Storie originali > Soprannaturale > Fantasmi
Ricorda la storia  |      
Autore: FloweryWisteria    08/03/2021    0 recensioni
Ad ogni passo ciò che vedevo diventava sempre più immerso nell’oscurità, fino a dover strizzare gli occhi per vedere qualcosa.
“Magnus, dove…” cominciai, ma lui mi precedette: “Siamo arrivati”, disse, mantenendo lo sguardo vitreo fisso sull’albero davanti a noi.
“Magnus, cosa stai guardando?” gli chiesi. Dopo un tempo che parve infinito, distolse lo sguardo dal ramo e mi guardò negli occhi.
“Sforzati di vederlo. E’ lì, davanti a te, davanti a tutti, lo è da sempre. Devi vederlo per capire” rispose in modo incredibilmente serio. Cercai di sorridere, dicendogli che non c’era nulla, ma sembrai solo rattristarlo di più.
“Provaci, ti prego. Non fissarlo del tutto, cerca di guardare con la coda dell’occhio. C’è qualcosa, di nascosto ma perfettamente visibile. Di dimenticato, ma sempre presente...” fece una pausa per poi aggiungere: “Di morto, ma quasi vivo.” Sposto il suo viso verso il mio, agganciando i nostri sguardi, con occhi supplichevoli.
“Provaci, ti prego.” [...]
Quando fui abbastanza vicina da distinguere l’oggetto traslucido sentii una lenta paura invadermi le ossa, salendo sempre più su, fino a che non mi attanagliò il petto, bloccandomi il respiro e gelandomi il sangue nelle vene.
Era un cappio.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Un giorno d'inverno e uno d'estate

Inverno

Salutai i miei genitori con un gesto della mano, chiudendomi la porta alle spalle, per poi alzare gli occhi al cielo in un misto tra la rassegnazione e il divertimento. La mattina c’era sempre un’aria frenetica in casa, soprattutto da quando ci eravamo trasferiti: tutti che correvano e si preparavano per uscire, inevitabilmente di fretta per il nostro ritardo cronico. Grazie al cielo ero figlia unica, altrimenti la confusione sarebbe stata davvero insopportabile.

Con lo zaino in spalla aprii il cancello e mi avviai verso il sentiero.
 

Vivevamo in Germania già da un po’ ormai, ma non mi ero ancora abituata al cambio di panorama. Essendo la mia nuova città non molto grande la flora del luogo non era cambiata più di tanto con l’avvento dell’uomo, e infatti per arrivare fino a scuola dovevo fare un lungo tratto di strada nel bosco.
Non era pericoloso, anzi era davvero magnifico, ma l’idea di vivere in un luogo così lontano da tutto e da tutti ancora mi disorientava. Nonostante percorressi sempre la stessa strada, tutte le mattine temevo di prendere una svolta sbagliata e di ritrovarmi nel fitto della foresta senza sapere come uscirne.

Mi sentivo come una sorta di Cappuccetto Rosso. Conoscevo il sentiero, ma ogni ombra ed ogni rumore mi sembravano presagi del lupo in agguato.
 

Rabbrividii leggermente. Erano i primi giorni di dicembre, la mattina presto si sentiva ancora il gelo della notte, che come traccia di se oltre al freddo pungente aveva lasciato una spolverata di brina sul terreno. I fili d’erba, ricoperti da un sottile strato di ghiaccio, scricchiolavano sotto i miei passi veloci.

Mi strinsi addosso il cappotto, mentre uno sbuffo di vapore denso come fumo mi sfuggiva dalle labbra. Mi guardai intorno, pensierosa: di solito a quel punto continuavo la strada insieme a Magnus, un ragazzo di circa la mia età che viveva non molto distante da me. Facevamo da quando ero arrivata la strada insieme, io per andare a scuola e lui anche. In realtà supponevo soltanto quale fosse la sua meta, dato che non ne aveva mai parlato di preciso. Eravamo diventati buoni amici e ci divertivamo insieme, ma lui era una persona enigmatica: poteva parlare anche per ore senza davvero rivelare nulla su di sé o della sua vita, ma mantenendo sempre un tono allegro.

