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Autore: Roanoke_Wilde    16/03/2021    0 recensioni
Prima di poterci ripensare, si rifugiò in quei pensieri che sapeva avrebbero riempito fino all’orlo la sua mente e, con un po’ di fortuna, l’avrebbero accompagnato nell’incoscienza bandendo il dolore. Quei pensieri, lo sapeva benissimo, erano l’unica cosa in grado di distrarlo dall’emicrania – ed erano l’unica cosa che si era ripetutamente ripromesso di far sparire, di seppellire, di dimenticare ogni volta che indossava il suo elmo e il suo Credo.
Avrebbe rievocato la sua casa, e chi era stato un tempo, prima della Tribù.
Avrebbe rievocato la notte in cui i suoi genitori erano morti e il suo destino di Mandaloriano era stato suggellato.
Allora, forse, avrebbe ritrovato la via per andare avanti.

[Missing Moments // Kid!fic // Introspettivo // PoV Din // Traduzione di _Lightning_]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Din Djarin, Nuovo personaggio
Note: Kidfic, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Fan Art: shima_spoon // Graphic: _Lightning_

Capitolo 3

Trovatello


 

Era bizzarro, pensò Din, quanto Aq Vetina sembrasse estranea, così lontano dal suo villaggio, sotto la bocca spalancata di un cielo trapunto di stelle.

Perché erano ancora su Aq Vetina, anche due notti dopo l’attacco, anche dopo tutto quel tempo che a lui era sembrato lunghissimo, da quando i suoi salvatori l’avevano portato via dagli scontri.

Una grande astronave vuota era in loro attesa, pronta ad accoglierli, e il guerriero che lo accompagnava l’aveva depositato accanto a sé prima di entrare per primo nel velivolo – tutto senza proferire parola. Din non si era mosso dal suo posto finché gli altri guerrieri in armatura non avevano raggiunto la nave, poco meno di un’ora più tardi. Alcuni di loro erano sembrati impazienti di occuparsi delle loro ferite superficiali, o di posare le armi e farsi una bevuta, ma altri sembravano essere di buon umore, a dispetto della carneficina da cui facevano ritorno.

In tutto, c’erano forse dieci guerrieri come quello che l’aveva salvato. Nella frescura notturna che era seguita alla distruzione, si erano sparpagliati in uno dei prati brulli di Aq Vetina, approntando un accampamento spartano. Fu lì che Din pianse per la prima volta, la mattina successiva all’attacco, dopo essere precipitato in un sonno inquieto, punteggiato da fuoco e urla e nemici invisibili. Fu lì che dormì anche per quasi tutto il giorno successivo, imbozzolato in una coperta che uno degli altri guerrieri gli aveva dato in silenzio la prima notte.

Questa notte, però, l’umore nell’accampamento era decisamente meno teso. C’erano tre o quattro fuochi vivaci sparsi attorno alla nave immobile che incombeva su di loro, e attorno ad essi si affaccendavano le ombre massicce delle armature. Ogni loro gesto era amplificato attraverso la piatta e spoglia distesa dei campi.

Din si raggomitolò accanto a un fuoco che era rimasto vistosamente disatteso da quando era stato appiccato, se non per lui, col cappuccio e la coperta tirati fino agli occhi, mentre brividi intermittenti gli scuotevano ogni muscolo. Non era sicuro se fossero causati dalle lacrime che gli salivano feroci agli occhi quando non lottava attivamente per tenerle a bada, o se fossero semplicemente conseguenza dell’aria fredda che s’insinuava attraverso la sua tunica rossa. Sapeva solo che lo infastidivano e che voleva dormire, anche se aveva già dormito per tutto il giorno.

Piantò lo sguardo oltre il fuoco, riuscendo a cogliere di tanto in tanto degli scoppi di risa che suonavano terribilmente fuori luogo nel paesaggio solitario che li attorniava dal buio. I guerrieri stessi, raggruppati attorno ai loro piccoli falò, avevano un aspetto spettrale, con la luce fioca delle stelle e delle fiamme guizzanti che si mischiavano e scorrevano sulle loro armature sudice...

