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Autore: Martin Eden    02/03/2021    1 recensioni
Ciao a tutti! Dopo anni di latitanza, mi è venuta voglia di tornare su questo Fandom, che ho tanto amato...e lo faccio con una vecchia storia LOTR che ho ripreso in mano ultimamente, dopo aver rivisto i film della trilogia de Lo Hobbit...mi è venuta voglia!
Scommetto che molti di voi, come me si sono posti questa domanda: ma Legolas e Aragorn dove si saranno conosciuti?! :D
Questa fanfiction cercherà di dare una risposta...allora voi leggete e commentate! :)
Genere: Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aragorn, Legolas, Thranduil
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Compagni di Sventura'
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Aragorn

 

Pregai tanto Elbereth di farmi correre più veloce, ma probabilmente non aveva avuto tempo per ascoltare la mia richiesta, quel giorno, perché invece di muovermi più rapidamente mi sembrava di rallentare a ogni passo.

Avevo seguito le impronte dell’elfo per almeno un paio di leghe, dopo tanto tempo perso a cercarle e averle ritrovate quasi per caso, e solo grazie a una sottile scia di sangue che le coronava come gioielli nella terra. Purtroppo, anche questi sottili indizi erano scomparsi di nuovo e all’improvviso, dopo qualche tempo. Non c’era più niente: le brughiere tacevano e forse ridevano del mio ottimismo, in una terra dove la morte è parte della vita quotidiana di ogni creatura, e a volte anche la scelta migliore.

Ormai la notte era scivolata anche su Fornost. Di nuovo, un’altra, l’ennesima.

Mi sentivo così frustrato che avrei ucciso a vista, solo per il gusto di sfogare la mia rabbia.

Ero seriamente preoccupato per la salute di quell’elfo. Per quanto impavido e allenato potesse essere, di certo rimaneva vulnerabile alle armi; inoltre, poteva essere stato ferito da qualcosa di avvelenato, come spesso usava tra gli orchetti. Per un graffio non mi sarei certo scomodato a inseguirlo, ma le sue condizioni mi avevano suggerito che il colpo ricevuto fosse molto di più di una semplice escoriazione.

La mia totale incapacità nel ritrovarlo mi faceva sentire stupido. I sensi non mi aiutavano; la notte, nemmeno.

Poi sentii il verso dei lupi neri.

Conoscevo quel suono. Mi ero imbattuto spesso nei branchi, e anche se non sempre ci eravamo scontrati, avevo imparato ad osservarli e conoscerli da lontano. Avevo imparato ad interpretare il loro linguaggio, per evitarli quando erano affamati e per attirarli quando poteva servire catturarli o ucciderli.

Per questo, credevo di poter indovinare facilmente il significato di quell’ululato.

Avevano trovato una preda.

Subito il mio cuore aveva fatto un balzo. Forse non avevo motivo di temere, ma immaginavo ci fossero poche anime vive nel raggio di parecchie miglia. In più, sapevo che i lupi adoravano l’odore del sangue e potevano averne scovato una traccia: la stessa che stavo cercando io.

Dovevo muovermi in fretta, più in fretta di loro.

Dovevo arrivare prima, o quelle bestie non mi avrebbero lasciato niente da trovare.

Mi mossi nella direzione dalla quale ancora riecheggiava quel latrato terrificante, accelerando quanto più potevo sul sentiero accidentato. Non badai a niente, solo corsi più forte, sperando di aver ancora una possibilità, magari l’ultima, ma pur sempre valida.

Saltai qualche pozzanghera e qualche cespuglio, tendendo l’orecchio, cercando di captare un altro benchè minimo suono che mi guidasse. Ma nulla. Tutto era tornato silenzioso e nemico come prima.
A quel punto intravvidi un’orma. Era poco più di un’ombra sull’erba, ma per fortuna era stato addestrato a riconoscerne ogni profilo, con ogni tempo atmosferico e in qualsiasi condizione del terreno. Un’orma leggera che poteva appartenere solo a un elfo; peccato per una sottile goccia di sangue che sporcava leggermente la brina. Se non ci fosse stato quel leggero manto bianco, sul quale il rosso risaltava in un crudo contrasto, probabilmente non avrei mai saputo che era lui.

