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Autore: Elsira    05/03/2021    2 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Pagina 16.

A te che non ti piaci mai
E sei una meraviglia
Le forze della natura si concentrano in te
Che sei una roccia, sei una pianta, sei un uragano
Sei l'orizzonte che mi accoglie quando mi allontano.
 
A te che sei l'unica amica
Che io posso avere
L'unico amore che vorrei
Se io non ti avessi con me
 
A te che hai reso la mia vita
Bella da morire
Che riesci a render la fatica
Un immenso piacere
 
A te che sei il mio grande amore
Ed il mio amore grande
A te che hai preso la mia vita
E ne hai fatto molto di più
 
A te che hai dato senso al tempo
Senza misurarlo
A te che sei il mio amore grande
Ed il mio grande amore

A Te, Jovanotti
 
 

“Non avrei mai creduto di riuscire a mettere piede in questo posto senza avere una crisi di panico…”

Il suono dei remoergometri all’interno della palestra mi mise addosso una profonda malinconia, ma più che lasciarmi andare al dolore, la mente mi fu inondata da ricordi dolci, nostalgici. Momenti felici, passati tra quelle mura e sul pelo dell’acqua.

Mi scappò un sorriso, e mi sorpresi di me stessa. Mi fermai qualche secondo di fronte al cancello color giallo canarino della palestra, per assaporare un attimo quelle nuove sensazioni, quando riconobbi la voce del Jolly mandare qualche imprecazione a quella macchina demoniaca. Il sorriso si fece per qualche istante più largo.

Ripresi a camminare, verso il fiume. Non volevo entrare, era già un gran risultato essere arrivata fin lì, per il momento mi bastava quello. 

Attraversai il parco, l’argine e arrivai al pontile. La piena degli ultimi giorni aveva intorpidito il fiume, facendo alzare il fondale, e pezzi di alberi che la corrente aveva strappato all’argine galleggiavano ogni tanto sulla superficie. “Stasera scenderanno solo i seniors…” Non era certamente nelle sue condizioni migliori, più pittoresche. Eppure, ai miei occhi era una visione meravigliosa.

Immersa nei miei pensieri, non mi accorsi di Elsa finché non mi ritrovai le sue braccia a stringermi in un abbraccio da dietro. Mi voltai appena, stordita, quando la sua voce rotta mi arrivò all’anima: «Non ci speravo più di vederti qui.»

Con la coda dell’occhio, vidi i remi della sua barca lasciati cadere senza nessuna cura sul ghiaino polveroso della strada dietro di noi; doveva averli lasciati andare non appena mi aveva vista, correndomi incontro senza pensarci due volte. Solo in quel momento mi resi davvero conto di quanto fossi mancata alla mia amica.

Posai lo sguardo sulle braccia che mi circondavano la vita, sfiorandole con la mano. «Mi dispiace… averti fatto aspettare tanto…»

La sentii fare cenno negativo con la testa. «Non importa. L’importante è che tu ora stia bene.»

Bene… Parola grossa. Non stavo ancora abbastanza bene per tornare a vogare, sinceramente non sapevo se sarei mai tornata. Ma stavo decisamente meglio rispetto a qualche mese prima. Ed era solo grazie a una persona, se ora riuscivo a stare vicino a quei posti senza farmi prendere da un attacco di panico.

Però no, non stavo bene. Perché avevo appena fatto soffrire un ragazzo per cui provavo un sincero affetto, che mi aveva fatta sentire amata e preziosa, per il quale però non riuscivo a provare lo stesso sentimento. Nonostante ci avessi provato.

«Ho lasciato Mattia…»

Elsa sciolse l’abbraccio e mi si mise di fronte, l’espressione sconcertata in volto che anticipava l’ovvia domanda: «Cosa?»

Chiusi gli occhi e respirai profondamente, come per trovare le forze di raccontarle ciò che era successo. «Non si può forzare l'amore, alla fine l’ho capito. O c'è o non c'è. Se c’è, è giusto fare tutto il necessario per proteggerlo. Ma se non c’è… Per me non c’era, quello che provavo era un grande affetto, ma non amore e… non sono una bambina, era giusto essere abbastanza matura da ammetterlo.»

Ci sedemmo su una delle panchine dell’argine, il fiume a fare da ancora di salvezza per il mio sguardo, per quando non trovavo il  modo di esprimere ciò che provavo.

