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Autore: Dark Lady 88    05/03/2021    2 recensioni
"La creatura dilatò le narici. Si addossò alla vetrata, aprendo i palmi delle mani e facendoli scorrere con uno stridio. Ana Maria sentì la bile schizzarle in gola. Cosa avrebbe dovuto fare se quella creatura avesse cominciato a colpire il vetro? Era così certa che non sarebbe riuscita a romperlo?"
Genere: Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La donna sospirò. La aspettava una lunga notte.

Tutto sembrava tranquillo. Certo, tranquillo: le venne da ridere.

“Tranquillo. Si fa per dire”, borbottò tra se e se.

Raccolse lo straccio da terra e lo strizzò nella vaschetta. Si asciugò il sudore dalla fronte: era avvolta da una patina fredda che ormai la donna conosceva bene, e associava al brivido che provava ogni volta che passava in quelle stanze.

Spinse il carrello fino alla porta a vetri scorrevole; prese il badge: lo osservò per un istante. Il suo nome –Ana Maria- e la sua faccia in miniatura. Aveva un’espressione seria, ma stupita: quasi fosse stata colta alla sprovvista. Le restituì uno sguardo impaurito.

La donna si impose di calmarsi: fece un respiro profondo e passò il badge sul sensore. Quello emise un bip che la fece sussultare: il suono era basso, eppure, nel silenzio della notte nel laboratorio, sembrò forte come uno sparo.

Ana Maria sapeva che doveva essere grata a sua cugina per averle trovato quel lavoro: aveva pur sempre tre marmocchi da sfamare, e lì pagavano bene. Certo, aveva cominciato ad insospettirsi quando le avevano dato da firmare una miriade di scartoffie sulla riservatezza, che Ana Maria aveva firmato senza il tempo di leggere bene. D’altronde, non ci avrebbe capito molto, a parte l’ovvio, che gli uomini in giacca e cravatta che l’avevano assunta avevano tenuto a specificare: se fosse uscita una sola parola su quanto avrebbe visto lì dentro, sarebbe morta. Lei e la sua famiglia. Ma Ana Maria non aveva motivo di andarsene in giro a raccontare i segreti del laboratorio: chi mai le avrebbe creduto, poi?

Continuò a spingere il carrello. Lo scalpiccio sul pavimento si confondeva con il rombare del sangue nelle sue orecchie, con il battito del suo cuore accelerato.

La luce fredda del neon si accese al suo passaggio. Ana Maria sentì un fruscio attutito. Trattenne il respiro. Non osò guardare verso la vetrata centrale, anche se se ne sentiva attratta come una falena dalla luce.

Cominciò a pulire la stanza, ripetendo a se stessa quanto le avevano assicurato: “Non possono vederti. Il vetro dalla loro parte è oscurato. Solo noi possiamo vedere loro… ti basta ignorarli”.

Con il passare delle settimane, Ana Maria aveva cominciato a capire cosa le avevano taciuto: era sicuramente vero che loro non potevano vederla, attraverso il vetro oscurato. Però, Ana Maria era abbastanza convinta che potessero sentirla.

Quando ebbe finito di pulire il pavimento si voltò. All’interno della cella, le luci erano spente. La creatura si era rintanata da qualche parte.

Si avvicinò con cautela, stringendo forte tra le mani il bastone per pulire la vetrata. Si fermò a pochi centimetri dal vetro e si sporse in punta di piedi, per arrivare più in alto che poteva. Il tergivetro emise uno stridio mentre scivolava dall’alto verso il basso.

Ana Maria si immobilizzò. Rimase in attesa, ma non accadde niente. Si arrischiò a sbirciare di nuovo all’interno della cella: nessun movimento. Solo buio.

Riprese a pulire, cercando di sbrigarsi. Prima finiva, prima se ne sarebbe andata da lì. Non vedeva l’ora di uscire dal laboratorio e dirigersi verso gli uffici.

Il bastone le scivolò dalle mani. Cadde a terra e rimbalzò sul pavimento, emettendo un rumore secco.

L’essere era davanti a lei. La pelle traslucida, attraverso la quale Ana Maria poteva scorgere il fitto reticolo di vene e ossa. Gli occhi iniettati di sangue la fissavano, privi di espressione, infossati nell’ovale del viso. La testa bitorzoluta era completamente calva: lo faceva assomigliare ad un teschio.

Ana Maria sapeva che doveva muoversi. Per quanto le avessero assicurato che i vetri fossero infrangibili, non era certo un bene agitare quelle creature.

“Deve evitare che si sveglino e si interessino a lei. Non mi fraintenda”, aveva specificato la donna con la coda di cavallo bionda, arricciando il naso aquilino, “non possono farle alcun male. tuttavia, vorremo evitare che le cavie si agitino…”

Ana Maria fece un passo indietro, mentre la creatura avanzava. Erano a pochi centimetri l’uno dell’altra, divisi soltanto da quella spessa lastra di vetro.
La creatura dilatò le narici. Si addossò alla vetrata, aprendo i palmi delle mani e facendoli scorrere con uno stridio. Ana Maria sentì la bile schizzarle in gola. Cosa avrebbe dovuto fare se quella creatura avesse cominciato a colpire il vetro? Era così certa che non sarebbe riuscita a romperlo?

“Mi creda, non deve avere paura di loro. I vampiri, come li chiama lei, non sono certo le creature più pericolose detenute in questo laboratorio…”. La dottoressa aveva scrollato le spalle e si era aggiustata il camice bianco. “Non penso che avrà problemi a lavorare qui”, le aveva assicurato.

Un grido squarciò il silenzio. O meglio, il verso le era sembrato un grido, ma mentre il lamento si prolungava, Ana Maria si rese conto che la voce non era umana. A metà tra un ringhio ed un rantolo, la creatura gridò tutto il suo dolore alla notte, nel silenzio del laboratorio.

Ana si voltò: non poté farne a meno. Scrutò il buio con il cuore che le martellava nel petto, finché il lamento si spese.

Adesso sentiva solo il suo respiro affannato. E si rese conto di aver commesso un terribile errore: aveva dato le spalle alla creatura affamata che la osservava da dietro il vetro.

Lentamente, si voltò di nuovo. Del vampiro però, non c’era più traccia.

  
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