Poco più in là, comparvero le prime orme di lupi. Dovevano essere almeno cinque animali, contro un solo elfo, ferito per giunta. Trasalii.

Non c’era tempo da perdere.

 

Oltre un ammasso di alberelli sparuti trovai una risposta alle mie paure.

La piccola radura che si apriva davanti ai miei piedi era disseminata di corpi. Una foschia innaturale avvolgeva quello che immaginavo fosse stato un duro campo di battaglia, ma ciononostante riuscivo ancora a distinguere abbastanza bene le loro forme: erano grandi lupi neri del Nord.

Sguainai lentamente la spada. Quello stridio parve fin troppo forte per tagliare il silenzio all’apparenza immobile. Era forse un eccesso di zelo, il mio: probabilmente quelle creature erano tutte morte, pace all’anima loro.

Mi avvicinai con cautela. Il corpo più prossimo era ormai freddo e nemmeno il sangue scorreva più dalle ferite aperte. Era stato colpito mortalmente alla gola da un fendente profondo, sicuro, letale. Un colpo inferto da vero maestro.

Cominciai a sentirmi su di giri: il fautore di quella strage poteva ancora essere nelle vicinanze? Poteva arrivare un altro branco di lupi affamati, attirato dall’odore delle membra squartate?

Strinsi più forte la mia spada. C’erano troppa nebbia e buio, poche stelle in cielo: rischiavo grosso a indugiare in un luogo così scoperto.

Superai la prima sagoma con il cuore che iniziava a pulsare insistentemente contro la mia gola. Mi costrinsi a controllarlo, mentre cercavo di guardare oltre.

Purtroppo, più guardavo, più mi scontravo contro un muro grigio, e non era una bella sensazione. Mi mossi circospetto, con le orecchie tese, il corpo teso, proteggendomi continuamente le spalle.

Che cosa cercavo? Un indizio? Una traccia? C’era così tanta confusione in quelle poche braccia di terra, che nemmeno un elfo avrebbe potuto decifrare facilmente qualche dettaglio interessante.

Ormai ero passato accanto ad almeno altre tre bestie morte. Ero sempre più convinto che qualsiasi cosa a cui stessero dando la caccia poteva essere solo scappata, lasciandoli lì in balia di altri predatori notturni; oppure, semplicemente, era andata a morire lontano dalle loro fauci.

La mia presenza lì non aveva alcun motivo d’essere.

Nonostante le spiegazioni che mi mulinavano in testa, mi sentivo nervoso, così come era nervoso il mio modo di tenere alta la spada contro il nulla. Avrei dovuto andarmene, cercare rifugio; potevo ritornare l’indomani e esplorare quel luogo alla luce del sole, se proprio ci tenevo.

Non avrei risolto niente, standomene lì impalato, al massimo potevo solo peggiorare la situazione. La mia situazione.

Quell’enigma non valeva tanto quanto la mia vita, in effetti.

Ragionandoci, mi ero convinto che era meglio andarmene, ma proprio prima di girare i tacchi notai un particolare che attirò la mia attenzione.

C’era una carcassa, poco lontano da me. Un altro grosso lupo, riverso a terra, ma...sembrava avere più zampe degli altri.

Strabuzzai gli occhi: era forse possibile? Era forse una progenie del Male, una nuova razza mai vista prima?

A uno sguardo più attento, però, mi resi conto che quelle zampe in più non erano sue. La bestia giaceva sopra a qualcuno, forse un uomo. Allora tutto avrebbe riacquistato un senso.

