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Autore: An13Uta    15/03/2021    1 recensioni
"...E tu sei tutto ciò che mi rimane al mondo."
Un viaggio attraverso Termina, alla caccia di risposte nascoste in una visione dal sorriso dolcissimo.
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Ambientata dopo Twilight Princess
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Happy Mask Salesman, Link, Skull Kid
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'occhi d'ambra'
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6




Una canzone senza musica.

Da dove arriva?

Apre gli occhi a fatica, le palpebre ancora impastate di sonno.


Una canzone senza musica.

Il braccio gli fa male. La terra su cui è sdraiato è secca, screpolata, come labbra desiderose d'acqua.

Si alza a fatica, indolenzito.


Una canzone senza musica.

È una canzone soldatesca, allegria ripetuta a passo sostenuto per non piangere (non è di quelle felicemente sconce - e meno male, perché seppure un contadino e praticamente adulto lui comunque un ragazzo è, o almeno così si sente, e certe cose non ha proprio voglia di sentirle), e si avvicina.

Ascolta immerso nel dormiveglia, incapace di capire cosa gli sembri così strano.


Una canzone senza musica.

I soldati cantano in una lingua estinta.

Ascolta.


Estinta.


Gli occhi azzurri si risvegliano con ricordi di mostri senza pelle lucidi e limpidi nella pupilla, la mano va a scuotere il corpicino di bambola acciambellato al suo fianco.

Alza solo un po' di polvere.


Dov'è?


Urla raccapriccianti si levano dalla terra poco lontana: bende emergono dal pozzo insieme ai corpi consunti che nascondono, accompagnate da corvi che beccano la stoffa avvizzita e quasi putrescente; fantasmi e spiriti appaiono nella notte, chi con lanterne, chi ardente di fiamme infernali accese dentro la forma spettrale, e strillano, stridono assordanti verso la canzone morta che sale dallo strapiombo del fiumiciattolo.

Ed ecco i soldati, vede mentre cerca con lo sguardo un'arma, un nascondiglio, soprattutto la sua piccola guida tra i lumicini di spettri (possibile che nemmeno uno sia lambito da una luce azzurrina?) - eccoli che arrivano: scheletri! Nulla di più! Zampe affilate che scavano appigli per scalare la parete di roccia, capitanati da un colosso dalla voce potente, alto la metà della scarpata che risale! E a precederlo un altro spirito, un fantasma che dirige la melodia, a cui vola incontro un'altra apparizione, tanto simile eppure diversa, come fossero fratelli!

Fraterno è il loro abbraccio, e fraterne saranno le parole che si staranno scambiando e che lui non può udire.


Un corpo senza pelle o muscoli si stacca dal plotone - corre con gran fracasso d'ossa ad afferrare il corpo fasciato che gli viene incontro con passo lento e instabile, e si afferrano in un modo che farebbe intenerire se ancora qualcosa di vivo avessero...

Una porta si apre dalle case abbandonate: un'ombra vestita ne esce, e chiama un nome; e altre ombre appaiono, e chiamano, gridano, esultano, in una lingua che appassì senza lasciare che un seme germogliato troppo lontano dalle materne radici; e altri scheletri abbandonano la vita di sacrificio e sangue che li ha condotti alla morte per tornare a famiglie ormai sepolte anch'esse; e il mondo intero in questa landa desolata acclama, Keeta! Keeta! Keeta!, alzando le mani al gigante d'avorio, coprendolo di gloria riconoscente - e i suoi enormi artigli si congiungono alla fronte mentre si abbassa, si abbassa, giace inchinato a terra, e forse nelle sue orbite vuote ha una qualche lacrima rimasta, e mormora qualcosa che nessuno sente.

E salgono, salgono, salgono dalla terra, morti risorgono a riportare vita passata nel loro villaggio marcente.


Non dovrebbe essere qui.


I redivivi odiano invasioni di cuori pulsanti nelle loro terre; se non trova una qualche arma, ragiona nella freddezza del suo panico, subirà l'iniziazione al freddo rito della morte.

Non ha nulla nelle mani; e indietreggia, tenendo d'occhio le carcasse rianimate, in un vicolo cieco, nella speranza di nascondersi.


La parete che colpisce con la schiena gli solletica il collo, soffice. Si volta di scatto: un bagliore di giallo accecante, interrotto solo da sottili pennellate nere.

Folte code lo ghermiscono prima che riesca a muoversi. Una zampa (sulla pelle è velluto senza artigli) gli raggiunge il viso: il movimento è tanto fluido da non permettergli neanche di pensare di reagire.

Legno ruvido gli graffia gentile il volto mentre ne prende il posto. Dalle orbite della maschera fissa gli occhi confusi su quelli stretti, strettissimi della volpe a tre code.


