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Autore: marinrin    08/03/2021    1 recensioni
[ Genshin Impact | Kaeya x Diluc | KaeLuc > Missing Moment ]
Si diceva che il lago dove la città di Mondstadt fosse situata, quale fiore all’occhiello di Teyvat, non ghiacciasse mai, nemmeno nel più rigido degli inverni.
L’acqua era così chiara e cristallina che non serviva aguzzare la vista per scorgerne il fondale, e il rinomato della sua freschezza aveva reso servizio al commercio e nella creazione del suo famoso vino.
Contemplava quindi quel bicchiere riempito, il Capitano della guardia, ammirandone serenamente il colorito cremisi prima di berne un sorso e saggiarne; si stava intrattenendo con alcuni ‘gentiluomini’ in taverna.
Sguardo affabile, labbra d’acanto curvate in sorrisi a metà tra il sincero o il vacuo scherno: tutti tratti che rendevano l’uomo dai capelli blu un abile seduttore e manipolatore.
Genere: Hurt/Comfort, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Diluc Ragnvindr, Kaeya Alberich
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Note lunghe: I personaggi non mi appartengono, il copyright è riservato alla Mihoyo.
Per una questione di musicalità, alcuni termini come ad esempio "Sworn Brothers" sono rimasti in inglese.
L'autrice si scusa per eventuali errori.

❧ Non c'è un tag 'incest' perchè personalmente considero i due con il concetto originario della versione cinese (la Mihoyo è cinese).
Sworn brothers (o Sworn Sisters) infatti, per farla semplice, indica un forte giuramento di "fiducia e fedeltà" fino alla morte tra due persone - ma ad essere sinceri va anche oltre. Nella cultura cinese è estremamente delicato e ricco di profondità.
Anticamente era spesso utilizzato - e tutt'ora all'interno di molte novel cinesi - per censurare una relazione (di solito omosessuale); penso tutti sappiano del
 grave problema di 'censura' a riguardo in Cina.
Tenevo a dare una spiegazione per 2 ragioni:
- 1) La cultura ed il sapere sono cose stupende e reputo sia bene conoscere certe chicche.
- 2) Voglio evitare fraintendimenti con chi magari segue la 'versione' in inglese ed ha accettato la scelta censurata degli ex fratelli ''''adottivi''''  (giusto per dire, non è incest nemmeno per la nostra cutura... ma beh, immagino sia qualcosa relativo a quella americana. Ad ognuno il suo insomma) - ho i flashback di guerra con Sailor Uranus e Sailor Neptune censurate come cugine, CHE BRIVIDI.
Tutta la questione del giuramento poi intriga davvero tantissimo... Sigh.


❧ Ci sono riprese della lore riguardo Mondstadt (ad esempio il simbolismo della rosa) e siccome sono poetica e svergognata... Beh, sono finita a dare hint su qualcosa di nonpropriamentepuroecasto ma moooolto accennato. Ad interessarmi è più il sentimento in sè.
Masochista, sadica, ma sfortunatamente una sottonissima romantica.
Lo spoiler è per la quest di Jean, siccome i fatti si collocano prima della 'festa'.
Send help.




 

- Per aspera ad astra 

 

