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Autore: Merry brandybuck    28/02/2021    0 recensioni
Aragorn è salito al trono da pochi mesi e già si ritrova a combattere una battaglia contro degli orchi che non accettano la caduta di Sauron : per questo scontro il re si ritroverà a chiedere aiuto ai suoi amici fidati e a dover portare alla luce un membro della sua famiglia che è rimasto oscurato per anni.
Come continuerà l’esistenza sua e del regno dopo questo incontro ?
Personaggi: nuovo personaggio/ Aragorn/ Legolas/compagnia dell’anello/ un po’ tutti
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aragorn, Legolas, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 7: Ti ricordi di me, snaga ?

 

L’esercito stava iniziando a muoversi quando la ragazza giunse a destinazione; Legolas era già in testa alle truppe, Gimli lo seguiva a ruota, mentre il Sire elfico stava portando avanti gli altri soldati sul lato orientale della valle: infatti il comandante e suo padre avrebbero attuato la parte più complessa del piano, ovvero salire sulle montagne che circondavano tutto lo spiazzo di terra e attaccare il nemico di sorpresa ferendolo gravemente sulle retrovie, nel frattempo che i restanti capi avrebbero rischiato la pelle colpendolo frontalmente e facendo da diversivo. Aralis aveva ricevuto questo compito perché era stata addestrata sin dalla tenera età a combattere in ambienti ostili, come ad esempio sui ponti di barche, sugli alberi o sulle alte cime rocciose; fin da quando era bambina, aveva amato con tutto il suo cuore i combattimenti con la falce, la spada ( anche se odiava pensare ad Andúril, la daga di suo fratello) oppure gli allenamenti estremi come scalare quasi allo sfinimento e poi forgiare il proprio spirito buttandosi nelle correnti ghiacciate. Il principe elfico invece aveva deciso di seguire il suo migliore amico anche in caso di morte ed era stato irremovibile sulla scelta di combattere faccia a faccia con l'invasore: una scelta stupida e avventata, a detta del suo stesso genitore; il nano gli era rimasto vicino, essendo loro diventati molto uniti dopo il viaggio con la compagnia dell’Anello, e anche lui si era dimostrato impavido nella sua deliberazione di restare a guidare tutti coloro che avrebbero provocato la morte per spada e non per infamia “ Gli eredi di Durin sono uomini e donne d’onore, si assumono l’onere degli ordini che danno e non si macchiano di sangue ottenuto grazie a degli atti così deprecabili e detestabili” aveva dichiarato e sostenuto lui fino alla mattina prima della discesa in campo. Mentre Merry e Pipino avrebbero partecipato attivamente ai combattimenti, Frodo e Sam avrebbero comandato gli ultimi ed, eventualmente, la ritirata; se avessero perso anche questa battaglia non avrebbero più avuto forze militari da mandare in campo e avrebbero solo potuto sperare di riuscire ad organizzare una resistenza in tempo, prima che gli avversari prendessero la capitale dei Gondoriani: il fallimento non era più un’opzione contemplabile. Tutti i soldati si erano smistati nei gruppi a loro assegnati, tentando di fare meno rumore possibile per non “ svegliare il can che dorme”, e adesso erano pronti e operativi; i comandanti stavano apportando le ultimissime modifiche, ma erano pronti anch’essi: Efneviel si diresse un ultima volta da suo fratello maggiore. “ Vedi di non farti ammazzare, mi raccomando” le disse lui, stringendole la mano avvolta nelle bende “ Ci hanno già provato e gli è andata male; questa volta tocca a me prendermi la rivincita” “ Sai che ti aiuteremo ad ogni costo” “ Non dovresti metterti contro di me perché se lo facessi ti inimicheresti la mia famiglia” dice il detto, e so che gli elfi sono particolarmente ligi ai proverbi: abbi riguardo anche di te, Verdefoglia” sentenziò lei e poi si mise in marcia verso le pareti rocciose; odiava gli addii troppo lunghi, le davano rogna: l’ultima volta che ne aveva fatto uno era finita in carneficina. Lei e i suoi commilitoni si avviarono con passo cadenzato in direzione dei monti; in qualche minuto voltarono l’angolo per uscire dal campo e furono nascosti alla vista: il barbuto dovette battere un paio di volte la mano sul fianco del compare, perché questo si svegliasse dal suo stato di torpore, con le pallide labbra strette in una smorfia che esprimeva resilienza e i denti serrati. Benché non fosse la prima volta che la sua sorellina lo mollava lì col cerino in mano, ancora adesso si sentiva tanto amaro in bocca da poterlo masticare; prese il suo arco, la faretra e partì con Gimli alla volta della testa delle truppe. I soldati si mossero tutti uniti come un'ombra grigia dai riflessi argentei, gli scudi e le spade tintinnarono, cozzando le une contro le altre, i corni diedero un ultimo segnale e i cavalli galopparono in direzione dell’enorme spiazzo: la grande fatica ebbe finalmente il suo inizio, in tutta la sua raccapricciante bellezza.

