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Autore: An13Uta    07/03/2021    1 recensioni
"...E tu sei tutto ciò che mi rimane al mondo."
Un viaggio attraverso Termina, alla caccia di risposte nascoste in una visione dal sorriso dolcissimo.
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Ambientata dopo Twilight Princess
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Happy Mask Salesman, Link, Skull Kid
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'occhi d'ambra'
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5



La radura è circondata da alberi familiari.

Li ha già visti. Sono quelli della Foresta.

Non sa quale sia quello al centro della radura.

Qualcuno è raggomitolato sotto alle sue fronde.

Lo raggiunge come un fantasma, quasi volando.

È un pupazzo verde, rosa, giallo, grande come un bambino.

Non ha volto.

Giace su un fianco.

Lo volta.

Occhi blu – dello stesso colore dei suoi, dello stesso taglio – lo fissano.

All'improvviso il corpo è molto più grande. All'improvviso è adulto.

Un volto troppo simile al suo lo scruta. Una mano di cicatrici lo accarezza.

Una voce che ha sentito uscire solo da denti senza labbra né lingua.

Sei uguale a lui.

Apre gli occhi.


Non sussulta, non sobbalza, non ansima madido di sudore freddo. Si sveglia: apre gli occhi.

La luce mattutina comincia a entrare dalla finestra.

I tizzoni sono ormai spenti – solo alcuni brillano, rossi di fuoco.

La bambola di legno guaisce, si agita nel sonno, rattrappita in sé stessa; sussurra febbrile parole del luogo. Mormora una ninna nanna nelle sue lunghe orecchie, cullandolo come fosse un bimbo piccolo. Lo adagia sulla panciera, davanti al focolare. Il calore rimasto addolcisce la tensione del brutto sogno.


Silenzioso, si osserva nelle acque instabili del canaletto.

La sua immagine tremola e si distorce.

Per un momento si plasma nel volto che ha sognato.


Come un riflesso.


Aveva questi occhi, il Capitano? Aveva queste guance e queste ciglia? Aveva, nascosto dietro una lunga cicatrice che gli spaccava a metà un occhio, questo strano viso ancora da bambino?


Ma il Capitano, nel suo sogno, gli ha accarezzato lo zigomo con affetto paterno, dicendo: Sei uguale a lui.

A lui.


Infila la mano nell'acqua. È fredda; un pesce scivola tra le sue dita.


A lui.


Le onde tagliano l'immagine del suo viso in più punti; ne annullano i dettagli.

Qualcosa emerge sulla superficie dell'acqua, alle sue spalle.

Non ha dettagli oltre ad un'aureola di bronzo.

Appoggia una guancia al suo braccio.

È freddo.


Gli somigli tanto, sussurra schiudendosi un sorriso dolcissimo.


Si volta.

Non c'è nessuno.

L'acqua è fredda.

Un tonfo viene, regolare, da poco lontano.


Le piastrelle sono appena tiepide; le travi di legni scricchiolano piano. Apre uno spiraglio nella porta prima di entrare nell'androne: il camino è spento; il vecchio dorme con respiri profondi. La richiude senza far rumore.

L'ingresso completamente vuoto della locanda ha un che di sovrannaturale.

L'orologio al muro ruota con un colpo secco ogni minuto.


Lo fissa in silenzio.

Sette e quarantacinque.


Solleva delicatamente lo spiritello da terra, senza spostarlo dalla fascia su cui è adagiato, e se ne va senza un rumore.


Escono dalla porta principale, come è normale che esca chi ha prenotato una stanza d'albergo per una notte; alla luce ancora debole del mattino risponde il fagotto di legnetti nelle sue braccia con un verso particolare, simile a quello di un gatto svegliato da una coccola.

Braccia di rami di betulla si stirano e si chiudono in un abbraccio ai lati del suo collo. La maschera gli preme contro il petto mentre da sotto di essa viene mugugnata un'invettiva sonnolenta al Sole.


Non c'è ancora molta gente.


Cerca di leggere un'insegna vicina. L'alfabeto è abbastanza familiare, simile a quello con cui è cresciuto: a quanto pare un bar è sempre un bar sia ad Hyrule che a... ovunque questo posto sia.


Si vergogna all'improvviso.

Non ha idea di dove si trovi.

