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Autore: Elsira    09/03/2021    1 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Pagina 17.

(The scent of air after the rain... 
I hear your pulse. 
I saw the light.)
 
Il profumo dell’aria dopo la pioggia…
Sento il tuo battito.
Ho visto la luce.
 

Ao Haru Ride, Io Sakisaka
 
 

Attraversai il cancello del cimitero facendomi il segno della croce che i piedi già mi portavano da Paolo, rendendomi conto solo durante il tragitto di quanto si fossero automatizzati quei gesti. Da quando ero venuta con Arkin, lo andavo a trovare quasi tutte le settimane. 

Arrivata a pochi passi dalla cappella, però, notai l'inferriata aperta e mi bloccai sul posto. Il cuore iniziò a battermi a mille e nella testa iniziò a farsi largo il pensiero di girare i tacchi e scappare, andare via prima che potesse vedermi qualcuno. Riuscii a fermarmi dopo un paio di passi, ritornando in me. 

Cosa avevo da scappare? Perché dovevo avere paura di incontrare qualcuno nella tomba del mio amico? 

Mi voltai ancora e mi diressi nuovamente verso il suo marmo, decisa a mantenere la promessa che mi ero fatta di andare avanti, di non scappare più dai miei sentimenti e dal mio passato. Di affrontare il dolore a testa alta. 

“Non entrerò diretta, chiederò educatamente permesso a chiunque sia dentro e…” Il pensiero si arrestò non appena arrivata a un passo dalla cappella, perché una donna uscì, portandosi dietro la porta mentre si asciugava l’angolo dell’occhio. 

Rimasi pietrificata. La riconobbi subito: era la madre di Paolo. 

Il cuore tornò a battermi all’impazzata, una vocina in testa mi diede dell’imbecille per non essermene andata subito. Che cosa c’avevo guadagnato? Potevo benissimo tornare un’altra volta, no? Accidenti a me.

«Desidera?» Non lo disse per offendere, aveva un tono dolce. L’aveva sempre avuta Erica quella dolcezza affettuosa nella voce, tipica di chi darebbe un braccio per gli altri, anche quando non se lo meritano; Paolo l’aveva ereditata da lei, quella dolcezza infinita che possedeva. 

E io dovevo avere veramente una pessima faccia in quel momento.

«Signorina, si sente bene?» 

Mi sforzai di riattivare il respiro, che mi accorsi di aver involontariamente messo in pausa da quando l’avevo vista uscire dalla cappella. Balbettai qualcosa privo di senso, per guadagnare quel tempo necessario a far tornare l’ossigeno ad arrivare al cervello, e dire: «Ero v-venuta a trovare… un vecchio amico…»

Riuscii a percepire il suo sguardo interrogativo anche se i miei occhi erano fissi sui lacci delle mie scarpe. 

«Lei conosceva Paolo?»

«I-io…» Alzai un istante lo sguardo, per riabbassarlo subito dopo. Mi morsi il labbro, le mani le stavo torturando tra loro, mentre cercavo non sapevo nemmeno io dove la forza di parlare, di far uscire la voce. 

Chiusi gli occhi, feci un respiro profondo e dissi, seppur tremante: «Andavo all’asilo con lui…» Alzai gli occhi, infilandomi le unghie nel polso dietro la schiena, per costringermi a non riabbassarli più. «Mi chiamo Camilla.»

Gli occhi della donna si fecero un attimo interrogativi, dopodiché pensierosi, all’evidente ricerca di abbinare una faccia conosciuta al mio nome, per poi spalancarsi dopo pochi secondi di riflessione. «Camilla…» Erica mi venne incontro, l’andatura leggermente inclinata, già pronta all’abbraccio in cui mi avvolse. Non appena le sue braccia mi circondarono, non riuscii più a trattenere le lacrime. 

Erica mi guardò sorridente, asciugandomi le lacrime che stavo odiando con tutta me stessa con le sue mani morbide. «Sei diventata così bella…» Mi sussurrò con un sorriso meraviglioso, mentre io stringevo i denti per cercare di trattenermi e smettere di piangere come una piccinaccola, senza riuscirci. C’erano tante cose che avrei voluto dirle, prima di tutto farle le mie scuse per non essermi fatta più viva, e le mie condoglianze. Ma in quel momento riuscivo a malapena a respirare, figuriamoci a parlare. 

