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Autore: Roanoke_Wilde    25/03/2021    0 recensioni
Prima di poterci ripensare, si rifugiò in quei pensieri che sapeva avrebbero riempito fino all’orlo la sua mente e, con un po’ di fortuna, l’avrebbero accompagnato nell’incoscienza bandendo il dolore. Quei pensieri, lo sapeva benissimo, erano l’unica cosa in grado di distrarlo dall’emicrania – ed erano l’unica cosa che si era ripetutamente ripromesso di far sparire, di seppellire, di dimenticare ogni volta che indossava il suo elmo e il suo Credo.
Avrebbe rievocato la sua casa, e chi era stato un tempo, prima della Tribù.
Avrebbe rievocato la notte in cui i suoi genitori erano morti e il suo destino di Mandaloriano era stato suggellato.
Allora, forse, avrebbe ritrovato la via per andare avanti.

[Missing Moments // Kid!fic // Introspettivo // PoV Din // Traduzione di _Lightning_]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Din Djarin, Nuovo personaggio
Note: Kidfic, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Fan Art: shima_spoon // Graphic: _Lightning_

Capitolo 4

Sotto occhi vigili


 

«Hai una nave tua?»

Raanan si voltò di scatto al suono della sua voce, mentre il velivolo Mandaloriano decollava, sparendo non appena raggiunta l’orbita. Din non aveva parlato per tutte le ore che erano occorse alla nave per trasportarli lontano da Aq Vetina, sfrecciando in linea retta attraverso il cuore di un’oscurità punteggiata di stelle che Din poteva sentire mentre si espandeva dentro di lui, ampliandosi con ogni minuto che trascorreva lontano da casa, facendogli venir voglia di piangere di nuovo, anche se non c’era la minima possibilità che gli fosse rimasta qualche lacrima in corpo.

Forse Raanan notò il modo in cui il suo sguardo precipitò a terra non appena l’elmo entrò nella sua visuale, perché sospirò, per poi gesticolare verso la figura scintillante della sua massiccia nave.

«Eccola là. La Razor Crest: si chiama così. Non è bellissima?»

Din alzò dubbioso il capo mentre continuavano a dirigersi verso la nave. I passi di Raanan tintinnavano e la sua sacca da viaggio pesante sbatteva contro l’armatura; Din camminava a mani vuote, sentendo caldo nell’aria troppo umida del pianeta su cui si trovava quella rupe spazzata dal vento.

La nave di Raanan li attendeva fiera in una distesa oscillante d’erba. Era alta, più alta della nave da cui erano appena sbarcati, ma la cabina di pilotaggio era più piccola, piazzata sulla sommità della prua. Due cannoni laser sporgevano da entrambi i lati della cabina, simili ai baffi di quei pesci che nuotavano sul fondale dei laghetti su Aq Vetina. Le ali erano corte e altrettanto alte, e i grossi motori circolari ad esse agganciati incombevano come due grandi occhi vacui.

In effetti, pensò Din mentre inclinava la testa per fissare direttamente la nave, la Razor Crest sembrava quasi avere una sorta di volto, una personalità. Quello era il naso, i due motori erano gli occhi, e laggiù...

«Non parli molto, eh?» disse stancamente Raanan, e Din distolse l’attenzione dalla nave.

Non disse nulla, però. Come avrebbe dovuto rispondere? Avrebbe dovuto spiegargli che tutte le parole sembravano essersi perse da qualche parte dentro di lui, evaporate assieme alle lacrime – o che la sua voce suonava piatta, quando si faceva strada a fatica attraverso il vuoto nel suo petto? Non riusciva a comprendere quel fatto, così come non riusciva a comprendere più nulla di ciò che stava accadendo. Poi, non voleva parlare con Raanan. E, a giudicare dalle parole che gli aveva rivolto ieri il Mandaloriano, nemmeno Raanan era così incline a parlare con lui.

«Beh, per me è bellissima. E lo è ancor di più perché l’ho costruita io.» Raanan fece una pausa, e Din vide il suo elmo inclinarsi un poco di lato. «Io e mio figlio, in realtà.»

