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Autore: An13Uta    27/02/2021    1 recensioni
"...E tu sei tutto ciò che mi rimane al mondo."
Un viaggio attraverso Termina, alla caccia di risposte nascoste in una visione dal sorriso dolcissimo.
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Ambientata dopo Twilight Princess
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Happy Mask Salesman, Link, Skull Kid
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'occhi d'ambra'
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4


La neve è sciolta. È strana, una montagna senza neve. Pare quasi nuda senza la pelliccia gelida in cui si tiene stretta stretta, nascondendovi con un po' di vergogna il naso che cola.

L'aria è fresca, e gli solletica il collo, e le braccia nude.


Un brivido percorre un corpo di legno: dalle sue braccia emerge una breve melodia (a orecchie esperte suonerebbe simile alla musica di una marimba).

Una risatina minuscola.


La bambolina sta meglio.

Se ne felicita.


Il fiume scorre con un gorgoglio sereno. Braccia di legno cinereo si allungano verso il corso d'acqua, come a nuotarvi incontro: lo asseconda, e si siedono assieme sulla sponda.

Ci sono grosse ninfee senza fiore. Attorno ad esse nuotano controcorrente girini e ranocchie – rientranze nella roccia offrono loro un riparo certo.


Un gorgoglio riverbera nella gola di legno, come un gracidio.


Una rana salta su una ninfea e risponde in tono.


Osserva questo strano dialogo: da una parte, un anfibio pacato; dall'altra, una bambola con un viso di avorio cornuto sopra un ghigno troppo largo.

La gola di legno gracida ancora, più volte, in rapida successione, come stesse cercando di intonare una canzone. La ascolta una, due volte; poi, dita alle labbra, fischia quelle che crede siano le note giuste.


La rana canta il secondo verso.


Sobbalza appena la sente; sobbalza ancora quando un'altra rana si unisce al coro, e ancora, e ancora, man mano che le creaturine gracidanti balzano ognuna su una foglia per cantargli contro, con gli stessi movimenti confusi di un cagnetto spaventato davanti a ciò che non conosce. Allunga perfino il naso verso gli animaletti scivolosi con fare guardingo, come per annusarli, per identificarli meglio.

La bambola al suo fianco ride. Il corpicino traballa con ogni sghignazzo: la testa ciondola in ogni lato come quella di un pupazzo a molla.

Mani di legno afferrano una raganella nell'acqua, tirandola fuori. Premono appena sul suo posteriore, senza farle male, e con un guizzo sguscia via dalla presa per tornare nel torrente.


La terra trema.


-Rotolano.- fauci silvestri dicono candidamente.


Guarda indietro. Un vociare confuso arriva da lontano, lontano, oltre il prato ormai sgelato, oltre il grosso chalet da cui vengono i tuoni e i lampi del fabbro al lavoro, ma prima degli isolotti che portano al villaggio di roccia, attutito come fosse dentro la montagna. Sembrano schiamazzi da stadio.

Immagina il premio del vincitore: fosse un boccone prelibato, forse quella polvere fine, tanto preziosa, che vendono oltrepassato il monte.


C'è una grotta oltre il fiume, di fianco alla cascata. La parete è troppo ripida e liscia per arrampicarvisi.

Reclina la testa.

La fissa.

Chissà cosa c'è lassù.


-Hai mai visto il mare?


Si volta. Lo spiritello è in piedi.


-Hai mai visto il mare?- ripete la sua vocina di rame.


Scuote la testa.


-Andiamo a vederlo.- gambe di fuscelli decidono.


Sembrano aver gran fretta di andarsene.