La volpe sorride.

(Scorge per un momento i denti.)

(Gli sembrano troppo dritti.)

Ha qualcosa di strano nei tratti del muso.


Un fruscio di code, come una carezza beffarda, e la linea sinuosa del colore di un lampo sparisce tra ombre viventi sempre più numerose.


Qualcosa di freddo nel petto.

Una mano lo trapassa.

Lo spettro avanza senza badargli, come se non gli avesse fluttuato attraverso.

Un cadavere che perde bende lo ignora per raggiungere la folla.


Sente la testa come un pallone gonfio d'aria.


Una canzone senza musica.


Oh Sera, cantano mille voci in una lingua morta, Porta al macello questo vecchio anno stanco: con esso banchetteremo fino all'arrivo di quello nuovo.


Un disco largo, arancione come il sangue d'un albero.

Il punto al suo centro è una pupilla o una testa?


Con la maschera vecchia e scarna calata, stretta sul volto, si addentra nella foresta di redivivi.


Fa un sibilo quieto e schioccante verso la terra mentre la melodia antica sale, sale – è il sibilo dei gatti sconosciuti, quella specie di baciare che li incuriosisce abbastanza da farli avvicinare – mentre i soldati si mettono a danzare dando affondi al terreno come stessero combattendo, unendo le percussioni dei loro sottili tamburi d'avorio ai cori spettrali.

Fa un sibilo quieto e schioccante, il sibilo dei gatti, nella speranza che la sua piccola guida dalle orbite color tramonto lo senta, che lo raggiunga – deve essere la sua piccola guida quella sfera arancione che ha scorto e che ora è scomparsa, deve essere la sua piccola guida...

Attorno a lui il gelo ha presagi di festa.


Le ombre lo urtano, quasi lo calpestano, e parlando in nella lingua tanto vecchia che non dovrebbe riuscire a capire c'è chi lo insulta e chi lo spintona, chi gli premura di guardare dove mette i piedi, e un occhio d'ambra in una cornice di osso di legno accucciato tra gambe che cadono a pezzi.

Lo insegue a pancia rasente la terra, come un lupo.


Non è un viso con corna di legno che gli si para davanti, ma ossa vere, vere e vecchie, vecchie come la polvere sotto i suoi stivali, vecchie e grosse come monti infiniti, e scivola per non scontrarsi con la mandibola a terra.

Orbite vuote in cui brucia ardita un'anima da capitano lo osservano sorprese.

Lo sorregge con il grosso artiglio, apre la bocca aguzza che sembra ricoprirsi all'improvviso di un viso vero, come fosse una maschera.


Piccolo, tuona gentilmente, con una voce che viene dal fondo delle costole vuote e non ha idea di come possa capire la sua lingua defunta se non l'ha mai neppure sentita nominare, Dove sono i tuoi genitori?


Vorrebbe saperlo anche lui.


Dita come il ghiaccio si chiudono sulla sua spalla.


È voltato di scatto, trascinato via nelle danze ormai aperte – una mano d'ombra, ombra di cannella, e se gira appena la testa vede anche un braccio e una spalla e l'inizio forse di una faccia – e via, si ritrova a girare come una trottola, come un manichino colpito troppo forte, e incespica nei calcagni e cade e non cade, una mano lo tiene, un piede mezzo nudo si scontra con il suo per bloccare la sua caduta, e mentre non riesce a vederlo quel palmo sconosciuto lo tira su, e ride (l'ha già sentita questa risata, l'ha già sentita, nella Foresta, e nella sua corsa, o almeno è simile) e lo tira su, scattando alle sue spalle senza farsi mai vedere; e intanto le canzoni sono cambiate, e spiriti e mostri e cadaveri e ombre ora portano i loro vecchi abbandonati sorrisi, vividi e vivi, di pelle, quasi umani, come maschere, e se il suo naso non è influenzato dal suo stomaco riesce quasi ad annusare qualcosa nell'aria gelida, un sentore di cibi che non conosce, di bevande che non ha mai assaggiato; e ancora tra i travestimenti di maschere non ne trova uno di avorio ligneo, o un paio di sfere d'ambra scintillante nel buio; e intanto viene fatto ballare dal suo cavaliere troppo timido per farsi vedere, che a giudicare dalle sue risate si sta divertendo come un pazzo, come un pazzo.

I danzatori!, sente gridare, I danzatori reali!; e da lontano arrivano cadaveri secchi ed essiccati anch'essi, le crude ed anonime maschere funerarie sostituite dai volti che avevano accompagnato le loro mosse in tempi andati, e le loro movenze si uniscono alla folla, ricavano al suo interno un palco acclamato a gran voce, e ballano, ballano, ballano! Un'eternità di morte molle e quasi immobile passata finalmente, ballano! Ballano!