Dopo qualche minuto mi calmai, riuscendo a riavere il controllo su quel dolore che provavo da una vita, ma mi sembrava così nuovo. Forse perché finalmente avevo smesso di tentare di non riconoscerlo, di non dargli nome. 

Lutto.

Era questo il suo nome. Da quel momento in avanti lo avrei chiamato così.

«Sei davvero cresciuta bene, sai.»

La voce di Erica rimbombava leggermente dentro la piccola cappella. Eravamo entrambe davanti alla bara di Paolo e gli occhi della donna non si staccavano dal sorriso del mio amico.

«Posso… chiedere che cosa l’ha ucciso?»

Non riuscii a credere di averlo detto davvero a voce alta, non seppi dire da dove venne fuori quella domanda in quel momento, mi sarei voluta nascondere a vita non appena avevo formulato il quesito. 

Erica però non si offese, o almeno non lo dette a vedere, e mi rispose con il suo solito tono colmo d’affetto: «È stato il suo cuore.»

La mano mi sfiorò il petto, quasi inconsciamente, mentre abbassavo lo sguardo.

«Il medico ci disse che si è trattata di una malformazione cardiaca congenita, impossibile a quei tempi rendersene conto per tempo. Durante la fase di adolescenza il cuore non si sviluppa come dovrebbe e, così, da un momento all’altro, senza nessun preavviso, smette di funzionare.»

Strinsi la stoffa della maglia, dietro la quale si nascondeva il mio organo vitale. Che batteva, funzionante, che mi regalava ogni secondo della mia vita senza che io nemmeno me ne accorgessi.

«Era destino.»

Destino. Ma che davvero? Solo per sfiga? Uno nasce con un problema che lo ucciderà in adolescenza, così, da un momento all’altro, e non lo sa nemmeno? 

Ma che stiamo scherzando?

La vista tornò a farsi nebbiosa, le lacrime stavano tornando. Rabbia. Impotenza. Vergogna, sì anche lei. Cazzo, odiavo pure dar loro un nome.

Mi ricordai di Erica solo quando, dopo qualche istante, mi si rivolse nuovamente: «Te come va Camilla? Ti senti ancora con Arkin? Avevate un’amicizia così bella, voi tre.»

Arkin.

Paura.

Nostalgia. Gioia. Eccitazione. 

Alzai lo sguardo, osservai la foto del mio amico. 

“Il contrario di rassegnazione, come si chiama?”

Parlai come in trance, senza rendermi davvero conto di quello che stavo dicendo: «Sì, siamo ancora in contatto.»

“Ho bisogno di fare una chiamata.”

 

Il suono della pioggia che batteva sulle vetrate dell'aeroporto era completamente inudibile da dentro, sovrastato dal parlottare delle gente, gli annunci, la musica e la pubblicità proveniente da schermi, cellulari e altoparlanti.

“Questo posto è davvero caotico…” Da piccola avevo viaggiato spesso con mio padre dopo il divorzio dei miei. Mi aveva portata anche dall’altra parte del mondo, per farmi fare una vacanza, per dimostrarmi che lui a me ci teneva, ma non avevo mai capito l’ansia che poteva provare un genitore nel perdere il figlio.

Non avevo idea di come fossero messe le cose al giorno d’oggi, ma quando ero bambina io, i bimbi che sparivano all’interno degli aeroporti erano una minaccia reale. Mio padre non mi lasciava mai la mano quando viaggiavamo, anche quando si doveva attraversare il metal detector si assicurava sempre di farmi passare per prima e non mi toglieva mai gli occhi di dosso. “All’epoca lo reputavo un atteggiamento un po’ oppressivo, oggi credo che farei lo stesso.”

Senza quasi rendermene conto, giunsi agli arrivi. 

In mezzo a tutte quelle persone, eccitate di rivedere i propri cari, diedi una veloce occhiata al volo che mi interessava. Sarebbe dovuto essere il prossimo a uscire. Ricontrollai, per la millesima volta, la conversazione che avevo avuto con Gemma qualche giorno prima.

