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Autore: moira78    12/03/2021    4 recensioni
Candy e Albert si conoscono da sempre e, da sempre, un filo invisibile li lega. Ma la strada che li porterà a venire a patti con i propri sentimenti e a conquistare la felicità sembra essere infinita e colma di ostacoli...
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Brighton, Archibald Cornwell, Candice White Andrew (Candy), Terrence Granchester, William Albert Andrew
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Finalmente ti ho trovata!", la voce di Albert le fece battere forte il cuore, come se non la sentisse da tempo. Stava accarezzando i musi di Cesar e Cleopatra.

"Credo che non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi fatto un regalo così prezioso!", ribatté guardandolo con occhi adoranti e ricordando quando condivideva con loro la stalla per volere dei Lagan.

Era molto affezionata a quei due cavalli e riceverli come dono di compleanno da Albert l'aveva riempita di gioia. Adorava prendersi cura di loro quando tornava a Lakewood.
Lui le si avvicinò riempiendola di aspettativa e Candy rimase immobile mentre le sue braccia la circondavano, trasmettendole quel calore che tanto amava. Alzò il viso e incontrò i suoi occhi: li fissò con intensità, mentre gli portava le mani alla schiena e gli chiedeva, senza parole, di baciarla.

Il bacio che si erano scambiati dietro a quel cespuglio non l'aveva soddisfatta perché era stato troppo veloce e sbrigativo, con la zia che poteva vederli in ogni momento.
"Candy", disse lui dolcemente, carezzandole i capelli.

Lei chiuse gli occhi, attendendo quel bacio che non arrivava. Frustrata, li riaprì per vedere la sua faccia che a stento tratteneva una risata. Al limite dell'indignazione, fece per spingerlo via, ma lui la sorprese stringendola ancora più forte, non lasciandola scappare: "Non devi sempre aspettare che ti baci io. Mi pare che la prima volta sia stata tu a prendere l'iniziativa, o sbaglio?".

Era vero, da quel giorno sulla Collina di Pony non si era più azzardata a fare nulla di sconveniente, se non rispondere ai suoi baci.

"Ma... me l'avevi chiesto tu!", si giustificò.

"Te l'ho chiesto perché non sapevo cosa provassi. Ora lo so, quindi mi aspetto che tu sia più libera nell'esprimerti. Non lo siamo sempre stati con le parole? E tutte quelle volte che ti sei gettata fra le mie braccia? Devo pensare che ora che siamo fidanzati hai paura ad avvicinarti se non sono io a indurti?".

Candy lo guardò, perplessa: in fondo aveva ragione, ma sapeva che una donna non poteva permettersi di fare certi gesti e se era capitato non era certa che fosse opportuno ripetersi. Ma, alla fine, quando mai uno di loro due aveva seguito le rigide regole imposte dalla società? Lui aveva sempre viaggiato, libero come il vento e solo ora aveva cominciato ad occuparsi degli affari di famiglia. Lei era scappata da una scuola ed era diventata infermiera.

Il fatto poi che avesse detto quella parola, "fidanzati", la riempì di emozione e le fece perdere le ultime inibizioni, così Candy mandò al diavolo le convenzioni e fece ciò che le dettava il cuore: si strinse ad Albert, alzandosi in punta di piedi per arrivare alla sua altezza e premette forte le labbra sulle sue, intrecciandogli le dita tra i capelli.
La sensazione delle sue labbra fresche e dei capelli setosi tagliati da poco tra le dita la inebriò, ma qualcosa non andava.

Candy si rese conto che lui rimaneva fermo, come assecondandola senza forzarla e lei dovette fare appello a tutto il suo coraggio per imitare quel gesto decisamente più audace che lui aveva fatto altre volte per primo.

Con un po' di timidezza, sporse la punta della lingua fino a sfiorargli le labbra, socchiudendo leggermente le proprie con un brivido. Sapeva di essere inesperta e, nonostante si beasse anche di quel contatto così leggero, si domandò se lo stesse facendo nella maniera corretta.