Elsa ascoltò tutto senza dire nulla, pazientando nei miei momenti di silenzio senza interrompermi. Le fui grata della sua pazienza.

Una volta finito di parlare, tirai l’ennesimo sospiro della giornata e mi sentii più leggera. Lanciai un’occhiata alla mia amica, al mio fianco, accennando a un sorriso. Ma rimasi sorpresa dal vedere il turbamento nel suo volto.

«Ti ho davvero scioccata tanto?»

Aurora scosse la testa. «Non è quello… Non fraintermi, mi dispiace che tra voi due non abbia funzionato, ma se non lo ami non puoi farci nulla, non è colpa tua. Non si può costringere il cuore ad amare qualcuno…» Strinse gli occhi, come a trovare le parole giuste. «Idra… Ricordi la notte al retone?»

«E come potrei dimenticarla…»

«Ricordi la storia di Zeus che mi hai raccontato?»

«E come potrei non ricordarla…»

«Dopo il tuo incidente… C’è stata un numero extracomunitario che mi ha chiamata ininterrottamente…»

«Sì, me lo ricordo. Hai risposto quando sei venuta a trovarmi a casa di mia madre. Eri anche parecchio incazzata, ma quando sei rientrata mi hai sorriso serena, quindi… ho pensato tu avessi risolto, no?»

Aurora si voltò verso di me, le dita delle mani intrecciate che si torturavano l’un l’altra, negli occhi era evidente il conflitto interiore che stava vivendo, non certa di ciò che stava per rivelare, se fosse davvero la cosa giusta o meno. «Era Arkin.»

Il cuore mi mancò un battito.

Riuscii a formulare la frase solo dopo qualche secondo abbondante. «Com’è possibile… Perché ti ha chiamata?»

«Voleva sapere come stavi. Sull’ambulanza che ti ha portata all’ospedale quella mattina c’era sua sorella, è lei che lo ha informato. Era… difficile, se non impossibile, non notare quanto fosse disperato… Non notare la paura nella sua voce.»

Mi portai le mani a tapparmi il naso e la bocca, mentre le lacrime si facevano prepotenti dietro gli occhi. “Ma allora…”

«E io gli ho detto una cosa davvero cattiva… Ma in quel momento era quello che pensavo, davvero…»

“Quello che ho sentito era davvero il suo odore? Che sia davvero venuto all’ospedale? Ma… allora era in Italia? Da quanto… Perché non… Non posso credere che abbia davvero…”

«Idra, una parte di me mi sta odiando per quello che sto per dirti, ma…» Elsa chiuse gli occhi, si morse il labbro, dopodiché sentenziò: «Credo che Arkin sia la metà del tuo essere umano perfetto diviso da Zeus.» Tirò un sospiro pesante, il suo corpo si rilassò di colpo, come si fosse appena liberato da un peso incommensurabile che aveva portato fino a quel momento.

«Lo so…» Il mio fu un sussurro tremante, che non riuscii a fermare, pronunciato nel gesto di nascondere il volto tra le gambe. «Lo so… Però… fa male…» Mi strinsi le mani al petto, all’altezza del cuore. “Il peso ora ce l’ho io, proprio qui…

Forse, però, era giusto così. Dio aveva accolto la mia preghiera di quella notte al retone, dando a me il dolore dei dubbi di Elsa… L’avevo chiesto io, in fondo, quel peso. E allora perché faceva così male?

Percepii le braccia di Elsa avvolgermi in un abbraccio, avevo come l’impressione che i ruoli si fossero invertiti. Era questo il mio destino? Fare passa e prendi con il dolore? Appena esso mi abbandonava, lo volevo indietro e appena lo riottenevo volevo che mi lasciasse in pace?

“Ehi Zeus, cos’è un tuo scherzo questo? È il tuo modo per non far riunire le metà che hai separato? Oppure per “costringerli” a riunirsi? Un giochetto da soap opera che ti diverti a vedere, da lassù? Sappi che se è così… se è opera tua… sei davvero un grandissimo bastardo.”
 

«Hvorfor ser du ikke på meg som om jeg er gal? (Perché non mi guarda come fossi pazzo?)»

Sdraiato sul lettino di pelle nera nello studio dello psicologo - chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stata una scena veritiera? -, mi voltai interrogativo, curioso, verso di lui. Gli avevo appena raccontato della morte di Paolo.