***

Sire Thranduil conduceva il suo destriero per la cavezza, seguito dagli altri combattenti: quei sentierini, che i loro antenati avevano tracciato con le loro orme e col sudore della fronte, erano così stretti che ci si riusciva a passare solamente in fila indiana e i suoi seguaci erano costretti ad avanzare con un’andatura più lenta “ Che fatica ! Avrei preferito sinceramente essere in primissima linea a guardare le palle degli occhi di quegli orchetti, figli di cagna maledetta, piuttosto che stare qua ad annaspare nella fanga che arriva fino al collo !” uno sbuffo lasciò le labbra dell’elfo; gli stava bene il pensiero che era un evento alquanto tremendo andare in guerra, anche se continuare con questi piagnistei rendeva la cosa ancora più estenuante: lui era della sua Razza, con le sue forme sinuose ed aggraziate, che gli consentivano di muoversi agilmente ovunque, anche sulle vette innevate del Caradhras, e di non stancarsi sui pendii, ma anche un semplice Umano avrebbe potuto stare al passo di marcia su quelle strade ( anche perché altro modo di salire sui monti non c’era). Continuavano a camminare in mezzo alle sterpaglie, senza emettere un fiato, mentre esso si condensava in nuvolette di vapore e l’alba diveniva sempre più viola; la mente del regnante era obnubilata dai ricordi:

“ … I corridoi erano stranamente silenziosi quella mattina, fuori c’era la nebbia e lui si sentiva strano: un'inquietante sensazione gli gravava sulle spalle, ma non era certo che fosse importante; oggi avrebbe dovuto passare un po’ di tempo con i suoi figli Legolas, Tauriel ed Aralis. La “ piccolina” era rimasta scossa dopo l’ultimo scontro che avevano avuto con quelle creature di Melkor: era tornata alla magione con le pupille di fuoco, quasi fossero quelle di Sauron, e aveva iniziato a chiedere cose strane a cena, come ad esempio moltissime Lembas o della carne secca del tipo che si usava durante i lunghi viaggi; la sera prima aveva chiesto commiato molto presto e poi non si era più fatta vedere. I passi del Sire risuonarono contro la pavimentazione e poi si fermarono davanti alla porta della ragazza; la aprì lentamente e il panico gli prese il cervello: non era lì ! Corse verso l’uscita più vicina, la terrazza, e un secondo spettacolo terrificante era pronto ad attenderlo: il suo primogenito si stava sporgendo dalla balaustra mentre la ramata urlava il nome della sorellina al vuoto plumbeo che le stava davanti; i loro volti sconvolti erano autoesplicativi ma era sempre bene chiedere per essere sicuri: “ Che accade miei adorati ? Cosa vi turba ?” Le guance rigate dalle lacrime dei giovani si contrassero in un sorriso forzato e la donna riuscì a rispondere: “ Continuava a parlare del Giuramento che disse tempo fa, voleva rispettare la sua promessa e lo ha fatto: se n'è andata…” le loro menti erano accorate e torturate dalla cupa idea che non sarebbe certamente tornata a bussare all'uscio, chiedendo cosa c’era per pranzo: non credevano di rivederla trotterellare sul viale, bensì pensavano che l’avrebbero riportata avvolta in un lenzuolo, spogliata dalle armi e dall’onore che tanto millantava…”