Non può chiederlo agli abitanti del posto. Non dopo averci passato un giorno intero. Guarda sotto alla larga falda del cappello di foglia; lo spiritello sta ancora dormendo. Chiederà a lui quando si sveglierà.


Un viso scompare dietro una coppia di lavoratori. Non aveva nemmeno notato che fosse lì finché non lo ha visto svanire.


Una sfera di luce crepuscolare sfuma nel muro illuminato prima che riesca a fissarla nella memoria.


Un piede nudo si mescola con le ombre mattutine in un angolo della strada.


Crepuscolo!, lo chiama qualcuno. È una voce che non esiste.


Dietro ad una guardia, un gioiello d'ambra senza sclera.


Un'altra via.

Ha oltrepassato la prima cinta di mura.

Quando si è mosso?


Una risata senza suono.

Un braccio senza contorni.

Una mano senza sfumature.


Si volta con agitazione febbrile.


Crepuscolo!, lo chiama qualcuno.


Dov'è? Dov'è? Chi parla?

Si fa strada tra la gente che comincia ad affollare la strada lastricata.


Crepuscolo!, lo chiama qualcuno.


Il verde primaverile della pianura lo osserva.

Un tracciato sterrato scricchiola sotto i suoi stivali.

Quando è uscito da Laikmieta?

Visi mostruosamente grotteschi gli mostrano la lingua, fusi per l'eternità a pilastri troppo antichi per avere un'età.

Il cammino verso cui guidano si addentra tra alte pareti di roccia.

Un baluginio lontano.

Come una risata di rame.


Crepuscolo!, lo chiama qualcuno.


È una voce che non esiste.

I suoi piedi si muovono senza che li riesca a controllare.


Mani lignee afferrano molli le sue braccia.

Un calcagno affonda nella sua carne.


Lo spiritello scivola dalla sua presa; punta i piedi nelle sue cosce e si stira proprio come un gatto, tenendosi forte, con uno scoppiettare di ossicini come rametti secchi – pop pop pop pop, uno dietro l'altro.

Denti aguzzi lo salutano con uno sbadiglio mal contenuto sotto un viso d'osso falso. Il corpicino da bambola penzola dall'incavo dei suoi gomiti. Non pesa nulla, e non capisce se sia perché è lui stesso abituato agli sforzi, o se sia perché il guscio di corteccia è vuoto al suo interno.

Sfere d'ambra osservano il mondo attorno a loro.


-Non c'è niente là.- dice piano un filo di rame.

Il suo sguardo torna alla fine del canyon.

Non c'è nulla.

Un braccio senza pelle lo tira.


-Vieni,- lo tira, ma non riesce a staccargli gli occhi azzurri da quella distesa infinita di roccia e polvere e ombre e sabbia in cerca di qualcosa (qualcuno) che non può esistere, -Vieni.


Lo tira, lo trascina a calpestare teneri fili di smeraldo primaverile tutt'attorno la città del tempo.


-Vieni,- lo tira, lo incita, lo trascina, -Vieni.


Si ferma piano, immerso fino ai fianchi in erba alta.

Iridi d'ambra fissano segni sbiaditi su corteccia vecchia.

Occhi azzurri puntano lontano, lontano, verso un cimitero.

Non parlano.


-È bello oggi.- mormora la vocina di rame, sovrappensiero.

Stringe appena la mano di carne.


È bello oggi, commenta la voce inesistente in una lingua incomprensibile.

Il fiato d'aria gelida sul suo collo lo fa rabbrividire.


Visioni effimere macchiano il paesaggio.

Un'aureola di luce morta.

Un corpo scuro, lontano.

Un occhio arancione.

Un sorriso dolcissimo.
 

Crepuscolo!


Corre.


Corre corre corre corre corre corre corre corre senza volerlo, come un pazzo (una mano o invita a correre, una mano senza dettagli, una figura d'ombra).

Corre corre corre corre corre corre corre corre e sente appena le esplosioni di roditori troppo sorridenti sfiorarlo (denti bianchi senza viso ridono, ridono).

Corre corre corre corre corre corre corre corre e la terra gli scivola liquida e ruvida sotto le sue suole (abiti di stoffe che non riconosce scappano, saltano).

Corre corre corre corre corre corre corre corre e a malapena sente la roccia che gli graffia le mani (Crepuscolo!, chiama da sopra la ripida parete, Crepuscolo!).