«Forklar deg selv bedre. (Si spieghi meglio.)»

«Jeg kunne ha sverget at han ville se på meg med medlidenhet. Eller med øynene du ser på en idiot. (Avrei giurato che mi avrebbe guardato con pietà. O con gli occhi con cui si guarda un idiota.)»

Gunner inclinò appena il capo, intimandomi silenziosamente di spiegarmi meglio. Io alzai le spalle, distogliendo per un attimo lo sguardo. «Noen ville dømme meg som en idiot for å tro at Pauls død var min feil. Jeg var en tretten år gammel uten fremtidens sfære, jeg kunne ikke vite hva som skulle skje. Ingen tilregnelig person vil klandre meg for hans død ... Hvis jeg tenker på det objektivt, kaller jeg meg selv en idiot for denne følelsen av skyld som griper magen min hver gang jeg tenker på det. (Chiunque mi giudicherebbe un cretino per pensare che la morte di Paolo sia colpa mia. Ero un tredicenne senza la sfera del futuro, non potevo sapere cosa sarebbe successo. Nessuna persona sana di mente mi darebbe la colpa della sua morte… Anch’io, se ci penso oggettivamente, mi do dell’imbecille per questo senso di colpa che mi attanaglia lo stomaco ogni volta che ci penso.)»

«Jeg er ikke her for å dømme deg, Arkin. Det er ikke slik terapi fungerer. (Io non sono qui per giudicarla, Arkin. Non è così che funziona una terapia.)» 

Alzai lo sguardo verso il soffitto, storcendo inspiegabilmente le labbra.

«Det burde hun heller ikke. (E nemmeno lei dovrebbe.)»

Mi scappò una risatina scoraggiata. Facile parlare, vorrei vedere lui come supererebbe lo shock di vedersi morire il proprio fratello davanti agli occhi.

«Du ble bare sint. (Lei si è appena arrabbiato.)»

Mi voltai verso di lui, corrucciando lo sguardo. «Nei… jeg er ikke sint… (No… non sono arrabbiato…)»

«Han er fornærmet. Var det det jeg sa som fornærmet deg? (È offeso. È stato quello che ho detto ad averla offesa?)»

«Jeg... (Io...)»

“Ma chi è questo tizio?” Scossi la testa con forza, cercando di tirare un sorriso. Mi misi a sedere, le braccia lungo il torso. «Hun er veldig god, pokker … (Lei è davvero bravo, diamine…)»

«Timen er nesten over, men jeg har ingen andre avtaler for dagen. Vil du snakke litt med meg om den andre jenta også? (L’ora è quasi finita, ma non ho altri appuntamenti per la giornata. Vuole parlarmi un po’ anche dell’altra bambina?)»

Riflettei qualche istante. «Ville det ikke vært bedre å takle ett problem om gangen? (Non sarebbe meglio trattare un problema alla volta?)»

«Hvem vet hvorfor jeg har følelsen av at disse to problemene, som du kalte dem, er nært knyttet til hverandre. (Chissà perché ho come la sensazione che questi due “problemi”, come li ha chiamati lei, siano strettamente collegati tra loro.)»

Sospirai profondamente, il volto ancora nelle mani. 

Mi rimisi sdraiato e iniziai a raccontare di Cam.

Fu più complicato, molto più difficile. Ebbi bisogno di interrompermi più volte. Non seppi nemmeno spiegare perché, ma se con Paolo ero riuscito a trattenere le lacrime, parlando di Cam non ebbi la stessa forza. 

 

«Che ne dici, come sto?»

Sorrisi, facendo una giravolta davanti alla foto di Paolo, incorniciata dal marmo. 

Feci un giro soltanto, dopodiché mi fermai con le mani unite dietro la schiena e questa leggermente protesa in avanti. «Scusa per non essere venuta per un po’, una certa scimmietta bionda mi ha impedito di allontanarmi dal letto per qualche giorno, dopo l’incidente.»

Chinai un attimo la testa.

«Ma che te lo dico a fare, lo so che tanto lo sapevi già… Scommetto che qualche chiacchieratina con Sergio te la sei fatta, chissà che ti ha raccontato di me… Non devi credere a tutto quello che ti dice però, okay? Ero un’adolescente strana...» 