«Ehi, ragazzino,» una voce roca si levò alla sua sinistra, provocando un sussulto di sorpresa in Din.

Sapeva chi fosse – aveva già imparato a riconoscere la voce del guerriero che lo aveva salvato sentendolo parlare coi suoi compagni. Ma non si voltò. Non voleva guardarlo, per una ragione che sembrava sbagliata persino ai suoi occhi. Non avrebbe dovuto mostrarsi più riconoscente verso l’uomo che l’aveva salvato dai droidi e dalla morte stessa? Se era così, perché provava qualcosa di completamente diverso – qualcosa che era più forte e più estraneo e più instabile?

«Ti ho portato da mangiare.»

L’uomo si sedette pesantemente accanto a lui, abbastanza vicino da far ripiegare Din su se stesso, artigliando la stoffa della sua tunica nei pugni. Il pizzicore caldo negli occhi si rifece vivo, e distolse la sua attenzione dall’oscurità intermittente che si stendeva oltre il fuoco, spostandola sul fuoco stesso.

Il guerriero sospirò. Una ciotola venne posata accanto al ginocchio di Din, e il guerriero si scansò più lontano da lui, lasciandogli spazio per respirare. Din continuò a non guardarlo. Fissò lo sguardo sulle lingue rosse, arancioni e gialle che agitavano il fuoco, cercando di non pensare a come anche le faville che riuscivano a superare il muro di fiamme si estinguessero rapide una volta lasciato l’alone del loro calore.

«Fai con calma, ragazzino,» disse il guerriero dopo un momento. La sua voce era contratta. «Si può sempre scaldare di nuovo quando ti viene fame.»

Din deglutì. La vista delle fiamme si dissolse in una nube sfocata di colori in corsa, finché non batté di nuovo le palpebre, spingendo le lacrime oltre la rima degli occhi.

«Però forse dovresti sapere qualcosa in più su di noi, visto che... che in un certo senso sei per forza dei nostri, adesso, no? Quindi lascia parlare me, e chiedi se hai domande,» continuò poi.

Din percepì lo sguardo dell’uomo sul suo cappuccio, ma non alzò comunque la testa.

«Noi siamo Mandaloriani, se ti dice qualcosa. Quei droidi che hai visto? Sono droidi Separatisti. Chissà perché hanno attaccato un villaggio innocuo come il tuo... ma in effetti, chissà perché fanno qualunque cosa...»

L’uomo sembrò perdersi nei propri pensieri, e Din quasi credette che sarebbe rimasto fermo e in silenzio, finché non parlo di nuovo pochi istanti dopo.

«Mi chiamo Raanan, comunque, tanto per dirtelo. Raanan Koravellyic. Ma ho la sensazione che, più in là, potresti volermi chiamare in un altro modo. Credo che sia così che vanno queste cose.»

Sembrò esserci qualcosa di vagamente simile a un sorriso nella voce di Raanan, a dispetto delle parole senza senso che aveva appena pronunciato, così Din ruotò la testa quel tanto che bastava per scorgerlo oltre l’orlo del cappuccio. Il Mandaloriano indossava ancora il casco ed era poggiato all’indietro su entrambe le braccia, i piedi tesi verso il fuoco di fronte a lui. C’era uno strappo netto lungo il suo avambraccio, e sembrava perforare l’armatura, arrivando alla carne sottostante. Gli occhi di Din si fissarono su quel dettaglio, e ripensò all’uomo e alla donna ferita che erano arrivati a casa sua non troppo tempo prima...

Ripensò alla prontezza con cui sua madre e suo padre si erano presi cura della donna...

Un qualcosa si accese in lui, pungente come le lacrime, ma molto più familiare e molto più gradito, semplicemente perché non erano davvero lacrime.