Corre corre corre corre corre corre corre corre e l'acqua gelida lo intorpidisce terribilmente (un occhio tondo, un gioiello d'ambra, lo fissa, lo fissa, lo fissa).

Corre corre corre corre corre corre corre corre e sempre davanti a lui corre beffarda una gamba senza dettagli, come quella di una bambola grezza, e una voce che non è mai esistita ride, ride, ride, come se si prendesse gioco di lui mentre se lo trascina dietro nella scalata di roccia infida, liscia, lavorata per anni ed anni dal fiume, e le mani sono sporche di sangue e le unghie graffiate quando scopre di non avere più aria nel petto neanche per trascinarsi solo un po' più avanti sull'altopiano polveroso.


Ansima forte.

La canzone d'un carillon e lo scorrere di un fiume. Alza la testa: quella deve essere la casa più curiosa che abbia mai visto.

Respira.


Crepuscolo!


Un'ombra.

Un'ombra soltanto.

Dietro l'angolo della casa.

La sua mano sporge, si aggrappa al muro.

Una sfera d'ambra sul nero più puro – pezzi di tramonto come aureola.


Crepuscolo!, chiama, e per un momento lo vede sorridergli.


Per un momento, riesce a vedergli il viso.


Per un momento, ride.


Corre.


Si trascina sulle quattro zampe, schiuma alla bocca, madido di sudore, disperato disperato disperato, verso quella risata che non può aver mai sentito eppure gli sembra così familiare, e più si avvicina più quel viso che scorgeva così lontano sorride e sorride e sorride fino a diventare un ghigno e le mani artigli e poi via! Sparito! Sparito! Via! Dov'è? Dov'è? Lo chiama per nome, lontano, (Crepuscolo!), oltre l'acqua che guada senza pensare, stremato, e quella cosa, quell'ombra salta e scappa e ride con una voce di fil di rame e lo chiama, lo chiama! (Crepuscolo!) E si beffa di lui che corre e graffia il terreno quanto ne viene graffiato! E cerca di urlare, urlare, fermo, cerca di urlare, fermo, fermo, fermo, cerca di urlare, fermo, e la sola risposta al suo rantolare senza parole è quella risata lontana e sottile e quel nome che chiama, quel nome in una lingua incomprensibile (Crepuscolo!) con cui lo guida verso di sé senza mai permettergli di avvicinarsi, e gli sorride, gli sorride dolcissimo, con una dolcezza che gli sembra così maledettamente sprezzante, così irrisoria – e si allunga verso quel sorriso, si allunga, cercando di alzarsi in piedi e fallendo dalla fatica, dalla stanchezza, tentando di sputare dalle labbra anche solo una singola parola, fermo, fermo! La mano scivola nel vuoto, il petto si sbilancia, e la pietra si scontra contro pelle e ossa e muscoli.
 

Alza gli occhi.

Un vacuo grido senza suono risponde al suo sguardo con le sue vuote orbite di roccia e pietra.

Fissa le piattaforme che lo dividono dalla grottesca entrata.

Ascolta.

Silenzio.

Non c'è anima viva.


Urla.


Urla come un folle.


Urla, piangendo a dirotto.


Urla fino a raschiarsi la gola.


Urla nel nulla; il nulla non risponde.


Urla dopo che la voce gli si è ormai consumata.


Urla.


Sussulti di singhiozzi lo scuotono disperatamente.

Perché? Perché piangere ora? Dopo tutto quello che ha passato, perché ora?


Urla.


Si tiene stretta la pancia come un bambino a cui faccia male.


Urla.


Quando non riesce più a urlare, piange.

Piange.


Si accorge tardi del fruscio che arriva al suo fianco. Riesce a malapena a voltare il volto ancora coperto di lacrime che scendono, ancora ansante nel tentativo di riprendere fiato.

L'uomo gli sorride.

Ha qualcosa di strano nei tratti del viso.


-Qualcosa non va.


Non è una domanda.

Tira su col naso.


L'uomo aiuta a rialzarsi senza dire null'altro. Sporca le vesti viola purpuree di sangue; l'uomo sorride senza mostrare i denti, calmando le sue scuse gracchiate con gesti rassicuranti. Lo porta via da quella torre maledetta, liberata, illuminata.