Alzai lo sguardo. «Anche se con te non ho mai avuto bisogno di scusarmi di niente, era sempre il vichingo che si scusava per me… come quando vi ho strappato le cinture dei grembiuli mentre giocavamo a cani e padrona…» Una piccola risatina mi distese le labbra. «Ero talmente dispiaciuta che poi sono scappata e mi sono andata a nascondere in un angolino ad aspettare la fine della ricreazione… Poi però tu mi hai scovato e mi hai fatto uscire, e Arkin ti ha chiesto scusa per il grembiule dicendo che era colpa sua, perché aveva iniziato a tirare troppo forte e ti aveva spinto ad andargli dietro. E tu hai semplicemente sorriso, preso le cinture di stoffa e te le sei legate a mo’ di benda… e abbiamo iniziato a giocare a moscacieca… Ricordi?»

Nostalgia.

Non ottenni risposta, ovviamente. Non me ne aspettavo una. «Sai, ultimamente ci pensavo…» Avvicinai una mano e accarezzai il volto di Paolo con tutta la delicatezza di cui ero capace. «Se tu dovessi effettivamente rispondermi, andrei fuori di testa per la paura…» Un piccolo sorriso divertito mi si dipinse sulle labbra, per trasformarsi un secondo dopo in uno triste. Sfiorai la pietra gelida con la fronte. «Però, allo stesso tempo… non sai quanto mi piacerebbe poter sentire di nuovo la tua voce…»

Il suono del cellulare mi distrasse, facendomi tornare al presente. Era la sveglia, era arrivato il momento di andare. 

Non potevo fare tardi al matrimonio della mia migliore amica.

 

«Du smiler. (Sta sorridendo.)»

«Jeg gråter som en gal … (Sto piangendo come un demente…)» Ribattei io, mentre abbassavo la mano. Ma non riuscii a smettere di sorridere.

«Han er forelsket i denne jenta. (È innamorato di questa ragazza.)»

«Er det et spørsmål eller en uttalelse? (È una domanda o un’affermazione?)» Non so perché non lo guardai, ma il soffitto di quella stanza era davvero troppo interessante. Completamente piatto e azzurro, sembrava di guardare un pezzo di cielo sereno. Calmava.

«Fortell meg. (Me lo dica lei.)» Lo sentii sorridere. «Hvorfor ville han ikke fortelle deg at han bor i Arendal? (Perché non le ha voluto dire che vive ad Arendal?)»

Mi morsi il labbro, nervoso. Mi alzai a sedere con un colpo di reni e mi voltai verso di lui: «Hvorfor forteller du meg ikke det? (Perché non me lo dice lei.)» Lo attaccai, senza volerlo davvero. Un’ondata di nervosismo, agitazione, frustrazione mi aveva come investito in pieno. «Fordi jeg ikke vil ha et langdistanseforhold. Fordi jeg ikke kunne be henne om å komme til Norge med meg. For hadde han sagt nei, hadde jeg blitt sur. Fordi hun hadde vært gal for å si ja. Fordi jeg ikke ønsket å miste det. For det jeg gjør med henne, det er feil ting! (Perché non voglio una relazione a distanza. Perché non potevo chiederle di venire in Norvegia con me. Perché se mi avesse detto di no, sarei impazzito. Perché sarebbe stata una pazza a dirmi di sì. Perché non la volevo perdere. Perché qualunque cosa faccio con lei, tanto è la cosa sbagliata!)» Mi misi le mani nei capelli, la voce rotta. «Fordi ... jeg orker ikke miste henne ... Og hvis hun har det bra nå ... så har jeg det også ... Hvis du elsker noe, må du være i stand til å la det gå ... Jeg Jeg har fortalt det til meg i flere måneder, men ... fordi det ikke fungerer! (Perché… non posso sopportare di perderla… E se sta bene ora… allora sto bene anch’io… Se ami qualcosa, devi essere in grado di lasciarlo andare… Me lo continuo a ripetere da mesi, ma… perché non funziona!)»

«Husker du hva jeg fortalte deg først da vi møttes? (Si ricorda quello che le ho detto come prima cosa quando ci siamo conosciuti?)» Mi porse un fazzoletto di carta. 

«Å lage to skudd for en kurv. (Di fare due tiri a canestro.)» Risposi io, con un sorriso di stizza. 

