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Autore: Elsira    26/02/2021    1 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Pagina 14.

I'm sitting with an empty glass 
and a broken heart,
Thinking to myself what have I done,
Cause as my future got bright 
we started losing light,
And I couldn't see that you were the one
 
Take take take me back, 
I wanna go back,
Back to what we had! 
Do you remember when 
we started this mess,
My heart was beating out of my chest!

(Sono seduto con un bicchiere vuoto
e un cuore spezzato,
Pensando a me stesso, cosa ho fatto,
Perché quando il mio futuro è diventato luminoso
abbiamo iniziato a perdere la luce,
E non ho potuto vedere che eri tu

Prendi, portami indietro
Voglio tornare indietro,
Tornare a quello che avevamo!
Ti ricordi quando
abbiamo iniziato questo casino,
Il mio cuore batteva fuori dal petto!
)
 

Remember when, Chris Wallace
 
 

«Mh. Sì… non preoccuparti, va tutto bene. Mh. Okay. Okay. D’accordo, ci sentiamo stasera… Buon lavoro…»

Chiusi la chiamata e tirai un respiro profondo, mentre osservavo il nome sullo schermo del cellulare per quei pochi secondi prima che tornasse la schermata della home: “Padre”. Non ero mai riuscita a memorizzarlo con altro nome, a diminuire quella distanza che sentivo sempre quando ero al suo fianco.

Ovvio che dall’ospedale lo avessero chiamato immediatamente quando si erano accorti fossi io. Sia mai che il ricovero non necessario della preziosa bambina del Primario potesse passare senza che il padre lo sapesse. 

Ero ben cosciente del pericolo che avevo corso ed ero riconoscente a Mattia per aver chiamato il 118, ma… “La strigliata telefonica dal paparino me la sarei risparmiata volentieri, ecco.”

Mi lasciai andare sul letto, chiudendo gli occhi dopo pochi secondi e portandomi la mano sulle costole, dove faceva più male. Dopo una breve imprecazione, rilassai i denti e risollevai le palpebre, nel campo visivo solo il soffitto chiaro di camera di casa di mia madre, nella mano libera ancora il cellulare. 

Ripensai alle ultime conversazioni avvenute, riflettendo su quando mio padre fosse umanamente cambiato da quando i suoi genitori erano morti. Una parte di me era rimasta incredula dal fatto che fosse rimasto del tutto indifferente quando gli avevo detto, con non poca fatica, del danno della macchina, che era da rottamare. La strigliata, me l’ero presa più per aver pensato che potesse importargli più delle condizioni dell’auto che del fatto che fosse sinceramente preoccupato per me. 

“Devo essere una figlia davvero orribile per pensare una cosa del genere del proprio padre…” Non volevo fargli male, non volevo che pensasse che non gli volevo bene, perché gliene volevo, tanto… sicuramente molto più di quello che ero disposta ad ammettere. “Abbiamo sempre avuto un pessimo tempismo, noi due…” 

In passato, ricordo con chiarezza che c’erano stati momenti in cui avevo cercato il suo affetto e questo mi era stato negato, nella maggior parte delle volte a causa del lavoro e “rigorosità professionale da mantenere in x ambienti”, così l’aveva sempre giustificata lui. E c’erano anche stati molti momenti in cui invece era stato lui ad aver cercato il mio di affetto, che gli avevo puntualmente negato, perché la mia emotività me lo aveva in qualche modo impedito. Non ci siamo mai trovati, io e mio padre, in quanto a scambi d’affetto. 

Però, quando avevo avuto bisogno di lui, c’era sempre stato. A modo suo forse, sicuramente, ma c’era sempre stato. E nonostante quello strano tipo di rapporto che avevamo, anch’io volevo sempre esserci per lui, nel caso avesse avuto bisogno. Perché gli volevo bene, anche se non ero mai stata in grado di capire se l’amore che provavo nei suoi confronti fosse quello che una figlia deve al padre, in quanto genitore, oppure fosse puro e semplice. Ma poco mi importava, lui aveva contribuito a mettermi al mondo, aveva in un modo o nell’altro contribuito a farmi crescere, e questo mi bastava come “scusa” per volergli essere vicina. 

Alzai la mano, il palmo aperto, e mi incantai della luce che mi attraversava gli spazi tra le dita. E il resto del mondo svanì come per magia.  “Questo corpo è fantastico… Nonostante tutto quello che gli ho sempre fatto… Nonostante tutte quelle volte che l’ho massacrato, continua imperterrito a lasciarmi vivere… A non abbandonarmi, a proteggermi… E non mi chiede niente in cambio.” Una piccola fitta alle costole, dovuta a un respiro di maggior portata, mi costrinse a mordermi il labbro e tirare un sorriso. «Beh. A parte riposarsi ogni tanto…» Lasciai cadere la mano e mi girai su un fianco, accoccolandomi in una posizione che mi risultasse comoda. Avvicinai la mano al petto, sentendo il cuore battere dietro la pelle, e mi lasciai cullare dalla sua ninnananna.