Quelle falangi di dita scheletriche gli afferrano il gomito per tirarlo su a forza. Non si oppone, anzi: si abbandona completamente a braccia senza muscoli, lasciando che si carichino del peso di ossa e carne spessa come un mulo che tenta testardo di spostare con una catena il fondale di un lago. Lo ascolta con un sorriso sornione mentre uffa e sbuffa per smuoverlo, prima trascinandolo, poi spingendolo, con versetti sempre più frustrati – ha fretta, ha fretta, e non sembra starsi divertendo per niente, anzi, da come digrigna i denti e inumidisce le perle d'ambra, ognuna con un rotondo taglio nero di pupilla, nelle cavità del teschio ligneo.

Si lascia vincere: si stira verso il cielo al canto delle rane, e si lascia trainare dalle mani ansiose.


-Vieni,- insistono, -Vieni!


Guarda indietro. La grotta inaccessibile ha un silenzio particolare.


-È morto.- la vocina lo trafigge rapidissima.

E tira.


Cerca i suoi occhi, costernato, cerca una qualche spiegazione; ma la testa lignea è voltata verso la sua meta, nascondendo quella che sarebbe la sua faccia, nascondendo il perché della sua fretta così ansiosa, del suo panico improvviso, del suo desiderio di scappare.


-Vieni!


Il vento gelido preme sulla sua schiena nella forma di una mano.

Un soffio simile a una risata senza voce arriva al suo orecchio.



Il mare è... grande.

Non sarà una gran scoperta, ma è semplicemente così... così immenso.


C'è qualcosa di profondamente diverso tra guardare il lago e guardare il mare. Non lo capisce, ma lo sente.


Le onde si spiaggiano sulla sabbia, e corpuscoli d'oro falso, color della paglia, dopo innumerevoli tentativi trovano il modo di infilarsi nei suoi stivali.

Un altro paio di stivali è abbandonato vicino a lui.

Riesce solo a intravederlo – scorge per un momento piedi da bambola, di legno scarno senza alcun dettaglio – e poi splash, splash, e un gran baccano di schizzi! E la marea riporta il corpo di legno a riva.


La schiena ora bagnata si raddrizza tutta d'un colpo, e mentre tra gli scricchiolii si alza di nuovo si volta verso il volto incorniciato di biondo.


-Guarda!- gli dice come un bambino che chiami il genitore, -Guarda ora!


E le gambe ripartono, rimbalzano sul pelo dell'acqua con l'agilità di ciottoli lanciati, si sbilanciano quando affondano troppo e mandano la maschera senza faccia a schiantarsi sulle onde – che piano, piano, lo riportano indietro. Gorgoglia una risata nella bocca aguzza.


-Hai guardato?- gli chiede: ride ancora quando annuisce.


Palmi silvestri raccolgono un sorso: glielo offre, sperperandolo mentre salta per raggiungergli la bocca. Mani di carne formano una coppa per l'elisir tiepido del mare. Lo porta alle labbra – troppo tardi si accorge di come brucia su di esse, e paga cara la sua ingenuità. Un concerto di ridenti legnetti dispettosi si rotola nella sabbia dall'ilarità mentre cerca di togliersi il sale dalla bocca.

Gli riserva un'occhiataccia, di quelle con cui si fulminano bambini scapestrati, ma lo spiritello è già andato.


-Guarda!- ripete ridendo, -Guarda!- saltellando sulle onde finché non cade.


Lo porta via, l'acqua, su una piattaforma un poco lontana, e il corpicino fa capriole più o meno ben venute. Il largo cappello abbandona la testa tonda, sospinto dalla brezza marina ritorna sulla sabbia; lo afferra e se lo calca sulla testa (e da quando è grosso quasi sembra fatto apposta per lui).

Il teschio di legno si issa sulla piatta isola artificiale e gli soffia contro con un'ira giocosa; lui risponde mostrandogli la lingua. È una lotta senza conflitto.

Il piccolo salta indietro, nell'acqua.


Un'ombra lascia la curiosa palafitta dietro la piattaforma.


Si alza di scatto.


Per un momento, tutto è quieto.


-Hylià?


Non ha neppure visto gli schizzi dell'acqua con il sollevarsi della testa.

