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Autore: Elsira    02/03/2021    1 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Pagina 15.

And all the ones that love me they just left me on the shelf,
my farewell
So before I save someone else, I've got to save myself
And before I blame someone else, I've got to save myself
And before I love someone else, I've got to love myself

(E a tutti quelli che mi hanno lasciato sullo scaffale,
il mio addio.
Quindi prima di salvare qualcun'altro, devo salvare me stesso.
E prima di dare la colpa a qualcun'altro, devo salvare me stesso.
E prima di amare qualcun'altro, devo amare me stesso.)
 
 

Save Myself, Ed Sheeran
 
 

Quella notte mi svegliai di soprassalto. 

Mi ritrovai seduta sul letto che stavo grondando sudore gelido da ogni poro, incurante dei flebili dolori al collo e alle costole. Mi portai una mano al petto, dove strinsi d’istinto, proprio sopra il cuore, mentre l’altra andava alla testa martellante. “Cosa diamine…” Il respiro era affannato, nemmeno avessi appena finito una gara di canottaggio. Facevo fatica a trovare ossigeno, sembrava che l’aria non ne contenesse abbastanza per saziare i miei polmoni.

Mi sforzai di alzarmi dal letto e andai alla finestra, che spalanchai, e buttai la testa fuori. Inspirai a fondo l’aria gelida e umida della notte, incurante del dolore alla cassa toracica, cercando invano un poco di sollievo.

Riuscii a trovare nuovamente un equilibrio solo dopo qualche minuto.

Con la mente un poco più lucida, mi lasciai cadere seduta con la schiena al muro, restando sotto la finestra di camera. “Un incubo… Ho fatto un incubo…” 

Incubo. L’avevo davvero chiamato così? Ero stata io a dargli quel nome?

Portai le mani al volto e, sorprendendomi, mi resi conto che stavo piangendo, chissà da quanto. 

Una stretta al cuore mi tolse il fiato, anticipando quello che era un attacco di panico in tutto e per tutto. Il formicolio partì dalle punte dei piedi, per salire poi lentamente per le gambe, arrivare alle braccia, le mani, lasciando sensazioni che quel corpo fosse mio senza appartenermi davvero. Se dicevo alla testa di muovere le dita delle mani, queste rimanevano immobili sulle mie gambe, come paralizzate, sotto il mio sguardo in preda al panico. Il formicolio si espanse sul volto, portandosi con sé tic nervosi e incapacità di parlare, gridare, chiedere aiuto. Finché non arrivò al cervello e anche pensare razionalmente divenne impossibile. 

Feci l’unica cosa che avevo imparato a fare nella mia vita di fronte a queste situazioni: attesi. 

Rimasi immobile, sotto la finestra, finché il formicolio non cessò da solo. 

Era un bene che fosse arrivato al cervello e non si fosse arrestato prima: mi impediva anche di avere paura, facendolo finire senza che quasi me ne accorgessi davvero. Non sapevo mai quanto durasse in realtà, a me parevano secondi e anni allo stesso tempo. Ma sapevo che passava, l’aveva sempre fatto, e lo fece anche quella volta.

Non appena mi accorsi di riavere il controllo sul mio corpo, chiusi gli occhi e cercai di respirare profondamente, lasciando ancora le altre membra immobili. Troppo presto per cercare di muoverle, non ci fossi riuscita mi sarebbe solo montata la paura. Perciò decisi di rimanere lì, ancora un po’, seduta sotto la finestra con l’aria fresca che entrava in camera e nei miei polmoni.

Riuscivo ancora a sentire le lacrime che scendevano sulle guance, ma non feci nulla per fermarle. Sapevo fossero dovute al sogno che avevo fatto, il motivo per il quale avevo avuto quell’attacco di panico.

Avevo sognato la mia vita, un futuro in una casa con la mia famiglia, i miei bambini, e loro padre. Peccato che il padre, anziché Mattia, fosse Arkin.

 

«Hei, jeg er Gunnar. (Piacere, sono Gunnar.)»

«Arkin…»

«Ikke vær nervøs, det er ingen grunn. Liker du sport, Arkin? Hva med å gå for to skudd? (Non sia nervoso, non ce n’è motivo. Le piace lo sport, Arkin? Che ne dice di andare a fare due tiri a canestro?)»