(Spia occhi brillanti, lucignoli maligni sulle più alte sporgenze del canyon, che osservano intensamente nel buio senza muoversi, forse timidi, forse estranei, nemici al rito che chiama a danzare un anno buono.)

E viene fatto girare, girare, girare, girare da palmi gelidi, ancora, ancora, ancora, nel frastuono di odori e suoni e movimenti, finché non ne ha abbastanza: punta i talloni nella terra, scrolla le spalle, alza le braccia per afferrare le corna che gli vengono incontro.


Occhi tondi, grandi, arancioni lo fissano.


Lo fissano dalle orbite di una maschera di finto osso.


Un'aureola di rame aperta come la coda di un pavone dietro ad essa.


È leggermente più alto di lui.


Si fissano.

Immobili nel roteare attorno a loro.


Domande.

Domande vorticano con la sabbia disturbata dai balli.


Sei tu?, pensa; non riesce ad aprire la bocca.

Il suo sposo?, pensa; non riesce a muovere la lingua.

Sei tu?, pensa; non riesce a spingere l'aria nella gola.


Oitesch?


Alza un braccio di nebbia nera e compatta; con fare teatrale si inchina, si inchina, si inchina, piega la gamba fino a giacere quasi a terra.

Il teschio ligneo si inclina appena: lo osserva, come ad invitarlo.


Con un movimento ben più goffo tenta di imitare la sua discesa fino a terra.


La mano d'ombra si allunga sotto il suo mento (la pelle attorno alle unghie è ruvida) e spingendo da sotto lo fa rialzare.

Lo osserva con gli occhi perfettamente tondi nelle loro orbite (non hanno sclera, sono solo iride e pupilla). Hanno un colore familiare.


E poi lo afferra – ha i palmi freddi, poi caldi, poi gelidi, ha i palmi di carne e di nulla e di nebbia e per un momento gli sembrano fatti di un legno strano che lo ha già tirato – e lo tira, lo tira, lo tira! Rientrano nelle danze sfrenate, e questa volta il volto di osso non lascia la sua visuale un istante, e ballano maschera a maschera. Segue i suoi passi come riesce; quando sbaglia una risata senza voce lascia le sue orecchie libere dalla derisione, e gli insegna come fare le mosse giuste. La musica cambia, gli odori cambiano, le danze cambiano – e prima di ogni canzone c'è un coro unanime che invoca la sera in quella lingua morta, che le offre un sacrificio di giorni per un calendario nuovo.


Silenzio!

Tutto è fermo.


Il re!, annuncia qualcuno da lontano, lontanissimo: da oltre le mura di un palazzo. Il re!, annuncia qualcuno, Il re Luna!


Le danze sono interrotte definitivamente: spettri e cadaveri con maschere vive accorrono verso un palanchino che si intravede all'orizzonte.


Il suo cavaliere lo ferma prima che possa partire anche lui: ripete il lungo inchino fino a terra – eppure non sembra così basso, ora, o sbaglia? La maschera di finto avorio raggiunge il suo viso senza neanche ergersi in piedi.

La mano d'ombra screpolata e segnata come corteccia d'albero scivola sotto la maschera della bambola, gli ghermisce appena il naso come per fingere d'averlo rubato: sotto i denti di finto avorio emerge un sorriso dolcissimo.

Lo afferra da sotto le braccia e lo solleva. Lo solleva! Si avvinghia al suo collo di riflesso, guarda confuso il terreno: è tanto lontano...

Le braccia d'ombra lo prendono in braccio, lo stringono al panciotto marrone, unica cosa a nasconderne il petto. Aggiustano la presa per non farlo cadere, e via! Le gambe di nebbia corrono come il vento nei loro pantaloni larghi.

Si tiene stretto, stretto, non per paura – in qualche modo sa che non lo lascerà; si tiene stretto, stretto, perché i bambini a volte traducono l'adrenalina in abbracci forti abbastanza da spaccare ossa.


Il re!, acclamano le folle, Il re Luna!


Siede sul suo trono trasportato, affiancato da guardie sulla cui maschera di pelle ne siede una seconda, simile a quella dei piccoli di un'aquila.

Siede con la corona fissa sulla sommità del capo, sopra sbuffi di capelli.

Sul viso che gli copre le ossa porta l'immagine della Luna, della Luna piena, la Luna che si avvicina sempre di più alla sommità del cielo.


Il re!, acclamano le folle, Il re Luna!


Dalle braccia di nebbia lui osserva, la bocca aperta appena. Non ha mai visto un re così vicino.

Con un tintinnio d'osso il re si alza.