Ha gli occhi tanto scuri da apparire neri, le iridi così grandi da non lasciare spazio alla sclera – per un istante solo riconosce le pupille, due spilli minuscoli.


-Hylià?- chiede ancora, mostrando i denti aguzzi da far paura. La sottile cresta semi trasparente sulla sua testa si spiega leggermente.


Annuisce molto lentamente.

Lo Zora (non assomiglia per niente a quelli che conosce se non per dettagli inconfondibili) salta fuori dal mare senza creare neanche un'increspatura; in un secondo gli è davanti. Allunga verso di lui le lunghe mani semi palmate con cui afferra i suoi polsi con entusiasmo, raggi di luce riflessi in grosse forme azzurrine nelle iridi.


-Vedo!- quasi grida con un accento un po' goffo, -Bello, bellissimo – vederti, conoscere, sì? Conoscere dici, sì? Capisci, sì? Non parlo bene...


Gli stringe la mano e la scuote, assolutamente meravigliato, ammaliato, rapito da lui, con un sorriso che va da pinna a pinna (le scaglie della sua mano sono tiepide e umide e lisce, quasi soffici, e sente il viso bruciare come se il sole avesse concentrato tutto il suo calore solo su di lui, e all'improvviso pensa a quanto debba sembrare ridicolo, con un cappello da strega in testa e una tunica sporca sotto una panciera ancora più lurida e una faccia da idiota, e le fiamme si alzano a lambirgli le guance ancora di più) e intontito non può che annuire e annuire con piccoli scatti della testa.


-Ricordi me, sì? Ricordi – ah, no, era... era piccolo piccolo, sì?, piccolo, era...- molla la presa (cerca di farsi riprendere i polsi, ma si blocca, imbarazzato) per modellare una sfera nell'aria, -Novu? Novu, capisci, sì? Piccolo, tondo... capisci, sì? Parola, non so, parola Hylià, non la so... Novu, capisci, sì?


Uovo? Intende uovo?

Annuisce.


-Capisci, sì! Novu, era, sì?, e baba, mio baba, ricordi, sì?, aiuti baba, ricordi, sì? E fai, fai, fai... fai – aspetti, aspetti, parola, parola, quale...


Suo padre?


-Sapelckere!- esclama, -Sapelckere, capisci, sì? Aiuti baba, prendi me e fratelli, sì?, e poi, poi – ricordi, sì? Aiuti, e dopo, quando baba passa, sì?, fai sapelckere, ricordi, sì? Per baba?


È perso.

Completamente perso.

Cerca qualcosa nella viso azzurro, qualcosa che non trova, e si irrigidisce come se gli stesse venendo addosso un toro. Scuote la testa appena; gli occhi scuri si spalancano sorpresi. Per un attimo teme di sprofondare al loro interno.


-Sapelckere,- ripete, e gli prende la mano (è soffice soffice soffice oh Dee è così soffice e calda e bella e lunga oh Dee) e punta con un dito più in là, in un affranto della spiaggia, -Non ricordi? Non ricordi – aiuti baba, non ricordi?


Non lo tira, lo invita: per un attimo guarda indietro, cerca tra le onde un corpo grigio e beige.

La lapide è fatta di pietra e legno. Per un momento pensa sia la lisca di un pesce grosso quanto lui.

Lunghe dita squamate passano sulle costole grigie.


-Tu fai con la chitarra di baba,- prova a spiegare, -Ricordi, sì? Porti a vava chitarra, quando tutto finisce, sì? Per ricordo. E con chitarra fai sapelckere.


Non ricorda.

Perché non lo ha fatto.


La mano che tiene ancora la sua è tiepida e umida e soffice e gli ruba le parole.


-Ricordi, sì?


Boccheggia, annaspa, affoga; alza gli occhi azzurri, colpevole.

Occhi senza sopracciglia si aggrottano rattristati (lo sente come un pugno in pancia), ma si distendono subito: raccoglie nel palmo libero la guancia (soffice umido tiepido squame lisce e brucia brucia brucia la faccia), la tira appena col pollice, la testa sotto i polpastrelli – pupille in mari neri si allargano.

