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Autore: Ciuscream    09/03/2021    9 recensioni
Aziraphale cercò le parole giuste tra le tante che si affollavano nella sua mente; cercò di scrutare anche nei vocabolari stranieri, in quelli delle lingue morte e provò ad abbozzare anche qualche neologismo. Niente, assolutamente nulla, riusciva a descrivere quanto gli piacesse, quanto fosse felice, quanto celestiale amore provasse per quell’essere che era tutt’altro.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è dedicata a leila91,
dispensatrice di sorrisi.

 
 
Fino a quanto sai contare?

“Cuore a sonagli io,
occhi a fanale tu”


 
Nei seimila anni che avevano trascorso incrociando le loro strade, Aziraphale si era arrabbiato davvero con Crowley solo in una manciata di occasioni – il più delle volte perché aveva macchiato, in qualche modo, il suo abito nuovo e lindo. Il demone aveva tentato invano di fargli dimenticare quella che lui definiva acqua (santa) passata ma alcune cose, ad Aziraphale, non erano proprio andate giù e la sua angelica memoria non era avvezza a dimenticare particolari di sorta. Ad esempio, era certo che Crowley lo avesse chiamato per nome esattamente dodicimilanovecentosettantatre volte, di cui la maggior parte con tono scocciato, qualche altro suadente e una manciata di supplica. Il resto del tempo aveva utilizzato nomignoli come “angelo”, “collega” e qualche altro epiteto di apprezzamento poco pudico, sibilato però con lingua di serpente e lontano dai suoi celestiali timpani.
Aziraphale aveva questa passione per il contare, accumulare, catalogare, ricordare; per questo motivo la sua libreria era diventata una personale collezione a cinque stelle che, messa all’asta, avrebbe potuto risanare il debito pubblico di molti paesi del Sud Europa. Aveva soppesato il pensiero qualche volta poi si era detto che angelico sì, ma fino ad un certo punto. Crowley, su questo, non obiettava; anzi, a dirla tutta, non obiettava quasi mai. Era un demone pacifico, dopotutto. Aveva scongiurato l’Apocalisse – e a Woodstock si era divertito come non mai. Per questo, le accuse che ancora gli ripeteva addosso dopo due millenni, stavano iniziando a farlo scocciare un po’. Le pupille verticali di serpente si strinsero, ben nascoste dietro un paio di occhiali da sole. Nonostante fossero in un ristorante, di notte.