Nessuno fiata.


Oh Notte, canta il re, con la voce profonda come il centro della terra. A te abbiamo immolato questo anno stanco: portaci dalle sue ceneri quello nuovo!


Silenzio.

Silenzio di tomba.

La Luna raggiunge l'apice del firmamento.

Lontano, nella pianura, esplodono fuochi d'artificio.


Oh Notte!, si alzano le voci dimenticate di un regno maledetto tre volte, Beviamo ora al tuo dono; a te sarà sacrificato ancora, in onore della Luna!


Una voce inesistente si alza più alta ancora mentre la musica ritorna, mentre il re torna a sedersi, mentre le festività vengono riprese. Canta: canta più forte di qualsiasi cosa a orecchie sorde al suo suono.

Sente la canzone riverberagli addosso attraverso il petto di nulla.


Al sicuro nelle braccia di bruma balla ancora, ancora, ancora, finché il cielo non comincia a confondersi con il giallo ocra del canyon – e un giallo più intenso, una saetta, sguscia silenzioso tra le rocce – e la testa comincia a girare, girare, girare. Stringe il collo tra le braccia (le dita sfilano nell'aureola d'ambra: è fatta di ricci, ricci arrotolati stretti, soffici, densi, ed hanno una luce soffusa come raggi attraverso resina indurita), appoggia la testa al petto di polvere, di nebbia, di ombra.

Lotta contro la chiusura delle palpebre.

Una voce inesistente ride appena della sua stanchezza. Scivolano via; il caos della celebrazione comincia a svanire sottoterra nel giallo dell'alba insieme ai corpi non-vivi a cui è ancorato.


Oh Giorno, canta ancora la canzone in lingua morta, A te offriamo questo anno nuovo; con te lo cresceremo, sotto lo sguardo della Luna.


Adagiato sul corpo di nulla combatte con un sonno da bambino.

Una risata gentile, senza voce, mentre la forma di bruma si sdraia a terra.

Quelle dita screpolate, ruvide, tanto simili alla corteccia, accarezzano e giocano con i suoi capelli. Labbra che non vede gli baciano la fronte.


Allunga una mano: gli sembra pesantissima.


A tentoni cerca il mondo sotto la maschera di finto legno, il mondo ruvido coperto di segni e polvere; sente sotto i polpastrelli il contorno di due labbra...


Alza a fatica il capo. Guarda negli occhi arancioni. Alza l'avorio di legno.




Apre gli occhi.

La bambola gli dorme accanto.


Li chiude.

La luce è troppo forte.


Li riapre, coprendoli appena con la mano. È giorno inoltrato.

Ha i muscoli indolenziti e i piedi gli fanno terribilmente male.


Alza la falda del cappello di foglia.

Manine grige se lo calcano più giù. Quando ritenta protestano con un mugugno.


Punzecchia il corpicino una, due, tre volte prima che la testa si alzi e dentini aguzzi impastati di sonno tentino di dargli un morso. Dita scheletriche si aggrappano a lui, si stiracchiano con uno scricchiolio e uno sbadiglio mentre si stropiccia gli occhi.

Ridacchia divertito: è proprio un bambino.


Grossi occhi d'ambra lo guardano per un attimo. Spostano l'attenzione sulle sue suole nude, coperte di graffi: piangono ancora, grosse lacrime tonde, e i piccoli palmi si affrettano a spalmarle sulle piante ancora un po' sanguinanti.


Tenta di flettere il braccio: un largo bracciale d'ambra blocca il movimento.

Piega il gomito fulmineo: il bicipite manda in pezzi la resina.

Occhi tondi spalancati di sorpresa fissano il muscolo.

Lo fissano per un po'.

Fa un fischio: lo sguardo d'ambra si rialza.

Solleva le sopracciglia biondo sporco, come a chiedere cosa non vada.

Il viso sotto la maschera si interessa improvvisamente all'interno del suo grosso cappello. Un braccio secco vi si infila: come nel trucco di un mago esperto, ne trae un paio di stivali troppo grossi per sé,


-Li hanno trovati le bambole.- sussurra il filo di rame.


Se li infila. Il ricordo di unghie di legno che si infilano nelle carni di un lupo gli bloccano la bocca in un sorriso amaro.

Si alzano. Mani piccole stringono le sue.


-Ti porto io.- assicurano, -Ti porto io. Tieni forte...


Un giro: il fiume scorre al suo fianco, ma sono sotto all'altopiano.

Si volta, confuso. Ricordi di sparizioni improvvise: è così che faceva?


-Ti porto io, ti porto io – tieni forte...


Un giro: sono fuori dal canyon.

Colonne grottesche li salutano.