«Sei ferito, signore,» disse, sbirciando dal suo bozzolo fino a posare lo sguardo sul più anziano. La sua voce suonò terribilmente flebile, ma Raanan la udì comunque. L’elmo scuro si voltò verso di lui, poi si inclinò in basso, nel punto in cui erano stati attratti gli occhi di Din.

«Già, sembra di sì,» disse Raanan, dopo una pausa, con voce stranamente tesa. L’elmo si spostò di nuovo su di lui.

«Hai– hai bisogno di medicarla?» chiese Din.

Un silenzio rotto solo dagli scoppiettii e crepitii irregolari del fuoco seguì quella frase, prima che Raanan rilasciasse un altro sospiro. Si tirò su e si raccolse in una posizione a gambe incrociate che a Din sembrò scomoda, con tutto l’ingombro dell’armatura che indossava.

«Nah.»

Din si concesse di rilassarsi ancora un poco, stendendo lentamente le gambe di fronte a lui e sentendo la schiena e le ginocchia protestare quando abbandonò la posizione rattrappita in cui era rimasto fino ad allora. Il suo sguardo rimase sullo strappo, mentre cercava di capire se la ferita sanguinasse, scoprendo che più si concentrava su quel dettaglio, più riusciva a tenere le lacrime ben tappate dentro di sé, dove non avrebbero potuto fargli perdere il controllo.

«Mio padre cura la gente,» si trovò a dire. «So qualcosa di come trattare le ferite, signore. Potrei aiutarti.»

Di nuovo, il Mandaloriano lo fissò, come se non riuscisse a comprendere del tutto cosa gli stesse dicendo e stesse facendo del suo meglio per riuscirci. Gettò un’occhiata verso i capannelli di altri Mandaloriani ammassati in lontananza, poi un’altra al suo braccio. Dopo un altro momento di silenzio, che si protrasse abbastanza a lungo da far agitare Din, riportò lo sguardo su di lui, quel bambino che aveva salvato.

«Va bene, ragazzino. Andiamo alla nave, lì ho qualche scorta medica. Lì puoi, uh, mostrarmi come fare.»

Din annuì con vigore e si balzò in piedi, prima di tendere una mano verso il Mandaloriano ancora seduto. Si sentiva in preda alle vertigini e non del tutto saldo sulle gambe – probabilmente era in parte imputabile al fatto che non mangiava nulla dalla mattina dell’attacco al villaggio – ma sapere di poter fare qualcosa e che non avrebbe dovuto starsene seduto ad aspettare ancora per un sonno sfuggente che non arrivava, scacciò ogni dubbio che sentiva di non dover provare, prima ancora che potesse attecchire in lui.

E, di nuovo, fare così riduceva al minimo le lacrime. Era stanco di piangere; i suoi occhi erano già abbastanza gonfi così, e le lacrime non avrebbero di certo migliorato la situazione in cui si trovava.

«Prendi la zuppa, dai. Non va sprecata,» disse Raanan, dopo aver accuratamente evitato di accettare la sua mano per tirarsi su – cosa su cui Din cercò di non rimuginare – e si rialzò del tutto in piedi. Quando Din obbedì, raccogliendo tra le mani la ciotola di zuppa schiumosa e ancora tiepida, Raanan si avviò verso la nave.

«Hai un nome con cui posso chiamarti?» chiese il Mandaloriano, dopo aver compiuto qualche passo e aver superato un gruppetto dei suoi compagni. Gli elmi in ombra si voltarono impercettibilmente al loro passaggio, mentre le voci si ridussero a un mormorio inudibile.

Din si sforzò di guardare ovunque, tranne che verso il Mandaloriano, concentrandosi al massimo per evitare che la ciotola troppo piena strabordasse mentre camminava. Ma non esitò nel rispondere alla domanda, anche se qualcosa sembrò smuoversi dolorosamente sotto al suo sterno quando lo fece.

«Mi chiamo Din Djarin.»