Din non commentò nemmeno quell’affermazione, e i successivi cinquanta passi che li separavano dalla Razor Crest furono completamente silenziosi, se non per il lieve spirare del vento sotto di loro, i richiami ingarbugliati di creature volanti che s’impennavano nella vastità azzurra al di sopra, e il suono dei piedi che strusciavano contro la terra.

Quando raggiunsero il retro della Razor Crest, nell’ombra argentata delle sue ali, Raanan si fermò e picchiettò un dito su qualcosa che aveva al polso. La rampa di atterraggio prese ad abbassarsi immediatamente con un gemito acuto. Din fece un paio di passi esitanti all’interno quando finalmente toccò il suolo.

L’odore era molto diverso da quello dell’altro velivolo Mandaloriano: più pulito, più nuovo, meno intriso dell’inevitabile olezzo di troppe persone costrette a vivere troppo vicine per troppo tempo. Non c’era nulla sparso per terra e non c’erano segni confusi di bruciature a deturpare le pareti o il pavimento, né macchie in luoghi impensabili. Anche se Din scorse il profilo di diversi scomparti incassati nei muri, che contenevano senza dubbio tutte le cianfrusaglie per ora nascoste alla vista, l’interno della nave nel complesso gli sembrava pulito in un modo che lo colse di sorpresa.

«Che tu ci creda o no,» esordì asciutto Raanan, fermandosi all’interno mentre si voltava a squadrarlo, vedendolo ancora esitante, «non ci tengo particolarmente a vivere nella tana di un Hutt. Spero non ti dispiaccia troppo.»

Din lo guardò, ancora incapace di decifrarlo per via dell’elmo, ma con l’impressione che l’uomo stesse cercando di essere spiritoso. Un angolo della sua bocca si sollevò in quello che non era esattamente un vero sorriso, ma forse il preludio di uno che fosse almeno cordiale.

«Cos’è un Hutt?» chiese a bassa voce, facendo infine un cauto passo avanti, in quella nave che era estranea, ma non minacciosa come lo era stata la Grinning Gungan.

Raanan si limitò a fissarlo.

«Certo che bambini dovrebbero vivere un po’ di più, al giorno d’oggi,» disse dopo un momento, scuotendo la testa e avvicinandosi verso una scala a pioli fissata alla parete.

Din immaginò che conducesse a un livello superiore, visto che la nave sembrava abbastanza grande da averne uno – o forse alla cabina di pilotaggio. Non era mai salito su una nave, prima della Grinning Gungan, quindi non era certo di come funzionassero tutte quelle cose.

Non so come funziona niente, a quanto pare.

Raanan non disse altro mentre lasciava cadere a terra la sua sacca, per poi iniziare ad arrampicarsi. Din sobbalzò quando la rampa prese a chiudersi da sola ed esitò di nuovo prima di salire a sua volta la scaletta.

Il Mandaloriano era già nel sedile del pilota, quando lui fece capolino nella cabina. Stava azionando file e file di levette e spingendo tasti lampeggianti, mentre la nave prendeva vita con un ronzio sotto alle sue dita. Din lo osservò, ipnotizzato, finché Raanan non sospirò togliendosi l’elmo. Si voltò a guardarlo, rivelando un’espressione tirata, arcigna, incorniciata dai capelli scomposti.

«Siediti.»

Din eseguì, scivolando in un sedile che sembrava liscio e privo di grinze, come se nessuno vi si fosse seduto da quando era stato costruito. Si mise in ascolto, attento, le mani conserte in grembo, mentre Raanan proseguiva a mettere in moto la nave. Din era così preso da quelle procedure che, finché non si librarono nel cielo con le coordinate inserite nel sistema, non batté ciglio. Riportò poi la sua attenzione su Raanan. L’uomo lo stava osservando, con una ruga scavata dall’abitudine in mezzo alle sopracciglia, gli occhi chiari che scrutavano i suoi in un modo che gli fece venir voglia di raggomitolarsi di nuovo sul sedile.