Dalle mura della città vengono rumori di festa.


Un ruggito.


Gli viene dallo stomaco.


Quando ha mangiato?


Dee. È imbarazzante.


La manina ride.


-Vieni!- dice tirandolo, eccitata: -Vieni, hanno, hanno – hanno il pesce fritto, e il pane con il latte, e sciroppo di pesca, e polpette con il miele, e poi qualcos'altro che non ricordo, ma è buono – vieni!


Infila la maschera della bambola mentre entrano nella cinta di mura.


La confusione della strada stracolma ha un che di entusiasta, di ilare. Ovunque si volti c'è un'aria di festa: musiche, grida gioiose, corse di bambini, . Solo il suo palmo è stretto forte da dita tremanti, spaventate dalla moltitudine del tutto sebbene tentino di forzarsi a camminarvi attraverso. Afferra il corpicino gentilmente, se lo issa sulle spalle; continua a tenergli la mano fino a che il tremore non comincia a quietarsi.

Un odore, un odore dolce nelle narici della maschera, di miele sul fuoco... Un uomo gli chiede qualcosa. Siede dietro un piccolo banco con davanti a sé una serie di sferette caramellate d'oro e ancora tiepide.

Si è fatto portare fin qui dal naso...


Dita sottili come ramoscelli si allungano verso il cuoco e si espandono: dieci! L'ometto li prende e li infila in un sacchetto: dice il prezzo mentre glielo offre; lui non lo capisce. Le dita di fuscello frugano all'interno del cappello di foglia, lo salvano con una rupia viola, tirano al suo scalpo per andare via. Fa un cenno di ringraziamento con la testa al venditore sbigottito prima di immergersi nell'agitazione vivace della folla.


Passa la prima polpetta allo spiritello, in segno di riconoscenza. La seconda gli sparisce in bocca, il miele indurito sotto i denti fa crack!, e sarà perché ha fame ma gli sembra troppo deliziosa per durare solo un morso.


Si guarda attorno mentre mangia la seconda, lasciandosi trasportare dal flusso umano. Passa attraverso un arco, arriva nel centro della città: la torre dell'orologio è la maestosa scenografia per uno spettacolo circense sospeso tra alte torri di tessuti colorati.


-Hylià!


Mani di legno gli fanno voltare il capo: sorridendo e sventolando la mano come una bandiera, la metà inferiore del volto nascosta in un cappuccio di porpora e una specie di lungo becco d'oro issato sul capo, lo Zora che gli aveva dato appuntamento corre verso di lui.


-Hylià!- chiama ancora, e la vista dei suoi denti tanto aguzzi gli fa sobbalzare il petto e bruciare la faccia, -Ricordi me, sì?


Annuisce, grato alla maschera che copre il suo rossore.

Lo spiritello saluta con la mano. Lo Zora gli dice qualcosa: annuisce.


-Trovi macara!- punta il dito semi palmato al rozzo viso di legno. Annuisce di nuovo. -Bene, bene! Anche io trovo, per te, come ricordo, sì? Aspetta, aspetta...


Dalla bisaccia sfila orgoglioso la metà di un magnifico muso, legno colorato di platino e d'oro, una cicatrice intagliata attraverso l'occhio destro, completamente nero, mentre il sinistro ha un'iride rossa.


Un magnifico muso di lupo.



Ironia del destino.



-Ti piace?


Annuisce piano. Poi più velocemente, per non dare l'impressione che non sia così: perché davvero gli piace, davvero.

Il sorriso aguzzo gli fa perdere un battito.


-Bene! Oh bene, bene – felice sono! Trovo ieri – venditore strano era, con una, una...- la mano squamata aleggia davanti al viso dello Zora, -Keaton carà, faccia da Keaton, capisci, sì? Come volpe, sì? Dice, se porti a Hylià non faccio pagare – tipo strano, strano, era. Felice sono, che ti piace!


Mentre gli parla mani di legno hanno girato la maschera della bambola in modo che copra i capelli biondo sporco, alzando il nastro che la stringe al capo sulla fronte rosata, e hanno cercato di afferrare l'effige di legno ferino: gliel'ha porta sovrappensiero, troppo occupato ad osservare il volto marino, e gli è stata calata sugli occhi dalle sottili dita grigie.

Lo Zora ride.


-Stai bene!


Le guance gli prendono fuoco.

Guarda le mani mezze vuote: delle polpette al miele ne è rimasta solo una.

Gliela offre quasi con forza, guardando in basso.

Una risata come un mulinello.


-Grazie,- sussurra attraverso i denti aguzzi prima di dare un morso.


Non si guardano. Lo Zora deve aver alzato il bavero del cappuccio.


-Comu pa ta iara.- interviene a rompere l'imbarazzo un filo di rame.


