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Autore: Kim WinterNight    10/03/2021    5 recensioni
Ethan ha trascorso la serata nel suo locale gay preferito ed è pronto per tornare all'appartamento che condivide con Dave.
Prima di incamminarsi, però, decide di fumare una sigaretta all'esterno del pub.
Perso nei suoi pensieri, non si accorge subito di qualcuno che gli si avvicina e che ha ben altri programmi per lui.
Ethan non sa cosa succederà, ma è certo che la sua spigliata parlantina lo aiuterà a cavarsela anche stavolta.
- QUINTA CLASSIFICATA al contest "Let's Cliché!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP.
Genere: Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'In Pieces'
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ATTENZIONE:
Nel testo sono presenti termini che potrebbero turbare i lettori e insulti omofobi che non condivido assolutamente e che ho inserito solo per motivi di trama.
Se siete particolarmente sensibili, vi consiglio di passare oltre e vi ringrazio comunque per l’interessamento :)
Auguro una buona lettura a tutti ♥
 
 
 
 
 
 
Watch your words – or your words might drown you
 
 
 
 
 
 
Esco dal mio locale gay preferito e mi fermo a fumare una sigaretta prima di avviarmi verso il mio appartamento.
Non abito molto distante da qui, così ne approfitto per fare due passi e respirare un po’ d’aria fresca. Del resto l’aria frizzante della sera acuisce i miei sensi e mi aiuta a cacciare meglio.
In questo locale ho conosciuto tanti ragazzi e con alcuni di loro sono stato diverse volte, mentre con altri è stata soltanto l’avventura di una notte; in generale non ho tantissimi amici all’interno di questo ambiente, ma vado d’accordo un po’ con tutti.
Mi appoggio con la schiena alla parete e faccio scattare la pietrina dell’accendino, aspirando il fumo con calma e guardandomi attorno con curiosità.
Noto una coppia di donne che lasciano il pub e in lontananza sento delle voci concitate, ma per il resto la strada è praticamente deserta. Questo non è un quartiere particolarmente malfamato, ma non posso certo affermare che sia frequentato dai ricchi di Beverly Hills.
Sorrido tra me: con quello che guadagno con il mio lavoro di spacciatore potrei permettermi una villa a Beverly Hills, ma per il momento preferisco vivere con Dave e usare la grana per compiacere i tanti uomini con cui me la spasso quasi ogni sera. È questa la vita che mi piace, dove posso dare e ricevere affetto senza limiti e continuare a essere me stesso.
E poi devo aiutare la signora Anita e la sua famiglia perché loro mi hanno accolto quando mio padre è scomparso nel nulla e mi sono ritrovato da solo; da quando suo figlio maggiore Laudir è rimasto ucciso durante una sparatoria tra gang, la donna ha continuato a lavorare sodo per garantire al minore la possibilità di studiare.
Juan è un ragazzo intelligente e merita il meglio, così mi sono offerto di aiutarli senza remore. Non li frequento più come un tempo perché non voglio spiegargli da dove arrivano i soldi che gli mando – anche se sono certo che in fondo lo sappiano – e a volte mi mancano, sul serio, ma è meglio così.
A ben pensarci, Anita e Juan sono la cosa più simile a una famiglia che mi rimane, se escludiamo Dave. Ma Dave è diverso, lui è tutta un’altra storia.
Sto per prendere l’ultimo tiro dalla sigaretta quando un tizio corpulento mi si piazza di fronte. Come ho potuto abbassare la guardia in questo modo?
Sfodero un sorriso accattivante e non mi faccio intimorire. «Amico, vuoi sesso o roba?» chiedo.
Lui mi molla un pugno in faccia e mi manda a sbattere con la nuca contro la parete, stordendomi. Cerco di reagire, ma lui è più rapido e forte: mi afferra malamente per le braccia e mi trascina con sé lungo la via deserta, svoltando ben presto in un vicolo.
Ho gli occhi chiusi, la faccia e la testa mi fanno un male cane e non sono in grado di scrollarmi le sue mani enormi di dosso. Questo tizio non ha nemmeno un cattivo odore, non sembra un ubriaco o un drogato in astinenza in cerca di guai, ma se voleva prendersi il mio culo poteva anche chiedermelo gentilmente.