Si volta sulla tomba del padre e dalla bocca esce una qualche esclamazione Zora che suona volgarmente colloquiale. Quando rivolge lo sguardo sul viso rosato ha un sorriso mortificato.


-Colpa mia! Colpa mia, non ricordi, non tu!- si scusa, tenendogli le mani strette per consolarlo, -Non tu – dimentico, non Zora – se aiuti baba quando io era novu, ora vecchio sei! Non tu – perdono, perdono, sbaglio, non vedo Hylià mai – capisci, sì?...


Ride e scuote la testa, facendo ondeggiare la cresta che cade sul lato del viso.


-Perdono, perdono, non tu, io, come dici – scemo! Scemo sono!


Ha una risata che ricorda un mulinello.

Ha un bel suono.

Gli occhi lo scrutano curiosi; sente il viso cuocersi sotto il suo sguardo.


-Ma somigli, sì?- gli dice, -Vava dice come era, e tu come lui sei, come riflesso! Capelli giallo, occhi blu, vestito verde... come riflesso!


Ride ancora un poco, e si scusa ancora. Gli stringe la mano per fargli capire che non è niente: ha un sussulto simile a un piccolo infarto quando gli viene stretta di rimando.


Unghie scavano nella sua gamba.


Lo sguardo magnetico dello Zora blocca ossa di legno zuppe di sale mentre stanno per trascinarlo via a forza. La cresta pende curiosa dalla testa reclinata; sfere d'ambra la fissano, attraversate da brividi.


-Ciao!- dice semplicemente lo Zora.


Da fauci ugualmente aguzze viene un mugugno.


-Amico?- chiede a occhi azzurri.

-Ghe.- risponde per loro una voce appena udibile.

Lo Zora si stupisce.

-Termìni, de?


Una mano di legno si stacca appena dal polpaccio: ondeggia a mezz'aria, per dire: un po' entrambi, un po' nessuno.


-Si macara pulra de. Se fade se?

Non risponde.

Lo Zora ride appena: -Timade, de. Nade?

-Galiga.

-Galighe?

-Vema.- e tirandoli entrambi via dalla lapide prende la rincorsa verso l'acqua: non tenta neanche di prendere terreno, rimbalza solo sulla superficie. Galleggia perfettamente, aperto come una stella.


-Ma ve?- chiede tornato a riva.

-Se va!- ride lo Zora senza malizia.


Qualcosa si rischiara, si illumina, nel volto coperto da un teschio cornuto.



La sera arriva troppo in fretta: le spalle bruciano e si spellano, e arti di legno sono pregni di odore salmastro.


-Per il Carnevale sei qui, sì?- chiedono occhi senza fondo affondati nell'acqua della baia, mentre cerca di scuotersi la sabbia di dosso.


Possiamo andare al Carnevale, aveva sussurrato lo spiritello.

Te lo avevo promesso, aveva ricordato nessuno.

Annuisce.
 

-Hai macara?- la mano palmata si muove come a coprire il viso.

Scuote il capo.


-Ah! Brutta fortuna, a Carnevale senza macara.- commenta lo Zora. Un'idea gli fa alzare la cresta: -Prendo io per te, sì? E do domani di domani, a Carnevale. Vava canta a bar, a Laikmieta – città là, sì? - a Carnevale. Vedi me lì, sì? Se non trovi da solo, do macara io. Se trovi... do uguale. Ricordo mio, sì?

I denti aguzzi brillano di luce morente in un sorriso. Un altro sussulto al petto.

Annuisce timidamente.

Stringe la mano liscia e squamata: l'appuntamento è suggellato.


È notte quando tornano in città.

Non c'è nessuno; la guardia ha un sobbalzo quando li vede avvicinare, ma non si scompone. Fa un cenno col capo. Lo stridio del metallo è attutito dalla totale assenza di altri rumori. Il crepitio delle fiaccole non si sente nemmeno.