Occhi senza fondo si spalancano allibiti.


-Pa ta iara?- ripete lo Zora.

-Pa ta iara.- ripete lo spiritello.

-Pa ta iara?- ripete lo Zora, guardando questa volta in occhi azzurri, -Tutto ieri non mangi?


Ritira la testa nelle spalle; annuisce imbarazzato.


-Ah! Illegale!


Un palmo di squame tiepide e soffici e morbide e gli ha preso la mano gli ha preso la mano gliela sta tenendo oh Dee oh Dee oh Dee prega oh Nayru onnipotente raffreddami il viso prima che mi bruci completamente oh Dee oh Dee la sua mano gli sta tenendo la mano oh Dee gli sta tenendo la mano e intanto gli dice qualcosa che ha a che fare col pesce e che paga lui e che possono tornare a vedere lo spettacolo dopo e oh Dee gli sta tenendo la mano gli sta tenendo la mano per davvero e la testa gli gira e si rende conto che ha smesso di respirare da un po' e dovrebbe riprendere prima o poi e non ci riesce perché gli sta tenendo la mano e non gli ha neppure chiesto come si chiama e non si è neppure presentato e gli sta tenendo la mano – e braccia di rami gli abbracciano la testa.


-È bello oggi.- mormora la vocina di rame.


In qualche modo, lo calma.

Inala.

Esala.

Stringe appena le squame azzurre.


Dividono il fritto di mare in tre, ed è assolutamente delizioso.


Il tempo passa in fretta quando ci si sveglia dopo le cinque del pomeriggio.


Il declino del pomeriggio verso la notte lo saluta con l'ultimo inchino dopo l'ultimo numero della troupe circense mentre termina il suo spettacolo tra applausi fragorosi, ed è come una rivelazione il realizzare che è stato seduto qui per quasi tre ore, a mangiare con le mani pesce fritto, senza capire una parola di quello che fino ad ora ha gridato il capobanda.

Ha le dita coperte d'olio.

E dentini di legno che le morsicchiano sovrappensiero.

Meno male che non fanno saliva.


Lo Zora si alza – dalla borsa prende una bottiglia piena d'acqua che versa culle mani di tutti e tre, per lavarle almeno un po'. Alza lo sguardo completamente nero verso il grande quadrante dell'orologio: stanno scoccando le nove meno un quarto.


-Vava suona!- esclama. Gli prende la mano (si concentra sul sollievo di averla pulita per non rientrare in quel tunnel di imbarazzo senza fiato) e lo tira, lo solleva quasi di peso: -Dico due giorni fa, sì?, vava suona! Al bar, sì?


Afferra la mano di legno che si allunga per non essere lasciata indietro, se la porta in braccio con il resto del corpicino attaccato ad essa.


La porta del bar è pesante e riccamente intarsiata. C'è già un discreto numero di persone che vociferano, chi in piedi, chi seduto: riconosce forse una decina di Goron, e alcuni degli strani abitanti delle paludi. Ci sono anche diversi Zora. Ognuno ha in viso una maschera.

Su un palco sul fondo alcune persone stanno portando e preparando un paio di strumenti particolarmente grossi, un insieme di tamburi e una tastiera di pianoforte senza pianoforte. Un vecchio Zora sta lavorando su una chitarra dalla forma strana. Alza lo sguardo nascosto da due pinne che gli cadono proprio sugli occhi: saluta con un sorriso nella loro direzione. Il suo gentile accompagnatore alza la cresta semitrasparente e sventola la mano per salutarlo di rimando.


Unghie grige lacerano la tunica verde.

Lo spiritello sta tremando.


-Tu siedi, sì? Io dico una cosa e torno, sì?


Annuisce. Lo Zora gli sorride, e scompare nel mare di folla.

Cerca di attutire il tintinnio di ossa lignee accarezzandone la schiena.

Ci riesce solo per metà.


Trovano un posto a sedere, lontano dal palco.

Lo Zora ritorna quando un grosso, grasso pesce prende parola tra l'entusiasmo generale per annunciare qualcosa.


-Ora suonano,- traduce sommariamente il ragazzo marino prendendo posto affianco a lui, -Ora arrivano e suonano – vava con la voce, e zii attorno e Lulu,- (per un momento dita di rami si stringono forte con un brivido) -Lulu, mia sorella, lei suona la chitarra!


Passano ancora alcuni minuti. Uno scroscio di applausi: i musicisti prendono poto, una figura un poco anziana emerge sul palco, coperta in un lungo abito indaco. Fa un inchino, ringrazia.

Un arpeggio vocale.

Il locale si silenzia.


Canta. Canta, e il resto del gruppo segue in tono.