Mi avvicinai in silenzio, pronto a scattare. Ricordo che i miei passi non facevano quasi rumore sul terreno crocchiante di rugiada. C’era sangue tutt’intorno, mucchi di terra e di erba strappata via. Tanta era l’angoscia, che quasi non mi permetteva di respirare. Più mi portavo vicino al lupo, più mi sembrava di riconoscere un’ombra distesa, imprigionata sotto gli artigli selvaggi della belva.

Finalmente gli fui sopra. Quell’ammasso di pelliccia mi impediva di vedere meglio. Ma io volevo vedere. Quella poteva essere la ragione per cui avevo percorso tutte quelle leghe appeso al filo di una speranza. Poteva esserci ancora bisogno di aiuto, ma dovevo fare in fretta.

Rinfoderai la spada e afferrai con sorprendente decisione la carcassa, cercando di spostarla da un lato.

Era veramente pesantissima. Ne ero sempre più certo: sotto quella feccia c’era qualcuno, e io dovevo saperne di più, avvicinarmi di più, fare qualcosa.

Fin troppo lentamente, rivelai un altro corpo, un viso. Sangue. Gli occhi chiusi. Capelli biondi sparsi sull’erba rossa.

In quel momento, il mio cuore perse un battito. Il respiro mi si mozzò in gola.

Lo riconobbi all’istante.

- Per Elbereth!- mi lasciai sfuggire sottovoce.

Non potevo credere a ciò che vedevo.

Non poteva essere davvero ciò che vedevo.

Con uno sforzo, riuscii finalmente a spostare il corpo del lupo, sbuffando e digrignando i denti. L’animale cadde di lato con un tonfo sordo e un pugnale conficcato profondamente nel suo collo.

Non mi ero sbagliato.

Ma, davvero, non poteva essere.

Non poteva essere lo stesso elfo che mi aveva salvato dagli orchi.

Non poteva essere vivo.

Deglutii faticosamente. La mia naturale diffidenza, che così spesso mi aveva tenuto sulla strada del buon giudizio, faceva energicamente a pugni con l’altruismo che in quel momento sgorgava dal mio cuore. Una parte di me stesso mi chiedeva di assicurarmi che fosse morto come pensavo e di andarmene; l’altra mi ricordava che, se davvero si trattava dello stesso elfo, io ero in debito di vita con lui e non poteva esserci migliore occasione per saldare il conto.

Avrei voluto non dover godere di una simile opportunità di riscatto. La vista di lui così malmesso mi colmava l’animo di tristezza, e non ero nemmeno certo di poterlo trattenere ulteriormente in quel mondo.

Mi inginocchiai accanto a lui. Allungai una mano inerme per sfiorargli la gola e dissipare ogni dubbio. Non feci in tempo a pensare ad altro, a tentare altro.

Un’altra mano saettò nel buio e una presa ancora possente si serrò sul mio polso.

Rimasi impietrito. Non me l’aspettavo per niente! Mi trattenni a fatica dal farmi sfuggire anche un solo fiato. Non era da me vacillare di fronte agli imprevisti, ma in quel momento nulla pareva più riconducibile alla normalità, e così trovavo giustificato il mio comportamento non del tutto coraggioso.

Gli occhi dell’elfo si erano spalancati improvvisamente. Li potevo intravedere attraverso le tenebre incalzanti: le cornee bianche e gli occhi azzurrissimi, così penetranti, era come se brillassero. Eppure, al tempo stesso, erano velati da una profonda sofferenza, offuscati dagli incubi.

- Bado!- sibilò minacciosamente l’elfo.

Vattene.

Mi irrigidii. Le sue parole e il suo tono di voce erano venate di una tale irruenza che mai mi sarei aspettato da una creatura così debilitata. In quel momento sembrava tutt’altro che in pericolo: quegli occhi iniettati di rabbia avrebbero intimorito chiunque.

Ma non me. Io avevo comunque la situazione sotto controllo.