Il suo cuore era quasi scoppiato dalla gioia, quando aveva incrociato il suo sguardo nella sala del trono: era davanti a lui, ancora in piedi, cogli stivali indosso e il suo solito sorrisetto da peste; non si capacitava ancora di come fosse riuscita a sopravvivere per quel lunghissimo periodo che sono dieci anni, ma l’importante era il risultato finale. Una giovane bella, intelligente, dal cipiglio fiero e orgoglioso, come ogni Thranduillion che si rispetti doveva essere; aveva fatto successo dove molti avrebbero fallito e non aveva mai, nemmeno per sbaglio, pronunciato il nome di suo fratello nel tentativo di ottenere qualcosa: anche se ogni tanto mostrava quanto il soprannome che le aveva dato Elrond fosse azzeccato, era una figlia di cui non si può che andar fieri. La sua piccola fogliolina, invece, si era dimostrato molto maturo e intraprendente nell’andare a combattere con la Compagnia dell’Anello, dimostrando il suo eroismo, ma avrebbe potuto evitargli molti principi di malore e rischi di morir di crepacuore semplicemente avvisando; comunque rimaneva il suo bimbetto da accudire, non riusciva a rimproverarlo più di tanto: in realtà, sin da quando la sua sposa Nuniél e madre del pargolo era venuta a mancare, lui era divenuto inerte nei confronti del comportamento del, all’epoca, ragazzino. Adesso gli sembrava di poter finalmente essere libero concedersi qualche piacere che in giovinezza gli era stato strappato da qualche dolore di sorta: avrebbe avuto il suo erede a regnare al suo posto e tutto sarebbe stato quasi perfetto; forse avrebbe avuto anche la possibilità di partire per il Reame beato di Valinor e di lasciare Arda per un’esistenza serena e spensierata. Anche l’aiuto di Tauriel sarebbe stato prezioso; lei era esempio di ogni virtù per il popolo che doveva condurre, anche se aveva un unica pecca: aveva trovato l’amore in un covo di zozzi nani. Lui aveva insistito fino alla nausea per farle cambiare opinione su quegli avidi infami, ma aveva potuto constatare che era testarda come un mulo; sia lui che Thorin si erano barcamenati per mesi ad organizzare un matrimonio che potesse far collimare i gusti di tutti e alla fin fine ce l’avevano fatta: era venuta su una roba un po’ bizzarra, ma sia gli sposi che gli invitati erano risultati abbastanza soddisfatti. Pensare a quelle cose in un momento simile faceva sentire il Sovrano molto stupido, ma aveva ancora circa mezz’ora per fare pensieri da papà preoccupato: dovevano aspettare che anche l’altro gruppo arrivasse ai punti prestabiliti per poi discendere sul pianoro; nel caso non fossero stati perfettamente coordinati il nemico sarebbe potuto scappare dalla risacca e addio possibilità di vittoria per l’esercito dell’impero. Non se lo potevano permettere, se volevano mantenere gli stessi confini ed evitare che nel loro reame entrassero quelle usanze che da sempre ogni essere con una coscienza non corrotta dal male aborriva; adesso dovevano rimanere pronti e concentrati per non perdere di vista l'obiettivo finale: abbattere tutte quelle orde di bestie spregevoli e distruggere la loro civiltà. Nel frattempo che pensava a queste cose, lui e i suoi uomini avevano scorto le vecchie rovine del posto in cui avrebbero atteso l’avanzata: un Acnomba. Un tempo erano delle torrette di vedetta, create sotto l’ordine di Tar-Minastir durante la costruzione della cittadina di Umbar; servivano per controllare Morgoth da punti nascosti dalla vegetazione ed erano fatte appositamente per non poter essere vedute da lontano o essere incendiate: erano state costruite con pietre accatastate e un collante ignifugo sviluppato nelle prime ere, nel Beleriand e la cui ricetta era andata perduta in un incendio appiccato negli anni del regno di Tar-Ciryatan che aveva preso tutta la grande biblioteca delle terre dell’Ovest. Queste torri erano state molto utili per il loro scopo fino a che i confini di Gondor non sono indietreggiati e queste non furono abbandonate; adesso ne rimanevano solamente i ruderi, a cui erano state ridotte dalle intemperie. I presenti si misero comodi sul basamento e i capitani di brigata si arrampicarono sugli alberi per guardare i monti che stavano dirimpetto loro, attraverso un buco tra i rami rinsecchiti: sapevano che quando l’altra compagnia sarebbe giunta avrebbe acceso un fuoco di segnalazione e poi si sarebbe scesi in campo quando i fumi generatisi avrebbero raggiunto la cima della montagna. I minuti scorrevano lenti e inesorabili e nel frattempo che attendevano, i soldati stavano iniziando a confabulare con aria sempre più angosciata sul fatto che le avvisaglie tardavano ad arrivare: era possibile che fosse successo qualcosa ? 