Guardai la palla da basket, appena fermatasi tra le miei mani dopo il passaggio dall’uomo di mezza età che avevo davanti. Alzai lo sguardo perplesso verso colui che si spacciava per uno psicologo, che sorrideva sereno a mio cugino. «Svein, vil du være med? (Svein, ti andrebbe uni dirti?)»

Il soldato, al mio fianco, sorrise come fosse la cosa più normale del mondo. «Med glede. (Volentieri.)» 

Alzai un attimo la mano a cenno di aspettare un istante e presi Svein per il braccio, portandolo con me oltre la porta. Il presupposto psicologo fece un cenno con la testa come a dire “non c’è problema, andate pure”.

«Hva skjer? (Che succede?)» Mi chiese mio cugino appena varcata la soglia. 

«Hva skjer? (Che succede?)» Gli feci il verso, io. «Virker det normalt for deg at en psykolog, rett etter å ha presentert seg selv, spør deg om du vil skyte to skudd? (Ti sembra normale che uno psicologo, appena dopo essersi presentato, ti chieda se vuoi fare due tiri a canestro?)»

«Vil du helst at du legger deg på en svart skinnseng og spør deg hva du drømte om? (Preferivi ti facesse stendere su un lettino di pelle nera e ti chiedesse cosa avevi sognato?)»

«Vel ... Ja, jeg hadde funnet det mer ... naturlig. (Beh… Sì, lo avrei trovato più… naturale.)»

Svein mi sorrise tranquillo, il che ottenne come risultato solo il farmi sentir ancor più fuori posto.

«Arkin.» Mi diede una patta sulla spalla. «Mannen utenfor døren spesialiserer seg i behandling av stress etter krigen. Hvis du tror den beste måten å starte terapi på er å få pasienten til å ta to bilder, vet du hva du skal gjøre? (L’uomo oltre quella porta è specializzato nel trattamento di stress post-guerra. Se per iniziare una terapia pensa che il modo migliore sia quello di far fare al paziente due tiri a canestro, sai quello che dovresti fare?)»

Mi rubò la palla da basket che tenevo malamente sotto braccio, per poi sorridermi sicuro di ciò che diceva: «Forbered deg på returen (Prepararti al rimbalzo)

Si voltò e tornò nella sala. Io feci un sospiro, le braccia lungo il dorso, esasperato. «Ditt militær er ikke normalt. (Voi militari non siete normali.)»

«Hvis vi var “normale”, ville vi ikke vært militære, gutt. (Se fossimo “normali”, non saremmo militari, ragazzo.)» 

Mi voltai verso l’uomo in divisa che mi era appena passato alle spalle. Non lo conoscevo nemmeno di vista e, dopo aver parlato, aveva continuato come nulla fosse per il suo percorso verso l’altra parte del corridoio. Avrei potuto avere la sensazione di essermi sognato la sua risposta, se prima di svoltare l’angolo non si fosse preso la briga di lanciarmi un’occhiata e un sorriso fin troppo allusivo.

Colto da un’onda di imbarazzo, abbassai il capo e entrai nella stanza dello psicologo, chiudendomi la porta alle spalle.

«Jeg fortalte ham at han ville være tilbake. (Glielo avevo detto che sarebbe tornato.)» Esordì mio cugino, trionfante. 

«Så, Mr. Arkin… (Allora, Signor Arkin…)» Mi voltai verso lo psicologo e posai lo sguardo su di lui, mentre una strana sensazione di calma iniziava stranamente a farsi strada dentro di me. La sentii partire dalla testa e dalla punta delle mani, come alimentata da ogni parola dell’uomo e, anche se in un primo momento mi spaesò un poco, decisi di lasciarle invadere il resto del corpo. «Vil vi spille dette basketballspillet? (La vogliamo fare questa partita a basket?)»

Rimasi un attimo in silenzio, nel tentativo di lasciar andare tutti i pragmatismi che la mia testa mi stava facendo montare. “In effetti, un po’ di movimento potrebbe aiutarmi a rilassare un po’ i nervi…” Incrociai lo sguardo con Svein. “Mi fido ciecamente di te, soldato.”