Per la prima volta, notò anche che Raanan aveva una sottile cicatrice rosata su uno zigomo, che si incurvava dalla punta del naso fino all’orecchio. Ebbe un brivido.

«Dove andiamo?» chiese piattamente, e di nuovo la sua voce risuonò come se la stesse trascinando fuori dallo spazio profondo, come se non fosse mai esistita fino a quel momento, quando era stato costretto ad estrarla dal vuoto. Gli sembrava stridente e sbagliata e rotta.

L’espressione di Raanan non mutò, ma almeno – finalmente – distolse lo sguardo da lui, riportandolo ai comandi su cui aveva appena serrato le mani.

«In un posto per gente come noi, se ti sembra possibile.»

Din ripiegò le ginocchia al petto, avendo cura di posare una mano sullo strappo dei pantaloni, in modo da non doverlo vedere.

Io sono Din Djarin. Non sono un Mandaloriano. Non sono come Raanan – e mai lo sarò. Lui non è mio padre. Non è mio–

«Io devo, uh, assentarmi per un po’, capito? Ma questi altri Mandaloriani si prenderanno cura di te finché non torno. Loro sono una vera e propria famiglia, in pratica,» stava dicendo Raanan, ma la mente di Din si era inchiodata su quella primissima frase.

Raanan mi lascerà da solo?
L’ho fatto arrabbiare così tanto che non vuole più avere a che fare con me?
E se anche gli altri Mandaloriani non vogliono prendersi cura di me?


E attraverso quelle domande oscure e confuse, le lacrime bruciavano dentro di lui. Riempirono il vuoto da dove era uscita la sua voce e subito dopo stava interrompendo Raanan, la voce acquosa, i pensieri che roteavano troppo velocemente rispetto alle parole che stava pronunciando.

«Mi lascerai lì?»

Raanan continuò a fissare i comandi comandi mentre decollavano nell’iperspazio, che – sebbene fosse bellissimo e bizzarro e gli tirasse il petto con quella vastità che lo circondava – non fu comunque sufficiente a fargli distogliere lo sguardo dal Mandaloriano che lo aveva salvato.

Il Mandaloriano che ha detto di dover essere come mio padre...
Anche se io ne avevo uno, e anche una amma...


Raanan si mosse sul sedile, schiarendosi la gola una seconda volta. Gli lanciò un’occhiata, per poi sviare di nuovo gli occhi.

«Senti, non è nulla di personale, ragazzino. Ho solo delle faccende di cui devo occuparmi con quelli del mio gruppo, gli altri Mandaloriani che hanno dato una mano a salvare il tuo villaggio–»

«Non hanno salvato amma e dada,» sussurrò Din, prima di realizzare di averlo detto.

A quel punto Raanan si voltò del tutto verso di lui e Din si ritrasse di scatto di fronte a quell’attenzione improvvisa, facendosi indietro sul sedile. Ma Raanan non sembrava arrabbiato. Sembrava solo... triste?

«Lo so. E vorrei che ci fossimo riusciti, ma non possiamo pensarci adesso... ci sono troppe altre cose che dobbiamo fare. Io tornerò a prenderti. Devi solo...»

Raanan deglutì e Din seppe, con una sensazione di vuoto allo stomaco, cosa stava per dire. E non voleva sentirlo.

«Devi solo fidarti di me, ragazzino. Va bene?»

Din non rispose. La voce l’aveva abbandonato di nuovo, e non riusciva a frenare le lacrime che gli traboccavano dagli occhi. Stavolta non emise alcun singhiozzo – quei singhiozzi che lo spezzavano in due lasciandolo ad annaspare – erano solo lacrime. Chiuse gli occhi e si reclinò sul sedile. Non voleva vedere Raanan, non voleva vedere i colori che sfrecciavano al di là dell’abitacolo, non voleva vedere quanto fossero ormai lontani da casa sua.

Aveva mal di stomaco.

Ed era di nuovo stanco.

Si sentiva solo, forse.

E triste, così triste.

Percepì Raanan che lo guardava ancora per qualche istante, poi l’uomo si alzò e lo superò.

«Vado un attimo al bagno, okay? Resta seduto. Non toccare nulla e non... non muoverti e basta.»