***

Aralis stava per mettersi a imprecare in curdo: il versante roccioso era particolarmente friabile, nonché abbastanza ripido, e coi suoi sottoposti continuavano a scivolare in quel pantano maledetto; non le era stato detto che una frana aveva rivoltato come una calza tutta la boscaglia ed era praticamente impossibile ritrovare i punti di riferimento per arrivare alla costruzione. Erano tutti sudati, stremati e oltremodo demoralizzati dal fatto di non poter avere il controllo della situazione; le loro armature stavano peggiorando certamente le cose: erano veramente pesanti e trascinavano i combattenti verso il basso, limitandone l’abilità di movimento e la velocità. Sembrava che non ci fosse una luce in fondo al tunnel, perché se già prima della battaglia tutto ciò sembrava così tragico pensare a dopo avrebbe solamente fatto abbassare il morale delle truppe fino a farlo arrivare sotto i tacchi; non bisognava comunque mollare, dovevano tenere i denti stretti e arrivare al punto in cui il sentiero non era stato distrutto dallo scivolamento della parete: si inerpicavano sui massi calcarei, col vento che iniziava a soffiare impetuosamente costringendoli a socchiudere gli occhi, tentando di non andare fuori tempo e giungere il prima possibile. Tutt’a un tratto qualcosa distolse il comandante dalla fatica che provava nel fare da guida in un ambiente ostile e terrificante: uno dei suoi compagni la stava richiamando; lei si avvicinò. “ Cosa c’è, Nân ?” chiese asciugandosi il volto sporco col dorso di una mano; l’uomo le fece un sorriso che sembrava ancora più luminoso dal sollievo sulla faccia lurida “ Guardi là, mio superiore” disse, indicando una sporgenza col dito indice: c’era una roccia molto più in quota, sopra il quale si riusciva a scorgere un cammino di terra battuta attorniato da flora rinsecchita: i commilitoni si riebbero improvvisamente e una vita rinnovata si rimise a fluire nelle loro vene. Ricominciarono a salire con nuova lena e riuscirono ad arrivare alla strada; si issarono fino al livello della pista e poi continuarono la marcia con le ali ai piedi: nemmeno il fiato corto poteva infilarsi tra loro e la vittoria. La loro folle corsa si arrestò solo quando videro la loro meta; l’infrastruttura si ergeva davanti a loro e non avevano più tempo da perdere: si affrettarono a raccogliere ed accatastare il legname, mentre alcuni si indaffaravano a tirar fuori le sacche contenenti l’olio di lino, usato per facilitare la combustione. Allestirono il tutto in pochissimi minuti e presero a sfregare dei sassi per far scattare la scintilla: una piccola fiammella fu ciò che fece divampare il fuoco che rese tale il falò. Osservando la montagna di fronte alla propria il messaggio sembrava essere stato recepito a pieno e ciò significava che dovevano muoversi alla svelta: l’avanzata era agli inizi… 