Portai le mani davanti al petto, un sorriso carico a distendermi il volto: «Jeg sparker deg. (Ti faccio il culo.)»

Svein sorrise, quasi strafottente, per poi passarmi il pallone e precedermi fuori dalla porta, lo psicologo dai metodi inosuali davanti a noi per fare strada.

 

«Allora? Di cosa volevi parlare?»

Alzai gli occhi e li incontrai con quelli sinceri del ragazzo che avevo davanti. Il cuore mi batteva a mille, le mani non riuscivano a stare ferme e sentii le lacrime che erano sul punto di star per vincere la barriera dei miei occhi da un momento all’altro. 

Scostai lo sguardo da Mattia e lo posai sulle mie gambe, dove le mani si stavano torturando l’un l’altra. Onestamente, mi ero ripetuta talmente tante volte quello che gli volevo dire, da non ricordare mezza parola.

«Tu… sei felice?» Riuscii a chiedere, o meglio, a sussurrare, dopo un tempo indescrivibile. Ovviamente senza ancora il coraggio di guardarlo negli occhi.

Una piccola, triste, risata uscì dalle sue labbra. «Accidenti… di già?» Ecco, aveva capito. Fantastico. D’altronde non era un idiota.

Una vocina dentro di me mi disse che potevo anche alzarmi e andarmene, che tanto non c’era bisogno di aggiungere altro. L’altra vocina, quella con un minimo di intelligenza sociale, mi disse che invece glielo dovevo dire in faccia, guardandolo dritto negli occhi. 

La tentazione di dare retta alla vocina vigliacca era davvero tanta.

«Il fatto è che… Io non…»

«Posso chiederti una cosa?» La sua domanda mi sorprese talmente tanto che mi voltai verso di lui senza nemmeno volerlo. «Se io ti aspettassi… avrei qualche speranza?»

Riabbasai la testa, in volto un’espressione sinceramente mortificata. Non riuscii a dirlo. Ci provai, giuro, ma, per quanto una parte di me lo avesse desiderato, non riuscii a dirgli di sì.

«Ho capito…» Alzò lo sguardo, guardando le persone che camminavano davanti a noi completamente ignare del suono del cuore che stava gridando al mio fianco. 

«Mi dispiace…» 

«No, non devi.»

«Non volevo finisse così, davvero. Io… sono stata davvero bene con te, sei stato in grado di farmi sentire al sicuro e amata come nessun altro prima… Mi hai insegnato e dato il coraggio a dare un nome alle emozioni che provo… Però… quello che provo per te è solo affetto… Un immenso, incredibile affetto, ma non è amore… Mi dispiace…» 

«Ehi.» La sua mano ad accarezzarmi la guancia mi fece alzare lo sguardo verso di lui, mi fece vedere il suo sorriso morbido come il burro, fece vincere le lacrime. «Mentirei se dicessi che non fa un male bestia. Ma… scusami, ma io non voglio vivere al fianco di una persona che non mi ama, cosciente che non mi amerà mai come la amo io.» 

Ritirò la mano e io sentii il gelo del vento sulla guancia bagnata. Tornò a guardare in basso, mettendo le mani nelle tasche del giubbotto. «Scusa ma… potresti lasciarmi solo ora? Ho bisogno di metabolizzare la cosa…»

Attesi qualche secondo per cercare di trovare la forza nelle gambe, poi mi alzai e me ne andai. “Mi dispiace, davvero… Ma… neanche io voglio vivere con qualcuno che non amo…”

 

«Du er i dårlig form, lille kusine. (Sei in pessima forma, cuginetto.)»

“Risparmiami quel sorrisetto strafottente…” Avevo le mani sulle ginocchia, il fiato corto e i polmoni che mi bruciavano nemmeno qualcuno avesse acceso un fuoco da campo al loro interno. Restai con lo sguardo inchiodato a terra, il sudore che mi colava persino dalla punta delle ciglia. “Cazzo… non pensavo di essere messo così male…” 

«Hvor lenge varte du, 10 minutter? Din fremtidige kjæreste ville være ganske skuffet over en slik forestilling. (Quanto sei durato, 10 minuti? La tua futura ragazza sarebbe parecchio delusa da una performance del genere.)» Svein era invece in formissima, il suo fiato perfettamente sotto controllo, nonostante fossero 10 minuti che correva come un dannato avanti e indietro per quel maledetto campetto di cemento. 