Non so quanto tempo trascorre – sento il suo respiro pesante e affannato mentre mi sospinge con decisione – prima che si fermi.
A quel punto cerco di reagire e socchiudo le palpebre, ma tutto intorno a me è fatto d’oscurità.
Il tizio apre lo sportello di un’auto e mi butta con malagrazia sui sedili posteriori, per poi salire al posto di guida e mettere velocemente in moto.
Riesco a riacquistare un minimo di lucidità che siamo già in viaggio da almeno un paio di minuti.
«Cazzo!» sputo, massaggiando il labbro inferiore tumefatto che rischia di spaccarsi a ogni tocco – è un miracolo che non sia già successo.
«Comincia a chiudere il becco, rotto in culo» sbraita il tizio alla guida, rivelando così una voce grossa e graffiante.
«In un’altra occasione penserei che sei proprio sexy, amico» biascico.
«Chiudi quella cazzo di bocca.»
Mi metto a sedere e mi affaccio tra i due sedili anteriori, mostrandomi per niente intimorito – in realtà sto cominciando a preoccuparmi perché non so cosa voglia da me e perché mi abbia sequestrato, ma so perfettamente che in casi come questi non è bene farsi vedere deboli.
E poi sono praticamente cresciuto in strada, non posso lasciarmi intimorire da uno scimmione muscoloso qualsiasi.
«Mi dici almeno cosa vuoi?» chiedo, continuando a ignorare i suoi ordini.
Il tizio sbuffa e continua a guidare con movimenti nervosi.
Cerco di riflettere un attimo: potrei allungare la mano e tirare il freno a mano, ma siamo immersi nel traffico e non voglio certo causare un incidente. Ho troppa fame di vita e non ho neanche trent’anni, non morirò per colpa di uno stronzo come questo.
Mi volto verso lo sportello alla mia destra: se lo aprissi e mi gettassi fuori chiedendo disperatamente aiuto, probabilmente verrei investito prima ancora di cominciare a gridare.
Merda.
«Mi dici dove stiamo andando? Che cazzo, amico, io nemmeno ti conosco!» proseguo, cominciando a spazientirmi.
«Io so chi sei, Ethan fottutissimo Murphy.» Si esibisce in qualcosa che dovrebbe essere una risata ma suona come un brontolio roco. «Fottutissimo in tutti i sensi» aggiunge, ridendo più forte.
Forse pensa che sia divertente, ma io rimango imperturbabile. «Grazie al cazzo, altrimenti perché mi avresti rapito? O sei uno di quei serial killer psicopatici che si vedono nei film?»
«Chiudi. Quella. Fottuta. Bocca» scandisce tra i denti.
«Solo se mi prometti che mi spieghi tutto, altrimenti mi butto nel traffico e sono cazzi tuoi» lo minaccio, anche se non sono proprio nella posizione più adatta per farlo.
«Le portiere sono chiuse, coglione.»
«Posso sempre spaccare il finestrino» replico.
«Provaci.»
Sospiro. «Ah, ‘fanculo.»
Mi abbandono contro il sedile e decido che per il momento ha vinto lui.
Devo studiarlo e capire come uscirne: nella vita di strada le cose non funzionano come nei film, a volte conviene tenersi buoni i cattivi per poi affondarli nel momento giusto.
E se questo stronzo collaborasse con gli sbirri e mi avesse teso una trappola?
Scuoto il capo e il dolore torna a pulsare sulla mia nuca: okay, niente movimenti bruschi, devo rimanere lucido e cercare di ragionare il più possibile.
Sorrido. «Meno male che mi sono appena ripulito, hai scelto un buon momento per rapirmi, altrimenti avrei fatto un casino nella tua macchina in preda all’astinenza: vomito, convulsioni, grida…»
«Ma non la perdi mai la voce, frocio di merda?»
«Mai successo. Per un periodo ho smesso di dormire e parlavo poco, ma non mi ammalo spesso. Mi dispiace deluderti, tesoro.»
Forse dovrei guardarmi attorno e cercare di capire dove mi sta portando, ma la verità è che adesso non mi importa: per il momento siamo ancora in città e questo mi rassicura. Inoltre, anche se non so spiegarmi perché, non credo che questo tipo abbia intenzione di tenermi segregato in mezzo al deserto per mesi.
Devo solo avere pazienza e studiarlo.
Arriverà il mio momento.
 