***

Il Re elfico si prese un colpo: le fumare si erano levate dalle marmaglie ingrigite. Lui e i suoi praticamente cascarono giù dagli alberi su cui erano appostati; frettolosamente si misero a cavallo, raccattando le proprie cose e discendendo il dirupo. Thranduil si voltò un’ultima volta a guardare verso la cima; si fermò un attimo e, in un momento di pazzia, un pensiero gli attraversò la mente: chissà se quelle alte vette avrebbero potuto vedere della neve intonsa, pulita dal sangue che la macchiava… 

***

L’aria si stava alzando; gli stendardi sventolavano nel vento alle sue spalle e tutto sembrava immobile. Aragorn prese un respiro profondo e riaprì le palpebre: l’altro campo era ancora dormiente, perfetto, e il silenzio regnava sovrano; non si poteva chiedere di meglio. Tutti schierati, i combattenti aspettavano solamente il suo segnale per attaccare, armati di tutta la loro irruenza e bramosia di vendetta malcelata; chi li biasimava evidentemente era cieco: avevano la necessità di sopravvivere, se non per l’impero per le loro famiglie. Molti di loro erano contadini ed erano stati richiamati nell’esercito solo in via del tutto eccezionale, per caso di forza maggiore, e avevano avuto solamente una leggera infarinatura delle tecniche per uscire vivi da uno scontro di tali proporzioni; era sua responsabilità fare in modo che a pagare le conseguenze della battaglia definitiva fossero pochi tra essi, quelli la cui anima sarebbe stata richiamata nelle aule di Mandos: lui doveva riportarne a casa il più possibile. Alzò lentamente la lama scintillante sopra la testa, anche se questo lo lasciava scoperto: se avesse dovuto morire lo avrebbe fatto in modo molto teatrale. Il Greenleaf incoccò due frecce con l’arco e la corda tesi oltre misura, mentre Gimli osservava il filo della sua ascia e prendeva le misure; tutto era pronto, mancava solo l’unica cosa che andava fatta, volenti o nolenti: attaccare. Un ultimo fiato gli uscì dalle labbra e gli fece capire che il momento propizio era arrivato: tirò su la mano, come a toccare il cielo. Fu qualcosa di più simile al finimondo: i soldati correvano con le spade e le daghe levate, chiudendosi negli scudi e urlando, creando una visione agghiacciante per chiunque avesse la possibilità di assistere; intanto i nemici si erano accorti della loro presenza e stavano raccapezzandosi per contrattaccare. Troppo tardi, pensò il re: in pochi secondi distrussero le prime linee, investendo quelle bestie immonde e trafiggendole con una violenza inaudita; le teste volavano, gli arti venivano trinciati, i gridi riempivano l’aria come fossero dei vapori malefici e il dolore tagliava in due gli animi. La furia si scatenava tra i fiotti di sangue e gli ossi spezzati, meraviglia, nel suo modo di generare il terrore; quegli infami provavano a riaggregarsi ma venivano colpiti da troppe direzioni per poter prestare attenzione ad altro. Sentendo lo scalpitio di un certo numero di equini, molti poterono capirono che un’altra sorpresina era corsa in loro aiuto: dal lato destro dei monti venne giù l’intera compagnia guidata dall’Elfo e sfondò il fianco della massa plumbea, seguito subito dopo dal gruppo del comandante in capo sulla sinistra; gli occhi appallati e le facce una via di mezzo tra l’intontito e l’atterrito erano un’immensa soddisfazione. Come avrebbero detto le persone semplici, li stavano riempiendo di mazzate fino a levargli il respiro ed era una cosa positiva; le voci erano stridenti esprimevano tutto il male che ricevevano e inveivano contro di loro con maledizioni che suonavano, oramai, ridicole: avevano perso ogni tipo di potere. O forse no. Dalle retrovie apparvero delle figure di dimensioni mastodontiche: delle mostruosità orripilanti s’avvicinavano a gran velocità; erano