In certi momenti, però, sembrava che un’ombra calasse sul suo volto. Cambiava repentinamente, da un minuto all’altro. Per fortuna, questi momenti bui non duravano molto, e dopo qualche momento di esitazione tornava ad essere lo spensierato ragazzo di sempre.

Ci incrociavamo all’entrata della foresta e proseguivamo insieme lungo il sentiero, per poi separarci quando io imboccavo la mia strada e lui la sua, ogni giorno, tutti i giorni. Quando lo avevo incontrato la prima volta gli avevo chiesto dove stesse andando, e lui, dopo un attimo di esitazione, mi aveva risposto con un ghigno divertito e fare teatrale: “Ovunque e da nessuna parte, chi può dirlo? Vado in ogni luogo dove il sentiero mi porta… io sono il ragazzo della foresta!”, prima di scoppiare a ridere insieme a me.

 

Sentii un rumore provenire da dietro di me e mi voltai di scatto. L’aria sembrava essere ancor più gelida di prima, ed ero sicura di non essere sola. Guardai in tutte le direzioni, ma non vidi nulla.

“Magnus?” chiamai. “Smettila, lo so che sei tu!” dissi con un sorriso forzato, ma non giunse risposta. Scrutai nervosamente le ombre tra gli alberi, maledicendo la nebbia che copriva quel poco di sole che si stava levando.

Sembrava non ci fosse nessuno, e mi tranquillizzai appena. Mossi qualche passo in avanti sul mio sentiero, senza voltarmi indietro, quando improvvisamente sentii una mano strattonarmi il braccio. Indietreggiai velocemente, trovandomi faccia a faccia con una figura coperta di pelli di pecora e capra, con un volto mostruoso. Un rivolo di sangue scendeva da una delle lunghe corna che spuntavano dal cranio, gocciolando sulle labbra per poi finire sul mento, tingendo di rosso vermiglio la barba caprina. La bocca sanguinolenta era spalancata, lasciando vedere una serie di denti aguzzi anch’essi sporchi di sangue.

Impietrita, tirai un urlo, ma il finto demone si tolse la maschera ridendo di cuore, mostrando il suo vero volto.

“Ma sei impazzito? Mi hai fatto prendere un colpo, Magnus!” dissi arrabbiata, tirando un sospiro di sollievo.

Per tutta risposta lui continuò a ridere, piegandosi in due e con le lacrime agli occhi. “Avresti dovuto vedere la tua faccia, è stato davvero magnifico!” Io gli lanciai un’occhiataccia.

“Ti ricordo che sono cintura nera, non ti conviene scherzare con me” replicai, ma la mia minaccia non sortì alcun effetto dato che continuò con beata ilarità ad ignorarmi.

A forza di guardarlo, venne da sorridere anche a me, e finì che scoppiammo entrambi a ridere.

Quando ci fummo un po’ ripresi, continuammo a camminare.

“Allora, mi spieghi cosa diavolo è quella?” gli chiesi curiosa, seppur ancora un po’ imbronciata, ma con fare scherzoso.

“Direi che non potevi scegliere parole migliori: questa è la maschera di un Krampus, che è una sorta di demone, nemico di San Nicola. Oggi è un giorno speciale: è tradizione indossare maschere e pelli come queste. E’ divertente” rispose lui sorridendo. “Oh, sì, divertentissimo” risposi sarcastica, alzando gli occhi al cielo mentre trattenevo un sorriso.

 

Camminammo ancora, parlando del più e del meno, e dopo un po’ esaurimmo gli argomenti, così restammo in silenzio. Sentivo le foglie gelate scricchiolare sotto i nostri piedi, e sentendo l’aria pungente pensai che fra un po’ probabilmente sarebbe scoppiato un temporale.

Dopo qualche minuto decisi di rompere il silenzio: “Perché non parli più? Di solito non stai mai zitto” dissi reprimendo un sorriso. Lui per un po’ non rispose, calciando ripetutamente un sasso con i piedi, sovrappensiero. Teneva lo sguardo fisso al terreno e sembrava perso tra sé e sé.