«Quante volte devo ripetertelo?» Crowley alzò gli occhi al cielo per un istante, poi si ricordò di chi lo abitava e li ricacciò a terra, fissandosi le scarpe di coccodrillo perfettamente lucidate. «Pompei non è opera mia! Te lo giuro su Satana… o, beh, su quel che ne resta!» Alzò il palmo a sferzare l’aria mentre, con molta nonchalance, fece ricomparire del vino nella bottiglia che li divideva, riempiendola per metà del pregiato rosso francese da poco ordinato. Lanciò qualche occhiatina furtiva ai camerieri, anche se il misfatto era coperto dalla stoffa che avvolgeva il vetro. «Te l’avrò ripetuto cento volte!»
Centotrentaquattro, avrebbe voluto precisare Aziraphale. Si trattenne, per il bene suo e del mondo intero; o, almeno, per quello di New York City. L’ultima volta che lì, al Masa, aveva fatto spazientire Crowley, la borsa era crollata di botto e, per poco, non si era assistito ad un altro venerdì nero nella storia americana. No, non il Black Friday. Anche se pure quello era opera del demone, ovviamente. Aveva ricevuto un encomio speciale per le risse, vendette e improperi che erano nati nei centri commerciali a causa di questo straordinario evento – o esperimento sociologico, come lo aveva definito lui.
«Oh, certo, caro!» sbuffò spazientito Aziraphale, tamburellando indice e medio sulla tavola, con una melodia che ricordava molto “In a sentimental mood” di John Coltrane. «Un giovanotto carino, lira alla mano, mi trascina in un vicoletto mentre strimpella qualcosa e… Boom!» Fece espandere il palmo in aria con garbata grazia, a mimare un’esplosione, allargando i grandi occhi turchesi, che – per un istante – minarono ogni proposito bellicoso di Crowley. Non era stato contento di sentire quell’aggettivo abbinato al giovanotto e le pupille serpentine si erano allargate rischiosamente, sotto gli occhiali scuri. Aziraphale proseguì, ignaro del pericolo imminente. «E, dopo poco, spunti tu su una biga misteriosamente nera e mi fai scappare a tutta velocità!»
«Come hai detto?» Crowley sibilò queste poche sillabe sulle frequenze tipiche delle balene, il viso sporto di lato, dalla parte del suo orecchio più vicino all’angelo, come ad invitarlo a ripetere quelle tre sillabe al gusto di detonatore.
«Che sei arrivato tu e…» abbozzò l’angelo ma Crowley alzò la destra, a zittirlo, e a mimare con l’indice il gesto di un rewind.
«Non quello. Prima.» Aveva il tono vagamente minaccioso di chi è mangiato da una gelosia millenaria ed è in grado di far scoppiare vulcani – l’Islanda ne era testimone. Aziraphale lo guardò dapprima un po’ stupito poi capì; sorrise, di quei sorrisi dolci che a Crowley facevano formicolare le mani e tremare quell’ammasso di sostanza demoniaca piazzato all’altezza della cassa toracica umana. Quei sorrisi che lo avevano spinto – avevano spinto entrambi – a sovvertire le regole per cui erano stati creati, a rinnegare quelle essenze che non confacevano alla loro natura. Non completamente, almeno. Sentì ogni intento belligerante svanire, mescolato al vino, annacquato dallo stesso, mentre si perdeva in quell’azzurro sconfinato che gli ricordava tanto il mare. Pensò che fosse bello avere l’oceano sempre a portata di mano e, poi, non riuscì a pensare altro. La scintilla di rabbia demoniaca era svanita così come si era accesa, travolta dall’acqua cheta dell’anima di Aziraphale, tanto celestiale da irradiare quel colore pure dalle iridi. La mano di questo arrivò a cercargli il viso, a solleticare il punto dolente della sua intera esistenza: un minuscolo centimetro quadrato di pelle tra il lobo e la gola, su cui l’angelo si divertiva a suonare le sue melodie celestiali.
«Sei millenni e ci sei stato sempre e solo tu.» Era la verità: gli angeli non dicono bugie.

 

Central Park non aveva la stessa magica atmosfera di St. James; anche le anatre erano meno avvezze alle lusinghe umane, demoniache o angeliche. Erano abituate a corridori dell'ultima ora e gente frettolosa e si erano disabituate alla nobile arte del lancio del pane, ormai una tradizione da raccontare ai nuovi arrivati come una favola d’altri tempi. Aziraphale era contrariato che il suo dono fosse ricevuto come un qualcosa di dovuto; voleva essere almeno ringraziato: uno sbaruffo d’ali, uno starnazzare educato – insomma, qualcosa. Crowley lo fissava meditabondo; il pensiero del bardo pompeiano lo faceva ancora pentire di non essere stato lui a dare il via alla nascita di quello che, qualche millennio dopo, sarebbe diventato un acclamato parco archeologico. Si era limitato a far crollare, per pacata rappresaglia, giusto qualche struttura (in particolare, la casa della suddetta buonanima, ora diventata una statuetta di lava solidificata).