Siedono lontano dal tempio, in una specie di accampamento. L'uomo lo fa scivolare sul suo grosso zaino vuoto. Gli offre qualcosa; forse una specie di tè. È freddo, ma non aspro. Le mani gli tremano attorno alla tazza. Si rannicchia in sé stesso. Ha i piedi umidi di graffi.


Beve in silenzio.


-Se posso...- la voce dell'uomo è strana. Parla bene; ma c'è qualcosa che non va. -Perché sei qui?


Cerca nei polmoni i rimasugli di una frase, di una risposta.

-Carnevale.- riesce a tossire.


L'uomo sorride.

Ha qualcosa di strano nei tratti del viso.


-Il Carnevale è laggiù, nella pianura.- dice semplicemente. -Perché sei qui, in queste terre desolate?


Non capisce quanti anni possa avere.

Cerca di buttar giù saliva.

La gola fa male.


-Cerco.- soffia.


-Cosa cerchi?


-Chi.- corregge. Porta una mano al collo – lo sente bruciare, lacerare. La tazza nelle sue mani è riempita di nuovo.


-Chi cerchi?- l'uomo sorride.


Non lo sa.

Non lo sa.

Non lo sa.

… e tu sei tutto ciò che mi rimane al mondo.


-Oitesch.


Silenzio.

Il vento non soffia più.

L'uomo lo osserva attraverso i suoi occhi stretti.


-Ah.- mormora.


Lo conosce?

Lo conosce.

Alza gli occhi azzurri verso di lui.

Non deve aprir bocca perché l'uomo senta la sua domanda.


Parla lentamente.


-Temo che la risposta che posso offrirti non migliorerà il tuo umore.


-Non importa,- gracida graffiando la gola con la sua voce. Sente le linee del pianto scricchiolargli sulle guance.


L'uomo lo fissa a lungo.

Ha qualcosa di strano nei tratti del viso.


-Nessuno.- risponde piano, sorridendo.


Non parlano.

La polvere del canyon spira attorno a loro.

Un'ombra passa sul viso appuntito.


-La persona che cerchi non esiste più.- l'uomo sorride senza mostrare i denti. -Non era che un bambino solo e rancoroso, abbandonato a sé stesso, succube di forze che non poteva comprendere. Non gli fu concesso di crescere.


Non esiste più.

Non esiste più.

Non può essere vero.

Non esiste più.


Come può non esistere più?


Non gli fu concesso di crescere.


-Quando?- gracchia.


Non può essere stato molto tempo fa – non è vecchio, non è vecchio per niente, non può avere così tanti anni, no? - non può essere stato così tanto tempo fa. Forse se ne è andato da qui, ancora bambino, forse è sparito così; forse non è cresciuto lì, forse è scappato, e ha vissuto più di quanto l'uomo crede di sapere. Forse è scappato attraverso i boschi così lontani, e ha incontrato in qualche modo il Capitano. Non può essere stato così tanto tempo fa.


L'uomo, piano, piano, sorride.

Ha qualcosa di strano nei tratti del viso.

Non risponde.


Come in un numero di magia, appare una lunga fila di maschere – scivolano fuori dal suo palmo vuoto simili a carte su un tavolo un po' malmesso.


-È malasorte partecipare al Carnevale senza avere una maschera.- l'uomo devia sapientemente il discorso.


Gliele indica con un singolo gesto, come un venditore esperto.


-Scegli quella che preferisci.


Esita: non ha rupie. Non sa neppure se le rupie valgano qualcosa, qui.


L'uomo ridacchia.

Ha qualcosa di strano nella sua voce.


-Pagherai un'altra volta,- l'uomo sorride, -Se ci vedremo ancora.


Osserva le maschere. Sembrano troppo per una singola persona.

Allunga e ritrae la mano senza toccarne neanche una.

Sono di stoffa, di legno, di metallo, forse di carta ispessita; una persino pare essere fatta di vetro, un'altra ha incastonate gemme preziose. Molte nascondono completamente il volto, ma vi è un certo numero che arrivano solo a coprire fino al naso. Alcune rassomigliano, macabre, a maschere funerarie, altre a musi animali.

Sono troppe.

Non sa scegliere.


Le dita gli cadono su una vecchia, vecchia maschera, un po' tonda, graffiata dal vento e con la pittura sbiadita. Non è sicuro a cosa debba somigliare – forse l'età ne ha cancellato i dettagli. Non è della miglior fattura.