La palla rimbalzava rilassata dalla sua mano al terreno, poco più avanti dei suoi piedi, mentre mi si avvicinava. «Forstår du nå at røyking er dårlig for deg? (Lo capisci ora che fumare fa male?)»

Alzai lo sguardo, rendendolo di fuoco per quel che potevo, rispondendo alla provocazione. «Jeg har… aldri hatt… de jævla musklene… du har… (Io non… ho mai avuto… quei cazzo di muscoli… che ti ritrovi tu…)»

Svein rise come un bambino. 

“Però è vero… Non avevo idea di essere messo così male, non me ne ero davvero accorto…” Non riuscii a trattenere qualche colpo di tosse, e i polmoni mi parvero esplodere. “Cazzo.”

«Jeg kjenner det utseendet. (Conosco quello sguardo.)» Mio cugino mi aveva raggiunto, negli occhi una luce che gli avevo visto poche volte, il pallone sotto il braccio. «Du skjønte akkurat hvor mye du suger på egenhånd, fortell meg om jeg tar feil. (Hai appena realizzato quanto ti fai schifo da solo, dimmi se sbaglio.)»

Alzai ancora lo sguardo, e vi rimasi. Avevo l’impressione di trovarmi di fronte Odino, che osservava uno dei suoi figli; un figlio che lo aveva profondamente deluso, tradito. “Mi deve aver colpito davvero forte con quel pugno, l’altra sera…”

«Det er bra. (È una buona cosa.)» Svein mi tese la mano, un sorriso colmo d’affetto gli si dipinse sul volto. «Nå vil du komme deg på beina igjen. (Adesso vuoi rimetterti in piedi.)»

Strinsi la mano che mi stava offrendo, tentando di rendere la presa salda e sicura. Non seppi se mi riuscì, ma lo sguardo che ci scambiammo in quel momento penso non lo scorderò mai.

Fossimo stati in un film, sarebbe stata la scena perfetta per un fermo immagine, ripresa con un’inquadratura leggermente dal basso e la luce proveniente dalla parte opposta; un filtro artistico photoshoppato e poi via ai titoli di coda, accompagnati da una canzone degli Skillet. 

Invece, la voce dello psicologo mi riportò alla realtà: «Så Arkin… (Allora, Arkin…)» Mi voltai verso di lui, ricordandomi solo in quel momento della sua presenza. L’uomo si avvicinò a me e mio cugino, che riprese a palleggiare e andò a fare qualche tiro libero in solitaria. «Er du nysgjerrig på å vite hvorfor jeg tilbød deg dette lille basketballspillet? (È curioso di sapere perché le ho proposto questa piccola partita di basket?)» 

«Faktisk ganske... ja… (In effetti, abbastanza… sì…)»

«Å studere det. (Per studiarla.)»

«Studer meg… (Studiarmi…)» Ripetei io, scettico. “Questo non batte pari…” 

«Yeah!»

Mi voltai verso mio cugino, che aveva appena esclamato per un canestro con schiacciata. “Vola anche senza ali…”

«Ja, det er ikke mange som vet det, men basketball gir et godt speil av personlighet for mennesker hvis man er i stand til å observere. (Sì. Non molti lo sanno, ma la pallacanestro offre un ottimo specchio di personalità per le persone, se si è in grado di osservare.)» Tornai a concentrarmi sul medico. «Du, Arkin, til tross for at du er bestemt dårligere når det gjelder dyktighet til fetteren din … (Lei, Arkin, nonostante sia decisamente inferiore in quanto ad abilità a suo cugino…)»

«Å, men kom igjen! Jeg mener… se det! (Oh ma andiamo! Voglio dire… lo guardi!)» Esclamai io interrompendolo, con una piccola risata, indicando Svein in modo scenico mentre si esibiva in un’altra schiacciata. «Den ene har vinger på føttene! (Quello ha le ali ai piedi!)»

Il Dott. Gunner mi offrì una risata sincera, per poi riprendere: «Ja, han har rett. Men poenget er ikke fetteren hans. (Sì, ha ragione. Ma il punto non è suo cugino.)» Si avvicinò di un altro passo e mi sfiorò il petto con l’indice. «Det er deg, sir. (È lei.)»