Si diceva che il lago dove la città di Mondstadt fosse situata, quale fiore all’occhiello di Teyvat, non ghiacciasse mai, nemmeno nel più rigido degli inverni.
L’acqua era così chiara e cristallina che non serviva aguzzare la vista per scorgerne il fondale, e il rinomato della sua freschezza aveva reso servizio al commercio e nella creazione del suo famoso vino.
Contemplava quindi quel bicchiere riempito, il Capitano della guardia, ammirandone serenamente il colorito cremisi prima di berne un sorso e saggiarne; si stava intrattenendo con alcuni ‘gentiluomini’ in taverna.
Sguardo affabile, labbra d’acanto curvate in sorrisi a metà tra il sincero o il vacuo scherno: tutti tratti che rendevano l’uomo dai capelli blu un abile seduttore e manipolatore.
Mischiato tra gli agnelli, vestito di finta lana, era in realtà lupo in attesa d’azzannare la gola della creatura infausta che docilmente ne aveva sottoposto il collo: così la sua bocca si tingeva di rosso, emanando uno strano odore di rosa.
Quel fiore, il cui significato ripercuoteva sull’emblema stesso della segretezza, ‘come le bottiglie di vino sono tappate, così è la mia bocca’, era l’esatta rappresentazione della personalità di Kaeya Alberich…
Di quelle parole, dette nell’ebrezza dell’alcool, faceva tesoro, sfruttandole a proprio vantaggio, sottomettendo anima e corpo gli sventurati che osavano opporsi, munito di ghigno e diletto – ecco le spine.
Qualcuno l’avrebbe chiamato sadico: in realtà, lo straniero venuto da Khaenri’ah, semplicemente era vuoto.
Nell’animo logorato a tal punto da quasi non comprendere nemmeno i principi dell’umanità stessa, il pericolo e il terrore erano tra le uniche emozioni degne di nota a far battere il cuore ghiacciato come tundra; forse d’umano aveva solo l’aspetto.
Un cenno della mano, una moneta in più lasciata a Charles, e la porta di legno scricchiolò fastidiosamente durante una sonata di Josè. Il mantello sventolava placido alla lieve brezza serale: si tinse  presto dell’ombra appartenente alla notte mentre i colori caldi dell’Angel Share si facevano più lontani.
Un echeggio di passi  l’accompagnava attraverso i vicoli, l’iride azzurra a perdersi tra i tetti mentre raggiungeva la porta posteriore, cui guardie lo salutarono con un certo rispetto.
Intraprese con loro una lieta conversazione, fatta di informazioni e novità; a quanto pare la boss del Cat Tails aveva di nuovo esagerato con l’alcool, scambiando Diona per Prince,  e Huffman perso l’ennesima partita a carte con la gilda degli avventurieri – sorrise al pensiero: quel brav’uomo ancora non aveva capito Jack barasse?
Permise loro congedo per qualche minuto con la scusa di un drink gratis, da parte sua, in ringraziamento al ‘duro lavoro offerto al servigio della città in giornate così fredde’ così da ‘scaldare l’animo e rinvigorire lo spirito’: alla guardia, per qualche minuto, avrebbe pensato lui in persona.
Questi non protestarono,  accogliendo con una certa gioia l’invito preposto; la nomea di Kaeya come formidabile cavaliere era appurata tanto quanto quella del portare con sè un certo numero di problemi - per colmare in realtà il suo divertimento personale, altrimenti sarebbe stato tutto troppo noioso.
Soddisfazione, a questo proposito, nel frattempo era dipinta sul volto del capitano.
Con la porta scoperta in quel modo, i treasure hoarders non ci avrebbero impiegato troppo a mandare qualche uomo a sondare in ricognizione…
Aguzzando la vista nell’ombra, già poteva scorgerne le figure avvicinarsi.
Eppure, prima che anche solo uno di questi potesse muovere passo verso l’entrata, fiamme stagliate del rosso più intenso, piombarono a bruciarne terreno erboso, creando caos, fuga  e qualche svenuto: esattamente come si aspettava, d’altronde. Il vigilante non s’era fatto attendere.