Senza replicare, cercai di liberarmi dalla sua presa, ma risultò alquanto difficile. Le sue dita stringevano spasmodicamente le mie ossa, come se fossero la sua unica ancora di salvezza. Forse lo erano; o forse avrebbe solo voluto spezzarmele, chissà. Non gliel’ho mai chiesto.

Non avevo intenzione di spaventarlo, tutto il contrario, desideravo tranquillizzarlo, conquistare almeno una piccola parte della sua fiducia: lo stretto necessario affinché mi concedesse di tenere la sua vita tra le mie mani di guaritore.

Purtroppo, non sembrava aver nessuna intenzione di lasciarsi avvicinare. La sua aggressività era, probabilmente, proporzionale alla sofferenza che provava.

- Bado! Degion!- ritornò alla carica contro di me.

A quelle parole sputate con forza insieme al sangue, mi sentii stringere il cuore.

Vattene o ti uccido.

C’era una tale voglia di vivere in quel pensiero, che io neanche ci speravo. Mi ero aspettato un essere moribondo, veramente prossimo alla morte, al quale avrei potuto dare conforto negli ultimi istanti. Invece mi trovavo davanti a un guerriero di tutto rispetto, combattivo e pericoloso come se fosse ancora nel pieno delle sue forze.

Allo stesso tempo, però, ebbi l’assoluta certezza che l’elfo non mi stava vedendo: non aveva la più pallida idea di cosa stesse facendo. Era completamente in preda a deliranti sogni. Lo deducevo dalle sue iridi annebbiate, dove il Bene e il Male si erano mischiati così tanto che per lui non era più possibile distinguerli.

Mi resi conto che dovevo al più presto togliermi d’impaccio. Ci trovavamo in un posto scoperto, troppo scoperto in quelle lande desolate e dimenticate dai Valar. C’era bisogno di un posto più sicuro, per tutti e due. Non potevo permettergli di continuare così. Aveva già cercato di evitarmi troppo a lungo.

Avrei trascinato via anche lui, con le buone o con le cattive.

Inspirai profondamente, cercando di farmi forza e di trovare parole giuste che mi permettessero di convincerlo a farsi portare via:

- Dinen...- posi la mano libera su quella serrata dell’elfo. Mi accorsi che, nonostante tutto, tremava.

Calmati.

Non sapevo esattamente perché avesse deciso di rivolgersi a me in Sindarin, ma volli rispettare questa sua volontà. Forse mi aveva scambiato per un suo simile, e in quella circostanza poteva essere un bene.

Il contatto con la mia mano non gli piacque particolarmente. Tentò subito di liberarsi, ma invano. Ogni minimo movimento era dolore allo stato puro. Lo guardai contorcersi e cercare disperatamente aria.

Non mossi un muscolo, con la mia mano ancora appoggiata sulla sua. Dovevo avere pazienza, anche se mi era difficile mentre lo vedevo respirare ormai a singoli singhiozzi. Non avrebbe resistito a lungo.

- Im mellon le.- gli sussurrai piano, sperando che potesse sentirmi.

Sono tuo amico.

A quelle parole, un moto di ribellione parve scuoterlo inspiegabilmente:

- Degion!- tentò ancora di difendersi.

Non mollava la presa e forse furono i Valar che non gli permisero di utilizzare l’altro braccio, altrimenti sarebbe stato peggio per me. Gli lanciai una rapida occhiata e considerai che poteva essere rotto o leso, e che occorreva intervenire al più presto.

Ti uccido!

Invece rimasi zitto, dritto, senza fare mosse false. Non mi sentivo particolarmente intimorito da quelle parole: immaginavo fossero abbandonate al vento.

Le ultime forze dell’elfo stavano ormai scivolando via: anche la presa sul mio polso si era un po’ allentata. Ancora non molto e si sarebbe stancato di resistere, e tutto sarebbe stato più facile. Era stremato.

