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Autore: E_AsiuL    26/02/2021    1 recensioni
Il rapporto tra il medico legale Tessa Beale e il detective Gabriel Giuliani non è mai stato idilliaco. Ma le cose potrebbero cambiare per via di un serial killer, il cui operato toccherà Tessa un po' troppo da vicino.
Genere: Introspettivo, Noir, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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A/N: ehilà! Siccome sono molto felice di aver finito di scrivere il capitolo 6, a voi oggi tocca il 4! Buona lettura.


4

Rigirandosi fra le lenzuola, Alex trovò l’altra metà del letto vuota. Tiepida, ma vuota. Tessa non doveva essere sgusciata via da molto. Si tirò su a sedere, stropicciandosi gli occhi. Al chiarore tenue della lucina notturna, individuò i pantaloni e andò a recuperarli. Della camicia, nemmeno l’ombra. Scosse la testa: probabilmente, gliel’aveva fregata Tessa. Con uno sbadiglio, uscì dalla stanza.

Trovò Tessa affacciata alla finestra del salotto, i capelli rossi sciolti sulla schiena spiccavano in netto contrasto con la camicia blu. La sua camicia blu. Il buio, oltre la finestra aperta, era spezzato dai lampioni. Sul davanzale, un pacchetto stropicciato di sigarette, un accendino e un posacenere sbeccato a forma di barchetta.

«Credevo avessi smesso», disse, raggiungendola. Le passò un braccio intorno alla vita, stringendola a sé. Tessa voltò la testa verso di lui, la sigaretta accesa tra le dita.

«Se ti dà fastidio, la spengo» disse, allungando la mano verso il posacenere. Per tutta risposta, Alex le sfilò la sigaretta dalle dita e se la portò alle labbra. Gliela restituì, facendo uscire il fumo dal naso.

«È così che stanno le cose, detective?» lo prese in giro, facendo un tiro. «Ora ti metti a rubare fumo a fanciulle indifese?» ghignò, facendogli l’occhiolino. Alex sorrise, riprendendo la sigaretta che lei gli stava passando.

«Solo a quelle che mi rubano la camicia», ribatté.

Tessa alzò le spalle. «Era la prima cosa che ho trovato», rispose, con aria innocente. Alex rise.

«Credo che la tua felpa fosse più vicina. E anche i pantaloni», sottolineò, sbirciandole le gambe nude. Di nuovo, Tessa alzò le spalle.

«E va bene», sbuffò, spegnendo la sigaretta nel posacenere e voltando il corpo completamente verso di lui. «La tua camicia mi piaceva di più» disse, facendogli una linguaccia.

«Ah sì? E perché?» le chiese, accarezzandole i fianchi. Constatò che la camicia era stato l’unico indumento che avesse raccolto.

«Perché è così cliché che, dopo il sesso, lei giri con indosso soltanto la camicia di lui», lo prese in giro, spostandosi i capelli su una spalla e sollevando un sopracciglio.
Alex strinse le labbra per non riderle in faccia. «E poi, perché è tua», aggiunse, a bassa voce. Di nuovo, aveva fatto dopo cena, prese a rosicchiare un’unghia.

L’espressione di Alex si addolcì ancora di più. Le sfiorò le guance con i pollici, per poi baciarle la punta del naso.

Tessa chiuse gli occhi. Perché, perché, perché, era sempre e solo Alex che la faceva sentire così? Come se valesse la pena. Come se fosse perfetta. Perché doveva essere Alex, che meritava il mondo, a farla stare bene? Lei, che era riuscita solo a fargli male?

Tessa se le ricordava, le litigate furibonde. Se le ricordava, le urla, le porte sbattute, le lacrime.

I tagli. Quei cazzo di tagli, alla base di tutto.