Din rimase in ascolto finché i passi del Mandaloriano non sfumarono del tutto, poi si tirò il cappuccio sopra gli occhi, si raggomitolò più strettamente sul sedile e cercò di ricordare casa sua.

L’aveva già fatto sulla nave diretta lì: cercare di ricordare ogni volto, ogni edificio, ogni suono, ogni odore che conosceva di Aq Vetina. E anche se farlo gli portava inevitabilmente il pizzicore delle lacrime agli occhi, attutiva anche la sensazione di poterci annegare dentro. Lo faceva sentire come se una parte di sé – anche se solo una piccola parte – fosse davvero laggiù, prima che i droidi arrivassero e il fuoco divampasse nelle case e lui finisse nella cantina e i suoi genitori–

In quel momento, lo fece sentire come se non fosse stato di nuovo lasciato solo – stavolta da qualcuno da cui, finora, non avrebbe mai pensato di non voler essere lasciato solo.

 

 
Faceva molto più freddo in confronto ad Aq Vetina, sul pianeta su cui Raanan aveva intenzione di lasciarlo.

La luce del gigantesco sole bianco nel cielo pallido faceva sembrare tutto spoglio e vasto, come se su quel pianeta non ci fosse nulla che potesse rimanere segreto. Una serpeggiante strada di terra battuta partiva dal punto d’atterraggio dove si era adagiata la Razor Crest, niente più che un’ampia radura segnata dal fuoco su una delle molte colline tondeggianti che sembravano ricoprire quel luogo. Raanan si incamminò sul sentiero non appena mise piede fuori dalla Razor Crest.

Din trasportava la sacca consunta che gli aveva dato Raanan, circa un’ora dopo aver recuperato la Crest. Seguì il Mandaloriano, che aveva indossato nuovamente l’elmo quando erano atterrati, e che rimase fortunatamente in silenzio durante il cammino.

Finché non parlò.

«Hai mai visto fiori come questi, Din?» chiese all’improvviso. 

Fece un verso vibrante a labbra chiuse e si fermò, inclinando il capo verso una chiazza di fiori di un rosa fluorescente che punteggiavano l’erba rada vicino al sentiero. Din gettò loro un’occhiata, ma non rispose.

Sentiva odore di fumo portato dal vento, proveniente dalla loro destinazione, e quel dettaglio catturava la sua attenzione molto più della flora locale. Non sapeva se Raanan riuscisse a sentirlo, e mentre una parte di lui avrebbe voluto assolutamente chiedergli spiegazioni – giusto per essere sicuro che non fosse successo nulla di male alla comunità di Mandaloriani – una parte più consistente voleva solo tornare alla Razor Crest, e fare qualunque altra cosa che non fosse andare nell’ennesimo posto sconosciuto, pieno di persone che non aveva mai visto. Almeno sulla nave faceva più caldo e c’erano molte meno incognite nell’abitacolo che dietro alla collina successiva.

«Lo prendo per un no, allora,» disse Raanan, e stavolta Din colse un brontolio teso nella sua voce. «Ci sono un paio di cose che devi sapere, visto che resterai qui per un po’. Quindi, visto che chiaramente non mi sei stato a sentire prima, drizzerei le orecchie ora.»

Raanan fece un’altra pausa e si gettò un’occhiata alle spalle; Din annuì, comunicandogli che era in ascolto. Il suo salvatore emise un altro basso verso vibrante. Che suonò molto più come un ammonimento, adesso.

«Questi Mandaloriani sono un po’ diversi da me e da quelli che hai incontrato sulla Gungan,» disse. «Hanno idee diverse su cosa dovremmo fare noi Mando delle nostre vite. E della nostra storia.»

Din corrugò le sopracciglia.

Tanto per cominciare, lui non sapeva niente di utile riguardo ai Mandaloriani. Perché Raanan pensava che gli importasse se questo gruppo era diverso dall’ultimo? Nessuno dei due era la sua famiglia – e mai lo sarebbe stato – e non gli importava dove stavano andando. Era comunque da qualche parte lontano da casa sua. Lontano da amma e dada.