Infine, si decise a parlare: “Sai, prima dicendo “giorno speciale” non intendevo solo il giorno di San Nicola.” disse piano, gli occhi ancora fissi a terra. Lo guardai con aria interrogativa, in attesa che continuasse.

“Posso mostrarti una cosa?” disse infine, con aria un po’ abbattuta. Non riuscivo proprio a capire come potesse aver cambiato emozioni così rapidamente: nel giro di pochi minuti era passato dalla gioia a… non sapevo bene a cosa, ma non mi sembrava nulla di buono.

“Io… ehm, sì, certo…” risposi, un po’ alla sprovvista. Mi porse una mano coperta da un guanto di pelle, e dopo che l’ebbi afferrata mi trascinò tra un paio d’alberi, lontana dal sentiero.

Nonostante prima mi fossi lamentata fra me e me della poca luce, non era nulla in confronto a quel luogo. I pochi raggi di sole che filtravano tra le nuvole riuscivano con un po’ di fatica a passare attraverso le deboli fronde degli alberi che si ergevano ai lati del sentiero, ma dove Magnus mi stava portando non c’era nessun sentiero, e la coltre di rami e foglie era fittissima. In quel momento più che mai capii perché venisse chiamata Foresta Nera.

Osservai Magnus. Mentre io ero imbacuccata fino alla punta delle dita, lui non era vestito in modo quasi leggero. Aveva qualche pelle caprina per il suo costume da Krampus, del quale teneva la maschera sotto il braccio sinistro. In pelle erano anche i guanti che gli coprivano le mani, impegnate a trascinarmi dietro di lui per essere certo che non mi perdessi. Non indossava né una giacca né un cappello, né se per questo portava degli scarponi pesanti come i miei: al loro posto aveva delle vecchie e consumate scarpe in pelle, che avrei scommesso fossero pure bucate da qualche parte.

L’unico indumento invernale che indossava era una lunga sciarpa di lana grigia, che pareva ancor più vecchia e consumata delle scarpe; il fatto strano è che portava sempre quella sciarpa, ogni mattina, da quando lo conoscevo, anche quando il tempo era sufficientemente clemente da permettergli di farne a meno.

I capelli e gli occhi erano scurissimi entrambi; se i capelli però sembravano volare, scossi dal vento d’inverno, gli occhi scintillanti erano fissi verso la sua meta, ed erano coperti da un velo di malinconia.

Più avanzavamo tra gli alberi e più sembrava che il freddo aumentasse. Ad ogni passo rabbrividivo sempre di più, maledicendo ancora una volta la nebbia, che, oltre a dare una parvenza inquietante all’intera foresta, si insinuava tra le vesti, ed avanzava sempre più dentro, congelando le vene, fino a far scricchiolare le ossa dal gelo.

E come se non bastasse, anche luce stava calando. Ad ogni passo ciò che vedevo diventava sempre più immerso nell’oscurità, fino a dover strizzare gli occhi per vedere qualcosa.

“Magnus, dove…” cominciai, ma lui mi precedette: “Siamo arrivati”, disse, mantenendo lo sguardo vitreo fisso sull’albero davanti a noi.

Lasciò la mia mano, e solo in quel momento mi accorsi di quanto fosse fredda, nonostante il contatto tra le nostre pelli.

Guardai anch’io ciò che stava fissando lui. Davanti a noi si ergeva un albero secolare, alto e robusto, con un lungo e spesso ramo che usciva dal tronco verso l’esterno. Se non ci fosse stato tutto quel freddo, e se la situazione non fosse già stata strana di per sé, probabilmente mi sarei divertita ad arrampicarmici sopra. Tutto sommato era un po’ minaccioso, immerso nella penombra, ma non capivo cosa ci fosse da vedere.

“Magnus, cosa stai guardando?” gli chiesi. Dopo un tempo che parve infinito, distolse lo sguardo dal ramo e mi guardò negli occhi.