piene di porri e bitorzoli, con la muscolatura prorompente ed innaturale, le dita ornate d’unghioni lerci, la pelle coriacea e coperta da uno stopposo vello scuro come la pece. Gli occhi erano come di bragia, incattiviti e furenti, mentre dalle loro bocche sbucavano delle zanne affilate e un alito fetido; sopra le loro schiene, vi erano delle selle in cuoio su cui stavano dei fantini che portavano il caos: avevano delle lunghe pertiche di metallo di riciclo, con cui percuotevano quelli che provavano a contrastarli e si aprivano dei varchi verso il fronte opposto. Insieme a loro erano arrivate anche delle truppe composte da soldati che sembravano pressoché umani, sia per l’altezza che per la fisionomia; il problema era il loro numero: saranno stati circa un migliaio senza contare anche gli innumerevoli orchetti che si erano mischiati a loro per dare un ausilio e così avevano ottenuto una quantità tale di combattenti che, se anche non fossero stati tutti forti ed abili, avrebbero vinto comunque. L’angoscia prese tutti; il Re Elessar si gettò nella mischia, colpendo qualunque cosa gli capitasse a tiro: doveva generare scompiglio. Intanto Legolas si attaccava al pelo degli animali e accoltellava i guidatori; fermare gli esseri era invece più difficile: per arrestare un Olifante bastava conficcargli un paio di frecce nella nuca, ma questi roiti dovevano essere praticamente fracassati dall’interno con un’arma pesante. In questo gli era venuto in soccorso Gimli: il biondo levava di torno i soldati e il barbuto abbatteva la propria scure su più punti della spina dorsale di quegli obbrobri, così che a questi ultimi cedessero le zampe e cascassero in terra; quando si schiantavano al suolo, spalancavano le fauci ed emettevano dei gemiti strozzati prima di spirare. I, forse, umani venuti da Mordor erano straordinariamente resistenti: se ricevevano delle botte abbastanza potenti da rompergli le ossa, continuavano ad andare avanti, imperterriti, anche se spesso erano costretti a stringersi gli arti per rallentare il dissanguamento; infine, morivano accasciandosi ed ululando delle parole in un dialetto della Lingua Nera. Quello che inquietava gli unici due hobbit sul campo di battaglia era che il sangue di tutti i feriti, meno che degli orchetti e delle bestie di Melkor, fosse esattamente uguale al loro, rosso vermiglio: le altre creature perdevano un liquido acido, corrosivo, nero e ribollente, con un odore ripugnante che faceva venire il voltastomaco ed era ben diverso da quello perso dagli altri provenienti dalla terra maledetta; non si capacitavano di come dei Gondoriani si fossero potuti unire all’Oscuro Signore e farsi uccidere tra le sue schiere. Nel frattempo Aralis era sempre più convinta che ci fosse qualcosa di strano: uno dei nemici invece di darle una bastonata per stordirla, aveva provato ad aggrapparsi al suo mantello e a dirle qualcosa; non gli aveva fatto caso all’inizio e si era difesa da altri esseri che la stavano attaccando, ma poi aveva notato che questo la seguiva e tentava di agevolarla. Pericolosa stranezza che, però, passava in secondo piano al momento; gli eserciti liberi stavano prendendosi una bella batosta: con l'arrivo dei supporti per i nemici, le loro forze schierate avevano provato a ripiegare un poco e poi, vedendo che ciò non era possibile, avevano tentato di proteggere almeno gli organi di comando. Quella manovra stava riuscendo molto bene perché gli altri avevano perso le armi pesanti durante l’ultimo scontro a cui aveva partecipato Gandalf e non avevano modo di far breccia se non con le uniche braccia: almeno qualcosa non andava storto in tutta sta’ situazione, si disse la giovine; ma la baraonda continuava e lei si sarebbe battuta, andando fino in fondo a ciò che aveva iniziato. 