Come se fosse riuscito a udire i suoi pensieri, Raanan aggiunse qualcos’altro mentre si avvicinavano al crinale della collina particolarmente ripida che stavano scalando:

«So che probabilmente per te non significa nulla, ma se fossi in te – per il tuo bene, intendo – terrei la bocca chiusa su qualunque dettaglio tu creda di conoscere riguardo a me, capito? In particolare, sulle mie abitudini con l’elmo.»

Il cipiglio di Din divenne più intenso, e fissò guardingo la schiena di Raanan.

quello cosa avrebbe dovuto significare?

Ma non ebbe tempo di rimuginarci sopra a lungo, perché raggiunsero la sommità della collina – ed eccola lì, la comunità Mandaloriana dove Raanan l’avrebbe lasciato. Doveva essere anche la fonte dell’odore di fumo che aveva sentito non appena scesi dalla Razor Crest, perché da quasi ogni casa raggruppata tra i pendii delle colline si levavano densi riccioli scuri. Quel fumo, pensò Din, assomigliava a quello che usciva dall’officina meccanica su Aq Vetina.

Si fermò per osservare meglio quel piccolo appezzamento di terra in pendenza sotto di loro.

Era un centro abitato decisamente più piccolo di quello in cui aveva vissuto su Aq Vetina, con meno case, più piccole, e un’unica strada che si snodava tra esse. Anche da quella distanza, si intuiva che quelle strutture fossero state erette in modo più rozzo, e c’erano ampi spiazzi di terra tutt’intorno alle costruzione, vuoti se non per piccoli puntini e macchie: alcuni erano ovviamente persone in movimento, altri, altrettanto ovviamente, no.

Non riusciva a capire con esattezza cosa fossero. Ma quando Raanan riprese ad avanzare, lasciandolo lì a scrutare il tutto dall’alto, Din concluse che l’avrebbe scoperto molto prima di quanto avrebbe voluto.

 


C’erano dei bambini, in quella comunità. Din se ne rese conto con sorpresa.

Per qualche motivo, la presenza di bambini era stata uno dei pensieri più improbabili, quando si era immaginato un posto costruito unicamente per dei Mandaloriani. E quei bambini indossavano degli elmi, come ogni altro singolo adulto che riuscì a scorgere nelle case, per strada, intenti a pulire armi o a lavorare su macchine vecchie e malmesse – uno di loro aveva persino un droide.

Droidi.

Din distolse di scatto lo sguardo nel vederlo, e si addentrò al riparo dell’ombra di Raanan, rifiutandosi di fissare un secondo di più quelle orbite vuote che si aprivano sulla sua testa, tenuta ferma tra le ginocchia del Mandaloriano che lo riparava.

Ma Raanan si arrestò di colpo, con l’elmo che guizzò a destra e a sinistra, bofonchiando qualcosa che Din non riuscì a cogliere mentre gli andava a sbattere contro. Raanan si voltò di scatto e Din barcollò all’indietro, gli occhi sbarrati.

«Attento, ragazzino,» ringhiò l’uomo, ma non gli badò più di tanto. Era ancora in cerca di qualcosa.

La trovò un istante dopo e rilasciò un sospiro sollevato.

«Eccoci qua. Avevano detto che assomigliava a un falco urlatore,» borbottò tra sé. «Per me somiglia più a una ferita aperta.»

Detto questo, Raanan avanzò con falcate sicure al centro della strada, dritto verso un edificio leggermente discosto dal percorso sterrato – che Din notò proseguire ben oltre le case e i campi che le circondavano, arrivando oltre il pendio della collina successiva. C’era un grande vessillo innalzato accanto alla casa. Era scuro ed esibiva un singolo emblema rosso sul davanti, un emblema che in effetti assomigliava a una ferita sanguinante, considerò Din.

Era un pensiero disturbante, ma suppose che si addicesse a quanto aveva scoperto finora sui Mandaloriani.