“Sforzati di vederlo. E’ lì, davanti a te, davanti a tutti, lo è da sempre. Devi vederlo per capire” rispose in modo incredibilmente serio. Cercai di sorridere, dicendogli che non c’era nulla, ma sembrai solo rattristarlo di più.

“Provaci, ti prego. Non fissarlo del tutto, cerca di guardare con la coda dell’occhio. C’è qualcosa, di nascosto ma perfettamente visibile. Di dimenticato, ma sempre presente...” fece una pausa per poi aggiungere: “Di morto, ma quasi vivo.” Sposto il suo viso verso il mio, agganciando i nostri sguardi, con occhi supplichevoli.

“Provaci, ti prego.”

Non capivo cosa stesse dicendo. Lo guardai incredula, muovendo lo sguardo da Magnus all’albero, ammutolita. Il suo sguardo era indecifrabile: l’unica emozione chiara era il dolore.

Preoccupata, cercai di fare come mi aveva detto. Cercando usare solo la coda dell’occhio, senza guardare l’albero direttamente, cercai di vedere qualcosa, ma sembrava solo un normalissimo albero… fino a quando non vidi davvero qualcosa.

Era stato appena un attimo, un luccichio di un secondo, che nonostante fosse una debole luce mi aveva quasi fatto male agli occhi, ormai abituati all’oscurità.

Sobbalzai. Non mi aspettavo di vedere davvero qualcosa. Riprovai, e stavolta lo vidi più chiaramente. C’era qualcosa che pendeva dal ramo.

Mi avvicinai lentamente. Percepivo lo sguardo di Magnus su di me, ma non mi voltai. Quando fui abbastanza vicina da distinguere l’oggetto traslucido sentii una lenta paura invadermi le ossa, salendo sempre più su, fino a che non mi attanagliò il petto, bloccandomi il respiro e gelandomi il sangue nelle vene.

Era un cappio.

Una corda robusta penzolava verso il terreno, annodata in un anello all’estremità. Emanava una lieve luce, e aveva un aspetto evanescente.

Mi girai verso Magnus e mi accorsi che era a pochi centimetri da me, nonostante fossi sicura di non averlo sentito muovere.

Mi accorsi che anche lui aveva un aspetto evanescente. Non proprio in realtà: era il solito Magnus di sempre, ma la sciarpa ed i guanti erano scomparsi, lasciando il collo e le mani scoperti. Avevano anch’essi un aspetto indistinto, come la corda, ma notai qualcos’altro. Nel collo di Magnus, di solito coperto dalla sciarpa, c’era un profondo solco.

Lo guardai con aria spaventata, e una tacita richiesta di spiegazioni.

Lui lentamente allungò una mano verso di me, e quasi sussurrando mi chiese: “Vuoi davvero saperlo?” Annuii impercettibilmente. “Allora te lo mostrerò” rispose in modo solenne.

Molto lentamente allungai la mano, sempre più vicino, fino ad averla sospesa ad un centimetro dalla sua. Cercai il suo sguardo, e fissandolo dritto negli occhi appoggiai la mia mano sulla sua, e tutto divenne nero.

 

I miei occhi vagavano nell’oscurità. Riuscivo a vedere solo il mio corpo, che emanava uno strano bagliore, come la pelle di Magnus poco prima. Il freddo era più insistente che mai, e sotto ai miei piedi oltre a foglie e rami secchi sentivo anche un sottile manto di neve.

Dei rumori catturarono la mia attenzione: dalla direzione da cui ero arrivata provenivano dei fruscii, e sentii anche delle grida. Qualcuno correva. Più di qualcuno correva: da quel che sentivo c’erano almeno quattro persone a quell’ora di notte, nel folto della foresta.

Dietro di me comparve anche Magnus, proprio sotto l’albero dove prima pendeva il cappio. Prima? Forse dopo. Forse ciò che ricordavo doveva ancora accadere. O forse questo era solo uno strano e lungo sogno.