È una ballata bellissima.


La ascolta rapito. Appena si accorge quando cambia la melodia e passano alla prossima, e a quella dopo, e a quella dopo ancora.


Nelle sue braccia il corpicino di bambola si è finalmente calmato.


Lo Zora dietro la tastiera si stiracchia come un vecchietto che si lamenti della propria schiena: fanno una pausa. Se guarda l'orologio scopre che è già passata un'ora.


Ora la folla si divide in due: un folto gruppo si accalca sotto il palco, schiamazza per ottenere l'attenzione dei loro idoli; uno egualmente folto si sparge invece sul bancone e inizia ad ordinare, come se non avesse aspettato altro. Alcuni preferiscono uscire un momento. Scorge la chitarrista prendere dal vecchio Zora ai tamburi qualcosa, un berretto bianco e nero.


-Ti piace?- chiede il sorriso aguzzo di fianco a lui. Durante il concerto ha appoggiato il becco dorato sul tavolo.

Annuisce entusiasticamente, più volte.

-Ghe,- mormora anche la testa di bambola nelle sue braccia.


Si ricorda ora che ha ancora pezzi d'ambra avviluppati al bicipite.

Lo contrae un momento, senza pensarci. L'arancione prezioso si spezza.

Lo Zora sgrana gli occhi; la cresta gli si rizza in testa. Sembra aver smesso di respirare. E sta diventando sempre più grigio. Come se arrossisse.


-Sotu du.- dice candidamente il viso sotto la maschera di teschio.

-Sotu du.- annuisce l'altro con un fil di voce.


Occhi azzurri saltano tra loro due, confusi.


-Sei molto forte.- ripete in hyliano la bambolina.


Lo Zora si abbassa la cresta con le mani. È molto, molto, molto imbarazzato.


Lulu, la chitarrista, si fa strada fino a loro. Sorride: in mano ha due bicchieri e una bottiglia piena di quello che sembra latte.

Suo fratello la chiama a gran voce, la ringrazia battendo le mani. Tenta di afferrare la bottiglia; lei respinge il sangue del suo sangue, abbassando sul tavolo solo i bicchieri, e si focalizza su di lui.


-Hylià sei, no?- chiede con lo stesso strano accento forte che devono avere gli Zora oceanici.

Annuisce.

-E un nome hai, no?- e mentre lo domanda ha un ghigno divertito, come stesse prendendo in giro qualcuno.


Quel qualcuno è suo fratello, a giudicare da come la spinge via mentre lei ride, il viso di un grigio ancora più intenso, e intanto le dice qualcosa che lui non capisce. Lei gli risponde a tono, e si mettono a litigare nel modo in cui due fratelli fanno quando si mettono a darsi fastidio apposta, e lo Zora sembra assolutamente sul punto di essiccarsi in una pallina minuscola (lo sa perché Ilia era maestra nel torturarlo in quel modo, e se da una parte prova pena per il poverino, dall'altra vuole ridacchiare almeno un po').


-Lade mu!- la riprende il vecchio Zora alla tastiera, -Ce trafanto tu.

-Trafanto de pa!- gli urla dietro lo Zora, e la sua voce racconta della sofferenza immane data dall'imbarazzo di parenti.


Il palco si scuote con grasse risate.

Lulu poggia la bottiglia sul tavolo e scappa sghignazzando. Una mano rosata va a dare pacche incoraggianti sulla spalla squamata dello Zora che, accucciato a terra, si copre il viso bollente.


-Perdono,- guaisce il poverino, -Perdono, stupidi sono! Stupidi!


Lo tira su dal pavimento, trattenendo a stento un paio di risate.

Una volta ripresosi dalla tremenda esperienza familiare, riesce a stappare con le lunghe dita semi palmate la bottiglia.


-È latte speciale,- spiega mentre lo versa nei bicchieri, -Chateau Romani. Fa solo la fattoria vicino qui. Vuoi anche tu? Poco?


Offre il suo bicchiere alla bocca carica di denti aguzzi. Ne prende un sorso: gli occhi arancioni si chiudono subito, e con lunghi brividi la schiena lignea si inarca; la bocca sotto la maschera di finto avorio si strizza in una smorfia simile a quella di chi abbia addentato un limone.


Lo Zora ridacchia, con la sua voce di mulinello.

-Forte, de?


Una lingua di legno fa capolino dall'assenza di labbra.

Beve anche lui un sorso cauto, vedendo la reazione della bambolina. Si ricrede immediatamente, perché è buono! È buonissimo! Si asciuga la bocca con la mano, sorpreso. È buono! Un po' alcolico, ma buono!

Glielo si deve leggere in faccia: la bocca di pesce sorride soddisfatta.