 

L'interno della nave odorava di muffa, e il sistema d'illuminazione intermittente era di un giallo denso

 

L’interno della nave odorava di muffa, e il sistema d’illuminazione intermittente era di un giallo denso.

Anche solo dall’esterno, la nave – che Raanan aveva accennato fosse affettuosamente battezzata la Grinning Gungan – aveva di certo l’aria di aver visto giorni migliori. Il suo scafo ovale era segnato da sporco, profondi graffi e falle nei punti in cui i pannelli sembravano essere saltati, rivelando l’intrico di cavi coibentati al di sotto. Il carrello d’atterraggio era appoggiato di sbieco sul terreno, schiacciato in molti punti e piegato in modo malfermo in altri. L’interno, comunque, era possibilmente ancora peggio.

Il velivolo, qualunque scopo avesse avuto prima, era spazioso e tozzo, ma non sembrava progettato per trasportare dei passeggeri, oltre all’equipaggiamento. Sulle pareti si susseguivano vari scompartimenti di stoccaggio al posto di sedili sui quali accomodarsi, e quasi ogni centimetro del pavimento era occupato da scatoloni sudici, casse di armi inutilizzate o pezzi sparsi di corazze e attrezzature. L’unica eccezione era lo stretto passaggio lasciato libero dalla rampa di carico all’abitacolo, posto sul muso stretto della nave.

Din cercò di stare attento nel farsi cautamente strada in quello spazio stipato, gli occhi spalancati nello scrutare l’attrezzatura disseminata qua e là, ma riuscì comunque a inciampare su una guaina di fili che serpeggiava sul pavimento. Incespicò, e il contenuto della ciotola sciabordò in avanti e poi di nuovo indietro, schizzando sia per terra che sul davanti della sua tunica.

Si immobilizzò.

«Vediamo... potrebbero esserci delle bende in mezzo a questo macello,» disse Raanan, che ancora gli dava la schiena, ignaro del calore che si stava facendo strada sulle guance di Din e alla sensazione d’asfissia che s’impossessò di lui di punto in bianco. Il Mandaloriano si chinò su una cassa e prese a rovistarvi dentro, borbottando tra sé qualcosa riguardo a delle "teste di laser sciatte".

Din cercò di capire cosa fare prima che Raanan si girasse. La zuppa stava ormai filtrando sotto il colletto, lasciandogli chiazze viscide sulla pelle, e fece una smorfia. Alla fine, si voltò per posare la ciotola su una cassa dietro di lui, per poi guardarsi attorno in cerca di qualcosa da usare per ripulire il liquido dai vestiti e dal pavimento. Non che quest’ultimo avrebbe poi subito chissà quale miglioramento, anche raccogliendo quel disastro.

Raanan lanciò un aha! esultante e si voltò proprio mentre Din si allungava verso quello che sembrava uno straccio sporco per pulire le armi.

«Per l’anima di Caraya,» esclamò Raanan, notando le sue condizioni pietose. «Non dirmi che hai vomitato qua dentro, ragazzino!»

In modo del tutto inaspettato sia per lui stesso che, supponeva, per Raanan, Din ridacchiò nel vedere il palese disgusto dell’uomo a quell’idea improbabile. Si represse immediatamente, però, quando si ricordò che non avrebbe nemmeno dovuto sorridere. Non ora. Forse mai più. Non erano nemmeno passati due giorni interi.

Il senso di colpa si addensò nel suo stomaco.

«No, signore. Ho rovesciato la zuppa,» rispose a bassa voce.

Raanan si rilassò visibilmente, e sbuffò un altro sospiro prima di avvicinarsi a lui e lasciarsi scivolare su una cassa lì accanto. Nelle mani teneva un rotolo di bende striminzito e una fiala quasi vuota di un liquido trasparente.

«Bene,» disse, mentre Din prendeva ad asciugarsi la zuppa sulla tunica. L’uomo sembrò sollevato, in un modo che non gli riuscì di comprendere – e che non ritenne il caso di approfondire.