«Etter. (Dopo.)» Sorrise lui, paziente. Ma quel sorriso mi fece distendere un poco i nervi. «At vi ikke har evnen til å kontrollere andres følelser. Vi må ikke ønske å kontrollere dem. (Che noi non abbiamo la possibilità di controllare le emozioni degli altri. Non dobbiamo volerli controllare.)»

«Deretter… (Quindi…)» Giocai con il pezzo di carta tra le mani. «Du er enig med meg ... Jeg hadde rett i å forlate deg i Italia … (Lei è d’accordo con me… Ho fatto bene a lasciarla in Italia…)»

Gunnar attese qualche secondo prima di rispondere. «Hun burde ha gitt oss begge valget. (Lei avrebbe dovuto concedere a entrambi la possibilità di scegliere.)»

«Hvorfor begge deler? Hva har jeg med det å gjøre? Jeg velger. (Perché entrambi? Che c’entro io? Io ho scelto.)»

«Det var ikke hun som valgte. Ikke den voksne lei, den nå. Det var frykten hennes som gjorde hennes valg; den personifiseringen av den tretten år gamle lei, den som er traumatisert av tapet av venninnen. (Non è stato lei a scegliere. Non il lei adulto, quello di adesso. È stata la sua paura ad aver scelto; quella personificazione del lei tredicenne, quella traumatizzata dalla perdita del suo amico.)»

“Dovevo andare via alla prima ora e finirla con Paolo.”

«Etter venninnens død har hun etablert denne selvforsvarsmekanismen som gjør at hun kan komme nær mennesker, men bare opp til et visst punkt. Hun ønsker ikke vennskap eller forhold som er for dype, noe som vil være i stand til å ødelegge henne psykologisk i tilfelle avvisning eller oppgivelse. For det var det som skjedde med Paolo. Han klarte å ha denne typen forhold til de "nye" menneskene, hvis du vil definere dem, hvem han møtte etter traumet; men Camilla er ikke en ny person, med henne ville han aldri kunne ha et forhold som ikke var dypere, uansett om det var en romantisk følelse bak ham eller forble rent vennskap. Hun mener at Pauls død er hennes skyld, hennes egne avgjørelser. Enten det var hun som tvang ham til å komme til fotballmøtet, om det var hun som presset ham til å score. At disse valgene du la på vennen din er årsaken til hans død. Dette var grunnen til at hun måtte gå og sjekke at Camilla var i live, at hun hadde det bra, etter at søsteren ringte henne. Han var redd for at valget hans om å forlate henne i Italia hadde presset henne mot den ulykken. (Dopo la morte del suo amico, lei ha instaurato questo meccanismo di autodifesa che le permette di avvicinarsi alle persone, ma solo fino a un certo punto. Non vuole amicizie o rapporti troppo profondi, che sarebbero in grado di distruggerla psicologicamente in caso di rifiuto o abbandono. Perché è quello che è successo con Paolo. È riuscito ad avere questo tipo di rapporto con le persone “nuove”, se così si vogliono definire, che ha conosciuto dopo il suo trauma; ma Camilla non è una persona nuova, con lei non sarebbe mai riuscito ad avere un rapporto che non fosse più profondo, indipendentemente dal fatto che ci fosse un sentimento romantico alle spalle o rimanesse puramente di amicizia. Lei pensa che la morte di Paolo sia colpa sua, delle sue decisioni. Che sia stato lei a costringerlo a venire al raduno di calcio, che sia stato lei a spingerlo a fare goal. Che queste scelte che lei ha imposto al suo amico, siano la ragione della sua morte. È per questo che ha dovuto andare a controllare che Camilla fosse viva, che stesse bene, dopo che sua sorella l’ha chiamata. Aveva paura che la sua scelta di lasciarla in Italia l’avesse spinta verso quell’incidente.)»

“Cazzo.”

«Du er en veldig selvsentrert type, vet du? (Lei è un tipo molto egocentrico, lo sa?)» Gunner mi sorrise, mentre lo guardavo ancora con la bocca aperta, incapace di articolare parola.

“Io… non penso tutto questo… Sono cose irrazionali. Stupide, da pensare.”

«Underbevisstheten er ikke rasjonell, Arkin. Det er derfor det er så vanskelig å kontrollere det. (Il subconscio non è razionale, Arkin. Per questo è così difficile controllarlo.)»