 

Erano lì da circa otto ore; il sole aveva fatto quasi tutto il suo giro completo e adesso stava tramontando, toccando tutta la landa con i suoi raggi rossastri. Era uno spettacolo meraviglioso a confronto dello schifo che vi era in terra; la battaglia stava via via scemando, ma nessuno poteva ancora dire di aver vinto o cosa e soprattutto aveva logorato del tutto gli eserciti: vi erano dei gruppi di soldati che stavano lottando ed erano esausti, il suolo interamente coperto di cadaveri e intriso di sangue in alcuni punti divenuto viscoso, arti senza padrone, teste mozzate di netto, armi spezzate e scudi infranti, gente che provava a nascondersi e moribondi che urlavano dal male prima di cascare tra le braccia della morte. Non c’era modo di molcere il loro dolore se non sperare che questi crepassero in fretta, senza troppe sofferenze, e resistere in loro memoria: Gondor non doveva cadere. Adesso che il casino era diminuito, le tre Morti dell’Ovest cercavano i punti di riferimento per finire una volta per tutte i nemici; Aragorn era sempre più guardingo e quando vide un piccolo manipolo di troll che circondava un punto preciso comprese: bingo, aveva trovato un capoclan e la sua scorta personale. Aveva prontamente richiamato la sorella ed il principe; la ragazza li aveva implorati di poter avere lei l’onore di farlo fuori ed essi avevano acconsentito: era legata da un giuramento e non avrebbe fatto male a nessuno darle questa goduria. La risacca si era aperta e se non volevano che l’essere immondo scappasse dovevano fermarlo e affrontarlo nel piccolo piano sopraelevato dove si trovava; avevano messo su una strategia su due piedi e se avesse funzionato sarebbe stato per la maggior parte frutto di una fortuna sfacciata: tutti e tre avrebbero percorso la distanza che li separava dall’obiettivo, poi Estel sarebbe rimasto in testa alle truppe mentre gli altri due avrebbero neutralizzato l’unico nemico sufficientemente importante per essere preso in considerazione. Legolas e Efneviel si misero a correre nella direzione prestabilita, schivando le frecce e le spade che minacciavano di ferirli gravemente; continuavano a saltare da un punto all’altro, facendo il possibile e il non per evitare di pestare i corpi accasciati al suolo e per non martoriarli: in qualche modo riuscirono ad arrivare in tempo, prima che il sole fosse sceso del tutto, senza che il loro fiato andasse perso del tutto e che i loro muscoli si strappassero. Sopra un piccolo cumulo di rocce calcaree stava un’orrenda creatura umida dalla testa ai piedi, scompigliata, lercia, col viso incrostato, i “ capelli” unti e lo sguardo di chi probabilmente non ha né un’anima né una coscienza; portava un’armatura evidentemente già usata da qualcun altro in precedenza e aveva un’arma a lama lunga: era ignaro di un loro possibile attacco, eccellente. I due giovani si inerpicarono su per il pendio cercando di non farsi scoprire subito; quando giunsero vicini alla cima, la giovine prese delicatamente la falce tra le dita e la fece scivolare fino a che non toccò il bordo di un masso con il manico: un’occhiata d’intesa era il segnale e saltarono sopra il piccolo cordolo. Atterrarono in piedi ed erano già in posizione prima che l’altro avesse il tempo di dire bah: solo la sua faccia instupidita era una gioia al pensiero; comunque il tempo di reazione fu brevissimo e loro dovettero buttarsi di lato per non essere centrati in pieno da un manrovescio. L’elfo prese ad uccidere la scorta con una velocità impressionante e la giovane isolò il nemico; la tensione era palpabile e le braccia di lei tremavano mentre guardava il suo avversario “ Ti ricordi di me, Snaga ?” sussurrò ella “ Tu sei un miraggio !” una voce stridula le giunse ai padiglioni auricolari “ Ti avrebbe fatto comodo fossi due metri sotto terra” lo sconcerto lo prese “ Non è possibile: ti uccisi personalmente quindici anni fa… ma se torni a perseguitarmi ti rispedirò dritta dritta all’inferno !” “ Provaci se ne hai il coraggio…” un affondo andò mancato, l’essere scansò un colpo al costato, una freccia si incastrò nel terreno, uno squarcio le si aprì in una guancia, il falcione si abbattè contro il braccio della creatura, mancato di nuovo, si misero a correre, girare in tondo, cadere, scivolare, rotolare, colpo e contraccolpo. Il respiro di lei le si fece pesante: doveva finirla con questa farsa; suo “ fratello” lo aveva notato e si era avvicinato “ Sorellina, ti farò da spalla: metti un piede sul mio ginocchio e al mio via saltagli addosso, va bene ?” Gli fece un cenno affermativo e gli si affiancò; alzò il piede sinistro e si appoggiò “ Uno, due, tre… adesso !” Il vento le passò tra i capelli mentre il vuoto la sorreggeva, il tempo si era congelato; nella frazione di un secondo cadde addosso allo squallido essere: questo era bloccato, inorridito dal suono del pugnale che guizzava fuori dal fodero e gli si piantava nel petto. Aralis rimase in silenzio qualche attimo e, intanto che gli orchi battevano in ritirata, si mise a ridere sguaiatamente: nella testa le frullava continuamente l’idea di avercela fatta; con le lacrime che le solcavano le gote urlò al cielo “ Sì, io ce l’ho fatta ! Fra poco ti renderò fiera di me, Onoha, e poi ti potrò raggiungere…”. La partita era finita e loro avevano vinto, ora dovevano solo riprendere i feriti. 