Strinsi un attimo lo sguardo, a quel punto quell’uomo aveva tutta la mia attenzione. 

«Til tross for ulempen takket hun likevel utfordringen. For stædighet, stolthet. Og han jobbet hardt i løpet av kampen, om enn forgjeves med tanke på det åpenbare atletiske gapet. (Lei, nonostante lo svantaggio, ha comunque accettato la sfida. Per testardaggine, orgoglio. E si è impegnato durante l’incontro, seppur inutilmente visto il lampante divario atletico.)»

«Hvis han prøver å fornærme meg, gjør han det på en veldig original måte. (Se sta cercando di offendermi, lo sta facendo in maniera molto originale.)»

Lui rise. «Jeg fornærmer henne ikke, jeg er bare ærlig. Og objektiv. (Non la sto offendendo, sono solo sincero. E oggettivo.)»

“Mi inizia a piacere assai questo tizio”

«Under en-mot-en-sammenstøt, da hun hadde ballen, var det første hun gjorde å se etter brudd i fetterens forsvar. (Durante gli scontri uno contro uno, quando lei aveva il pallone, la prima cosa che ha fatto è stato cercare le brecce nella difesa di suo cugino.)»

«Er det ikke... åpenbart? (Non è… ovvio?)»

«Ja, men det er metoden som viser den dominerende personlighetstypen. I løpet av de første angrepene søkte hun alltid et direkte gjennombrudd, og gikk bare med en fri arm for å beskytte både henne og ballen. Dette gjorde at hun systematisk fant henne med den stjålne ballen. Men… (Sì, ma il è il metodo che mostra il tipo di personalità dominante. Durante i suoi primi attacchi lei ha sempre cercato uno sfondamento diretto, avanzando con il solo braccio libero a proteggere sia lei che il pallone. Questo l’ha fatta sistematicamente ritrovare sempre con il pallone rubato. Ma…)»

«Heldigvis er det en men… (Per fortuna c’è un ma…)»

«Det er nesten alltid et “men”. (C’è quasi sempre un “ma”.)» Sorrise lui. «Etter å ha feilet de første gangene, forlot hun det direkte angrepet og søkte avstanden mellom henne og Svein, for bedre å studere motstanderen, og forsøkte å skyte på avstand i stedet for under kurven. Dette er fordi han så at fetteren hans flyttet slik først. Dette var imidlertid også en fiasko, fordi Svein klarte å stjele ballen fra himmelen. (Dopo aver fallito le prime volte, ha abbandonato l’attacco diretto e ha cercato la distanza tra lei e Svein, per studiare meglio il suo avversario, tentando dei tiri da lontano anziché da sotto canestro. Questo perché ha visto che suo cugino si muoveva così, in un primo momento. Anche questo è stato però un fallimento, perché Svein era in grado di rubarle la palla dal cielo.)»

“Già… Maledetto…”

«Så hun tenkte, tenkte og begynte å integrere noen velstrukturerte finter i spillet sitt, som gjorde at hun endelig kunne komme med noen poeng. Vet du hva dette betyr? (Allora ha pensato, ha riflettuto, e ha iniziato a integrare qualche finta ben strutturata nel suo gioco, cosa che le ha permesso di fare finalmente qualche punto. Lo sa questo cosa vuol dire?)»

«At jeg må forbedre angrepet. Og slutte å røyke, fordi det gjorde meg atletisk dritt. (Che devo migliorare l’attacco. E smettere di fumare, perché mi ha ridotto atleticamente a uno schifo.)»

Il sorriso di Gunner si ammorbidì, quasi stesse parlando a un bambino. Stranamente, la cosa non mi dette fastidio.

«Også, ja. Å slutte å røyke er definitivt et stort skritt fremover. Men det jeg vil at hun skal innse er at hun kan forbedre seg veldig raskt hvis hun vil. Hun kan imidlertid ikke lykkes alene, hun trenger praktiske og håndgripelige eksempler som faktisk viser henne et nytt perspektiv, for deretter å prøve dem på sin egen hud, før hun bestemmer seg for om de virkelig er effektive eller ikke. Og hvis de ikke er det, finn selv en løsning som fungerer. (Anche, sì. Smettere di fumare è sicuramente un grande passo avanti. Ma quello che voglio che lei realizzi è che lei, se vuole, è in grado di migliorare molto in fretta. Non riesce però da solo, ha bisogno di esempi pratici e tangibili che le mostrino effettivamente una nuova prospettiva, per poi provarli sulla sua stessa pelle, prima di decidere se sono veramente efficaci o meno. E se non lo sono, trovare da solo una soluzione che funzioni.)»