Passano attraverso il parco giochi deserto, superano una banca incavata nella torre dell'orologio. La manina lo tira, lo tira, lo tira, fino a sopra una tettoia di legno davanti una pensione, un albergo. Fanno attenzione a non spingere la campana: entrano dalla porta del balcone.

Lo tira, lo tira, lo tira per scendere le scale senza farle scricchiolare, per entrare in un cunicolo usato solo dai dipendenti. Si acquattano contro il muro quando piccoli tacchi danno un ultimo giro di chiavi e salgono, sonnolenti, verso la loro camera; scappano nella cucina quando i passi scompaiono dietro una porta.


C'è ancora qualcuno.


Alza la testa quando li sente arrivare: la volta completamente, per permettere all'unico sano dei due occhi rosso rubino di vederli. Un vago sorriso increspa il pallido volto rugoso.


-È un po' tardi.- dice soltanto. Parla un hyliano un po' vecchio, ma pulito.


La brodaglia nella larga padella non bolle; ravviva appena il fuoco, sovrappensiero, senza crucciarsi degli intrusi.


-Mia nipote dorme un po' troppo profondamente...- continua, -Se usciste alle sette e mezza, non saprebbe neanche che siete stati qui.


Si volge di nuovo verso i due estranei. Abbassa lo sguardo; sorride alla bambola pietrificata, con la manina terrorizzata che stritola dolorosamente un palmo molto più grande.


-Che bella maschera,- commenta.

Non ottiene risposta.


Si appoggia ai suppellettili mentre cerca di uscire dalla cucina. Braccia giovani, di riflesso, vanno a sostenere i suoi passi futuri: ringrazia a bassa voce.

Dita silvestri tirano per scappare.


-Non temere,- rassicura quella voce tanto vecchia, tanto familiare, -Il tuo papà torna tra un momento.


Districa le falangi rosa da quelle cineree. Occhi d'ambra lo fissano claudicare lento, lento, alla porta della camera affianco.

Un dito nodoso bussa. Nessuna risposta. Apre.

Lo accompagna fino al letto; lo aiuta a distendersi, a riprendere fiato.

Ravviva appena il fuoco del camino.


-Grazie ancora...- ansima appena il vecchio. Tra i capelli bianchi ne spiccano ancora alcuni blu, forse violacei.


Gli rivolge uno sguardo strano. Nostalgico.


-Tuo padre, sai...


Si blocca. Ascolta.


-Era solo un bambino... Anni fa, quando stavo per sposarmi... Mi dispiace solo non ci fosse stato... Al nostro matrimonio. Un bravo ragazzo... Dev'essere nel sangue... E ora, dev'essere un vecchietto come me!...- ridacchia appena.

Un colpo di tosse.

Inala profondamente, dalla bocca, come un rantolo concitato: -Non dirglielo... Non dirgli che l'ho riconosciuto, il piccolo... Ha fatto un grosso guaio, tanti grossi guai... Ma era solo un bambino... Era solo un bambino solo. Non ho la forza di odiarlo. È solo un bambino...


Allunga una mano verso il comodino. Abbandona il focolare per precederlo: gli offre la foto su di esso. Lo ringrazia piano.

Guarda la donna nella foto. Le appoggia sopra un bacio.

La adagia di fianco a sé, sul cuscino.


-Grazie ancora.- sussurra.


Il vecchio dli augura la buonanotte; la augura anche alla sua sposa.

Lui chiude la porta piano per non disturbargli il sonno.


Occhi d'ambra lo aspettano davanti alla cucina. Stringono le mani di legno in pugni come se dovessero spezzare le loro stesse ossa.


Il fuoco fornello crepita appena, e qualche pesce nuota nel canaletto.

Lo spiritello gli si acciambella sul petto.

Si addormentano piano.

   
 
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