- Dinen...- ci riprovai.

Calmati.

Ti prego.

Lentamente, liberai la mano dalla sua stretta. Decisamente, era troppo debole per mantenerla ancora.

Aveva dei nervi straordinariamente forti, anche se non me ne stupii più di tanto. Conoscevo gli Elfi, e conoscevo tutte le loro virtù. Ci avevo convissuto per tutta la mia giovane età. Durante gli anni a Gran Burrone avevo imparato ad apprezzarli senza sentirmi inferiore, ad accettare i loro buoni consigli e mi ero abituato ad essere testimone della loro perfezione. Re Elrond e i suoi figli mi avevano insegnato ogni cosa, erano stati come padri per me, che avevo perso il mio vero genitore troppo presto: per questo conoscevo la loro lingua e le loro usanze, e anche i loro segreti. Mi avevano sempre fatto sentire come uno di loro. Mai nemico, mai ospite. Avevo cercato di ripagare le loro aspettative e di dimostrare che mi meritavo la loro piena fiducia. Avevo fatto tesoro della loro esperienza, prima di partire inseguendo la mia.

Perchè con questo elfo avrebbe dovuto essere diverso? Per me era solo un altro Elladan o un altro Elrohir, i miei fratelli maggiori acquisiti, grandi guerrieri e cercatori di tracce; intelligenti e scaltri come faine, ma onesti e sinceri con chi se lo meritava. Loro mi avevano insegnato a combattere con destrezza, a saltare e a rischiare per vincere.

Immaginavo che anche questo elfo sapesse di cosa parlavo. Da quel poco che avevo potuto notare mentre lottavamo fianco a fianco, condividevamo molte più capacità di quanto non sembrasse.

Alto e magro, ma assolutamente in grado di compiere imprese straordinarie, vestito di verde: doveva trattarsi di un Silvano. Non mi era mai capitato di vederne uno con i miei occhi, ma era esattamente come mi avevano raccontato a Gran Burrone: creature figlie della Foresta nel portamento e nel cuore, schivi ma comunque eleganti, forti come cortecce e veloci come animali del sottobosco. Erano legati ad Arda, la terra, da millenni di storia, più di quanto non lo fossero a Valinor, il paradiso degli Dei oltre il mare. Si occupavano del mondo con l’ostinazione di chi cura una piantina dalle caratteristiche difficili: lo facevano con gioia.

Per questo, lasciare che ne morisse uno sarebbe stato come uccidere un pezzo di Terra-di-Mezzo.

Pensando a questo, accompagnai lentamente la mano dell’elfo sul suo petto affannoso, in corrispondenza del cuore. Premetti piano, cercando di infondergli calore, sicurezza.

- Hûn le verkoh dringa.- gli feci notare, parlando nella sua lingua.

Il tuo cuore deve continuare a battere.

Spalancò gli occhi. Mi aveva capito. Mi aveva capito e forse si era aperto un varco tra di noi, un varco che potevo sperare di percorrere insieme a lui.

Indubbiamente era rimasto sconvolto dalla troppa vicinanza, e probabilmente dalle forze che sentiva mancare del tutto. Non credo gli fosse capitato molto spesso.

- Naergon..- si lamentò, dopo aver preso un attimo di fiato.

Era ormai prossimo ad abbassare le palpebre, ma non voleva cedere. Una scintilla di orgoglio gli ordinava di resistere ancora, contro ogni cosa, stoicamente come forse gli avevano insegnato i padri.

Sento dolore.

Lo ammirai molto.

Mi chinai lentamente su di lui. Cercavo di non lasciare trapelare la mia preoccupazione, ma il tempo era una lama sottile che riapriva le sue ferite e le rendeva velocemente insanabili. Dovevo agire, per il suo bene.

- Bronia.- dissi, mentre allungavo una mano verso la sua fronte e finalmente riuscivo a toccarlo.