“Okay… Le cose sono due. O questo tizio è pazzo, oppure è un genio. O, nella peggiore delle ipotesi, entrambi.”

«Jeg vil gjerne kunne hjelpe deg. Jeg kan ikke love henne suksess, jeg vil være en skryter hvis jeg forsikrer henne så lett. Spesielt fordi, hvis tiden vi vil tilbringe sammen vil være nyttig for noe eller ikke, kan det bare være hun som bestemmer det. På min side tilbyr jeg deg maksimal støtte og tilgjengelighet som en psykolog kan gi pasienten. (A me piacerebbe poterla aiutare. Non le posso promettere il successo, sarei un fanfarone se glielo assicurassi così facilmente. Soprattutto perché, se il tempo che trascorreremo insieme sarà o meno utile a qualcosa, potrà essere solo lei a deciderlo. Dalla mia parte, le offro il massimo supporto e disponibilità che uno psicologo può dare a un paziente.)» Il suo sguardo si posò un attimo sulle nocche delle mani, ancora riportanti i segni dei pugni di qualche sera prima, per poi riposarsi lungimirante nei miei occhi. «Selv bare for å forhindre at visse… tilfeldigheter skjer igjen. (Anche solo per evitare che certe… casualità, possano accadere nuovamente.)»

Nascosi le mani dietro la schiena e scostai lo sguardo verso il terreno, sentendomi di colpo a disagio. Cercai di mormorare qualcosa come scusante, ma mi imbarazzai solo di più sentendomi dire: «Det var en ulykke... Det vil ikke skje igjen. (È stato un incidente… Non si ripeterà.)»

«Ja jeg er sikker. (Sì, ne sono certo.)» Un sorriso comprensivo sul volto del medico, che vidi con la coda dell’occhio. «Men ikke skamme deg over fortiden din, Arkin. Du ser... hver gest, tanke, ord som er en del av vår fortid har en mer eller mindre sterk innvirkning på vår nåtid og fremtid. Dette er grunnen til at det er bra å reflektere og lære av dine handlinger, spesielt fra de som vi selv kan gjenkjenne som feil. (Ma non si deve vergognare del suo passato, Arkin. Vede… ogni gesto, pensiero, parola che fa parte del nostro passato, ha un impatto più o meno forte sul nostro presente e futuro. Per questo è bene riflettere e imparare dalle proprie azioni, soprattutto da quelle che siamo in grado da soli di riconoscere come errori.)»

Alzai lo sguardo, riposandoli in quelli del medico. E quella strana e dolce ondata di calma riprese nuovamente ad abbracciarmi. «Man må aldri rømme fra sine feil, fra demonene. En sterk person blir ikke født slik, magisk, men blir sterk når de lærer å gjenkjenne følelsene sine og å kontrollere seg selv. Vi har ingen makt over andre, Arkin, vi har bare makt over oss selv, våre handlinger og våre tanker. Og dette er allerede i seg selv en stor supermakt, som du trenger for å kunne kontrollere for å ha en balanse i livet ditt og for å kunne gi balanse til våre kjære også. Han tror ikke? (Non bisogna mai scappare dai propri errori, dai propri demoni. Una persona forte non lo nasce così, magicamente, ma lo diventa una volta che impara a riconoscere le proprie emozioni e a controllare se stessa. Noi non abbiamo potere sugli altri, Arkin, abbiamo potere solo su noi stessi, sulle nostre azioni e suoi nostri pensieri. E questo è già di per sé un grande superpotere, che bisogna essere in grado di controllare per avere un equilibrio nella propria vita e poter donare equilibrio anche ai nostri cari. Non crede?)»

Riuscii solo ad annuire. D’altronde, che cosa avrei mai potuto aggiungere? 