Non era pronta alla reazione di lui.

Albert aprì la bocca nella sua, inducendola a spalancarla di più e ricambiò con tanto fervore che lei gemette a quell'esplorazione ardente. Non seppe perché lo fece, ma provava una sensazione di beatitudine tale che le parve di sentire il corpo farsi di gelatina, come quella sera alla Casa di Pony. D'istinto, si strinse di più a lui, aggrappandosi per non cadere e anelando qualcosa di più a cui non riusciva a dare un nome.

Fu allora che Albert si allontanò da lei, lasciandole di nuovo il vuoto dentro e fuori.

"Ho.. ho sbagliato qualcosa, vero?", disse tremando ancora per quel bacio così profondo e sperando che le ginocchia non le cedessero.

"No, piccola, non hai sbagliato niente. È per questo che adesso faremo qualcos'altro che non sia baciarci", disse lui con un sorrisetto.

Candy pensò che il viso le avrebbe preso fuoco: "Cio... cioè, cosa intendi?", chiese con il cuore in gola, facendo senza accorgersene un passo indietro.

Era un principio di rossore quello che vide sulle guance del suo principe prima che scoppiasse a ridere di gusto?

"Ma Candy, cosa hai capito? Intendo dire che potremmo fare una cavalcata con Cesar e Cleopatra e poi tornare a casa per cena, che ne dici?".

"Oh", Candy si nascose il viso con le mani, terribilmente imbarazzata. "È che tu mi hai parlato così tanto di libertà che io credevo... credevo...".

"Cosa credevi, Candy?", le chiese avvicinandosi a lei d'improvviso, con una voce suadente che le ricordò quasi Terry quando cercava di metterla in imbarazzo.

"Niente! Non credevo niente!", si affrettò a rispondere.

Albert trattenne un'altra risata, quasi strozzandosi e lei si senti sciocca: "Scusami, Candy, non volevo metterti a disagio", le ravviò i capelli, in un gesto tenero. "Se dipendesse da me ti sposerei oggi stesso e potremmo amarci senza riserve. Ma purtroppo dobbiamo rispettare delle tappe e nessuno sa ancora di noi. A parte...".

Candy, che ancora stava cercando di mettere ordine nei tasselli del suo cervello dove spiccavano le frasi "ti sposerei" e "amarci senza riserve", si domandò confusa chi altri potesse sapere di loro due. Beh, a parte Annie, ovviamente.

Oh, no, Annie doveva averlo detto ad Archie!

"A parte...? Oh, mi spiace, Albert, mi sono confidata con Annie e temo possa averlo detto ad Archie. È così, vero?".

Lui scosse la testa: "No, non è stata lei. Gliel'ho detto io. D'altronde, prima o poi dovevano saperlo, giusto?".

Candy spalancò gli occhi: "Davvero?".

"Davvero. Candy, Archie oggi mi ha detto delle cose che mi hanno preoccupato molto e credo che dovremmo parlarne".

Non poteva crederci, a quanto pareva i due fidanzati si erano confidati lo stesso giorno. Candy sentì la preoccupazione crescere: non poteva essere la stessa cosa di cui aveva parlato con Annie.

"Anche Annie mi ha confessato alcuni suoi timori. Ma le ho risposto che di certo erano sue fantasie infondate e sono riuscita a calmarla! Dimmi di Archie", lo pregò.

"Non qui, potrebbero venire a cercarci e voglio parlare con te senza interruzioni. Allontaniamoci con i cavalli".

Candy s'irrigidì. Non sapeva proprio come dirglielo: "Non posso. Non riesco ancora a... cavalcare da sola".

Albert la fissò dapprima stupito, poi la comprensione calò sul suo volto e i lineamenti si addolcirono in un'espressione di struggente empatia. L'abbracciò, mentre lei sentiva le lacrime pungerle gli occhi: "Verresti a cavallo con me, allora?".