Il concerto riprende.


Dita grigie cercano di bere ancora un paio di volte. La reazione non cambia.


Le canzoni si susseguono a ritmo serrato.


Nel bel mezzo di una sente piccole squame aggrapparsi al suo polso. Si volta: lo Zora ha uno sguardo un po' nebuloso. Hanno finito l'intera bottiglia.


-Io torno,- comincia, un po' a fatica, -Io torno a casa, sì? Tu, tu resti, vuoi?


L'orologio segna quasi mezzanotte. Scuote la testa.


-Ah,- annuisce un poco. -Vieni? Facciamo... Un passeggio. Facciamo un passeggio assieme, fino a mare? A casa? Vuoi?

Il corpicino di legno gli dorme in grembo. Lo prende in braccio.


Escono insieme e camminano, piano, piano, fuori dalla città, fino alla spiaggia.


Lo Zora si siede sulla sabbia invece di tuffarsi. Gli si siede accanto.

C'è una bella Luna.

Lo Zora respira.


-Nome,- boccheggia imbarazzato, -Neanche dico... Neanche chiedo... Perdono – dimentico, dimentico.


In sua difesa, anche lui se ne era dimenticato.


-Io Sehel sono.- gli sorride.


È un bel nome.

Un nome da cuorcontento.


-E tu...?

-Link.- sussurra.

-Link.- mormora Sehel. Chiude gli occhi scurissimi: si rigira il nome nella bocca, piano. -Link... Bello, bello è. Come, come... parola, parola... Conchiglie, sì? Quando colpisci conchiglie... Link. Bello è.


Lo ringrazia a bassa voce.


-Ti piace Sehel? Nome Sehel.


Annuisce.

Sehel sorride.


-Grazie.


Siedono assieme.

La bambolina fa respiri profondi nel sonno.


-Torni, sì? Qui?- chiede Sehel, -Per Carnevale, o... O solo per tornare. O vengo! Imparo bene lingua, e vengo. Tu vivi a...?

-Ordon.

-Ordon. Imparo bene, e chiedo, Ordon dov'è?, e vengo. Saluto. Io suono, sì? Porto mio hara garì, così senti. O prendo ora... A casa torni, ora, sì?


Immagina di sì.


-Allora quando torni. O quando vengo. Trovo strada, e vengo...


Silenzio.

Sehel si stropiccia gli occhi.


-Vado.- dice. Non si muove.


Guardano la Luna ancora un momento.

È proprio bella.

Sehel lo guarda.


-Tao pulru de.


Prima che possa rispondere, Sehel sparisce tra le onde.

La baia sospira.

È una bella notte.


-Ha detto che sei molto bello.


Ride appena sotto il muso di lupo.

Lo spiritello si stiracchia.


-Vieni.- incita raddrizzandosi.


Lo tira su, su, su.


-Conosco una scorciatoia.- sbadiglia.


Cominciano a camminare verso la pianura.

Gli scappa dalla bocca un fischio che riprende una delle melodie del concerto. Fauci di legno canticchiano insieme a lui. Palmi silvestri gli tengono le mani in una danza da bambino: lo asseconda per un po'.


-È stato bello oggi.- dice con la sua voce di fil di rame.


Gli occhi ambrati lottano per non chiudersi.

Annuisce mentre lo prende in braccio.


La guardia al portale dorme in piedi, come un cavallo.

Non c'è nessuno.

Chi c'è ancora, non fa alcun rumore.


Si infilano tra le pesanti porte della torre dell'orologio.


La bambolina si è già riaddormentata.

Gli ingranaggi ruotano, precisi, costanti: la loro percussione è simile ad un'antica ninnananna.


Si sfila le maschere.

Si appoggia al muro. Scenderanno domani.


La luce lunare filtra tra il legno e il metallo.

La osserva in silenzio, sentendosi pesante.


È stato bello oggi.


Un movimento armonico, gentile, come quello di una culla.

Un sorriso dolcissimo.


Dormi ora, sussurra, Sei tanto stanco.


Si rannicchia nelle braccia di nulla.



È stato bello, oggi.








(Piccole Note:
il nome di Sehel è stato creato 
da LostRequiem, dalla cui fic "Will my soul ever find rest?" ho poi preso l'idea per la maschera del lupo che Sehel regala a Link. Lulu la chitarrista ha preso il nome della madre come è tradizione nella loro famiglia.
L'hara garì di Sehel è il termine 'terminiano' per l'hurdy gurdy, uno strumento medievale simile ad un violino meccanico.

"Lade mu ce trafanto tu." si traduce come "Lascialo stare che ha un appuntamento."
"Trafanto de pa!" si traduce come "Non è un appuntamento!")

   
 
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