«Grazie…»

 

A farmi riacquistare i sensi fu la fitta alla testa. Mi portai le mani alle tempie, come riflesso automatico, credendo ignorantemente che stringere il cranio avrebbe alleviato il dolore. 

«Du våknet? (Ti sei svegliato?)»

La voce calma di Svein mi arrivò alle orecchie, ma il cervello non riusciva ancora a connettere. 

Tentai di rispondere, col solo risultato di farfugliare parole incomprensibili persino a me stesso, mentre cercavo di aprire gli occhi e tentavo di capire in che posizione fossi. Sdraiato? Seduto? In piedi? In ginocchio? Impossibile dirlo, la testa girava come una trottola, tant'è che dovetti poggiare le mani a terra, cercando una stabilità che però non arrivò. “Ma che… Perché gira tutto così velocemente? Dove cazzo sono…”

«Det er aldri bra å bli slått ut, spesielt når de er full, fortalte de deg aldri? (Non è mai bene finire KO, soprattutto da ubriachi, non te l'hanno mai detto?)»

“Ubriaco…”

Cercai di ricordare le ultime 24h… niente. Il vuoto più totale. Strano, non avevo mai avuto problemi a ricordare, anche il più piccolo dettaglio. Anzi, il mio problema più grande era sempre stato l’essere incapace di dimenticare. 

Rammentavo di aver staccato tardi da lavoro e essere crollato sul letto, poi era tutto un miscuglio di strane sensazioni e nero. E dolore. 

Una fitta improvvisa al petto mi fece portare una mano a stringere la maglia all'altezza del cuore, e in quell'istante, come una scarica elettrica, il dolore si trasferì agli occhi. Mi sarei mosso per portarmi le mani al viso, ma i polsi mi vennero bloccati saldamente da mio cugino. «Ikke tør du. (Non ti azzardare.)»

In quel momento provai ad aprire lo sguardo e, oltre a sentire come le palpebre incrostate e la luce che mi accecò per lunghi secondi, vidi Svein tanto serio da far paura.

«Bravo, så. (Bravo, così.)» Lentamente mi accompagnò le mani, abbassandole, e si mise un mio braccio attorno al collo, facendomi mettere in piedi con cautela. «La oss gå i sofaen og snakke en stund, ja? (Andiamo sul divano e parliamo un po', sì?)»

Nel breve tragitto, con gli occhi ormai abituati alla luce, mi guardai esitante intorno. “Sembra sia passato un tornado qui dentro…”

«Hvordan føler du deg? Kan du snakke? (Come ti senti? Riesci a parlare?)» 

Svein mi allungò del ghiaccio avvolto in un panno, picchiettandosi la mascella come muto sprono. Ubbidii, inizialmente esitante, ma non appena il gelo mi sfiorò la pelle un'altra fitta mi ammazzò quelle cellule cerebrali rimaste integre. 

Mi ci vollero un paio di minuti buoni per essere in grado di parlare: «Hva... hva skjedde her inne… (Che… cos'è successo qui dentro…)»

«Mens jeg var ute, ble du full og ødela halve huset, for ikke å snakke om hendene dine. (Mentre ero fuori, ti sei ubriacato e hai distrutto mezza casa, per non parlare delle tue mani.)» Mi osservai un attimo le estremità degli arti superiori, notando solo in quel momento che erano avvolte in fasce mediche. “Ma che cazzo…”

«Og hvorfor skulle jeg gjøre det… (E perché l'avrei fatto…)»

«Vi vil (Beh)» Svein si stese in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia, con un sospiro pesante. «Det er det jeg også vil vite. (È quello che vorrei sapere anch'io.)» 

Una scintilla si accese in testa. «Vent litt, hva er klokka? Jeg må gå på jobb… (Aspetta un attimo, che ore sono? Io devo andare a lav…)»

«Sitt stille. (Stai seduto.)» Svein mi fece riappoggiare sul divano, mettendomi le mani sulle spalle. «Jeg har allerede ringt onkelen min og sagt at du ikke kan gå i dag fordi du er for syk. (Ho già chiamato lo zio e gli ho detto che oggi non puoi andare perché stai troppo male.)»