Resisti.

Per fortuna, non riuscì ad opporsi. Ormai aveva chiuso gli occhi, abbandonato le membra: come se un forte colpo di vento avesse spento la candela della sua vita.

Subito la mia mano era corsa alla sua gola, per verificare che fosse solo svenuto. E infatti.

Un cuore batteva ancora, seppur stancamente, sotto quella pelle diafana.

Tirai un sospiro di sollievo. L’ultimo, ad essere sinceri.

Avevo davanti a me molto lavoro da fare, molte ore insonni da passare, molti giorni da contare e da spendere in sua compagnia.

Per prima cosa, lo avvolsi nel suo mantello. Recuperai i suoi due pugnali dai corpi freddi dei lupi, li rinfoderai e me le assicurai addosso, assieme alla mia spada. Lo stesso feci con il suo arco, perché non andasse perso.

Poi gli infilai un braccio sotto le spalle e l’altro sotto le gambe: non senza sforzo lo sollevai da terra, lontano dall’orrore e dalle insidie, lontano dalla notte nascosta nell’erba. Non era affatto leggero, ma io, nonostante la marcia, mi sentivo ancora pieno di energie e non avevo timore di crollare in tempi brevi. Ora avevo una missione.

Dopo i primi passi incerti, cominciai a procedere più spedito tra massi e asperità, in cerca di un rifugio poco accessibile. Dovevo allontanarmi il più possibile e accendere un fuoco in un luogo sicuro prima che il suo corpo si facesse troppo gelido. La pelliccia del lupo ucciso poteva averlo protetto e tenuto al caldo, anche se non riuscivo a capacitarmi di come avesse potuto sopportarne il peso tutte quelle ore, ma adesso serviva qualcosa di più.

Dopo poco, notai un ammasso di pietre dalla forma familiare, posizionato al limitare alla pianura: doveva essere uno di quei ruderi come tanti se ne vedevano, nei dintorni di Fornost, memore e testimone della guerra e della disperazione durante i giorni di Angmar. La vegetazione si era arrampicata e infittita fino a ricreare un ambiente appartato e protetto, all’ombra dei cui muri avrei anche potuto accendere un fuoco senza timore di essere scorto.

Pensai che non avevo molto tempo a disposizione per cercare altro e mi diressi là. Deposi delicatamente l’elfo per terra, così come la bisaccia e le armi, cercando di fare meno rumore possibile, anche se non sembrava esserci anima viva.

Mi sporsi dal mio improvvisato nascondiglio. Tutt'intorno, leghe e leghe di fumose terre in cui qualsiasi dettaglio noto era da considerarsi un dono più che un caso. Una timida luce di luna era spuntata e bagnava la cruda terra di nuova speranza e mi permetteva tracciare una rapida mappa dei dintorni, così come mi permise di adocchiare della legna asciutta al margine del rudere. Corsi a prenderla e tornai dall'elfo.

Mi accingevo a un'operazione per niente piacevole, ma necessaria.

Scostai con delicatezza i lembi della sua veste strappata. Scoprii diverse morsicature, com’era prevedibile, e un’altra ferita, mal fasciata e soprattutto, infettata. Sicuramente era stata causata da una freccia.

Non doveva aver avuto molto tempo per se stesso.

Trassi dalla bisaccia una fiaschetta di Miruvor, il liquore preferito dagli Elfi, nonché un distillato di altissima gradazione alcolica: era l’unica cosa che mi fosse venuta in mente adatta a tamponare e pulire le ferite.

Mi sistemai con un ginocchio sul petto dell’elfo, in modo da tenerlo fermo. Immaginavo già cosa sarebbe successo, appena versata una goccia di Miruvor sulla carne viva e infiammata.

Il dolore doveva essere stato lancinante, almeno a giudicare da come il suo corpo aveva saltato, seppur incosciente. Gli tappai la bocca con una mano per soffocare un gemito.