Dopo aver strofinato furiosamente la stoffa per circa trenta secondi, Din finalmente si fermò e lasciò ricadere lungo il fianco la mano che stringeva lo straccio, col battito cardiaco che s’impennò e le lacrime che spuntarono di nuovo quando realizzò che quella zuppa – qualunque cosa ci fosse stata dentro – gli avrebbe macchiato la tunica. Non riusciva a toglierla. Non sapeva nemmeno perché ci stesse provando, a quel punto.

Raanan si schiarì la voce, interrompendo i suoi pensieri erratici.

«Posso vedere se ci sono altri vestiti. Non è un problema, dav–»

Din lo troncò bruscamente.

«No!»

Raanan ammutolì e Din si affrettò a correggersi. Non era quello il modo di parlare a un adulto, specie uno in grado di uccidere una dozzina di droidi in cinque minuti, e che lo aveva salvato da suddetti droidi poco prima.

«Volevo dire, no, per favore. Signore. Voglio tenere questi.»

Ancora una volta, Raanan sembrò non sapere cosa fare. Un altro lungo e teso momento fatto di sguardi si stiracchiò tra loro, finché, d’un tratto, il Mandaloriano si rianimò.

«Dank farrik!» imprecò, e Din sbarrò gli occhi a quell’esclamazione così colorita, che aveva sentito proferire a suo padre una sola volta, quel giorno che era caduto dal tetto e si era rotto un polso. «Non penso di potercela fare.»

Con quell’ultima affermazione, Raanan mise da parte bende e fiala e portò una mano all’elmo, togliendoselo con uno scatto rabbioso dalla testa. Posò il pezzo dell’armatura accanto a sé e si passò le dita tra i ricci brizzolati, fissandolo con un paio d’occhi verdi e feroci.

Era più vecchio di quanto Din si fosse immaginato, e trasandato, con i capelli gli si arricciavano mollemente sulle orecchie e un’ombra decisa di barba mal tenuta a scurirgli mento e mandibola. Sembrava essere una buona manciata d’anni più vecchio dei suoi genitori, ma era decisamente più giovane di sua omma

Din rispedì le immagini della sua famiglia nel profondo, nel momento stesso in cui tornarono in superficie.

Anche solo pensare a loro lo portava sul punto di singhiozzare a un passo da Raanan. Fissò di nuovo il guerriero.

C’era una luce del tutto sconosciuta, in agguato nello sguardo del Mandaloriano. Qualcosa di terribilmente diverso da quella calda di sua madre o quella acuta di suo padre. Assomigliava, pensò Din, a quel tipo di ombra selvatica che aveva visto negli occhi dei cani randagi che incontrava di tanto in tanto nel villaggio, intenti a rovistare nei rifiuti. Non gli piaceva quello sguardo. I cani randagi mordevano senza il minimo preavviso.

«Stammi a sentire, Din,» disse Raanan dopo quella pausa, sporgendosi verso di lui in un modo che lo fece indietreggiare di un passo. «Perché non posso continuare a far finta di essere un santo uomo che salva orfani e ne diventa il devoto padre.»

Din si ritrasse immediatamente, con una vampata di calore a incendiargli di nuovo la pelle. Orfano? Raanan come suo devoto padre? Cosa?

Sono davvero un orfano, adesso?

Perché Raanan avrebbe dovuto far finta di essere suo padre? Din aveva già un padre, e non somigliava affatto a quel guerriero. Suo padre era un membro del Cadre della Pace, era buono e affettuoso e lo abbracciava quando aveva bisogno di conforto–

Dada non c’è più–

«È quello che si aspettano che faccia, sai?» continuò Raanan, adesso con lo sguardo fisso dietro di lui. «Ma io ce l’avevo, un figlio. Ed è morto

Il Mandaloriano sputò fuori l’ultima parola con così tanto fiele che Din sobbalzò e fece un altro passo indietro, col cuore al galoppo contro le costole. Che voleva dire Raanan? perché gli stava dicendo tutto questo? E comunque, chi si aspettava che Raanan diventasse suo padre?