Perché sembrava che lei avesse lo stupido bisogno di farsi male, di vedere il proprio sangue, per ricordarsi di essere ancora viva. E Alex aveva sempre cercato di salvarla da se stessa, e non c’era mai riuscito. Si erano urlati di tutto, si erano fatti del male, ed erano sempre corsi – di nuovo, come dei pazzi – l’uno dall’altra. Finché non era sembrato che il male che si facevano fosse superiore al bene che riuscivano a darsi. Ma era rimasto il sesso, come quella notte.

Ma era stato solo quello?

Strappandosi un pezzo di unghia, Tessa ci rifletté. No, on era stato solo quello. Azzardò un’occhiata ad Alex, che la guardava perplesso, la testa piegata di lato, la fronte solcata sa una ruga verticale tra le sopracciglia.

«A cosa pensi, pulcina?» le chiese, e immediatamente si morse la lingua. L’ultima volta che l’aveva chiamata così, stavano ancora insieme. Era stato prima della litigata colossale, prima che lei gli urlasse di andarsene, che non aveva bisogno di essere salvata. E lui l’aveva assecondata, perché era stanco. L’amava, le aveva urlato, ma era stanco. Stanco di essere sempre spaventato. Stanco di non essere abbastanza. Non si erano parlati per mesi, al di fuori del lavoro, finché non erano riusciti a trovare una specie di equilibrio. Si erano detti che una relazione non poteva funzionare. Come amici, forse. Ma nulla di più. Occasionalmente, era rimasto il sesso. E ogni volta si dicevano basta, questa è l’ultima volta. E non lo era mai. E faceva male, quando ognuno tornava a casa sua, faceva male la mattina dopo, fingere che non fosse successo. Faceva male la notte dopo, quando il letto era vuoto.

Faceva male perché lui, di amarla, per quanto ci avesse provato, non aveva mai smesso. Ma lei?

Tessa ingoiò rumorosamente, quando Alex si lasciò sfuggire quel nomignolo. Nemmeno sotto tortura – forse – avrebbe ammesso che le era mancato. Sentì il cuore iniziare a galoppare, al pensiero di tutte le volte che l’aveva chiamata così. La chiamava “pulcina” e poi la sgridava. La baciava. La stringeva. Lo diceva sottovoce in camera da letto. Stava zitto e si faceva lasciare. L’ultima volta che l’aveva detto, stavano ancora insieme. Poi, mai più. Sempre “Tessa”, al massimo “Tess”. Se si arrabbiava, “Theresa”. Se era furioso, “dottoressa Beale”, come Giuliani. “Pulcina” era stato sepolto sotto i cocci di quell’amore su cui lei aveva sputato e che aveva preso in giro, non riuscendo a lasciarlo andare.

Gli aveva urlato di non aver bisogno di lui, di essere salvata. Eppure… eppure, lui sembrava essere sempre tutto ciò di cui avesse bisogno.

Tessa sospirò. «Non possiamo andare avanti così, Alex», disse, senza guardarlo.

Alex batté le palpebre, confuso. «Cioè?»

«Cioè… cioè dobbiamo smetterla», insisté. Alex non rispose. Tessa saltò sul davanzale, sedendosi sul marmo, e si accese un’altra sigaretta. Questa volta, la finì da sola. Dopo aver spento il mozzicone, rimase in silenzio qualche attimo.

«Perché è finita, tra di noi?» gli chiese.

«Perché tu mi hai cacciato», rispose lui, secco. «Dicesti di non aver bisogno di me», aggiunse.

«Perché mi hai dato retta?» chiese, sottovoce. Alex si ammorbidì.

«Perché sembrava essere quello di cui avevi bisogno», le rispose, sfiorandole i capelli. Lei scosse la testa.

«Ti sbagliavi», mormorò, poggiandogli le mani sulle spalle. «Mi sbagliavo, Alex», continuò. «Ho bisogno di te», ammise.

Lui le sorrise, accarezzandole le braccia. Rimase in silenzio: la conosceva abbastanza da sapere che era meglio non interromperla, quando decideva di aprirsi.