Lo psicologo si alzò dalla sua poltrona e venne a sedersi al mio fianco. Parlò guardando avanti a sé, un sorrisetto in volto di chi era perfettamente consapevole di aver fatto centro: «Arkin, verden dreier seg ikke om henne, og hun er ikke arkitekten for alle ulykkene, så vel som underverkene, som skjer i hennes bekjentskapskrets. Jeg beklager å fortelle ham, men han er ikke så mektig. Praktisk talt ingen er det. (Arkin, il mondo non gira intorno a lei e lei non è l’artefice di tutte le disgrazie, così come le meraviglie, che accadono nella sua cerchia di conoscenze. Mi dispiace dirglielo, ma non è così potente. Praticamente nessuno lo è.)» Si voltò verso di me, io che ancora guardavo in basso. «Det vi trenger å jobbe sammen er å få henne til å redusere viktigheten som underbevisstheten hennes presser henne til å ha av seg selv, hva sier du? (Ciò su cui dobbiamo lavorare insieme è farle ridimensionare l’importanza che il suo subconscio la spinge ad avere di se stesso, che ne dice?)»

Solo in quel momento lo guardai negli occhi, come calamitato da una forza invisibile e sconosciuta. Ancora incapace di parlare, annuii sommessamente. 

“Ma questo qui è umano?”

 

Non eravamo in una chiesa immersa di fiori, ma in una sala del comune piuttosto austera. 

La cerimonia… Quando avevo chiesto a Elsa se fosse sicura di volersi sposare in comune anziché in Chiesa, dire che la sua risposta mi avesse lasciata basita era nulla. 

«Costa meno.»

L’aveva detto con uno dei suoi sorrisi più belli a illuminarle il volto. Mi era venuto da piangere per lei. Perché lo sapevo, sapevo benissimo che lei fosse una di quelle inguaribili romantiche che aveva sempre sognato il matrimonio delle favole. Quello in un’enorme chiesa, con mille invitati, il vestito bianco candido che la rendeva regina in mezzo a tutti quei fiori sparsi sulle panche e quelle luci colorate che entravano dalle immense finestre.

Ah… Il vestito… 

Altra nota sulla quale mi disperai io per lei. Elsa aveva sempre avuto in mente il suo vestito da sposa: un abito bianco ghiaccio, con lo scollo a cuore e il corpetto rigido coi fianchi costellati da brillanti e decorazioni floreali. Una gonna semplice sul davanti, ma con delle rose alla base della vita dalle quali uscivano strascico e balze. Dei guanti lunghi fino alle spalle e un velo lungo, immenso, che avrebbero dovuto reggere i paggetti durante la sua camminata verso l’altare e che le sarebbe ricaduto davanti al viso durante la cerimonia, per poi avere Leonardo che le avrebbe liberato il volto quando il prete avesse dato loro il permesso di baciarsi. 

Invece indossava un semplice abito bianco, lungo appena alle caviglie, un paio di décolleté chiare dal tacco modesto. Non aveva i guanti e non aveva il velo.

Distolsi gli occhi dal sindaco, che aveva finito di dichiarare i due marito e moglie, per posarli sui neo sposi. E mi scappò più di una lacrima, mandando a fare in culo il trucco per il quale mi ero impegnata troppo più del dovuto, visto comunque lo scarso risultato. 

 

«Ma perché questa fretta? Perché non aspettate come avevate detto? Oh.», le avevo preso il braccio con una mano, guardandola dritta negli occhi, preoccupata. «Ma che sei incinta?»

Per tutta risposta, Aurora si era messa a ridere. «Che tragica che sei!»

«Tragica ‘na sega, Elsa! Voi due mi state correndo a mille e non si capisce per cosa!» Avevo risposto io, iniziando davvero a preoccuparmi che potesse essere successo qualcosa.

Aurora era rimasta con il sorriso che non accennava a sparire. Aveva alzato lo sguardo verso il cielo stellato e aveva detto, semplicemente, con tutta la naturalezza del mondo: «Io lo amo.»

Sapevo che la stavo guardando strano, confusa, ma d’altronde non potevo farne a meno. 