Lo sguardo scivolò all'angelo che aveva la fortuna gli camminasse a fianco: era passato esattamente un anno dalla non-Apocalisse e quel viaggio a New York, solo per mangiare al ristorante giapponese tre stelle Michelin* con cui Aziraphale lo aveva ossessionato per mesi, era il loro modo di festeggiare. Non che a Crowley servisse molto: aveva ricevuto in regalo dall’angelo una bellissima pianta che era stata sistemata in un angolo del cottage e che accudiva con particolare cura. Era stato sgridato le poche volte che era stato sorpreso a minacciare o impaurire i piccoli rami. Il demone aveva beccato spesso, invece, il suo angelo a consolare con amore le foglie tremolanti ed era stato così bello osservarlo, che di tanto in tanto aveva intimorito la pianta di proposito, giusto per vederlo ancora con gli occhi chiusi a sussurrare parole dolci alla clorofilla. Era bello, anche quando metteva su quell'espressione corrucciata che gli fessurizzava quei fanali di occhi azzurri. Tanto belli che ci si era perso dentro per seimila, lunghissimi, anni senza annoiarsi mai. E lui si annoiava spesso
Si avvicinò per abbracciarlo da dietro, poggiando il mento sopra la sua spalla e soffiandogli all’orecchio qualche parola che sapeva di tentazione, di serpente. L’angelo, invece, profumava di Eden e di mela.
«Non vedo l’ora di portarti in albergo e giocare un po’ con la tua spada infuocata…» mugugnò Crowley direttamente sopra il suo lobo; una scarica di brividi solcò la schiena dell’angelo, in quel mix di sensazioni così terrene, così infernali, che non riusciva a non stupirsi e bearsi al contempo di quel calore così insolito. Lo stesso che adesso gli arrosava le gote pallide e faceva fare sussulti ad altre parti ben più a sud.
«Oh, Crowley!» farfugliò in imbarazzo, come se fosse sempre un’eterna prima volta. Quel contatto lo stupiva e lo elettrizzava ogni giorno in modo nuovo. Portò le dita alla bocca, a nascondere sotto le stesse una risatina nervosa ed eccitata, accompagnata da un pigolare leggero, smaliziato. «Siamo in pubblico!» In realtà, il parco era pressoché deserto; cercò di mimare soltanto un’espressione scandalizzata ma ormai il demone sapeva riconoscere quello scintillio delle iridi che aveva tutt’altro che il pudore ad animarlo. Si staccò controvoglia da quell’intreccio, facendo qualche passo all’indietro in quella sua andatura un po’ sbilenca, dinoccolata, da rockstar mancata – e di parecchi metri.