Kaeya osservava la scena poggiato alla parete, un sorriso accennato in pura soddisfazione mentre applaudiva sonoramente attraverso i guanti scuri; era sempre uno spettacolo vedere Diluc combattere, non aveva decisamente perso il tocco.
«Che performance!» incalzò – con tanto ‘bravo’ in ossequio prima di staccarsi e raggiungerlo.
Occhi cremisi come fiamma viva si mossero ad incrociare iridi empie del blu che sfumava l’abisso.
Un ‘tch’ scocciato; Diluc deteneva ancora lo spadone tra le mani: lo sguardo si posò totalmente sull’altro in perpetrabile minaccia. «Avrei dovuto immaginarlo.»
Alberich si limitò a sollevare il sopracciglio scoperto in finta innocenza e l’erede dei Ragnavir roteò gli occhi in evidente fastidio; un classico delle loro interazioni.
«Notte meravigliosa, non trovi?» incalzò quello, quale fosse un’occasione come un’altra di incontrarsi ‘casualmente’. Era piuttosto ovvio avesse architettato la cosa per costringerlo ad uscire fuori allo scoperto.
La luce della luna baciava dolcente la figura dal cappotto scuro, capelli rossi a decadere attraverso le spalle talmente vividi da sembrare fiamme a tutti gli effetti, proprio come la visione dell’ex capitano.
Dedizione, impeto, coraggio: tratti che l’Archon di fuoco non poteva ignorare e che il suo sworn brother incarnava perfetti…
Insieme a quell’ignava aura di nobiltà.
«Ultimamente il tasso di criminalità si è abbassato vertiginosamente, quasi  ci troviamo senza molto da fare. Ho pensato quindi di poter ringraziare di persona il Darknight Hero per i servigi mostrati a Mondstadt.»
Il vigilante non diede peso a quanto detto, continuando a sistemare per bene gli uomini ormai privi di coscienza in attesa dell’arrivo dei ‘soldatini di Favonius’ mandati via in precedenza.
Sapeva piuttosto bene che la sua sola esistenza era in realtà una minaccia alla nomea di quei fantocci di poco conto.
«Ottimo, ringraziamenti accettati. Buona serata, sir Kaeya.» asserì, pronto a sparire di nuovo nell’oscurità dei vicoli; il tempo era qualcosa di prezioso, specialmente in notti come quella dove era stato costretto a rimanere in città per affari di dubbia provenienza. Se Huffman o qualcun altro l’avesse visto in azione ci sarebbero state non poche domande anche se ora non vestiva i panni di antieroe.
Kaeya tuttavia, sembrava di tutt’altra opinione dal lasciarlo andare, piazzandosi lui davanti senza minimamente accennare a scostarsi… E la cosa l’irritò, perché il bastardo stava approfittando della sua pazienza.
«Ultimamente, master Diluc, è più assente del solito. Riuscire ad avere un solo momento sembra già un privilegio.»
Diluc quasi ne rise.
«Se i cavalieri di Favonius facessero il loro dovere piuttosto che creare altri problemi, a quest’ora non sarei così occupato, Sir Kaeya.» replicò, scostandolo malamente.
«Se non c’è altro, direi abbiamo finito.»
Un tono di evidente stizza scaturiva attraverso i denti in un digrigno. Di norma, chiunque avrebbe evitato insistenza di fronte ad una negazione così palese, eppure la cosa non toccò minimamente né il capitano né il suo timbro eloquente. La pelliccia chiara ondeggiò alla dolcezza del vento invernale, ma nessun brivido intaccò la pelle ambra: un machiavellico sorriso prendeva forma sul volto.
«A questo proposito, sarei qui per chiedere un certo favore proprio in nome dei cavalieri di Favonius.»
Il capitano si pose nuovamente dinnanzi, in un gesto retorico per non farlo distanziare oltre. Non lo toccò: eppure fu certo Diluc fosse vicino al fulminarlo sul posto al minimo accenno di moto verso il corpo.
«Proprio per questo non ho motivo di ascoltare altro. Cosa volete, un giro di vino gratis per piangere sulla vostra incompetenza?»
Kaeya incrociò le braccia in un falso sospiro offeso.