«Ora che casa è pronta, voglio poterci entrare con lui da marito e moglie. Non mi importa se non ci possiamo permettere la cerimonia, il vestito dei sogni, la luna di miele… Non mi interessano più queste cose. Non ho bisogno di loro per essere felice, per loro ci sarà sempre tempo. Nessuno ci vieta di fare un matrimonio in chiesa un domani, con un grande ricevimento e il vestito più bello del mondo. Ma se sono sicura di una cosa è che non voglio sposarmi perché sono incinta, e allo stesso tempo non voglio dover aspettare un sacco di anni solo per potermi permettere il “matrimonio tradizionale” per poter finalmente poi rimanere incinta e creare la mia famiglia.»

Più parlava e meno la capivo. Aveva 22 anni Cristo Santo, non 40. Davvero aveva paura di non essere in tempo? 

«La realtà… È che questo desiderio l’ho sempre avuto, ma non lo sapevo. Non lo riconoscevo in questa forma, perlomeno. È come se ci fosse sempre stato, ma non gli avevo mai dato ascolto… Come faccio a spiegarti…»

Ma cos’era, ubriaca? O forse l’ubriaca ero io… 

Si era voltata verso di me e mi aveva guardata dritta negli occhi, coi suoi color miele e dolci come tale. «Idra, sai che se a Leo succedesse qualcosa di grave, davvero grave, io non potrei nemmeno entrare in ospedale per vederlo? Anche se viviamo insieme, solo perché legalmente non sono sua moglie, non sono niente

Avevo strizzato gli occhi, avevo cercato di capire quello che cercava di dirmi. 

«E lo stesso lui con me. Io non voglio questo, non lo voglio assolutamente. Se mi succede qualcosa, voglio che la persona che amo possa stare al mio fianco. In salute e in malattia, hai presente?»

Mi ero ritrovata a distogliere lo sguardo e abbassare il capo, annuendo senza nemmeno rendermene conto. Poi un flash. 

«È... colpa mia se state correndo così?», le avevo chiesto terrorizzata. «È per quello che è successo a me? Vi ho messo paura io? Guarda che se è così, non dev...»

Elsa mi aveva stretto le guance con la mano, impedendomi di proseguire con uno sguardo di fuoco. «Tu osa solo aggiungere un’altra parola, e ti strappo le labbra.»

Aveva atteso qualche secondo, poi aveva rilasciato la sua presa su di me e, dopo un sospiro, mi aveva avvolta gentilmente in un abbraccio. Con il capo sul suo seno, non potevo vederle il volto, ma sapevo che indossava la sua espressione da ragazza innamorata persa. Bastava ascoltare il battito del suo cuore e la sua voce tranquilla per capirlo, e calmarsi di conseguenza. «Non mi importa nulla della festa, io voglio poterci essere per Leonardo e voglio che lui possa esserci per me. Anche sotto gli occhi della Legge. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è il sentimento che ci lega l’un l’altro, e non ci serve una festa della durata di un giorno e più per dimostrarlo. Non dobbiamo dimostrare nulla a nessuno, se non a noi due. In questo rapporto ci siamo noi due, non gli altri, capisci?»

Sì, capivo. Ma comunque non mi tornava. Forse stavo solo cercando di capire, mentre in realtà non ci stavo cavando fuori un ragno dal buco. 

Avevo alzato gli occhi e l’avevo guardata, cercando di capire quanto di ciò che mi aveva detto fosse la verità, se fosse ciò che pensava davvero. Perché se era davvero così convinta come affermava, allora sapevo che sarebbe andato tutto bene. 

«Mi farai da testimone?» Mi aveva chiesto, ancora. Io avevo tirato un sorriso, che avevo fatto cercare di essere il più sincero possibile, e avevo annuito. Elsa aveva aumentato la presa dell’abbraccio, contenta, euforica.

Mi ci era voluto qualche secondo prima di circondarle la schiena e ricambiare. 

 

Osservai le espressioni del neo-sposi mentre si guardavano negli occhi e mi asciugai un’altra lacrima. Non versai nemmeno una goccia di sale per disperazione, o tristezza o qualsiasi altro sentimento del genere, no. Le lacrime che mi scendevano erano tutte di pura gioia. E commozione. Perché, nonostante non fosse avvolta nel suo abito color ghiaccio, immersa nei fiori in una chiesa, Aurora non era mai stata così bella in vita sua. 