Lei annuì, sapendo che si sarebbe goduta il momento magico in cui sarebbe stata stretta al suo principe, mentre volavano nel vento.

E infatti fu così.

Si ritrovò a riflettere sul fatto che le era accaduto prima con Anthony e le era sembrata una favola meravigliosa; poi aveva corso stretta a Terence e aveva rivissuto un incubo dal quale si era svegliata solo dopo qualche minuto; ora, finalmente, poteva dire di essere nel posto giusto, quello che sarebbe stato il suo per sempre.

D'altronde era sempre stato lui, fin dall'inizio. Quando aveva incontrato Anthony al Cancello delle Rose non l'aveva forse scambiato per il Principe della Collina? E, più tardi, vedendo Terence su quella nave che la stava portando in Inghilterra, non pensava che sotto ai suoi occhi ci fosse il defunto Anthony in persona?

Tutto tornava.

Tutto era cominciato con Albert, in realtà, e il cerchio si sarebbe chiuso con lui.

Candy sperò ardentemente che fosse così e che il destino l'avesse fatta soffrire tanto solo per ricondurla a colui che sarebbe diventato il suo uomo per il resto della vita.

   - § -
 
Quel rumore era infernale, assordante. Rimbombava nella sua testa come un fottuto martello pneumatico.

Terence si mise il cuscino sulla testa, cercando di scacciare il rumore ma non servì a nulla. Ora sentiva anche delle voci, una maschile che gli parve di riconoscere e una femminile.

"Candy?", biascicò nella semi incoscienza e la immaginò fuori dalla sua porta insieme ad Albert. Sbatté le palpebre, cercando di riemergere dalla fitta nebbia che lo circondava e si rese conto che era nel suo letto.

Era buio e si mosse per alzarsi e aprire la finestra: era notte o giorno?

Quando mise i piedi a terra urlò di dolore perché qualcosa gli si era conficcato nella pelle nuda. Ma non vedeva un accidenti, quindi tentò comunque di arrivare alla finestra, imprecando con parole che non si sarebbe mai sognato di poter pronunciare.

Mentre apriva le ante zoppicando, urtò qualcosa con l'altro piede e l'oggetto fece il rumore tipico di una bottiglia che rotola.

Una bottiglia?! Che il diavolo lo portasse all'Inferno, alla luce accecante del giorno che gli ferì gli occhi ne contò almeno una decina sul suo pavimento, alcune intere e altre in frantumi.

Come i frantumi che aveva nel piede e dentro al cuore sanguinante.

I colpi alla porta gli indicarono che qualcuno stava tentando di buttarla giù, così gridò: "Eccomi, arrivo!".

Avrebbe fatto a pugni con Albert e si sarebbe ripreso Candy. Questo gli suggerì una voce malsana nella mente.

Ma non gli servì aprire la porta per rendersi conto che quei due non erano Candy e Albert, dentro di sé lo sapeva già da qualche minuto. Ciononostante fu ugualmente sorpreso nel vedere Robert e Karen sulla soglia.

Le loro facce erano così spaventate che Terence pensò di avere altre ferite, oltre a quella al piede.

"Cristo santo, Terence, credevamo che fossi morto, stavamo per chiamare la polizia!", sbottò il suo capo allargando le braccia.

Karen, invece, lo guardò con un misto di rabbia e sollievo che lo fece quasi sentire in colpa: "Smettila di essere tragico, Robert. Ho solo dormito un po' più del dovuto, che bisogno c'è di fare tutto questo baccano?", si lamentò portandosi una mano alla testa.

"Un po' più del dovuto? Un po' più del dovuto?!", s'intromise la sua collega alzando il tono di un'ottava sulla seconda frase, perforandogli il cervello. Se non avesse preso qualcosa per quel mal di testa pensava che gli sarebbe esplosa.

"Non urlare!", si lamentò portandosi una mano alla fronte.