«Ouch. Molto scortese da parte sua, master Diluc. E se dicessi fosse per l’Acting Grand Master, invece?»
L’erede dei Ragnvindr si fermò di botto; la fronte pallida s’increspò.
«Jean? Non avrebbe motivo di mandare te se dovesse parlarmi.» esplicò, alzando un sopracciglio mentre i guanti picchiettavano contro il mento. Cosa c’entrava ora il cavaliere di Dandelion?
«Ultimamente è sotto stress a causa delle continue irruzioni e domande della popolazione. Sai bene quanto venga data per scontata.» aggiunse il capitano.
Diluc non riusciva ancora a capire le sue intenzioni; certamente sarebbe andato a controllare di persona per assicurarsi tutto fosse apposto, ma perché dare lui una simile informazione?
«Dove vuoi arrivare?» chiese, ormai stanco di quel gioco mentale di scacchi.
«Saremmo lieti se master Diluc potesse aiutarci ad organizzarle qualcosa che possa rinvigorirla.»
Si arrestò, alzando il volto verso l’iride scoperta del suo ex sworn brother:  un moto di sorpresa che per qualche ragione lasciò lui uno strano amaro in bocca. Da quando Kaeya s’interessava di qualcuno?
«Vorrei ricordarle sir Kaeya, si tratti di affari dei cavalieri, non vedo come io possa essere coinvolto.»
Le ciglia rosse sbatterono imperturbate. L’uomo dai capelli blu si limitò ad alzare le mani con tanto di sospiro.
«In nome di una vecchia amicizia?»
Era conscio, Kaeya, dell’ambiguità di quelle parole e della rabbia che avrebbero potuto creare nell’altro; non aveva specificato chi di proposito – sfortunatamente, il tempismo degli altri soldatini fu perfetto e non poté aggiungere altro: ma quel tacere provocò in lui uno strano monito.
Diluc rimase in silenzio, felice di sentire il chiacchiericcio delle guardie soddisfatte, segno stessero tornando in postazione e che quindi poteva andarsene liberamente.
D’altra opinione era invece il Capitano, che sembrava non voler per nulla al mondo lasciare la presa: facile comprendere fosse  un abile manipolatore oltre che un testardo in prima istanza.
I passi dietro di lui ridondavano attraverso le strade in una movenza familiare, ottemperata dalla nebbia del passato, e da un futuro che non sarebbe mai esistito; un tempo avrebbero entrambi immaginato fossero stati insieme in notti come quella, fianco a fianco nel ridere di un bicchiere in più di qualche cavaliere, reggendosi l’un l’altro.
Non rimaneva che un sogno, cenere di fronte al gelo della realtà.
«Per quanto hai intenzione di seguirmi?» chiese Diluc, sul punto di aprire la porta del terzo piano dell’Angel Share. Il capitano non si era fermato nemmeno quando aveva intrapreso la rampa di scale: i rumori della taverna giungevano ancora forti e chiari in un preludio di risa e giochi che donavano una mal celata malinconia a quella scena familiare. La scusa del ‘scortare un civile’ era stata una mossa scontata ma comprensibile se qualcuno avesse chiesto in barba alla curiosità.
Kaeya si accomodò nella piccola stanza in forza d’abitudine quasi gli fosse dovuto: Diluc lo ignorò, togliendo il cappotto.
Fu questione di pochi attimi: iridi cremisi che scintillavano alla fioca lucerna delle candele, protese sospette a cercare l’azzurro dell’occhio di Kaeya. La mano del Capitano aveva preso a sfiorare piano le ciocche rosse appartenenti alla chioma vermiglia, togliendo blando rimasuglio della battaglia.  
Un tocco leggerlo: eppure, nonostante il mero avvicinare del palmo a diversi centimetri dalla pelle chiara, Diluc percepì freddo.
Ed il sole si mischiò alla luna in un respiro che sovveniva l’eterno: la danza del ghiaccio e del fuoco, viva attraverso tocchi che bruciavano ardenti sulle pelli, ferma nell’istinto d’aversi come stalattite.
Iniziavano sempre così quei loro rapporti occasionali: un tira e molla perenne tra due ragazzini sin troppo cresciuti che denigravano sé stessi nell’atto, falsificandone odio per sopperir al vuoto lasciato dall’altro.