 
L’auto si ferma e il tizio scende rapidamente dal posto di guida, venendo ad aprirmi lo sportello proprio mentre sto per fare lo stesso.
Mi sollevo di scatto, cercando di mollargli una testata sul mento, ma lui mi dà un altro pugno e stavolta il labbro si spacca sul serio e comincia a sanguinare copiosamente.
Approfittando del mio stordimento, mi prende nuovamente per un braccio e mi tira fuori dall’abitacolo, spingendomi a camminare su un vialetto sterrato.
Siamo in una zona periferica che non conosco e di fronte a noi si staglia una specie di capanno non meglio identificato – c’è talmente buio che non riesco a comprenderne le effettive condizioni.
«Cammina, cazzo» sbraita, trapanandomi un orecchio con la sua voce roca e fastidiosa.
Apre una porta cigolante senza usare delle chiavi e mi conduce con malagrazia all’interno; mentre vengo investito da un intenso puzzo di muffa, lui dà un calcio all’uscio e lo richiude con un colpo secco.
Mi trascina per alcuni metri, finché non raggiungiamo un tavolo in cemento che sembra esistere da prima che la struttura venisse costruita, a giudicare da quanto è massiccio.
Finalmente i miei occhi si stanno abituando alla penombra e noto che l’ambiente è abbastanza spoglio, pare una rimessa per attrezzi di lavoro o una vecchia officina smantellata.
L’energumeno si guarda attorno e schiocca le dita della mano libera, poi mi tira ancora per il braccio e compie qualche passo. Si china per raccogliere qualcosa, poi torna accanto al tavolo e mi spinge a terra.
Cado all’indietro e rischio di battere nuovamente la testa contro il bordo in cemento, così mi sporgo in avanti e il tizio ne approfitta per torcermi il braccio dietro la schiena e legarlo al piede del tavolo.
Stringe talmente forte che mi fa mancare il fiato e un gemito abbandona le mie labbra.
Il tizio si allontana da me e, dopo aver afferrato quella che sembra una cassa di birra vuota, la capovolge e si siede proprio di fronte a me con le gambe divaricate e gli avambracci sulle ginocchia. Mi fissa mentre con la mano libera tasto il mio polso imprigionato, rendendomi conto che ha usato una vecchia corda sfibrata per inchiodarmi al piede del tavolo.
La mia pelle fa attrito tra il cemento e la morsa che mi tiene legato, così socchiudo gli occhi per un’improvvisa fitta di dolore. Okay, devo stare fermo per evitare altri danni.
«Comunque sei poco furbo» commento, mostrandomi spavaldo. «Perché non mi hai bloccato entrambi i polsi?»
«Non ho paura che scappi. E quando ti avrò gonfiato di botte, non avrai più neanche la forza per muoverti.»
«Davvero?» lo sfido.
Lui si sporge in avanti e in quel momento riesco a osservarlo finalmente in viso: è un nero dai capelli scuri e cortissimi, la mascella squadrata e due occhi color ghiaccio che quasi mi fanno innamorare di lui. Tutto sommato è di bell’aspetto, anche se l’aria minacciosa che sfoggia lo rende vagamente inquietante.
«Sei carino» mi lascio sfuggire.
Il tipo mi lancia un’occhiata disgustata, poi sputa per terra. «Se continui a dire stronzate, ti calpesterò proprio così» mi minaccia, battendo la suola della scarpa su ciò che ha appena espulso dalla bocca.
Distolgo lo sguardo e cerco di non rabbrividire per il disgusto. «Era solo per fare conversazione…» replico.
«Adesso tu smetterai di parlare.» Detto questo, l’uomo si alza e vaga per un po’ nel capanno, per poi afferrare quello che sembra uno straccio vecchio e tornare da me. Con gesti rapidi e bruschi mi imbavaglia e annoda più e più volte il tessuto dietro la mia nuca. «Oh, finalmente un po’ di silenzio!» conclude, sedendosi nuovamente sulla cassa di birra capovolta.
Sento in bocca un sapore che non riesco bene a definire, è un misto di olio rancido e cibo ammuffito, così devo trattenere a stento un conato e strizzo gli occhi per cercare di calmarmi, con il solo risultato di farli lacrimare. Sollevo il braccio libero e tasto con le dita i nodi che mi ha fatto, rendendomi immediatamente conto che non riuscirò mai a liberarmi senza l’aiuto dell’altra mano.
«Allora, Ethan fottutissimo Murphy. Perché siamo qui? Adesso te lo spiego, poi ti rompo quella faccia pulita del cazzo che ti ritrovi. Sembri innocente, carino… un frocio modello. Invece sei uno stronzo rotto in culo.»
Che linguaggio fantasioso, complimenti, vorrei dirgli.
«Circa un anno fa in quel locale di merda dove ti ho trovato ci è andato mio fratello. È sempre stato un tipo a posto, voleva studiare per diventare un insegnante, ma poi è capitato in quel covo di finocchi e ha perso tutto.»
E io che cazzo c’entro?
L’uomo si sporge ancora un po’ in avanti e la cassa sotto di lui scricchiola – giuro che se si rompe e lui piomba con il culo per terra mi metto seriamente a ridere, anche se poi mi ucciderà.