O forse stava accadendo davvero, e il ragazzo che mi passò davanti, come se non mi vedesse, con aria terrorizzata e uno sguardo da animale braccato in volto era davvero Magnus. Non il Magnus evanescente ritto di fianco a me, il Magnus del passato, con il collo sano e privo di escoriazioni.

Forse stava succedendo davvero, e gli uomini che arrivarono e picchiarono il ragazzo appesero davvero un cappio al ramo della grande quercia.

Forse stava accadendo davvero, e il sonoro schiocco che ruppe il silenzio fu davvero quello del collo di Magnus.

Forse stava accadendo davvero, e le urla che sentii e che lacerarono l’aria venivano davvero da quel corpo esile, che lentamente si afflosciava.

Forse era accaduto davvero, e la figura di Magnus, più spettrale che mai, stava davvero guardando il suo stesso cadavere, penzolante, quasi come se fosse un semplice spettatore.

Forse era accaduto davvero, da qualche luogo e in qualche tempo della foresta, e quando il silenzio intorno all’albero dell’impiccato calò un’ultima volta, una mano fredda si posò nuovamente sulla mia, trasportandomi un’ultima volta nell’oblio, prima di riaprire gli occhi nello stesso luogo, davanti alla stessa quercia, ma in un tempo che non poteva essere più diverso.

 

Rimasi impietrita, in silenzio, cercando di metabolizzare ciò che avevo appena visto.

Per quanto ci provassi, però, non ci riuscii. La situazione era surreale.

Guardai Magnus negli occhi, e lui guardò nei miei, in silenzio.

Pesanti e gelide gocce di pioggia cominciarono a cadere dal cielo, e a penetrare fin nelle ossa.

Cercavo di parlare ma non ci riuscivo.

Lui non ci provava nemmeno.

Stavamo semplicemente lì, in silenzio, io ammutolita e lui rassegnato. Tutto il divertimento di qualche tempo prima (quanto era passato? Minuti? O forse ore?) lungo il sentiero era svanito, lasciando dietro di se solo un’ombra fredda e vuota.

Dopo un tempo lunghissimo e breve insieme, compreso tra un battito di ciglia ed ore intere, riuscii a pronunciare con voce tremolante: “Perché? Perché è successo?”

Con un sospiro, rispose abbassando lo sguardo: “Non lo so. Non lo ricordo più. So solo che è passato molto, molto, moltissimo tempo. Troppo tempo”

Sentivo il viso bagnato. Erano gocce di pioggia o lacrime amare?

Un lampo illuminò la foresta, facendo risaltare ancor di più la ferita sul collo del ragazzo.

Non sapevo cosa fare. Non sapevo nulla. Non sapevo nemmeno se ciò che stava accadendo era reale. Sapevo solo che avevo paura.

Il rombo potente di un tuono mi fece sobbalzare. Non resistetti più: scappai.
Corsi veloce, più veloce che potei. Corsi a perdifiato, fino a che non ritrovai il sentiero, e a quel punto invece di fermarmi corsi ancora più veloce, lontano da tutto, lontano da tutti e soprattutto lontana da quella maledetta foresta.

 

Estate

“Ciao a tutti, ci vediamo dopo!” urlo dall’uscio di casa, chiudendomi la porta alle spalle.

Il sole splende, riscaldando l’aria di un bel tepore. Ho fatto bene a vestirmi leggera, anche solo con una t-shirt e dei pantaloni corti ho quasi caldo.

In cielo non c’è neppure una nuvola, e canticchiando mi avvio verso la foresta. Gli alberi dalle fronde verdi e rigogliose sembrano urlare estate da ogni foglia, e i fiori che costellano i prati rendono il tutto ancor più bello.

Mi addentro nella foresta, che ormai non temo più. E’ passato più di un anno da quando mi sono trasferita qui, e ormai la considero casa mia.

“Magnus! Non rompere, lo so che sei qui” dico sorridendo. Lui arriva così velocemente che sembra sbucato fuori dal nulla. Forse è così.

“Hey, straniera, ancora qui?” dice ridacchiando. “Straniera? Mi sembra di vivere qui da sempre. E comunque ormai sono una ragazza della foresta tanto quanto te!” rispondo io.