I suoni dell’Angel Share giungevano ovattati: i gemiti trattenuti tra congeniti d’un cuscino di piume  erano sufficienti a cancellare ogni altro rumore.
Kaeya cercava il calore come viandante assetato d’acqua nel bel mezzo d’un deserto; lo lambiva, gridava al fuoco il suo volere di consumarlo sino lederne il midollo.
Diluc era esattamente come lui: ebbro del piacere, desideroso di quel dolce tepore che portava quiete nel cuore impervio e sin troppo dinamico, abbandonando la ragione nel processo.
Si univano perfettamente: facce d’una medaglia, anime gemelle.
E quel giuramento, inscritto nel proselito della ossa, marchiava quale tizzone ogni espiro, unendo le labbra come non mai folli nel potersi saggiare quasi fosse la prima volta.
Kaeya aveva il sapore del vino: aspro, per niente dolce, puro alcool che impregnava le labbra in netto contrasto con lo zuccherino del succo d’uva appartenente a Diluc.
Detestavano quei gusti vicendevolmente, eppure continuavano a chiamarsi, a volerne di più, sino a distruggersi nel processo.
Lo sguardo perso l’uno negli occhi dell’altro: riflesso del passato, accezione del presente, e di quei sentimenti celati come tesoro in fondo ad un lago, cui nessuno dei due aveva coraggio a farsi portavoce – i gesti, nel loro simbolismo, erano quanto di più onesto potessero ora permettersi in quella gabbia di menzogne.
La mano di Diluc si sporse,  in un attimo che parve senza fine, toccando lento la benda scura.
Le falangi chiare in contrasto con l’ambra ad accarezzare il tessuto pece.
Confortato dal fatto avesse un’assistente? Quella frase detta di fronte al viaggiatore, sovvenne lui come fulmine a ciel sereno. Ricordava ancora l’espressione di Kaeya: la maschera d’oscurità così lavorata che portava indosso aveva mostrato per qualche secondo un lembo di chiarezza, di debolezza. Similmente ad un gufo che vedeva bene anche nella più buia delle notti, non era lui sfuggito… Così come l’acre che aveva sentito in bocca.
Nessuno avrebbe potuto mai prendere il posto di Kaeya, e lo stesso valeva per Diluc. Era qualcosa che /nessuno/ dei due poteva realmente cambiare: a stento  tentavano  di sopportare il divario dandosi un confine, alzando mura che con difficoltà mantenevano erette; troppo sottili in confronto a quell'attrazione irremovibile che li rendeva appartenenti l’uno all’altro sin dal primo tocco.
E non avrebbe dovuto provare nulla, in teoria, Diluc, al sentire l’altro preoccuparsi della salute dell’Acting Grand Master: Jean era un’amica sincera che meritava di stare bene.
Ma qualcosa in lui martellava come chiodo in un’asse di legno: un tempo, quelle attenzioni erano state solo sue e di nessun altro. Gelosia, oppio e fardello degli animi: entrambi ne erano schiavi e succubi, chi per una ragione, chi per un'altra.
Un bacio tra il palmo chiaro fece rabbrividire il giovane Ragnvindr, distogliendolo da ogni pensiero.
Le ciglia scure di Kaeya si schiusero in un ossequio silenzioso alla bellezza che ai suoi occhi solo Diluc possedeva – stregava.
Non c’era da stupirsi in tanti ne amassero beltà e successo… 
Aveva perso il conto, il capitano, di tutte le damigelle, Donna compresa, che ne sognavano fidanzamento e che arrivavano disperate a chiedere addirittura consiglio; due degli uomini più belli di Mondstadt.
Diluc cercò di distogliere lo sguardo mentre i capelli blu scivolavano docilmente contro le lenzuola candide del materasso in un echeggio di affanni.