«Mio fratello ha conosciuto te e si è preso l’AIDS» prosegue, mentre i suoi occhi color ghiaccio – Dio quanto sono belli! – si fanno sempre più taglienti. «Questo secondo te cosa significa?»
E io come cazzo faccio a risponderti se mi hai imbavagliato?, penso. E in effetti vorrei anche dirgli che io non ho l’AIDS, quindi come posso sapere cosa è successo a suo fratello?
C’è stato un equivoco, ma ovviamente non mi permette di spiegarglielo e ora capisco che devo trovare un modo per fuggire prima di venir punito per qualcosa che non ho fatto.
«Quelli come te devono marcire all’inferno, stronzo. Mio fratello era un bravo ragazzo, come un figlio per me. Abbiamo dieci anni di differenza, l’ho cresciuto io perché i nostri genitori lavoravano sempre. Voleva fare il maestro ai marmocchi.» Ride con quel fare cavernoso che sembra quasi un rutto. «Ci pensi? Io i marmocchi li odio, proprio come i froci come te. Invece lui voleva aiutarli a crescere, stronzate simili. Io l’ho sempre rispettato.»
La sua incoerenza è spiazzante: detesta gli omosessuali, ma difende a spada tratta suo fratello. Crede veramente che sia stato adescato come un bambino innocente? Evidentemente non riesce ad accettare che suo fratello sia gay e abbia scelto spontaneamente di venire nel locale che frequento di solito.
Vorrei chiedergli perché pensa che sia stato proprio io a contagiargli l’AIDS, ma ancora una volta riesco a emettere solo mugolii incomprensibili sotto il tessuto che mi chiude la bocca.
«Si notava già da quando era piccolo: aiutava tutti i suoi amici a fare i compiti, li correggeva quando sbagliavano a pronunciare le parole e lo faceva anche con me» continua a blaterare il tizio.
E a me che importa?
Non capisco perché mi stia raccontando tutta la sua vita: se è vero che vuole picchiarmi, sfigurarmi e chissà quali altre bestialità, perché non lo fa e la pianta di dare aria ai denti?
È proprio un peccato che due occhi stupendi come i tuoi appartengano a un pezzo di merda del genere, vorrei commentare. Probabilmente lo farei infuriare, quindi forse è meglio che io non possa dare voce ai miei pensieri.
«I miei genitori speravano che anche io fossi come lui, invece sono solo un meccanico. Ma tutti noi abbiamo lavorato sodo per pagargli il college, e adesso lui sta per morire ed è solo colpa tua.»
Smetto di ascoltarlo quando comincia a sproloquiare su tutte le visite mediche che suo fratello ha fatto e sui conseguenti soldi che la sua famiglia sta spendendo per tentare di salvarlo: devo liberarmi e farlo subito, approfittando di tutta questa loquacità improvvisa.
Sembra quasi che io sia diventato il suo psicanalista e la cosa è veramente raccapricciante.
In fondo penso che questo tipo non sia neanche cattivo, è soltanto arrabbiato per la fine ingiusta a cui suo fratello è destinato ed è in cerca di un capro espiatorio su cui riversare tutte le frustrazioni che gli gravano addosso.
Allungo la mano libera dietro la schiena e tasto la fune: è molto vecchia, forse se la tiro con forza si romperà. So che sarà doloroso e che probabilmente avrò dei danni al polso, ma non posso restare qui a farmi maltrattare senza motivo.
«Più di tremila dollari solo per le analisi preliminari!» sbraita, mettendosi in piedi e camminando su e giù per la stanza con fare nervoso.
Per fortuna non mi tiene più costantemente sott’occhio, così posso muovermi un poco. Con lo sguardo fisso su di lui per controllare che non si accorga di cosa sto facendo, infilo le dita della mano libera – la sinistra – sotto la corda e avverto l’ennesima fitta di dolore al braccio.
Cazzo, Ethan, puoi farcela!
«Poi? Come se non bastasse mia madre ha perso il lavoro e siamo pieni di debiti!» prosegue, alzando sempre più il tono di voce.
Chiudo gli occhi e trattengo il fiato, tirando con tutta la forza che ho, nonostante la posizione in cui sono sia piuttosto scomoda.
Ho quasi l’impressione che la mano destra si stacchi dal resto del corpo, reprimo a stento un grido che però viene attutito dal bavaglio.
Fa un male fottuto, ma non posso arrendermi. Con le dita della mano sinistra mi rendo conto che la fune è leggermente più larga, quindi in un modo o nell’altro riuscirò a liberarmi. Devo solo riprovarci e sperare che questo tizio continui a blaterare e a sfogarsi con nessuno in particolare.
«L’ho fatto parlare, lui non voleva neanche dirmelo. Ma l’ho costretto, gli ho detto che doveva dirmi chi era stato a ridurlo così. L’ho fatto parlare, capito? Mi ha descritto proprio te, ha detto che eri un certo Ethan e ti ha descritto… così ho fatto un po’ di indagini, ho degli agganci ovunque…»
Respiro lentamente, poi chiudo nuovamente gli occhi e strattono nuovamente la corda.