 

Tutti si erano messi alla ricerca dei mutilati e l’olezzo del sangue avrebbe potuto stomacare chiunque; gli hobbit erano particolarmente bravi e i regnanti cercavano disperatamente di salvare quanta più gente possibile: dovevano riportarne molti a casa. La ragazza si stava chiedendo che fine avesse fatto quello strano inseguitore che le aveva tirato il manto: aveva guardato ovunque e ormai pensava che se ne fosse andato anche lui insieme ai sopravvissuti, quando sentì dei rantoli provenire da sotto un mucchio di corpi; si avvicinò e iniziò a spostare i morti fino a che non vide qualcosa che si contorceva. Un giovane in armatura si stava dissanguando tra gli spasmi; dopo un primo momento di schifo, lei ne provò compassione: anche se era un nemico non meritava di soffrire così tanto. Si inginocchiò accanto a lui e gli sfilò l’elmo; cacciò un urlo spaventato: tra i capelli neri incrostati di sudore e gli occhi scuri aveva riconosciuto un volto familiare “ Ana...” “ Ryeco, non dire quel nome per favore” Lei prese a slacciargli il pettorale; nel mentre egli continuava a farneticare “ La donna delle divinazioni lo aveva predetto che avresti passato incolume quella notte e anche l’uomo della musica lo diceva sempre…” “ Stai zitto, risparmia le forze: ti cureremo noi” Sul suo petto vide una scritta in alfabeto Nero; non era possibile che lo avesse fatto, ma ormai non aveva più importanza: non era recuperabile. Lui le rivolse un sorriso tristo e le tese una mano tremula “ Fallo” disse; Aralis prese il coltello e glielo ficcò con violenza dritto al cuore: quando lui esalò l’ultimo respiro, la giovane lo abbracciò dondolando e singhiozzando. Il suo amico di infanzia era finalmente libero. 

 

La tana della scrittrice 

みなさん、こんにちは ! お元気ですか ? Allora partiamo spieghiando che le acnombe sono delle cose che ho creato io e che non esistevano nell’opera originale ( così come il luogo dove tutto ciò è ambientato non esiste sulla cartina). Non ci sono altre cose da dire se non che ho adorato scrivere questo capitolo, anche se ho dovuto scrivere in fretta e furia perché ero in ritardo, quindi… mi scuso per eventuali errori nel testo o se non è stato di vostro gradimento. Saluti e baci hobbit 

Sempre vostro 

 

Merry

   
 
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