“Arkin dovrebbe aver preso questo volo… Ma se invece non ci fosse, che diamine ci sto a fare io qui?” Scossi la testa, cercando di scacciare quei pensieri. “No, ormai ho preso una decisione. Gli devo dire quello che provo una volta per tutte. E… se lui non prova lo stesso, addio. E chiuderla qui, fine della discussione! Ma me lo deve dire in faccia, dannazione! E per bene!”

«Come sarebbe a dire che non sei venuta a prendermi? Sei stata tu a insistere che dovevo venire a tutti i costi in Italia, o sbaglio? E mi molli in aeroporto? Mo' lo paghi te il taxi.»

Alzai lo sguardo, il suo profumo arrivò al mio cervello ancor prima della sua voce, il resto del mondo era come improvvisamente sparito in una nuvola di ovatta. 

«Mi dici allora ora come ci arrivo io a casa, genio?»

I nostri occhi si incrociarono, e la mia anima rimase imprigionata in quegli zaffiri, senza volerne più uscire.

Arkin si arrestò sulla soglia degli arrivi, fu tutto come una sensazione di déja-vu, ma stavolta nessuno dei due corse ad abbracciare l’altro. Fu la gente dietro di lui a farlo riscuotere e muovere. Il mezzo norvegese sussurrò una singola parola al telefono, che non capii, dopodiché si diresse verso di me e, con un movimento quasi impercettibile della testa, mi fece cenno di seguirlo.

Uscimmo dall'aeroporto, camminando fino ai giardini lì vicino, dove Arkin si fermò a pochi passi da me. Nessuno dei due aveva ancora spiccicato parola.

Nessuno dei due aveva un ombrello e la pioggia primaverile di fine Marzo ci sfiorava leggera, ma non ci facemmo caso.

Strinsi le mani, per farmi coraggio, mentre il vai e vieni delle persone attorno a noi si faceva sempre più assente ai miei occhi. «Se ti stai chiedendo perché sono venuta, sappi che è perché devo dirti che ti odio.»

Lui rimase in silenzio, non fece un passo. Non mi guardava nemmeno, era girato dall’altra parte. Stava immobile, in silenzio, e basta.

«Avevo incontrato un ragazzo meraviglioso e sono stata costretta a mandare tutto a quel paese per colpa tua. Non è giusto… Quello sarebbe potuto diventare l’uomo della mia vita, diventare il padre dei miei figli… Era una persona fantastica, perfetta per me! E invece io ho dovuto mandarlo via per colpa tua… Perché ogni volta che stavo con lui volevo stare con te, faccia a schiaffi! Perché ogni volta che lo baciavo volevo che fossero le tue stupide labbra! Perché ogni volta che lo guardavo negli occhi, sognavo di star fissando invece quei tuoi stronzissimi zaffiri!»

“No… Aspetta Cam… Non è così che glielo volevi dire… Non è questo che gli volevi dire! Tu… volevi dirgli che lo ami, non che lo odi, dannazione! Perché mi sto incazzando così!”

«Hai finito di insultarmi?» Lo disse atono, senza muovere un muscolo, mentre mi dava ancora le spalle, anche la mano sulla maniglia del trolley era rilassata. E quel suo atteggiamento mi fece calare un velo rosso davanti agli occhi.

“Come può stare così tranquillo quando io riesco a malapena a controllarmi? Quando è un anno che non ci vediamo! E io che sono anche venuta fin in aeroporto e lui resta impassibile così?” 

«No!» Lo gridai, sbattendo il piede a terra e i pugni stretti lungo i fianchi, come fosse la bizza di una bambina. Non mi importava nulla di chi potesse sentirmi, di chi si trovasse attorno a noi, del fatto che stessi facendo una scenata in piena regola. 