Amma e dada non ci sono più–

Stavolta, il suo salvatore sembrò notare il modo in cui Din si era ritratto da lui, perché lasciò ricadere la testa contro il petto, fissando il pavimento della nave. Intrecciò le mani guantate in mezzo alle ginocchia, e Din vide il suo petto che si alzava e si abbassava nello stesso, intenso modo in cui sentiva avvicendarsi i propri respiri.

«Mi dispiace. Davvero, mi dispiace. Senti, quando ho visto i tuoi genitori metterti in quella cantina... quando ho visto quello che hanno fatto i droidi, dopo, e quello che avrebbero fatto... sapevo di doverti salvare. Non ho avuto alcun dubbio. Non ne ho nemmeno ora.»

Din deglutì, coi respiri che diventavano sempre più rapidi, le dita che si serravano di loro volontà attorno allo straccio che teneva in mano. Si sentiva come se stesse correndo di nuovo di strada in strada con sua amma, con le pietre, la polvere e il fumo che piovevano attorno a loro. Ma era stupido crederlo, no?

Gli occhi di Raanan si piantarono nei suoi.

«Ma entrambi dobbiamo imparare come funziona tutto questo, va bene? Tutti e due. E so che non sarà facile, ma faremo del nostro meglio. Capito?»

Il Mandaloriano lo fissò, con le sopracciglia folte inarcate, ma Din aveva sentito tutto ciò che aveva appena detto in modo ovattato. Adesso tremava visibilmente, e sapeva che le lacrime erano strabordate, ma riuscì ad emettere un’unica parola strozzata.

«Cosa?»

«Mi dispiace, ma adesso sei un Mandaloriano, Din. È questo che voglio dire. Sei ciò che noi chiamiamo un trovatello. E io... io mi prenderò cura di te e ti insegnerò a combattere.»

Din continuava a non capire. Lui, Din... un Mandaloriano? Un trovatello? Raanan gli avrebbe insegnato a combattere? Non sapeva nemmeno chi fossero, i Mandaloriani. Non aveva alcun senso. Niente aveva senso.

Non i due forestieri a casa sua–

Né il modo in cui i droidi li avevano attaccati, portando con loro fumo e fuoco e distruzione–

Né il modo in cui sua madre e suo padre se n’erano andati e non erano qui con lui

Né il modo in cui si stava comportando Raanan, che diceva di essere come suo padre–

Nulla di tutto ciò aveva senso, e Din lo detestava. Era arrabbiato e lo detestava. Voleva casa sua. Voleva tornare con sua amma e sorseggiare quel tè caldo e rilassante che lo calmava, facendolo scivolare rapidamente nel sonno, così da essere riposato per giocare con Binh e Mai al mattino. Voleva guardare le falcate ampie di suo padre mentre gli andava dietro nella luce obliqua del tramonto, aiutandolo a raccogliere le erbe che avrebbe essiccato e usato in tinture e medicine per la gente del villaggio.

Non voleva essere qui e non voleva che Raanan lo addestrasse a combattere e non voleva che qualcuno si comportasse come il padre o la madre che aveva già.

«Ragazzino? Stai bene?»

Lo sguardo di Din scattò in alto, verso Raanan che lo fissava rigido, scrutando le lacrime che gli solcavano il viso e il modo in cui i singhiozzi lottavano per farsi strada fuori dal suo corpo.

«Din?»

Din chiuse gli occhi, per poi riaprirli con altrettanta rapidità.

«Io non combatterò,» disse, aspramente.

Non posso combattere. Io dovrei custodire la pace. Dovrei essere con amma e dada.

«E tu non sei il mio dada

Lui è a casa. Dove dovrei essere anch’io.