“Ne dubito” ribatte prontamente lui: “Io ho secoli di apprendistato alle spalle” aggiunge con un sorriso un po’ meno felice dei precedenti. Sto un po’ a guardarlo, e ci parliamo con gli occhi, con degli sguardi che valgono più di ogni parola.

Improvvisamente mi viene un’idea, così sorrido dicendogli: “Hey, sai che devo ancora vendicarmi per lo scherzo del Krampus?”

Lui non ha il tempo di dire mezza parola che improvvisamente faccio uno scatto verso di lui, afferrandogli la sciarpa che nonostante il caldo si ostina a portare, e comincio a correre.

Corro e corro, corro a perdifiato, ma non per la paura.

E così Magnus corre e corre, corre a perdifiato, ma non per scappare.

Corriamo ridendo, felici. Corriamo come se la nostra sia un’amicizia normale, anche se sappiamo entrambi che non lo è.

Lui afferra un’estremità della sciarpa, ma sta al gioco e si lascia guidare. Questa volta sono io a portarlo davanti alla grande quercia secolare, ma nessuno dei due è triste o spaventato.

Mi siedo a gambe incrociate sotto l’albero, e Magnus fa altrettanto.

Davanti a noi c’è una piccola lapide con qualche fiore. E’ nuova, l’ho aggiunta io qualche mese fa.

Lì appoggio anche la sciarpa, e sorridendo sicura gli dico: “Siamo in estate. Di questa puoi farne a meno per un po’.”

Con un accenno di sorriso annuisce, per poi distendersi sull’erba insieme a me. Guardiamo il cielo, mentre i raggi del sole filtrano tra le fronde, e non possiamo fare a meno di sorridere.

E’ vero, quest’inverno sono andata in panico. La mia prima reazione era stata scappare, da tutti e da tutto. Dimenticare che fosse mai successo.

Poi ho iniziato a chiedermi se fosse stato tutto reale, o se forse non fosse accaduto davvero.

E infine, ho capito che non importava. Ciò che sapevo però è che non volevo davvero scappare da tutto, e non volevo scappare dal mio amico della foresta, che di colpe non ne aveva.

E ora siamo qui, a guardare il cielo. Lo stesso cielo sotto cui sono accadute così tante cose. O che forse non sono accadute davvero, chi può dirlo?

 

“Si sta facendo tardi, devo andare” dico sorridendo, avviandomi verso casa. Ormai siamo al crepuscolo: i raggi vermigli del sole morente danzano sulle foglie, tra le fronde e tra i rami, fino a cadere sui nostri visi e tingerli di una calda sfumatura aranciata.

Lui mi guarda sorridendo e risponde: “Ci vediamo domani!” I suoi occhi, i suoi bellissimi occhi, luccicano di gioia, guardando la persona che li ha liberati di un antico fardello.

Ormai sono già lontana, ma faccio in tempo a urlare nella sua direzione: “Certo, a domani!”

Per poi aggiungere, più piano, fra me e me: “A domani, e a tutti i giorni che vorremo”.

 

 

 

Angolo autrice

Ciao a tutti! E' la prima storia che pubblico e spero vi sia piaciuta ;) ce l'avevo pronta da mesi ma mi sono decisa solo adesso a pubblicarla, perciò... eccomi qui! 
Mi farebbe davvero tanto piacere sapere cosa ne pensate :) vanno bene anche le recensioni critiche, sono sempre pronta a migliorare, e il vostro supporto mi aiuterebbe tantissimo.
Non so quando pubblicherò di nuovo qualcosa, ma credo presto perché ho qualche idea per una nuova storia… niente fantasmi però questa volta XD, o forse sì... devo ancora decidere, vedremo!
E niente, spero che questa one shot vi sia piaciuta e VI PREGO VI PREGO VI PREGO lasciate qualche recensione (sì scusate sono ripetitiva)! Grazie mille e un bacione, 
Eli
   
 
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Fantasmi / Vai alla pagina dell'autore: FloweryWisteria