«God. Nå som jeg har denne grovt utarbeidede profilen til henne, vil vi gå til studioet mitt for å avgjøre hvilke krefter som mest trenger å låses opp for å la henne kontrollere dem, ved å bruke en litt mer tilnærming... den? Naturlig? (Bene. Adesso che ho questo suo profilo grossolanamente stilato, vogliamo andare nel mio studio per determinare quali sono i suoi poteri che hanno più bisogno di essere sbloccati per permetterle di controllarli, usando un approccio un poco più… com’è che lo aveva chiamato? Naturale?)»

Annuii. E mi morsi le labbra, portandomi una mano al volto, non riuscendo a trattenere un sorriso d’affetto. Ma non mi vergognai. “Dannata bocca larga di Svein…”

Gli lanciai un’occhiata, mentre ancora volava sul campetto da basket. Pareva non stancarsi mai. “Grazie.”

Si voltò verso di me, come se avesse percepito il mio pensiero, dopo l’ennesimo canestro. Mi fece l’occhiolino, cui io sorrisi di rimando, per poi regalarmi un tiro da tre punti. Solo dopo mi si avvicinò, a corsetta. «Deretter? (Allora?)»

Teneva la palla tra le mani, completamente a suo agio. «Jeg skal starte en terapi, lykkelig? (Inizierò una terapia, contento?)»

«Du er? (Tu lo sei?)»

Riflettei un secondo prima di rispondere. Lanciai un’occhiata al medico, che ci aspettava al confine del parchetto per darci un attimo di privacy, approfittando dell’occasione per accarezzare un cane che passava di lì per una passeggiata e scambiare due chiacchiere con il padrone. 

Espirai profondamente, poi guardai mio cugino con un sorriso. «Ja. Jeg tror det er riktig trekk. (Sì. Credo sia la mossa giusta.)»

Svein mi sorrise. Un piccolo sorriso sulle labbra, ma che irradiava di luce i suoi occhi color ghiaccio. Mi diede una pacca sulla spalla e ci dirigemmo verso il medico, io e Gunnar saremmo tornati allo studio per la prima seduta, Svein sarebbe andato da Gersemi.

«Men du svetter aldri? (Ma tu non sudi mai?)»

«Det skal mye mer til for å få meg til å svette. (Ci vuole ben altro per farmi sudare.)» Rise lui, mentre giocava con il pallone. Non riusciva a stare fermo, era più forte di lui.

«Forbannet soldat… (Soldato maledetto…)» Mormorai tra i denti, soffocando una risata. “Dio, quanto bene che ti voglio…”




 



Ci sono tanti tipi di attacchi di panico e, per l’amor del cielo, se doveste mai ritrovarvi ad averne uno, non nascondetelo. Lo so benissimo che è più facile a dirsi che a farsi, ma davvero… sono pericolosi proprio a livello fisico e cerebrale, non scherzateci e non giocateci. E non fate come me da bimbetta che ero gelosa di chi sveniva perché volevo sapere anch’io cosa si provava… poi è successo e non ho mangiato per due giorni.

Ma voi avete presente tutto quello che fa Cam? Bene. Vogliatevi bene e fate tutto l'opposto.


 

Mi rubò la palla da basket che tenevo malamente sotto braccio, per poi sorridermi sicuro di ciò che diceva: «Forbered deg på returen (Prepararti al rimbalzo).»

Nella pallacanestro, il rimbalzo è il recupero del pallone dopo un tiro sbagliato. 

E’ stato Svein a fare i rimbalzi. Perché è stato Arkin a non azzeccare mezzo canestro, all’inzio.

 

Lo so che avevo detto che volevo fare un punto su Mattia e Cam su questo capitolo, e quindi eccolo qui, breve breve, promesso. Pensavo di “trasferire” queste note a uno dei capitoli precedenti come avevo accennato, perché qui volevo dire due cose sullo psicologo, ma il mio psicologo personale notturno mi ha detto di lasciar perdere e scrivere direttamente qui, perciò… Boh, una volta tanto devo dargliela vinta e quindi le lascio qui e via.

Chiariamo un punto: qualsiasi cosa sia accaduta, Cam tiene davvero a Mattia. 