La afferra con premura.


-Ah... La maschera della bambola.- sorride l'uomo.

Ha qualcosa di strano nella sua voce.


-In tempi andati, gli abitanti di Ikana usavano dipingerne il volto secondo il gusto dei figli.


Ne accarezza la superficie con il pollice.

È ruvida.


-Dimmi...


Non è dipinta.

Apparteneva ad un orfano?


-Non hai dimenticato qualcosa nella pianura?


Scatta in piedi all'improvviso, scivola sulla nuda roccia. I piedi sono nudi – deve aver pero gli stivali, eppure non se ne è nemmeno accorto.


L'uomo ridacchia.

Ha qualcosa di strano nella sua voce.


Si volta, lo cerca con lo sguardo. Sparito.


Stringe la maschera nella mano – la bambola, la bambola, la bambola!

Quando ha abbandonato la sua mano di legno, quando ha smesso di tenerla? La ha trascinata nella sua corsa disperata? No, la ha lasciata gettandosi alla folle ricerca dell'ombra di un dolcissimo sorriso – la ha lasciata, abbandonata nell'erba alta, e le ombre del pomeriggio si allungano ormai verso quelle più nere della sera.


Corre ancora, cercando di riconoscere la via da cui è venuto nel paesaggio vuoto e arido, e nella sua ricerca le gambe doloranti ignorano rovi spinosi mentre vi si avviluppano attorno, tirando, tirando, tirando, famelici e rancorosi e aspri, trappole di lignee unghie affilate che lacerano le carni fino a farlo cadere, quasi a mischiarlo nella polvere – e vede un diavolo, un diavolo, un fantasma, uno spettro maligno, viso di osso a nascondere grigio di Luna dagli occhi infuocati, strabici, a nascondere una bocca spalancata di denti mal messi e mal fatti, a presagire dita folli e sanguinarie come frecce conficcate con astio nella pelle, ad accompagnare MAI PIÙ, MAI PIÙ,MAI PIÙ, gridato con tutta l'aria di un corpo vuoto, MAI PIÙ, MAI PIÙ, MAI PIÙ, con odio che rassomiglia tanto al pianto di un cucciolo lasciato cadere nelle fauci del mondo, MAI PIÙ, MAI PIÙ, MAI PIÙ, sanguinando resina dagli occhi come lacrime tradite e traumatizzate, MAI PIÙ, MAI PIÙ, MAI PIÙ, mentre braccia colpevoli, braccia redente, braccia di viva carne che ulula di dolore cercano di offrire scuse, di offrire conforto, di offrire promesse, MAI PIÙ, MAI PIÙ, MAI PIÙ.
 

L'aria che gli soffia contro, ansante dal tanto urlare, è fredda come quella che esca da un morto.

Si fissano, piano, senza dire nulla.


Un tremito improvviso.


Pupille nere nell'ambra riconoscono dove affondano le loro piccole falangi.

Piangono.


Piangono in fretta lacrime tonde, grosse, lacrimone da bambino, estraendo le dita tremanti dalle ferite per raccogliere le gocce dagli occhi, e prima che la sua voce riesca a uscirgli dalle labbra i piccoli palmi le spalmano febbricitanti sui graffi – il sottile filo di rame sibila senza posa qualcosa mentre piange, mentre si affretta tremolante a mettere tutto a posto, e ansima, ansima, rantola, senza lasciargli un momento per chiedere scusa, per dare una carezza, e rantola e piange e singhiozza e promette, promette piano, non lo faccio più, terrorizzato, non lo faccio più, non lo faccio più, non lo faccio più... Non lo faccio più, non lo faccio più, come un bambino, come un bambino che non vuole essere punito... Non lo faccio più, come un bambino che non vuole essere chiuso nello scantinato... Non lo faccio più...


La resina si rafferma veloce, gli inzacchererà la tunica contro cui lo tiene stretto: è un sacrificio che può sopportare.

Lo tiene stretto al petto mentre ansima forte e piange.


Sussurra nelle orecchie cineree: non lo faccio più.


Il corpicino si blocca: gli occhi d'ambra lacrimano senza una parola. Abbraccia piano la sua schiena ampia.


Non lo faccio più.



Le ombre della sera scivolano in quelle della notte.




(mmmm. non sono molto soddisfatta di questo capitolo.)

   
 
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