"Lo sai che giorno è, oggi, grande attore?", chiese abbassando la voce ma non di tanto.

"Che ne so... lunedì?", tentò.

"Mercoledì! È mercoledì, razza di idiota!". Terence aprì gli occhi di scatto.

Mercoledì? Questo significava che erano tre giorni che era rinchiuso nel suo appartamento e non si ricordava un accidenti di niente dalla sera dello spettacolo.

"Karen, ti supplico, cerca di rimettere in sesto questo ragazzaccio e portamelo in ufficio quando non puzzerà più di alcool. Ti è andata bene, Terence, se ti avessero beccato in queste condizioni saresti già in galera! Dobbiamo parlare molto seriamente, io e te". Senza neanche lasciargli il tempo di replicare, se ne andò.

Terence sentiva le viscere contrarsi per il digiuno e il vino ingerito, la testa pulsava maledettamente e la pianta del piede, dove sicuramente si erano infilati decine di pezzetti di vetro, gli mandava fitte regolari lungo tutta la gamba. Cercò di dire qualcosa a Karen, ma lei era sicuramente più fresca e riposata: in un passo fu dentro e si chiuse la porta alle spalle con un tonfo che lo fece sussultare.

"Senti, voglio che tu te ne vada. Mi faccio una doccia e...".

"NO!", gridò lei inviando un'altra, dolorosa, onda sonora al suo povero cervello.

"Mi fai il favore di non urlare?", pregò alzando la voce sulle ultime due parole.

Lei parve colpita da quella semplice richiesta e Terence si accorse, con orrore, che stava per mettersi a piangere. Lei, l'indistruttibile Karen. Pensò che non sarebbe riuscito a sopportare anche questo, aveva altro a cui pensare che una collega sull'orlo delle lacrime.

Invece di piangere, però, la ragazza fece un passo verso di lui e con un gesto lo spostò dalla sua traiettoria, infilandosi nella sua camera. Lo stupore e la sbronza gli avevano rallentato i riflessi in modo allarmante.

"Ma prego, accomodati! Fai come se fossi a casa tua. Entri sempre così nelle stanze degli uomini, tu?", rimbeccò seguendola.

Lei non parve fare caso alla sua insinuazione e, quando entrò in camera da letto sgranò gli occhi e si tappò il naso. Guardando dove metteva i piedi si apprestò a spalancare ancora di più la finestra, lanciandogli sguardi pieni di rimprovero: "Dove hai preso tutte queste bottiglie? Sei andato nei bassifondi per rifornirti al mercato nero? Lo sai che c'è una legge...".

"E tu lo sai che c'è una legge che vieta ai ficcanaso di violare le case altrui?! Chi ti ha dato il permesso di entrare in questo modo nel mio appartamento e di farmi la predica come se fossi mia madre?".

Sua madre. Ricordava vagamente di aver pianto tra le sue braccia, la sera dello spettacolo e poi... e poi... che era successo, poi?

Mentre la sua mente si schiariva con la stessa velocità di un cielo gravido di nuvole prima di una tempesta, Terence si preparò a un'altra sfuriata. Invece la ragazza abbassò la testa, chiaramente colpita.

"Hai ragione, scusami. Eravamo tutti molto preoccupati per te".

Ora la sua voce era più dolce, arresa. Terence sospirò, si ravviò i capelli e zoppicò fino al letto, cominciando a controllare il piede ferito: "Dannazione", imprecò ancora, pizzicando i frammenti di vetro con la punta delle dita e togliendoli delicatamente.

Il materasso che si abbassava accanto a lui gli indicò che Karen si era seduta lì accanto. La ignorò, continuando la sua delicata operazione: "Dovresti andare da un medico", disse con un tono rassegnato.

"Sai già che non lo farò, quindi non sprecare fiato", rispose senza alzare gli occhi.