Il ragazzo è un passo fondamentale per lei, per aiutarla a dare un nome alle emozioni che prova. Mattia fa da "psicologo" a Cam, iniziandola a farle dare un nome alle sue emozioni, facendola crescere, e lo fa semplicemente standole vicino. È quel tipo di persona che, standoti semplicemente vicino, ti fa provare cose che magari avevi anche già provato ma ti fa venire in mente “hey, diamo un nome a questa cosa, perché è bella, mi fa stare bene, e me la voglio ricordare”. 

Il problema è che la loro relazione è terribilmente... instabile. Anche se la ragazza tiene a lui, non è in grado di provare amore. L'Amore non si può forzare. Prova attrazione, prova un sentimento romantico nei suoi confronti, prova un immenso affetto. Ma non è Amore. Ognuno ha il proprio modo personale di amare, che sia in modo romantico o platonico, e la ragazza in questione si è semplicemente resa conto che il tipo di amore che provava per la persona più gentile e perfetta che avesse mai incontrato, non era un tipo di amore in cui sarebbe stata felice. Incolpandosi magari di ciò, perché Mattia la faceva stare serena, la calmava… ma non è il tipo di serenità e calma a cui Cam ambisce. E’ difficile da spiegare, abbiate pietà… 

Il fatto è che tutto questo Camilla lo scopre e se ne rende conto proprio grazie alle abilità che acquisisce grazie a Mattia: diventa curiosa sui sentimenti, suoi e degli altri. Se vede qualcuno provare qualcosa, vuole sapere di cosa si tratta, vuole essere in grado di riconoscere l'emozione che vede e che sente. È come... Si potrebbe paragonare questo periodo di Cam come una persona che adora mangiare ma lo scopre solo dopo aver mangiato un certo piatto di una particolare cucina. E allora la studia, prova nuovi piatti, condimenti, accostamenti, pare non averne mai abbastanza. Si mette a cercare ricette di quella cucina e inizia a prendere in mano per la prima volta pentole e mestoli. E osserva attentamente ogni tutorial che le viene proposto, ogni movimento di quegli chef che sembrano così a loro agio dietro ai fornelli. E li imita. Vuole ricreare i loro piatti perché vuole assaporare quello che mangiano loro dall’altra parte dello schermo. 

E poi vuole fare quel passettino in più, vuole rendere proprie quelle ricette e modificarle quel tanto che basta per renderle una sua creazione ma mantenendo la base meravigliosa di cui si è follemente innamorata all’inizio. E questa linea di confine è terribilmente sottile. 

Mattia sarebbe il ragazzo dei sogni del 70% della popolazione, ne sono certa, ma Cam fa parte della percentuale del 30%. Non è che sia masochista o abbia voglia di essere trattata male e soffrire, o che la relazione con Mattia fosse “noiosa”, i due avevano un sacco di cose in comune, ma mancava… quel briciolino in più di chimica, che in un rapporto ci vuole. Avrebbe potuto tapparsi gli occhi e far finta di niente, vivere in una famiglia del Mulino Bianco e sorridere a quella mezza bugia per il resto della sua vita, convincendosi che di meglio non avrebbe potuto avere (che potrebbe essere anche vero, ma se uno non ci prova come fa a saperlo?), però ha scelto di no.

Alla fine dei conti, la domanda è sempre la solita: meglio rischiare di avere rimpianti per aver provato, oppure per non aver fatto nemmeno un tentativo? 

Non esiste risposta esatta, a ognuno la propria.

La relazione con Mattia è un quadro dalle tonalità pastello, completamente. Non è noioso, è meraviglioso, rilassante e ti acquieta l’anima quando lo guardi. Ma Cam ne vuole uno dai colori accesi, con nuances di pastello qua e la magari, ma il focus del dipinto deve essere un’esplosione di colori accessi, complementari tra loro, che in certi punti si scontrano e fanno fatica ad amalgamarsi, stonando gli uni con gli altri, mentre in altri creano l’armonia perfetta. E... se vogliamo proprio essere sinceri qui, quel tipo di quadro non si ottiene solo trovando "la persona giusta", ma diventando la persona giusta per noi stessi. Come anche scritto nella canzone di incipit, uno deve imparare ad amare, proteggere e curare se stesso, prima di poter amare qualcun altro. E non c'è "l'età giusta" per far questo.

 



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