«Ho bisogno di te, ma sono la persona sbagliata, per te», riprese Tessa, tirando su col naso. «Sono riuscita solo a farti male. Tu mi amavi e io…» s’interruppe, cercando le parole. «…io non ero capace di restituirti nemmeno la metà. E ti ho cacciato, perché così era più facile. Ti volevo lontano, così non potevo avvelenarti, ma dovevi essere sempre a portata di mano…» di nuovo, tirò su col naso. «Il fatto è… è che, ogni volta, volevo essere egoista e chiederti di riprovarci, ma poi… poi mi chiedevo perché avresti dovuto volerci riprovare… e… e mi dicevo che era meglio così, che funzionavamo meglio così…»

«Tess…» la interruppe Alex. «Non sei la persona sbagliata», la rassicurò.

«Sì, invece!» sbottò lei. «Ero la persona sbagliata, e lo sono ancora, Alex! Ti ho usato, e usato, e usato ancora! E non ho nessun diritto di…» le sfuggì un singhiozzo. «…non ho il diritto di chiederti di riprovarci», concluse, sottovoce.

Alex la guardò, esterrefatto. Non era da lei, esternare così tanto. E poi… davvero voleva riprovarci?

«Pulcina…» sussurrò lui, senza sapere cosa dire.

«Me la dai, un’altra possibilità?» gli chiese.

Alex fece un passo indietro. Tessa chinò la testa, stringendo le dita sul bordo del davanzale. Comprensibile. Si morse un labbro. Alex fece un altro passo indietro. Tessa saltò giù dal davanzale, senza rialzare la testa. Le mani ai bottoni della camicia, superò Alex, diretta fuori dalla stanza.

«E ora dove cazzo vai?», sbottò lui, allungando un braccio verso di lei e afferrandola per il gomito.

«A mettere qualcos’altro, così ti riprendi al tua cazzo di camicia e te ne vai», rispose, la voce che tremava.

«Cazzo stai dicendo, Beale?» la strattonò. «Due secondi prima mi chiedi di tornare insieme e due secondi dopo prendi e parti?» la costrinse a voltarsi. Restavano chiusi solo gli ultimi bottoni della camicia, aperta dal collo fin quasi all’ombelico. «Il tempo di pensare posso averlo, o è un lusso che non posso concedermi?», continuò, tirandola a sé.

«Tanto stai per mandarmi al diavolo», rispose Tessa. L’aveva chiamata Beale. L’aveva fatto incazzare. Lo sentì sospirare.

«No che non ti mando al diavolo», disse, abbracciandola. Tessa chiuse gli occhi, il cuore in gola. «Come faccio a mandarti al diavolo, quando anche io volevo chiederti di riprovarci?»

Tessa alzò la testa di scatto, gli occhi sgranati. Le sorrise.

«Davvero?» gli chiese. Lui annuì.

«Davvero». Non le diede il tempo di aggiungere altro, preferendo baciarla ancora.

Quando si separarono, Tessa sogghignava.

«Ho una domanda, detective», disse.

«Spara», le rispose, divertito.

«Hai la pistola in tasca, o sei molto felice di essere qui?», lo prese in giro.

«Be’, dottoressa… perché non andiamo a scoprirlo?»
 

Fun fact: quando andavo all'università, ero spesso a casa di un mio compagno di corso che aveva un posacenere di ceramica a forma di barchetta, bianco e giallo, un po' sbeccato. Un giorno, cercando un posacenere, chiesi ad una delle mie coinquiline che fine avesse fatto quello a forma di barchetta. Abbiamo passato una mezz'ora a battibeccare perché io ricordavo di averlo usato, e lei non lo aveva mai visto. Al mio "Ma come, l'ho sempre usato insieme a [compagnodicorso]! Lo lasciavamo sulla finestra, non te lo ricordi?" è intervenuta l'altra coinquilina, che era stata qualche volta con me nell'appartamento di questo ragazzo, ricordandomi che quella barchetta non è mai stata nostra e avevo confuso i posacenere (il nostro era tondo, rosa e con i fiorellini). Giusto per farvi ridere un po', senza impegno.
Alla prossima!



 
  
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