Ma alcuni di quei Mandaloriani, a quanto pareva, ritenevano che loro due non si addicessero affatto a quel luogo: Din si rese conto d’un tratto che stavano fissando Raanan, mentre questi si dirigeva a passo di carica verso l’edificio. Erano solo due o tre – tutti adulti, con armi appese alla schiena o al fianco – ma l’imperscrutabilità dei loro elmi e le cicatrici che adornavano le loro armature furono sufficienti a fargli pensare che non era poi così importante quanti Mandaloriani pensassero che loro due fossero degli intrusi.

Probabilmente ne sarebbe bastato uno per far fuori lui in un batter d’occhi, e Raanan – che sembrava così mingherlino in confronto a loro – sarebbe di certo stato il prossimo. Magari era per quello, che tutti i Mandaloriani tenevano l’elmo anche quando erano a casa. Erano pronti a combattere al minimo preavviso.
Di colpo, furono all’ingresso, e Raanan girò sui tacchi.

«Bene. Vado a parlare di te al capo di questo posto, okay? Rimani qui e torno tra un secondo. Non... non allontanarti e non andare in giro. Loro non ti faranno niente.»

Senza preoccuparsi di sapere se per lui andasse bene – non andava affatto bene – si voltò e oltrepassò la semplice porta di legno, che grattò contro il pavimento mentre la spingeva verso l’interno, per poi richiuderla. Lasciandolo lì. Lasciandolo da solo.

Rimase fermo per un momento, col cuore che prendeva a battergli rapido nel petto, riscaldandolo nonostante fino a pochi istanti prima avesse avuto freddo nell’aria rarefatta del pianeta. Quando divenne chiaro che Raanan non sarebbe tornato presto a prenderlo, Din si voltò lentamente, timoroso di vedere altri droidi o altri Mandaloriani che lo fissavano – o qualunque altra cosa che fosse estranea e odorasse di fumo e suggerisse un’aggressività a malapena celata.

Fortunatamente, gli sguardi dei Mandaloriani sembravano essere stati attratti altrove. C’era solo lui, fermo sulla strada polverosa, a fissare le file di case scure e i campi nel mezzo che, adesso che lo vedeva, erano punteggiati di bersagli per fare pratica di tiro, rastrelliere piene di armi e persino armature, impilate ordinatamente di fianco alle case, pronte all’uso.

Curioso a dispetto di tutto, Din fece per avanzare di un passo, per indagare sui campi che sembravano calpestati e utilizzati, a giudicare dai segni anneriti nell’erba e dalle zolle di terra smosse – quando tutto esplose.

Droidi! Raanan!

Qualcosa di duro e appuntito lo colpì alle spalle, inviandogli una scossa di dolore lungo la spina dorsale. Fu sbalzato in avanti, atterrando sulla pancia e sui polsi, con un contraccolpo che gli spazzo via l’aria dai polmoni e spedì ulteriori stilettate lungo le braccia.

Sentì il sapore della terra in bocca–

Il marrone gli invase la vista, col panico che cresceva nei polmoni, le vene che gli tremavano–

«Alzati.»

Era un ordine, pronunciato da una voce bassa ma non necessariamente adulta, che provenne dalla direzione del colpo che aveva appena ricevuto. Din respirò affannato nella polvere che gli solleticava il naso, sentendosi troppo stordito per rialzarsi, e strizzò gli occhi a contrastare il dolore e lo shock.

«Ho detto alzati!»

Due mani lo afferrarono rudemente per le spalle, rigirandolo sulla schiena che continuava a pulsare. Din annaspò e schiuse gli occhi, ritrovandosi a fissare direttamente l’elmo ammaccato di un Mandaloriano – che era almeno il doppio di lui per peso e altezza, ma che era palesemente ancora un bambino. Come lui.

E poi il bambino gli balzò sul petto con un grugnito, mettendoglisi a cavalcioni e strizzando fuori quegli ultimi rimasugli d’aria che gli erano rimasti dopo il primo attacco alle ginocchia. Din sentì gli occhi spalancarsi, col battito che s’impennava di nuovo, la paura che gli artigliava la gola–

Questo prima che il bambino alzasse il robusto bastone di legno che impugnava – quello con cui l’aveva colpito – e glielo puntasse in volto, pronto ad abbattersi di nuovo su di lui.