Il dolore è ancora più forte e per un attimo mi sembra di svenire, ma faccio leva su tutta la forza che ho in corpo per resistere: sono sopravvissuto a sparatorie, eroina, retate degli sbirri che hanno rischiato di mandarmi in galera per sempre, eppure sono ancora qui e non morirò per colpa di questa stronzata.
Muovo lentamente il braccio destro e sento la pelle raschiare contro il cemento, ma dopo qualche istante mi rendo conto che ci sono quasi. Devo solo tirare un altro po’…
«E sono arrivato a te.» L’uomo si volta nuovamente nella mia direzione e si piazza davanti a me, le braccia incrociate al petto e lo sguardo truce che mi fulmina dall’alto in basso. «E adesso ti farò soffrire come tu stai facendo soffrire me e la mia famiglia, frocio del cazzo.»
Lancio una rapida occhiata ai suoi piedi e mi viene un’idea. Devo prendere tempo, mi manca poco per liberarmi.
E, non appena lui muove un passo per avvicinarsi, fulmineo allungo la mano sinistra e lo afferro per la caviglia; preso alla sprovvista, perde l’equilibrio e cade all’indietro, andando a schiantarsi contro la cassetta di plastica poco distante.
Senza perdere tempo, mi metto in ginocchio e con un ultimo strattone – fa male, ma l’adrenalina sembra fare da anestetizzante – riesco a sfilare il braccio dalla morsa che lo teneva bloccato.
Intanto il tizio grida e si dimena, mettendosi su un fianco e respirando affannosamente.
Anche se mi sento stordito, balzo in piedi e fuggo via senza pensarci due volte: non so neanche in quale zona della città mi trovo e per questo mi maledico, ma troverò un modo per tornare a casa.
Sento che l’uomo che mi ha sequestrato si rimette in piedi e proprio in quel momento esco come un razzo dal capanno, correndo sul vialetto sterrato e rischiando di andare a schiantarmi contro l’auto nera parcheggiata poco distante.
Tutto intorno a me sembra calmo e vedo solamente capannoni e strutture dismesse. Sicuramente è una zona industriale in disuso, perciò devo stare attento a non attirare l’attenzione perché è proprio in posti come questi che si riuniscono covi di criminali e disadattati.
Continuo a correre nella notte, rischiando di sbattere contro alberi e di inciampare su attrezzi abbandonati. L’oscurità è quasi totale, fatta eccezione per alcuni tristi lampioni che compaiono ogni tanto lungo la via.
Alle mie spalle avverto i passi del tizio che mi sta alle costole, mentre le sue urla rimbombano nelle mie orecchie e mi fanno temere che possa riprendermi da un momento all’altro.
I polmoni stanno per cedermi e il bavaglio che ancora mi serra la bocca mi impedisce di respirare normalmente, sento che non riuscirò a scappare ancora a lungo. Devo assolutamente trovare un posto dove nascondermi per riprendere fiato.
Facendo leva su tutte le mie forze, spingo ancora un po’ per accelerare il passo e svolto a sinistra, ritrovandomi in un vicolo cieco: tra due capannoni si estende una breve apertura che termina con una recinzione metallica.
E adesso?
Il cuore mi batte all’impazzata: non posso fermarmi, non ora.
Vado avanti e raggiungo la recinzione, cominciando ad arrampicarmi – qualcosa mi graffia la pelle, il polso brucia terribilmente e i polmoni chiedono pietà, ma non mi arrenderò.
Arrivo in cima e, voltandomi per un istante, noto l’uomo all’inizio del vicolo. Sembra non avermi notato, sta guardando verso il basso.
Poi solleva lo sguardo e mi individua. «Bastardo! Dove credi di andare?» grida, per poi riprendere a correre.
Guardo dall’altra parte e vengo colto da un capogiro: dovrò fare un salto di almeno tre metri. Non so se sopravvivrò, ma devo almeno provarci. Non permetterò a questo scimmione di uccidermi.
Prendo un respiro profondo e mi lascio cadere dall’altra parte, lanciando un grido che viene fermato dal tessuto sulle mie labbra.
Cado di schiena e rotolo per alcuni metri, rendendomi conto che sono ancora vivo.
Senza guardarmi troppo intorno o badare al dolore che continua a invadermi il corpo, mi rimetto in piedi e riprendo a correre dopo aver barcollato un po’.
Ho guadagnato parecchio vantaggio perché il mio inseguitore sta incontrando più difficoltà di me a scalare la recinzione, così proseguo per la mia strada e non mi fermo finché non individuo un luogo in cui nascondermi per un momento.
Mi getto all’interno di una sorta di container diroccato e mi lascio cadere a terra, lottando per un po’ prima di riuscire a liberarmi del bavaglio. Lo getto via e prendo dei lunghi respiri, sentendomi già meglio.
Continuando a fare silenzio, affino l’udito e rimango in ascolto per capire se riesco a individuare dove si trova il mio inseguitore.
Sento dei passi lontani, poi le sue urla mi raggiungono ovattate: non sembra aver capito in quale direzione mi sono diretto, sta girando a vuoto e imprecando contro di me.
«Tanto so come ritrovarti, Ethan fottutissimo Murphy!»
Quella minaccia è l’ultima cosa che sento, poi attorno a me cala il silenzio.
 
