avendo un incubo, poi aveva cominciato a fargli male la cicatrice e si era svegliato. Aveva l’impressione che si trattasse di un sogno importante, ma non riusciva a ricordarlo, beh, come non riusciva ricordare nulla.

«Interessante» disse Albus. Era indeciso. Sapeva qual era l’opinione di suo fratello sul suo uso della Legilmanzia e lui stesso si rendeva perfettamente conto di fare qualcosa che non avrebbe dovuto fare, ma come poteva scegliere di non indagare? Come poteva non utilizzare tutti i mezzi che aveva per cercare di scoprire qualcosa in più? Soprattutto ora che erano in guerra?

Albus fissò il ragazzo dritto negli occhi e pensò: “Legilimens!”.

Una serie di immagini si susseguirono velocemente nella sua testa. Alphard Black soprattutto, Alphard Black che sorrideva, Alphard Black che gli raccontava divertenti aneddoti su Hogwarts, Alphard Black che lo batteva a scacchi… Ora, invece, era solo e stava fissando la parete con aria malinconica, aveva paura anche se non voleva ammetterlo neanche con sé stesso… Quella era la signora Rookwood e gli faceva un sacco di domande a cui non sapeva rispondere… Adesso la Guaritrice Schneider gli stava leggendo la mente, la Schneider era gentile, ma lui si sentiva talmente violato… Ora leggeva un libro sul Quidditch, gustandosi ogni parola, anche se era certo di averlo già letto… Cosa avrebbe dato per poter volare… Aveva una famiglia? C’era qualcuno che lo stava cercando?

Albus sbatté le palpebre un paio di volte per poi rivolgere al ragazzo uno sguardo attento: no, non si era accorto di nulla. Si sentiva sollevato. A quanto pare, Magbob non aveva realmente nulla da nascondere.

«Come hai detto,» iniziò «sono un insegnante di Hogwarts, ma sono anche un membro del Wizengamot. Sai cos’è il Wizengamot?».

«Il parlamento della Gran Bretagna magica» rispose il ragazzo.

«Sì, immagino sia ciò che più assomiglia al parlamento babbano» convenne Albus. «Sono stato nominato due anni fa ed è soprattutto in questa veste che sono qui, oggi».

Magbob sembrava aver capito. «Avete deciso… dove andrò?» chiese.

Albus annuì. «La tua è una situazione unica. Non riusciamo a comprendere perché tu non sia stato ammesso a Hogwarts, ma sei un mago e in quanto giovane mago meriti un’istruzione».

«Quindi?» lo incalzò Magbob.

«Una mia amica, Aisling Jordan, ha fondato una piccola scuola nell’Irlanda del sud, la Green Accademy. La maggior parte degli studenti sono in età pre-Hogwarts o maghinò, ma le ho parlato e lei ha acconsentito a diventare la tua maestra».

Le sue parole furono accolte dal silenzio. Albus comprese che Magbob aveva un sacco di domande da fargli e non sapeva da dove iniziare.

«Io… quindi volete che mi trasferisca in Irlanda?» disse infine.

«Beh, sì, questa era l’idea» confermò Albus sorseggiando la sua cioccolata. «Ti risulterebbe difficile frequentare la Green Accademy da Londra».

Magbob non sembrava molto felice, probabilmente stava pensando ad Alphard, ma fu un’altra la domanda che pose: «Come… ?» si morse il labbro inferiore. «Voglio dire, io non ho soldi, come…»

«Il preside Dippet ha deciso di coprire interamente la spesa del tuo soggiorno e dei tuoi studi alla Green Accademy».

«Perché? Non mi conosce neanche».

«Perché hai tredici anni e sei solo: per lui è una ragione sufficiente per volerti aiutare in ogni modo possibile, è quel genere di persona».

«Vorrei ringraziarlo» disse Magbob arrossendo, ma guardandolo fermamente dritto negli occhi.

«Sono certo che avrai l’occasione per farlo» lo rassicurò Albus rivolgendo un’occhiata rapida al suo orologio da taschino: se voleva avvisare Horace che il giovane Lestrange e i cugini Black sarebbero arrivati volando, doveva sbrigarsi. «Direi che è rimasta una sola questione da sistemare».

«Cioè?»

Albus gli sorrise. «Non possiamo continuare a chiamarti solo Magbob, puoi tenerlo come cognome, ma hai bisogno anche di un vero nome».

«Del tipo?»

«Quello che vuoi, deve diventare il tuo nome, dopotutto».

Lo Sconosciuto rifletté un attimo. «Non so».

«Forse un nome con un significato che possa ispirarti?» propose Albus. «O magari il nome di qualche mago famoso? Finché non scegli Merlin, il Ministero acconsentirà».

«Forse… potrei… potrei chiamarmi Kilian?».

«Cioè “guerra” in gaelico?».

«Pensavo a Kilian come Kilian McKinnon, quel famoso magonò».

«Conosco un solo Kilian McKinnon» commentò Albus «e non è un Magonò».

Magbob sembrava confuso. «Ma è esistito un magonò di nome Kilian McKinnon» insistette. «E’ morto tentando di difendere un villaggio babbano da dei potenti maghi oscuri».

«Sicuro che non fosse la trama di qualche romanzo?» chiese Albus dolcemente. «Una storia del genere, me la ricorderei».

Lo Sconosciuto arrossì. «Forse» borbottò.

«Comunque sia, il nome che hai scelto mi piace e il Kilian McKinnon che conosco è un brav’uomo».

Magbob annuì.

«Quindi, d’ora in poi sarai Kilian Magbob?».

«Sì» disse Kilian con decisione.

Entrambi lo avrebbero scoperto solo il giorno seguente, ma appena lo Sconosciuto ebbe confermato, il Libro dell’Ammissione si aprì e la Penna dell’Accettazione con una nitida calligrafia vergò un nuovo nome: Kilian Magbob era stato ammesso a Hogwarts.

 
   
 
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