Attesi qualche secondo prima di procedere, finché non si fu calmato. Raccolsi le poche bende che avevo conservato nelle mie borse e le intinsi in una ciotola d’acqua. Intanto, mormoravo parole in lingua elfica antica, un po’ per doveri curativi e un po’ per rincuorarmi. Speravo che anche l’elfo potesse sentirle e trarne giovamento.

Lavai con cura le sue ferite, cercando di fare piano, ma lui sobbalzava a ogni tocco. Osservai il segno lasciato dalla freccia: oltre al sangue ormai raggrumato, notai una macchia scura che tracciava un sentiero di morte attorno ai lembi. Probabilmente, si trattava di una punta avvelenata: una forma di guerra piuttosto abietta per far capitolare le vittime senza far troppa fatica, tipica degli orchi.

Pensavo: quell’elfo aveva viaggiato tutte quelle ore con il veleno in corpo e pure si intestardiva a sopravvivere? Generalmente, la pozione faceva il suo effetto in brevissimi tempi, portando a una morte molto tormentata.

La resistenza di quella creatura andava oltre l’inverosimile.

Mentre ancora lo stavo studiando, improvvisamente il suo corpo si inarcò, preso dalle convulsioni. Sussultai, allarmato. Non avevo avuto il tempo di riflettere su come far fronte a una reazione del genere, anche se era prevedibile.

Il veleno degli orchi non risparmiava anima viva.

Pensai velocemente, mentre afferravo le bisacce e frugavo in tutte le tasche, in maniera sempre più spasmodica. Finché lo trovai.

Portavo sempre con me una boccetta di antidoto universale per i casi di emergenza, che andavano dagli avvelenamenti da piante e animali pericolosi a casi più estremi. Era l’unica cosa che mi fosse venuta in mente per evitare il peggio.

La stappai e costrinsi l’elfo a inghiottirne l’intero contenuto senza rovesciarlo, nonostante fosse ormai impossibile trattenere i suoi movimenti inconsulti. Sperai forte, mentre i secondi passavano e la mia ansia saliva, quasi a darmi alla testa.

Lentamente, il suo corpo smise di agitarsi e giacque come morto sotto le mie mani, che corsero tremanti a controllare il battito del cuore.

C’era ancora. Debole, ma c’era.

Sudavo freddo, ormai, e in abbondanza. Mi asciugai la fronte, mentre rimuginavo se saremmo riusciti a passare indenni la notte, se le mie cure avrebbero avuto un senso e se avremmo mai avuto l’opportunità di ringraziarci per esserci salvati a vicenda. Domande che rimanevano senza una risposta.

Trassi della lana dalla bisaccia e un sacchetto dove conservato una miscela di erbe curative essiccate: immaginavo non ne avrei trovate molte a Fornost. Le mescolai all’acqua e le lasciai in infusione, mentre accendevo un piccolo fuoco. Misi a cuocere il tutto, lanciando ogni tanto un’occhiata al ferito.

Applicai la lana direttamente sui suoi tagli, dopo averla intinta nella pozione curativa. Avrebbe aiutato a rimarginarle più in fretta e avrebbe assorbito ogni malanno.

Non avevo altro. Non c’era altro.

Mi occupai del resto del suo corpo: controllai che non avesse ossa rotte e altre ferite gravi, ma così non mi sembrava. Infine, lo avvolsi nel mantello e gli posi la bisaccia sotto la testa, come un cuscino, giacché faceva fatica a respirare.

Poi, finalmente, mi decisi a tirare il fiato.

Cercai di raccogliere un po’ le idee, mentre tenevo i miei pensieri dentro al fuoco che bruciava, e loro bruciavano con lui, tutti sconnessi. Forse ero solo stanco e giustamente preoccupato per l’elfo, anche se la loro immortalità aveva del proverbiale, pensai con una punta di ironia.