 
Raggiungo l’appartamento che condivido con Dave che è già mattina.
Ho camminato allo sfinimento finché non ho trovato una fermata della metro; sono stato scambiato per un barbone, ma sono riuscito a salire a bordo e a orientarmi nella città per ritrovare la strada verso casa.
Sono sfinito, stravolto e ho perfino temuto di essere fermato dagli sbirri per via dell’aspetto orribile che devo avere.
Busso quasi senza forze e scivolo sul pianerottolo: non mi sento più le gambe e ora tutto il dolore che l’adrenalina anestetizzava mi sta piombando nuovamente addosso, forte e insopportabile.
Dave non si preoccupa se non torno a dormire a casa, sa perfettamente qual è il mio stile di vita e spesso anche lui passa la notte in giro.
Ma quando apre la porta e i suoi occhi incontrano i miei, lo vedo sbiancare. «Ethan! Che cazzo è successo?!» si allarma, chinandosi subito su di me.
Socchiudo le palpebre e lascio che mi prenda in braccio e mi trasporti dentro casa, non riesco neanche a parlare per via della stanchezza.
Dave mi deposita delicatamente sul divano e richiude la porta, poi torna da me e si inginocchia al mio fianco. «Ehi, ehi. Prima di dormire, dimmi cosa cazzo è successo.»
Incontro i suoi occhi gentili e mortalmente preoccupati e subito il cuore mi si scalda nel petto: se non ci fosse lui, sarei completamente perso.
«Un tipo mi ha rapito…» rantolo, per poi gemere di dolore. «Sono… riuscito a scappare, io… mi dispiace…»
Dave scuote il capo e porta le dita ad accarezzarmi il viso. «Adesso penso io a te, non preoccuparti. Quando starai meglio ne parleremo e vedremo di sistemare questo pezzo di merda.»
So che non sta scherzando e finalmente mi sento al sicuro.
Prima di abbandonarmi al sonno, avverto le soffici labbra di Dave posarsi sulla mia fronte e so che da questo momento in poi non dovrò più avere paura.
 