«Oh, finalmente! Ci stavamo congelando!» urlò il demone con tono parecchio spazientito, facendo spaventare appena Aziraphale, ancora intontito dal calore del suo abbraccio e confuso da quell’improvvisa esplosione di decibel. Si guardò intorno preoccupato, a cercare l’interlocutore di Crowley. Questo sembrava essere un uomo che arrivava in loro direzione, con dei bermuda del tutto fuori stagione e un pacco parecchio voluminoso tra le mani. Scoccò uno sguardo interrogativo al demone che, invece, aveva allargato le braccia, forse un po’ infastidito della mancanza di drammaticità in quella consegna e che, quindi, improvvisava un’entrata trionfale. «Rullo di tamburi…» mormorò e un suono molto simile si levò dagli alberi, che presero a sbatacchiare insieme i rami.
La figura li raggiunse a breve, con un sorrisetto di scuse e un piccolo colpo sul berretto, a mo’ di saluto. «Scusate, non ero mai stato a New York.» Si giustificò con una piccola alzata di spalle, porgendo il pacco a Crowley.
«Oh, no… no, no. Mettilo lì!» farfugliò preoccupato, allontanandolo anche con movimenti molto eloquenti dei palmi. Per intendeva una panchina poco lontano, vicina ad un chioschetto chiuso a quell’ora. L’uomo poggiò il pacco con delicatezza e fissò interrogativo Crowley. «Almeno una firma?» Questo annuì e dipinse le sue iniziali sopra un pezzo di carta; l’umano non poté vederlo ma queste presero fuoco per un istante.
«È stato un piacere, alla prossima!» Un ennesimo colpo sul berretto e l’uomo sparì poco lontano. In tutto questo, Aziraphale aveva lanciato sguardi interrogativi rimpallati da uno all’altro e adesso era finito sulla scatola che stava sopra la panchina e che Crowley aveva scansato con terrore. Alzò lo sguardo su di lui, l’espressione corrucciata che gli aggrottava le sopracciglia al centro della fronte.
«Che cos’è, Crowley?» La voce era quasi un sussurro e, al momento, non c’era traccia di contentezza sul suo viso; il demone, invece, era a dir poco raggiante. Saltellava quasi, in preda a chissà quale smania di mostrargli il contenuto. Glielo indicò, rimanendo comunque ad una certa distanza. Mosse il braccio in gesti eloquenti di impazienza.
«Su, su, aprilo!» Non si mosse dal posto, però, come se il pacco potesse esplodere da un momento all’altro. Lo stesso fece Aziraphale, le mani raccolte dietro la schiena e il corpo allungato in avanti.
«Ma è… sicuro?» mugugnò in tono zelante, solamente il viso proteso per tentare di sbirciare oltre i lembi non sigillati della scatola.
«Aziraphale per l’amor di…» Si fermò, lanciando un’imprecazione a denti stretti, ed un’occhiata dal cielo ai suoi piedi – per par condicio. «Per l’amore mio, mio, apri quel pacco e non farmi avvicinare!»
L’angelo era evidentemente titubante; sciolse l’intreccio delle mani da dietro la sua schiena e le portò sul davanti, a torturarle una con l’altra, mentre metteva in avanti solo qualche piccolo passetto incerto, in un’allerta che lo teneva tutto intirizzito. Crowley sbuffò vistosamente. «Non è pericoloso, angelo! Te l’ho detto dieci volte!»
«Veramente, nemmeno una!» lo rimbeccò; non era riuscito a trattenersi, questa volta, tutto concentrato com’era a non saltare in aria. Mimò un’espressione colpevole e balzellò verso il pacco più vivacemente, quasi per farsi perdonare, mentre lanciava occhiatine zuccherose in direzione del suo demone. Si sedette vicino alla scatola sulla panchina e prese un bel respiro, ignorando le rimostranze sempre più palesi di Crowley; lui, poco lontano, lo fissava come se fosse qualcosa di molto succulento o molto alcolico. Intanto, gli alberi continuavano a scuotersi con un sincero fracasso.
Aziraphale si affacciò appena all’interno della scatola, aprendone i lembi con la delicatezza richiesta piuttosto in un’operazione chirurgica e non nell’apertura di un pacco regalo; il demone stava per urlargli qualcos’altro quando gli occhi dell’angelo si illuminarono di così tanta luce che i lampioni di Central Park si vergognarono per il loro pessimo lavoro. Un sorriso gli animò le labbra, alzandogli gli angoli con un moto quasi istantaneo, febbrile. Sollevò un istante lo sguardo sul demone con un’espressione d’amore ineffabile, poi tuffò le mani dentro il contenitore. Crowley gli aveva fatto esattamente centonovantasette regali, da quando – un anno prima – avevano sventato l’Apocalisse e avevano deciso che