«Dammi un motivo per non colpirti di nuovo, chakaar,» ringhiò il bambino.

Din sapeva di non voler morire – non voleva morire, non ancora, non adesso, né mai. Non era giusto. Così, non pensò. Non ne ebbe il tempo.

Inarcò la schiena con tutte le forze che aveva e fece scattare in alto le mani, cercando di scostare di lato il bastone.

I suoi palmi impattarono con l’arma – insaccandogli almeno un dito – ma la differenza di stazza tra lui e il suo aggressore era così grande che inarcare la schiena non produsse praticamente alcun risultato, e il bambino Mandaloriano seduto su di lui non fece altro che stringere la presa, rilasciando quello che suonò senz’ombra di dubbio come un risolino.

Il bastone si alzò di nuovo...

Gli occhi di Din furono inondati di lacrime e li serrò mentre il cuore gli esplodeva di paura...

Mi dispiace mi dispiace mi dispiace–

E poi il peso sul petto e sullo stomaco scomparve, permettendo all’aria dolce di tornargli nei polmoni doloranti. Era libero. I suoi occhi si riaprirono di scatto e, con suo sconcerto, il bambino che l’aveva appena attaccato se ne stava in piedi di fianco a lui, una mano tesa come se volesse aiutarlo ad alzarsi.

«Benvenuto nella Tribù, trovatello,» disse il suo aggressore, facendo oscillare appena le dita. Din poté giurare di aver sentito un sorriso nella sua voce. «Sono Paz Vizsla. Piacere di conoscerti.»

Senza parole, ancora intento a fissare il visore a T di Paz, Din accettò la mano che gli stava offrendo. Non sapeva cos’altro fare. Fece una smorfia nel sentire la stretta ferrea di Paz mentre rimetteva in piedi la persona che aveva appena assalito. Din batté di nuovo le palpebre, più forte, la bocca schiusa, mentre Paz si dava pacche sui vestiti per scacciare la polvere, per poi fare un passo indietro.

«Scusa per l’accoglienza movimentata, burc’ya. Dovevo capire di che pasta eri fatto, se ti saresti rivelato un codardo o un piagnone o una mammoletta.» Il sorriso tornò nella voce del Mandaloriano, che suonava più infantile, ora che non aveva più quella rochezza forzata. «A quanto pare non sei nessuna di queste cose, vero? Sei un guerriero.»

E con quello, Paz gli calò una mano pesante sulla spalla, e Din poté intuire dal suo tono e dalla postura che stesse sorridendo giovialmente sotto all’elmo. Lo fissò, sentendosi più tremante che mai, così scosso dai brividi che dovette sedersi, col mondo che roteava attorno a lui, provocandogli piccoli vortici davanti agli occhi.

«Ehi, e adesso che fai, burc’ya!?» esclamò Paz, forse notando la sua espressione vacua.

Lo prese per un braccio e lo guidò verso un ceppo intaccato di tagli all’angolo della casa in cui era sparito Raanan. Din si lasciò cadere seduto su di esso, respirando affannato.

«È solo che tu sei il primo trovatello che abbiamo da tanto tempo. Il mio buir pensava che fosse una buona idea accoglierti come si deve. Come un Mandaloriano,» spiegò Paz dopo un momento, torreggiando con un fare un po’ insicuro su di lui, che ancora trovava difficile concentrarsi su altro che non fosse il proprio respiro, così da non svenire per quell’improvvisa debolezza.

E poi gli sovvenne un’idea, così improvvisa e così inspiegabilmente allettante che si dimenticò per un attimo cosa fosse successo, concludendo che non gli importava poi molto che la sua voce fosse appena più forte di un sussurro.

«Sei... sei un trovatello?»

Paz emise un rumore nasale; che fosse di sdegno o divertimento, Din non seppe dirlo.

«No! Sono nato nel clan,» replicò, e il puro orgoglio nel suo tono era palpabile. «Tu sei un orfano?»