«Jeg er ikke s… (Io non sto mal…)»

«Og vet du hva han fortalte meg? (E lo sai che mi ha detto?)» Osservai mio cugino, non certo di voler sapere la risposta. Lui si sistemò meglio sulla poltrona davanti a me. «Det var på tide at han innrømmet det. (Era l'ora che lo ammettesse.)» Alzò la mano aperta. «Fem dager, men når du kommer tilbake, har du kommet tilbake til deg selv. Eller i det minste vite hvordan du kommer deg på sporet igjen. (Cinque giorni, ma quando rientri che tu sia tornato in te. O quantomeno sappia come tornare in carreggiata.)»

Mi scappò una piccola risata, più per la disperazione che altro, dopodiché rialzai lo sguardo e vidi gli occhi di Svein, quelli non di un cugino, ma di un fratello maggiore. Mentirei se dicessi che in quel momento sarei riuscito a rifilargli qualche cretinata ben congeniata, non si poteva mentire a quegli occhi. 

«Hva skjedde, Arkin? (Cos'è successo, Arkin?)»

Prima ancora di riuscire a ricordare, a parlare, sentii le lacrime che avevano già iniziato a scendere calde sulle guance. Mi ci volle un po’ per riuscire a formulare la frase.

«Tenker du noen gang på fortiden? (Tu ci pensi mai al passato?)»

«Ikke egentlig ... Når du flyr, må du se frem til deg. (Non proprio… Quando voli devi guardare avanti a te.)»

Tirai un sorriso. «Du er virkelig en elitesjåfør, ikke sant? (Sei proprio un pilota d’elite, eh?)»

«Å fly er mitt liv, vet du. (Volare è la mia vita, lo sai.)» 

«Svar deretter på dette: Har du noen gang angret? (Allora rispondi a questo: hai mai avuto dei rimpianti?)»

Svein rifletté qualche secondo prima di rispondermi. «Ja. Men jeg tror alle har angrer. (Sì. Ma penso che tutti abbiano dei rimpianti.)» Lo guardai un attimo, un poco confuso perché non certo di capire quello che volesse dirmi: «Hvis du ikke angrer på det du har gjort, betyr det at du ikke har endret deg fra fortidens du. Det betyr at du ikke har vokst opp. Og det å ikke vokse opp er ikke hyggelig, Arkin. Det er ikke hyggelig å forbli barn for alltid, det er en utopi. (Se non rimpiangi nulla di ciò che hai fatto, significa che non sei cambiato dal te del passato. Significa che non sei cresciuto. E non crescere non è bello, Arkin. Non è bello rimanere per sempre bambini, è un’utopia.)»

Chinai il capo, i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani sotto di me strette tra loro. Cercai di trovare le parole più giuste per cercare di fargli capire quello che avevo in testa. «Hva om ... Angrene dine ikke var knyttet til deg ... men til noen andre … (E se… I tuoi rimpianti non fossero collegati a te… ma a qualcun’altro…)»

Fu il turno di mio cugino a guardarmi confuso. 

«Hvis man angrer på hva han gjorde fordi han skadet seg, kan jeg forstå det. Jeg kan ... tilgi. Men når angrer bekymrer noen andre ... Hvordan tilgir du deg selv når handlingene dine har fått andre til å lide? Da ... de drepte dem … (Se uno rimpiange ciò che ha fatto perché ha ferito se stesso, lo posso capire. Lo posso… perdonare. Ma quando i rimpianti riguardano qualche d’un altro… Come fai a perdonarti quando le tue azioni hanno fatto soffrire gli altri? Quando… li hanno uccisi…)»

«Hva mener du… (Che vuoi dire…)» 

Udii il me tredicenne che convinceva i genitori di Paolo a farlo venire al raduno. Lo vidi che gli lanciava il pallone durante la finale. Lo sentii pensare di minacciarlo di fare goal perché altrimenti non gli avrebbe più parlato. 

Lo vidi osservare la palla entrare in rete, mentre Paolo cadeva a terra, davanti ai suoi occhi, dalla quale non si sarebbe più rialzato. 

Mi portai le mani al volto, non cercando di fermare le lacrime o modulare la voce. Sarebbe stato uno sforzo inutile. «Jeg drepte min beste venn. (Io ho ucciso il mio migliore amico.)»

E da lì le parole furono come la piena di un fiume che frantuma i suoi argini.

 

Aurora entrò in casa di soppiatto, avendo evidentemente paura di svegliarmi. Me la ritrovai che faceva capolino dall’entrata di camera: «Ma non stai dormendo.»

«Nope. Mi sono svegliata da poco, però, se ti può essere di consolazione.» 

«Sarà meglio.»