Con il volto abbassato e la vista offuscata dalle lacrime - di rabbia, gioia, dolore -, vidi le sue scarpe da ginnastica a un passo da me. Percepii il profumo della sua pelle, che non avevo mai smesso di amare, e solo in quel momento mi resi davvero conto del casino in cui mi ero andata a ficcare. “Che cazzo ho fatto…” Avevo detto addio a un ragazzo che poteva offrirmi una vita tranquilla, serena, senza litigi e piena d'amore… per dire addio, come volevo io, ad Arkin. “Ma che credevo… Che diamine ci faccio io qui…”

Forse non mi ero impegnata abbastanza con Mattia, forse sarei riuscita a innamorarmi davvero di lui, forse ero ancora in tempo, se solo… 

“No.”

«Sono io quello giusto per te, l’unico che può diventare il padre dei tuoi figli.»

Alzai appena lo sguardo, quel tanto che bastava per vedere l'espressione di Arkin. E non ebbi bisogno d'altro. “Non voglio vivere in una bugia, e un amore con Mattia sarebbe solo una bugia da parte mia…”

«Sono io l’unico che può amarti davvero.»

Cercai di trattenermi, ma un piccolo sorriso mi distese le labbra, mentre nuove lacrime mi scorrevano dagli occhi. “Eros, piccolo bastardo… Allora ci sei di mezzo anche te…” Le asciugai nervosamente, riprendendo il controllo di me stessa: il fatto che mi dicesse che fosse in grado di amarmi, non mi bastava per stare serena. Non potevo farmelo bastare, non così.

«Se è vero...» Strinsi i pugni. «Se è vero che puoi amarmi…» Lo guardai dritto negli occhi. «Allora quantomeno bac...» Non mi lasciò finire la frase. Mi prese il volto fra le mani e le nostre labbra si unirono. 

Fu un bacio completamente diverso dal primo: non c'era nulla di dolce, era come se racchiudesse tutto il dolore e la mancanza che avevamo provato negli ultimi mesi, nell’ultimo anno. E tutto il desiderio che avevamo accumulato e avevamo un assurdo bisogno di sfogare, assieme a una muta promessa di non farci soffrire mai più come avevamo già fatto in passato, troppe volte.

Senza rendermene conto, le lacrime avevano iniziato a scendere piano, anche se costanti, e i sentimenti che le animavano erano completamente diversi da quelli che avevano dato loro vita.

Arkin mi guardò negli occhi, la fronte a sfiorare la mia, il respiro leggermente affannato, come il mio. «Sì, ti bacio. Non aspettavo altro che il tuo permesso. E no, non è un errore. Non lo è mai stato.» I suoi pollici andarono a catturare le mie gocce di sale. «Non piangere occhi multicolor, non voglio mai più vedere queste lacrime. Non voglio mai più vederti triste.»

«Sono lacrime di gioia, cretino!» Mugolai a denti stretti, senza riuscire a trattenere un sorriso. Lui rise, al settimo cielo: «Allora questo cambia tutto!»

«Deficiente...» Sussurrai, trattenendo a stento le risate. 

Ci riempimmo di baci, brevi e divertenti, mentre ridevamo felici. Parlammo tra un bacio e una risata: «Sei… completamente mezza… Ti costava tanto… portare… un ombrello?»

«Senti da che… pulpito… Non ci ho pensato… all’ombrello… okay?»

«Perché tu... lo sappia... la mia testa... è ancora un... completo disastro... Però... ci sto lavorando.»

«Bene... perché... anche le mie emozioni... sono un gran... casino... e hanno bisogno... di un nome... E... ci sto ancora... lavorando.»

Arkin sorrise divertito qualche secondo, prima di azzerare nuovamente la distanza tra di noi per un bacio più lungo, più tenero.

Interruppe di nuovo la nostra unione, stavolta un po’ più a lungo, come scusa per prendere aria. Tenendomi ancora il volto fra le mani, mi guardò negli occhi e chiese: «Possiamo lavorarci insieme?»

Paura.

«Se non scappi dall’altra parte d’Europa.» Sussurrai dopo qualche secondo io, ed ebbi come la sensazione di aver rotto qualcosa.

Ansia. Senso di colpa.