Raanan compresse strettamente le labbra e si alzò in piedi, raccogliendo l’elmo nel farlo. I suoi occhi erano di nuovo duri e selvatici quando annuì una sola volta, bruscamente, verso di lui.

«Giusto. In ogni caso, partiamo domani all’alba. C’è un posto dove credo di poterti lasciare, almeno per un po’.»

Raanan lo aggirò per superarlo, con gli stivali che si abbattevano sordi contro il metallo nel lasciare la nave. Din fissò la pozza di zuppa rovesciata sul pavimento, notando che una parte di essa si era infiltrata nelle sottili fessure in superficie e stava di certo gocciolando sui cavi sotto ai suoi piedi.

Tirò su col naso, stringendosi nelle braccia, col desiderio di sedersi, ma anche di aspettare finché Raanan non avesse abbandonato del tutto la nave, prima di farlo. E invece, Raanan si fermò prima di tornare nelle fauci nere della notte all’esterno.

Din ascoltò con attenzione: udì l’uomo prendere un grosso respiro, per poi parlare, la voce cupa, ribollente appena sotto la superficie, che portava con sé molto più di quanto Din potesse sperare di comprendere.

«Tanto per essere chiari, io non ho mai voluto essere il tuo dada. Ho già fatto la mia parte, per quello.»

E se ne andò.

Din barcollò verso la cassa più vicina e si lasciò scivolare contro di essa, con la vista completamente inondata dalle lacrime, la pressione che gli esplodeva nel petto, soffocando ogni respiro, tirando ogni muscolo che aveva.

Pianse finché le lacrime smisero di arrivare e il vuoto nel suo petto non si espanse fino a consumare ogni più piccolo briciolo d’energia che avrebbe mai potuto possedere. Pianse finché non gli bruciò la gola e i suoi occhi non si gonfiarono al punto da essere chiusi. Di nuovo.

Pianse fino ad addormentarsi, e poi sognò.

Ma, stranamente, non sognò negli stessi colori tetri della scorsa notte, intervallati da momenti di veglia agitati e pieni di panico. Stavolta, sognò la sua casa.

Sognò il calore...

Sognò la luce...

Sognò le braccia dei suoi genitori che lo avvolgevano, i loro battiti in sincrono, i loro respiri che seguivano il suo...

Il sogno terminò troppo presto, ovviamente, ma il fantasma di quell’abbraccio conosciuto aleggiò dentro una parte di lui quando si svegliò il mattino seguente, scacciando il sonno dagli occhi mentre cercava qualcosa, qualunque cosa di familiare nella nave o negli elmi imperscrutabili dei Mandaloriani che riempivano ora lo spazio ronzante attorno a lui.

Ma quando lo fece, realizzò che stava fronteggiando un mondo che non lo conosceva più come il figlio dei Djarin, ma come un trovatello dei Mandaloriani.

 

 

"Invece tu hai visto; poiché tu tieni conto della malvagità e dei soprusi
per poi ripagare con la tua mano.
A te si abbandona il misero;
tu sei il sostegno dell’orfano."

(Salmi 10:14)


Note della Traduttrice:
Cari Lettori,
scusate il ritardo, ma è stata una settimana densa di impegni e ho trovato tempo solo ora per riprendere in mano la traduzione. Spero di essere più puntuale col prossimo aggiornamento ♥
Spero abbiate apprezzato questo capitolo, che è stato un po’ ostico da tradurre. Se notate un linguaggio un po’ alla buona per Raanan, è voluto nella resa ;)

Alla prossima, e grazie a chi segue e commenta questa storia. Il link all’originale è come sempre nei commenti! ♥

-Light-

P.S. Per chi segue la mia long Vode An sul profilo proncipale: io e l’autrice originale ci siamo fatte grosse risate nel constatare la somiglianza tra i nomi Ruusaan e Raanan, nostri rispettivi OC Mandaloriani, e tra i loro trascorsi... tanto per ribadire l’affinità tra alcuni nostri headcanon :’)

   
 
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