aspettare ancora per dirsi cosa provavano sarebbe stato uno di quei peccati per cui nessuna delle loro parti avrebbe potuto dare loro l’assoluzione. Questo, però, era il più magnificente di tutti: estrasse uno dei primi due volumi di “Bibbia di Gutenberg, prima limitatissima edizione su pergamena con autografo, 7/40”. Il tagliando di garanzia annesso recitava esattamente così. Aziraphale se la poggiò sulle gambe e non riuscì a trattenere un gridolino di contentezza che allagò lo stomaco di Crowley di una sensazione di così estremo benessere che dovette pensare a qualche guerra molto sanguinosa per ricordarsi di essere un fuckin’ demone (questa cosa della rockstar gli stava sfuggendo di mano). Aziraphale lisciò il dorso del libro in modo così passionalmente delicato che Crowley si sentì quasi geloso; fortunatamente, la faglia di Sant’Andreas era parecchio lontana da lì.
«Ti sei ricordato che mancava nella mia collezione…» Il tono dell'angelo aveva, in quel momento, la stessa consistenza dell’acqua, talmente carezzevole che – ad orecchie umane – avrebbe potuto suscitare almeno due o tre conati in esseri normodotati. Realizzare quel pensiero gli diede una consapevolezza nuova: non era solo lui a ricordare tutto, ogni benedettissimo particolare di quel loro conoscersi e rincorrersi durato così tanti secoli, di quel loro avversarsi, collaborare e poi amarsi, senza rimedio.
«Ti piace?» La domanda era retorica ma Crowley si beava della sua felicità molto più famelicamente che di Rum El Dorado, invecchiato 25 anni, sua riserva personale – ci teneva fosse specificato.
Aziraphale cercò le parole giuste tra le tante che si affollavano nella sua mente; cercò di scrutare anche nei vocabolari stranieri, in quelli delle lingue morte e provò ad abbozzare anche qualche neologismo. Niente, assolutamente nulla, riusciva a descrivere quanto gli piacesse, quanto fosse felice, quanto celestiale amore provasse per quell’essere che era tutt’altro. Gli indirizzò soltanto un sorrisetto complice, più affilato degli altri e tagliato verso sinistra, che ancora contrastava coi suoi tratti così angelici. Si alzò tenendo stretto il libro tra le braccia, abbracciato come se fosse l’ultima speranza prima dello scorporamento; si avvicinò a lui piantando le iridi tuchesi affogate di malizia. Crowley sorrise, poi l’espressione si mutò in un ghigno spaventato.
Azraphale si nascoste velocemente il libro dietro la schiena, a proteggerlo. Si allungò a posargli un leggero, leggerissimo bacio sulle labbra mentre il demone schioccò le dita a fermare gli alberi, prima che perdessero tutte le foglie rimaste. L’angelo parlò talmente vicino alle sue labbra che praticamente gli stava respirando addosso. «Quanti round devo concederti per sdebitarmi, stasera?»
Crowley rispose con un sorriso identico ma animato da intenzioni molto più…mefistofeliche. Gli strusciò la lingua biforcuta sul labbro superiore, saggiando quel sapore delicato di mela e di felicità, che erano un mix talmente dolciastro che aveva iniziato a prendere il caffè amaro, per compensare. Avrebbe voluto rispondere che era lui, tra i due, quello a doversi sdebitare, per l’eternità, per l’immane fortuna di averlo incontrato. Quello che uscì dalla sua bocca, invece, risultò più o meno così:
«Fino a quanto sai contare?»
 
[*Aziraphale, per evitare di ricordare l’arcangelo Michele e il bagno di acqua santa in cui aveva rischiato di far finire Crowley, le aveva ribattezzate: tre stelle Adamin.]


 
Nda: Premessa: Nessun fatto realmente accaduto è stato maltrattato nella scrittura di questa storia; non troppo, almeno.
Ciao a tutti! Lascio questa mini-mini pony storia senza alcuna pretesa, visto che sono totalmente fuori dalla mia comfort zone. È la prima volta che scrivo in questo fandom e la prima volta che scrivo qualcosa di fluff (perché io e il dramah andiamo a braccetto). Questo raccontino, che riprende un po’ il canone dei festeggiamenti (anche se non di SanVa!), ha una dedica e una speranza: strappare un sorriso (che non so se sia nato ahahah), per riuscire a sdebitarmi dei tanti (ora chiedo ad Az quanti) che sono nati a me leggendo le storie di Benni. Un grazie a chiunque sia arrivato fin qui! La frase sottotitolo viene dall’ultima fatica sanremese di Ermal Meta – Un milione di cose da dirti. Un abbraccio
   
 
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