Arkin mi accarezzò la guancia, il suo sguardo vagò per un attimo sulla punta del suo pollice, che raccoglieva l’ultima mia lacrima. Gli occhi seri tornarono poi a incatenare i miei, mentre la sensazione alla bocca dello stomaco mutava ad ogni sua parola: «Verresti assieme a me, dall’altra parte d’Europa?»

Meraviglia, esitazione, felicità. 

Mi ci vollero un paio di secondi, forse per essere davvero sicura che fossero i nomi giusti, e il corpo mi venne invaso da brividi potenti quanto inaspettati. Terrore… Per un istante temetti si trattasse di un attacco di panico, ma poi chiusi gli occhi e ascoltai i battiti del mio cuore. “Non è paura, questa è… eccitazione?” Quasi senza rendermene conto, annuii. Fiducia.

Le nostre labbra tornarono a unirsi, e, per chissà quale ragione, una parte di me era certa che tra noi ci fosse chimica, in tutti i sensi, anche se non ci eravamo mai esplorati ancora.

Un barlume mi fece tornare in mente una cosa, facendomi interrompere il bacio: «Dopo la laurea però.»

«Quand è?» Mi accarezzò appena la fronte per liberarla da qualche capello dispettoso che stava iniziando a farmi il solletico, mentre il cuore mi saliva in gola. 

«Luglio.» Riuscii a sussurrare alla fine. Lui storse le labbra, e io mi sentii morire. Stavo per dargli un pugno, quando scoppiò a ridere, divertito dall'espressione che gli avevo regalato. «Sto scherzando! Ovviamente sto scherzando, certo che organizzeremo tutto dopo la tua laurea, o quando ti sentirai pronta. Ci sono tanti modi per poter ingannare la distanza, nel mentre.»

«Sei un mostro! Un mostro orribile e crudele!» Urlai, cercando di trattenere le risate, minacciando di dargli una ginocchiata tra le gambe, ma Arkin fece in tempo a scansarsi. Mi prese il volto tra le mani, mentre ancora ridevamo, riprendendo il bacio in modo divertito. Dopo poco, cambiò però gusto, divenendo un qualcosa che faceva sciogliere il petto e privava le gambe di ogni forza, regalando una sensazione di calore e benessere che non avevo mai provato prima.

Amore.

“Strano… non avrei paura a dirti che ti amo, anche adesso.” Per qualche bizzarro motivo, non mi pareva affatto troppo presto per dirlo. Magari era solo questione che lui lo conoscevo da una vita, oppure che stavo iniziando davvero a prendere gusto nel dare nomi a ciò che provavo, o anche che quel sentimento era tanto forte che il difficile era farlo rimanere in silenzio. “Forse forse…” 

Mi staccai dal bacio. «Arkin…» 

«Ti amo.» Non appena lo disse, sentii qualcosa dentro di me letteralmente esplodere. 

Alzai lo sguardo e, probabilmente turbato dai miei occhi, cercò di rimangiarsi quanto aveva appena detto: «Scusa, io…» Lo zittii con un bacio veloce, per poi prendergli il volto tra le mani e guardarlo dritto negli occhi. «Jeg elsker deg. (Ti amo.)» 

Vidi comparire il velo delle lacrime dietro quei suoi zaffiri, un lieve rossore gli prese il possesso delle guance. Ma prima che potessi commentare quella sua reazione adorabile, e onestamente anche inaspettata, mi strinse forte a sé in un abbraccio, nascondendomi il volto al suo petto. 

Avvolsi le braccia alla sua schiena e rimasi piacevolmente in quella posizione, con l’orecchio poggiato al suo petto e immersa nel suo profumo, semplicemente ad ascoltare il battito del suo cuore attraverso il tepore della pelle.

La pioggia si era fermata e, non appena le ultime nuvole liberarono il sole, i suoi raggi ci raggiunsero tiepidi. 

Asciugarono in breve tutto ciò che ci circondava, lasciando che il profumo di erba umida e primavera inebriasse l'aria. 

 
 


Questo sarebbe tecnicamente l'ultimo capitolo, ma non potevo finirla con 18 capitoli per ragioni mie mentali, quiiiindi ci si vede venerdì per la fine ufficiale del questo racconto bimbi! Un anticipo di grazie a tutti e ciao manina!

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