Con un sospiro, lei si alzò e udì i suoi passi dirigersi in bagno. Poi cominciarono i rumori dei barattoli spostati nell'armadietto dei medicinali: Terence alzò gli occhi al soffitto.
Non aveva bisogno di un'infermiera. Anzi, sì, ma l'unica che avrebbe voluto al suo fianco era ben distante da lui e probabilmente già nelle braccia di un altro uomo. Quel pensiero lo colpì come un pugno al petto e le sue dita, invece di tirare fuori il pezzo di vetro, riuscirono a mandarlo ancora più a fondo.

Non avrebbe pianto più per Candy, men che meno davanti a Karen.

Era stufo di piangere un amore impossibile e di farsi vedere fragile. Di sentirsi fragile.

Karen tornò con una boccetta in una mano e delle pinzette in un'altra. Bastò questo per fargli saltare i nervi: "Smettila di preoccuparti per me!", urlò e con un gesto furioso le colpì le mani, facendo schiantare il medicinale a terra, assieme agli altri vetri.

Ora sì che avrebbe pianto e se ne sarebbe finalmente andata, lasciandolo solo con il suo dolore.

Invece lo schiaffeggiò, nonostante le lacrime che cominciavano a inumidirle gli occhi: "Ascoltami bene, Terence Granchester, o Graham, o quello che diavolo ti pare: non ti guarderò autodistruggerti e mandare all'aria la tua carriera per i tuoi problemi personali, mi hai capito? Robert vuole licenziarti e se non fossimo intervenuti io e gli altri tu staresti ancora su quel letto a ubriacarti, e chissà quando ti saresti accorto che sei caduto in rovina! Quindi ora ti farai togliere i vetri dal piede, poi andrai a farti una doccia, mangerai qualcosa e puliremo questo macello, sono stata chiara?".

Terence era sconvolto. Candy lo aveva sgridato molte volte, magari perché fumava o faceva battute sgradite. E, sì, lo aveva anche schiaffeggiato. Ma non lo aveva mai trattato così duramente, neanche a Rockstown, quando l'aveva visto recitare mezzo sbronzo in quella bettola: si era limitata a guardarlo con infinita tristezza.

Di fronte a quella donna, Terence si sentì come messo davanti alla propria coscienza, la stessa che gli aveva ordinato, solo pochi giorni prima, di rimettersi in riga e di non fare il ragazzino. Dove erano finiti tutti i suoi buoni propositi? Annegati nell'alcool, ancora una volta. Le nubi cominciarono a diradarsi e lui iniziò ad avere sprazzi di ricordi: la telefonata di quel George, la rappresentazione in teatro, le lacrime, sua madre che gli chiedeva decine di volte se sarebbe stato bene, lui che la rassicurava, la riaccompagnava in albergo e poi veniva apostrofato da un gruppo di tipacci in un vicolo per strada.

Tutte quelle bottiglie sparse a terra, gli incubi, altre lacrime... improvvisamente ricordò che aspettava una comunicazione che non era arrivata e si domandò se il telefono avesse squillato a vuoto.

Mentre ancora cercava di fare chiarezza, almeno quel dubbio fu fugato da un telegramma che Karen gli stava tendendo: "Me l'ha dato il portiere. La data è di un paio di giorni fa. Magari è importante". La ragazza si stava asciugando gli occhi e, mentre la sentiva vagare per la stanza tentando di rimettere ordine, strappò la busta.

Ogni promessa è debito. Stop. La signorina Candy sta bene ed è felice. Stop. George Villers.

Terence chiuse gli occhi, piegò la busta e si maledì mentalmente.

"Ho una notizia buona e una cattiva". La voce squillante di Karen lo riportò alla realtà. Non piangeva già più e ora tra le mani aveva bende e disinfettante. Terence la fissò come se avesse due teste.

"Quella buona è che posso medicarti il piede. Quella cattiva è che l'unico antidolorifico che avevi è andato in pezzi, quindi dovrai stringere i denti".

Se anche la sua vita non fosse stata in pezzi, probabilmente Terence sarebbe scoppiato a ridere.
   
 
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