Sorrisi, battendo la mano sul bordo del letto come incoraggiamento per farla venire a sedere. Lei non se lo fece ripetere due volte. 

Il fatto che fosse entrata senza bussare non era una cosa strana, entrambe avevamo le chiavi delle case dell’altra, da anni ormai. Ce l’eravamo scambiate quando ci allenavamo insieme, per poter andare dall’altra la mattina presto senza dover suonare cellulari o campanelli, nel caso non avesse sentito la sveglia delle 5 per andare a correre. Non era mai stato un problema per i suoi genitori e, per quanto riguardava me, in casa di mia madre vivevo da sola 9 mesi l’anno visto che lei era insegnante di italiano in Inghilterra; e casa di mio padre erano almeno in dieci ad avere le chiavi, una in più o in meno, soprattutto se persona fidata come Elsa, per cui lui stravedeva, non cambiava di certo nulla. E poi non abusavamo mai delle chiavi dell’altra, com’era giusto che fosse.

«Ti ho portato delle lasagne con gli asparagi del monte dietro casa di Leo, del cinghiale in umido e delle rape. Sono buone, hanno preso il ghiaccio degli ultimi giorni e sono venute belle speciali.» Prese il tavolino da letto e iniziò ad apparecchiare, sotto il mio sguardo affascinato e incredulo.  

«Sarai un’ottima nonna.»

«Non sono ancora mamma. E lo sai che queste cose non le ho cucinate da sola.» Rispose lei con un sorriso e una lieve carezza sulla nuca. «Come ti senti?»

«Sto bene…» Mugolai, mettendomi una fetta di lasagna in bocca.

«Ma?» Chiese lei, impossibile non intuisse il mio non detto. Mi conosceva troppo bene.

«Ma nulla… Ho sentito ora mio padre.» Tagliai corto. Elsa mi accarezzò la guancia e mi sollevò il mento, alzandomi lo sguardo. Dio, quanto amavo quelle due pozze di miele in quei momenti, mi ci sarei voluta immergere e assimilare tutta la loro dolcezza. «Stai bene?»

Amavo il fatto che non mi avesse chiesto di cosa avessimo parlato, che non le importasse cosa mi avesse detto e che il suo primario interesse fosse come mi sentissi io.

Attesi qualche secondo prima di rispondere, poi tirai un sorriso: «Mi sono presa una strigliata per aver pensato che gli importasse più della macchina che di come stesse sua figlia, per il resto tutto bene. Mi richiamerà stasera.» Abbassai le palpebre e inclinai appena la testa, quel tanto che bastava per permettere alla mia guancia di essere sfiorata dall’intera mano della mia amica, per godermi appieno il suo affetto. «Voleva rientrare in Italia prima e venirmi a trovare, gli ho detto di non farlo. Voleva che andassi almeno a casa sua perché ci sarebbero persone che si sarebbero prese cura di me, visto che mamma non tornerà ancora per un po’. Gli ho detto di no. Ha accettato, anche se parecchio, parecchio adirato.»

«Puoi rimanere qui se è questo il posto in cui ti senti più a tuo agio, non importa che tu vada là. Ci sono io che mi prendo cura di te.» 

Riaprii lo sguardo, ringraziandola con gli occhi, perché le parole non sarebbero riuscite ad uscire a causa del nodo alla gola che si era formato, né tantomeno a comunicarle l’affetto che provavo per lei.

«Dopo lo chiamo io tuo padre e gli spiego la situazione, ora però mangia che sennò si fredda tutto!» Gli occhi le brillarono improvvisamente, l’entusiasmo che la contraddistingueva dal resto dei comuni mortali tornò a far splendere il suo volto.

Amavo Aurora. Sarei stata persa senza di lei.

 

«Jeg kan ikke fortsette slik, jeg vet ikke hvor jeg skal slå hodet lenger. (Non posso andare avanti così, non so più dove andare a battere la testa.)» 

Svein non disse nulla, era stato ad ascoltare la mia storia aspettando che trovassi da solo le parole, senza mai interrompermi o farmi fretta. Quello che fece nel momento successivo mi spiazzò tanto da farmi smettere di piangere: mi abbracciò.

Non sono un grande fan degli stereotipi, ma mentirei se dicessi che i norvegesi sono molto propensi a contatti affettivi come gli italiani. Non significa che non siano in grado di esprimere affetto verso chi lo provavano, solo che non sono i classici tipi da baci e abbracci. O almeno, io non ne avevo mai incontrati di particolarmente affettuosi, e Svein non era certo uno che si potesse dire come eccezione alla regola.

Forse, fu proprio per quello che capii davvero il significato e l’importanza di quell’abbraccio in quel momento.