 
Sono trascorsi quasi quattro giorni, nei quali non ho fatto che stare a letto e lasciarmi curare e coccolare da Dave.
Il nostro è un rapporto bizzarro, ma siamo talmente legati che non può esistere qualcosa che possa allontanarci.
A volte mi chiedo come possa funzionare tra noi: lui è stato il mio mentore da quando ero ancora un bambino abbandonato dalla sua famiglia e piombato in casa d’altri per non rimanere solo; Dave mi ha insegnato a spacciare anche se non avrebbe voluto perché teneva troppo a me, ma sapeva che non l’avrei lasciato in pace. Dave mi ha dato la mia prima dose di eroina quando avevo quindici anni perché sapeva che altrimenti l’avrei procurata altrove e detestava l’idea di perdermi; mi ha fatto capire che ero attratto dei ragazzi e mi ha guidato nelle mie prime esperienze. Dave è stato il mio primo bacio, la mia prima volta, l’abbraccio dopo ogni delusione della mia vita.
Prima di tutto, però, Dave è un amico, l’unico vero amico che io abbia mai avuto; è vero che a volte andiamo a letto insieme se ci va, ma a lui piacciono anche le ragazze – a dire il vero io sono l’unica eccezione – e io vivo tante avventure con altri uomini.
Sono momenti solo nostri, incomprensibili a chi ci guarda dall’esterno e che servono solo a noi per stare bene e dimostrarci affetto. Sono istanti di relax, bellezza e piacere.
io e Dave ci siamo sempre presi cura l’uno dell’altro e stavolta non è stato diverso.
Quando entra in camera mia, sorride raggiante – anche se Dave ha un modo di sorridere lieve, solo io riesco a interpretare la natura dei suoi gesti perché lo conosco meglio di me stesso.
«Come stai?» mi chiede, sistemandosi sul bordo del materasso e passandomi le dita tra i capelli.
Lo guardo in viso e mi apro a mia volta in un sorriso. «Parla prima tu. Cos’è quell’espressione soddisfatta e felice?»
Si stringe nelle spalle. «Diciamo che il tuo aggressore è fuori gioco. Non devi più preoccuparti di lui.»
«Dave, io… ti ho detto che non volevo fargli del male, ho capito che…»
«Sei davvero troppo buono» mi interrompe, lasciandomi un buffetto sulla guancia. «Gli ho fatto avere i soldi, anche se un po’ di cazzotti se li è meritati. Ha capito di essersela presa con la persona sbagliata.»
Mi metto faticosamente a sedere e lo abbraccio.
Lui ricambia subito – a volte mi chiedo come un uomo grande e grosso come lui possa essere tanto delicato e tenero.
Poco dopo mi scosta piano da sé e mi guarda negli occhi. «Tu come stai?»
Sorrido maggiormente, voglio rassicurarlo – anche se mi fa ancora male tutto e le ferite fisiche ci metteranno un po’ a guarire.
«Mi riprenderò» affermo.
E ne sono certo, perché amo troppo la vita per lasciarmi abbattere da questa brutta esperienza.
 