– Questa volta hai voluto guardare la morte troppo da vicino, guerriero.- mi rivolsi a lui, ma ovviamente non udì le mie parole.

Gli posi una mano sulla fronte: era consumato dalla febbre. Sembrava prosciugato a dir poco. Nelle membra e nel viso aveva un pallore cereo di cui poco prima non mi ero accorto. Strano. Eppure era così evidente. Potevo vederlo nonostante i bagliori rossi del fuoco.

Allora mi resi conto che lo stavo perdendo.

Il mio cuore saltò un battito. Dove avevo sbagliato?

L’elfo stava morendo tra le mie braccia, e io cosa stavo facendo?!

Lo scossi leggermente:

- Avanti...- cercai di incoraggiarlo, o forse stavo incoraggiando me? - Coraggio!-

Avevo fatto il possibile per lui, ma forse non era stato sufficiente. Forse anche lui aveva fatto il possibile per se stesso e nonostante ciò, non era stato sufficiente.

La sua debolezza in fondo mi sorprese. Quel grande soldato era davvero stato sconfitto così impietosamente dal nemico? No, non poteva essere!

Capii che mi restava un’unica possibilità, sperando che non fosse troppo tardi. Dovevo tentare il tutto per tutto, o rassegnarmi.

Mai.

Imposi una mano sulla sua fronte e l’altra sul suo cuore. Chiusi gli occhi, per raccogliere tutte le energie che mi erano rimaste: molto poche, a dire il vero.
Era l’unica cosa che non avevo ancora tentato: magia elfica di guarigione.

Ero consapevole che cercare di infondere nell’elfo una nuova energia avrebbe potuto rivelarsi una scelta azzardata, se non pure pericolosa, considerato che io in fondo non ero una creatura forte come loro e lui era fin troppo debilitato. Avevo studiato abbastanza per affrontare una simile situazione: l’avevo visto fare tante volte a re Elrond, quante mi bastavano per comprendere che si trattava davvero dell’ultima àncora di salvezza e che avrebbe potuto facilmente ritorcersi contro di noi.

Lentamente, cominciai a trasferirgli un po’ di energia vitale, che sgorgò dalle mie dita come se fosse linfa. La sentivo fluire via da me, lasciandomi solo e impietrito; il corpo dell’elfo la succhiava come se fosse acqua.

Restai finché potei. Purtroppo avevo dei limiti e non avrei mai potuto aiutarlo come in verità volevo, pena la mia stessa morte. Ma ero certo di star facendo la cosa giusta, e come tale aveva la priorità anche sul mio benessere fisico.

Quando sentii che proprio non ce la facevo più, mi staccai.

Avevo il fiatone. Mi sentivo spossato, svuotato, come se mi fossi allenato fino allo sfinimento. Feci uno sforzo sovrumano per non crollare a terra. Di nuovo, mi asciugai il sudore dalla fronte, coprendomi il viso con le mani: erano gelide. Tutto il mio calore se n’era fuggito nel corpo dell’elfo.

Quando ebbi il coraggio di guardare, mi accorsi che gli occhi del mio salvatore erano leggermente schiusi. Era tornato, forse solamente per un secondo; forse ancora cieco e debole, ma poteva avere orecchie per un gesto di amicizia?

- Athron mae?- riuscii a sussurrare, riprendendo il contatto con la sua fronte. Volevo che avvertisse la mia presenza, che non si sentisse solo.

Ma a quel punto le sue iridi pallide si rovesciarono e lui svenne di nuovo.

Mi incupii. Non mi restava altro che aspettare e sperare, allora, volente o nolente. Per quel giorno, i miracoli erano bastati: la magia aveva bisogno di tempo per sortire i suoi benefici effetti.

Quindi, con le poche forze che ancora mi rimanevano, rimboccai le coperte al mio inatteso compagno di viaggio e appoggiai la testa sul suo cuore.

  
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