Mi strinse forte, quel tepore che emanava era davvero quello di un fratello maggiore; non potei far altro che nascondere il volto sulla sua spalla e finire di piangere lacrime che non credevo nemmeno di avere.

Solo in quel momento mi resi conto di quel che gli avevo detto. Avevo detto di aver ucciso qualcuno a un militare. A una persona che, in in caso di guerra o serie crisi, era pagata per uccidere le persone. Nonostante il suo lavoro, Svein non era mai stato un amante delle guerre e degli scontri. Lui aveva bisogno di essere in cielo per poter respirare, e il fatto che avesse scelto la strada del militare anziché quella del semplice pilota di linea, era perché credeva davvero nel suo Paese e che, nelle peggiore delle ipotesi, sarebbe stato in grado di proteggere i suoi affetti con le proprie capacità. Lui diceva sempre che i militari servivano a proteggere, non a ferire. E che fosse compito di altri il non far accadere il peggio.

«Arkin jeg ... Jeg kan ikke hjelpe deg. Men du trenger hjelp. (Arkin io… Non sono in grado di aiutarti. Ma tu hai bisogno di aiuto.)»

Dentro di me, da qualche parte, sapevo bene che la morte di Paolo non avesse niente a che fare con me, che nessuno su questo pianeta me ne avrebbe addossato la colpa. Nessuno, tranne il sottoscritto. E forse questo era quello che mi faceva più male, perché avevo come la sensazione che il resto del mondo non mi credesse, non capisse come mi sentivo davvero. 

«Jeg kjenner en god psykolog, vil du ta en prat? (Conosco un ottimo psicologo, ti va di farci una chiacchierata?)»

«Penger… (I soldi…)» Mi fermò prima che potessi finire la frase, guardandomi dritto negli occhi, uno sguardo che non ammetteva repliche: «Vi har det. Og i tilfelle vi virkelig befinner oss med vann i halsen, leier vi rommet opp. På en eller annen måte gjør vi det. Men du må helbrede. (Li abbiamo. E nel caso dovessimo trovarci davvero con l’acqua alla gola, affittiamo la camera su. In qualche modo facciamo. Ma tu devi guarire.)»

Mi passai l’avambraccio sugli occhi, per asciugare le ultime tracce di lacrime, e annuii.

«Ok, kom igjen. (Okay, vieni.)» Svein sciolse completamente l’abbraccio e mi dette una pacca sulla spalla, sorridendomi incoraggiante e prendendo il cellulare di tasca. «La oss kalle det sammen. (Chiamiamolo insieme.)» 

 

«Senti, devo dirti una novità importantissima.» Appena finito di pranzare, Elsa si sedette davanti a me sul letto, le gambe incrociate e gli occhi che le brillavano in un modo che non le avevo mai visto prima. «Io e Leo ci sposiamo.»

Inclinai appena la testa, non comprendendo da dove venisse fuori quella notizia per nulla nuova. Erano anni che erano fidanzati, dovevano solo scegliere una data, appena si fossero un po’ stabilizzati con i rispettivi lavori e la casa nuova. «Sì, lo so che siete fid…»

«No no, non hai capito.» Mi sorrise lei, stringendomi le mani tra le sue. «Il primo giorno di Marzo, ci sposiamo.»

Silenzio. 

Cercai di metabolizzare la cosa. 

Non mi riuscì. 

«Eh?»

Guardai il calendario accanto al mio letto. Mancavano meno di due settimane all’inizio di Marzo.

«Mi fai da testimone?»


 

 

Il fatto che sia quasi Marzo il momento in cui pubblico questo capitolo, visto come ho voluto chiuderlo, è una sensazione bellissima. Una di quelle che ti fa stare bene dentro per ore

Un grazie speciale a quelli che stanno seguendo questo racconto, silenziosi e non. Non mi aspettavo davvero tante visite, e a dispetto di quel che vorrei, alimentano il mio ego. 
Il mio ego avrebbe bisogno di essere ridimensionato un poco negli ultimi tempi, ma va bene anche così. Ci pensa la gente che non è in grado nemmeno di fare copia-incolla, facendo fare figure del bip, a sistemarlo. Quindi no prob.
 
Arkin mi sta dando non pochi problemi in questi ultimi capitoli. Sì lo so che parlo solo di lui e probabilmente dovrei fare qualche accenno anche a Cam, ma il ragazzo mi fa scrivere in un’altra lingua e google traduttore è uno schifo. E quindi i problemi li da lui. 
 
Godo ancora per il pugno di Svein. Ma tanto.
 
Sì, sono bastarda dentro.



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