 
 
 
 
 
§ § §
 
Ciao a tutti e benvenuti in questa storia un po’ particolare!
Ed ecco il mio Ethan alle prese con una situazione un po’ scomoda – come se poi la sua vita non fosse tutta all’insegna di momenti bizzarri come questi ahahahahahahahah XD
Non ho tantissimo da dire dato che ho cercato di spiegare un po’ tutte le dinamiche della vita di Ethan durante il testo, spero solo di esserci riuscita!
Ringrazio tantissimo Vintage per il suo contest sui cliché perché mi ha permesso di aggiungere un nuovo tassello a questa mia serie :3
Ecco qui il pacchetto che ho scelto per scrivere questo racconto:
 
• Il cattivo loquace:
I cattivi vincerebbero se non sprecassero tutto quel tempo in soliloqui che spesso capiscono solo loro. Dunque sì, la storia deve avere una scena in cui il malvagio di turno si lancia nelle sue considerazioni alla Gigi Marzullo nel Cinematografo.
 
Non vi sembra che il rapitore di Ethan abbia sprecato troppo fiato, in effetti? XD
E la cosa più raccapricciante è che in libri, film, anime e serie tv è SEMPRE così: ci sono sempre questi cattivi cattivissimi (?) che sproloquiano su cose che solo loro capiscono e che solo a loro interessano, dando un sacco di tempo e possibilità al nemico per batterli, liberarsi e vincere! Che ritardati XD
Ultima nota, poi vi lascio in pace: il titolo della storia è tratto dal testo di Watch Your Words degli Alter Bridge!
E niente, spero che la OS vi sia piaciuta e ringrazio chiunque leggerà e recensirà ^^
Alla prossima ♥
  
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