Ora come non mai Kaeya era pericoloso: gridava la mente di Diluc nell’impeto di ferirlo, di distruggere tutto, tabula rasa in un inferno rovente di parole acide. Ma bastò che l’altro ne carezzasse  il lembo della camicia nera, togliendo il gioiello cremisi, perché le bocche diventassero una di nuovo, e le guance lattee sfumassero in porpora; troppo testardi per darla vinta l’uno all’altro, Diluc rubò ogni tentativo di parola: morse quella lingua sino a che il sangue non ne plagiò il sapore ferroso scivolando in gola.
Era ciò che il ‘principe azzurro’ tanto decantato da Vile aveva di più prezioso. Quel piccolo muscolo in grado di manipolare, schernire, vincere ogni cosa – rabbia in Diluc a scorrere nelle vene: la detestava e l’amava allo stesso tempo.  In un contrasto disturbante dei suoi sentimenti, era conscio fosse l’unico che potesse permettersi un simile gesto.  
E l’altro non fu da meno: palmi forti a stringere i fianchi, affondando nella pelle in un possesso inverosimile che riempiva e macchiava come timbro la chiara epidermide.
Erano due uomini,  Diluc Ragnvindr e Kaeya Alberich: nessuno dei due possedeva la dolcezza e morbidezza del corpo d’una donna, né erano delicati come fuscelli di calla o volevano essere trattati come tali.
Fisici segnati dal tempo, dalle battaglie, ricchi di cicatrici che erano solo rivestimento in confronto a quelle nascoste nell’anima.
Il piacere poteva essere trovato ovunque, ma quello che li legava era molto di più pericoloso di quanto negassero a se stessi: era diverso da ogni tatto con altri, significava cadere nell’abisso e poi spiccar il volo verso le stelle in un ciclo incessante di oscurità e luce. Erano come principio e fine, legati dal filo rosso del fato, l’inizio e la fine l’uno dell’altro…
In quel bacio rubato sotto le stelle, nella pura innocenza d’un giuramento e nella promessa di tangere il cielo insieme, avevano stretto inconsciamente patto con il destino.
La morsa continuò; rumore di tegole piegate, ansimi e gemiti.
Le mani si stringevano intorno alle pelli quasi fatte apposta per completarsi a ritmo di graffi e di carezze: una tempesta in piena regola tra coperte chiare, impregnate ora del sudore e dell’estasi. Caos, bisogno, possesso.
E poi, in quell’ultimo espiro posto nel cercarsi celatamente, nello stringersi, tutto si quietava e tornava in stasi perfetta – silenzio.
Le mani di Kaeya giocavano morbide con i capelli cremisi sparsi sul materasso; un bacio lasciato tra le spalle nude, rosse di graffi.
Coperti da buio della notte, la luna era l’unica testimone di dolcezze febbrili cui nessuno avrebbe mai sospettato vece; erano due persone tormentate dalla consuetudine l’uno dell’altro al punto da non riuscire a porre fine a quell’amore mascherato da abitudine.
Fingere era meglio, aiutava a non percepire il peso delle proprie azioni, a non pensare alle conseguenze – ma nella nudità dell’anima, s’amavano da morirne.
Kaeya rimase in contemplazione di quella schiena finché il primo raggio solare non colpì la finestra; l’odiò. La realtà ed il tempo decantavano ode nella rottura di quell’incantesimo: dovevano tornare ad odiarsi, era così che funzionava, dopotutto.
in un sospiro si scostò, riprendendo cautamente gli indumenti, sguardo puntato attraverso la finestrella che dava alle mura: come poteva il giorno essere così crudele?
Ciocche azzurre scivolavano laute, i capelli ora sciolti ricadevano sulla camicia; occhio blu a cercar giustizia mentre il volto splendeva del chiarore del mattino.
Seduto sul letto, fece per rimettere gli stivali quando una voce lo richiamò.
«Vedrò cosa posso fare.»
Un sussurro disperso nel tepore.
Diluc non si voltò e Kaeya non insistette per costringerlo.

 



«Per aspera ad astra.»
Un monito, una promessa, un giuramento.
Parole mormorate in un bacio al sapor di sangue ed intriso d’un sentimento cristallino più delle acque di Mondstadt.
Oh amor, ch'a nullo amato amar perdona.

 









 
   
 
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