Vedendola così, capii il vero significato dell’esser “vestiti d’amore”. Perché era Amore quello che si leggeva negli occhi di Aurora e Leonardo quel giorno. E allora capii tutto quello che la mia amica mi aveva detto poche sere prima. E le detti ragione.

Non appena la cerimonia fu terminata, Leonardo prese Elsa in braccio e percorse la “navata” così, con lei che rideva come una bambina, io e il Jolly, testimone di Leonardo, che li seguimmo, il resto dei nemmeno 50 invitati dietro di noi. 

Precedetti mio cognato alla macchina e gli aprii lo sportello del passeggero, facendo cenno con la mano verso l’interno: «Mademoiselle.»

«Idra hai pianto?» Mi chiese con una faccina adorabile la neo-sposa, mentre Leo la faceva accomodare al posto del passeggero in macchina. 

Prima di chiudere la portiera, mi chinai verso di lei e l’abbracciai forte. La sentii sorpresa da quel gesto, e non le potevo dare torto, ma non riuscii a trattenermi. Dopo qualche secondo, approfittando dell’attimo di privacy che ci era stata riservata, dato che Leo stava salutando gli altri invitati, le accarezzai i capelli e le sussurrai all’orecchio. «Scusami, avrei dovuto capire prima, quando hai provato a spiegarmelo.»

Elsa si liberò dal mio abbraccio e mi guardò confusa, io le sorrisi, accarezzandole la guancia: «Non avevo motivo di preoccuparmi per te, sei la sposa più bella del mondo. Anche senza il matrimonio tradizionale che abbiamo sempre fantasticato.»

Gli occhi di Aurora vennero attraversati da un velo di lacrime, che mi affrettai a far svanire storgendo le labbra e dandole due piccoli schiaffi sulle guance. 

«Ehi, ma che…» Non la lasciai finire, portando la mia fronte a sfiorare la sua e guardandola dritta negli occhi, il volto ancora nelle mie mani. 

Non dissi niente, non ce n’era bisogno. Quei tre secondi di scambi di sguardi ci bastarono per comunicarci tutto quello che volevo dirle.

Una parte di me stava piangendo disperata, nel dolore più assoluto. Quella parte di me stava morendo in quei tre secondi d’orologio, in cui nei nostri occhi passarono come in un film ad altissima velocità tutti i momenti che avevamo passato insieme, tutti i ricordi che condividevamo, solo io e lei. Sapevamo entrambe che da quel giorno in poi il nostro rapporto non sarebbe più stato lo stesso, lei si era sposata e, anche se questo non implicava chissà quali cambiamenti tangibili, nessuna delle due poteva mentire all’altra: non sarebbe più stata la stessa. La stessa che quella parte di me che stava soffrendo aveva amato tanto, e avrebbe continuato ad amare in eterno, ma avrebbe dovuto farlo solo mediante ricordi. 

Ma questo non era un male. Affatto. Perché se la vecchia, nubile Elsa era svanita quel giorno, l’Elsa sposata era appena nata e questa versione era un milione di volte meglio.

Sarebbe stato rassicurante fingere che non sarebbe cambiato nulla da donna libera a donna sposata, ma sarebbe stata una bugia. E questo ci avrebbe rovinate. Invece, accettare che Aurora stava per iniziare una nuova parte della sua vita, che era arrivata a uno dei capitoli che le auguravo con tutto il cuore essere il più bello, soddisfacente e il più lungo della sua esistenza, era un modo per andare avanti. Per imparare a conoscere e amare quella nuova versione di lei, che era finalmente entrata a far parte, assieme alla persona che amava, di un noi.

Mi staccai da lei con un sorriso colmo d’amore sul volto, mentre Leonardo saliva in macchina. Elsa mi guardò ancora mezzo istante e, prima di voltarsi e dare un bacio a suo marito prima che mettesse in moto, le sue labbra si mossero per rivolgermi un silenzioso “grazie”.

La osservai allontanarsi, superare la collina e dirigersi verso la sua nuova casa, non riuscendo a non sorridere, emozionata. Non vedevo l’ora di conoscere quella nuova versione, migliorata ne ero certa, della mia Elsa.

 

 


Il sistema mi da errore a décolleté chiare, vorrebbe che ci scrivessi nere. Perché non posso avere delle décolleté chiare, scusatemi?

2 CAPITOLI!
Manca da pubblicare due capitoli, e abbiamo finito gente! Aah... che bellezza... 


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