Din percepì quell’improvvisa speranza che era sbocciata in lui – la speranza che forse non era l’unico ad essere in quella situazione, che forse non sarebbe stato l’unico della sua età a non avere idea di cosa stesse accadendo – dissiparsi.

Ed ecco di nuovo quella parola. Orfano.

Le lacrime gli pizzicarono gli occhi e tirò su col naso, scacciandole col dorso della mano.

«I miei... genitori non possono più occuparsi di me,» disse piano, rispondendo anche se sapeva che non era obbligato. Rispose perché doveva assicurarsi che Paz capisse, che–

Scoccò un’occhiata a Paz, sconfiggendo le lacrime incombenti e sfidando il Mandaloriano a negare che quella parola che aveva appena usato – orfano – non si applicasse a lui. Paz ricambiò lo sguardo, le mani piantate sui fianchi.

«Capito. Beh, comunque. Hai più o meno la mia età, a occhio, e non preoccuparti... adesso sei un trovatello, ma diventeremo presto fratelli di Credo. Aspetta e vedrai. Ti insegnerò tutto ciò che c’è da sapere su quello

Din alzò di nuovo lo sguardo, fissando quel ragazzino chiassoso col suo elmo sgangherato e i vestiti rattoppati e lisi. Lo guardò e rifletté su quanto aveva appena detto – su quello che Raanan e, apparentemente, ogni altro Mandaloriano – pensava che lui fosse o dovesse diventare. Ed era arrabbiato. Arrabbiato che nessuno capisse che lui non era un guerriero – era un custode della pace. Che non voleva dei genitori nuovi o una famiglia nuova – voleva la famiglia che aveva già.

«Lasciami in pace,» bofonchiò, abbassando gli occhi a terra, verso l’estremità del bastone con cui Paz smuoveva la polvere. «Per favore, lasciami in pace e basta.»

Ci fu un momento di silenzio e Din quasi pensò che Paz volesse attaccarlo di nuovo, ma non lo fece. Si limitò a rispondere nello stesso tono allegro di prima.

«Va bene. Ci vediamo stasera dopo cena, trovatello. Ti piacerà seguire la Via, come a tutti noi, promesso.»

E con quelle parole, Paz schizzò via, lasciando Din con la schiena ammaccata, la testa che girava e fin troppe parole che non avevano alcun senso. Era così soverchiato da tutto che, quando finalmente Raanan riemerse dalla casa qualche minuto più tardi e si fermò incerto di fronte a lui, trovandolo col capo chino nelle mani, si sentì effettivamente sollevato.

«Dai, ragazzino,» disse, in tono sorprendentemente gentile. «Ci hanno dato un posto dove stare per stanotte.»

E così Din si rimise di nuovo in piedi, ancora tremante, e seguì per l’ennesima volta il suo salvatore.


 


 

"Possa Egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente
per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati,
quale tesoro di gloria racchiude
la Sua eredità fra la Sua gente sacra."

[Efesini 1:18]"

Tradotto da The Way Forward – Chapter 4: Under Watchful Eyes di Roanoke_Wilde da _Lightning_  


Glossario Mandoa:
chakaar: sciacallo, ladro, criminale da quattro soldi; insulto generico.
burc’ya: amico.
buir: padre/madre/genitore. (NdT. oltre alla difficoltà di non avere una differenziazione di genere in Mando’a, l’inglese rende il tutto ancora più ambiguo, ambiguità che l’italiano non può mantenere. "My buir" è neutro in inglese. In italiano, a meno di non usarlo senza articolo (che a parer mio suona male), bisogna necessariamente assegnare un genere: "Il mio/la mia buir". Perciò potrei tornare su questa e altre traduzioni, visto che nella storia non si è ancora specificato se Paz stia parlando di sua madre o di suo padre.)
 

Note della Traduttrice:
Cari Lettori... lo so, lo so, sono in ritardo.
Avrei voluto mantenere un ritmo d’aggiornamento costante almeno con la traduzione, ma purtroppo i capitoli si stanno allungando e il mio tempo riducendo :’) D’altronde, non vorrei nemmeno arrivare troppo a ridosso dei capitoli finora pubblicati (9)!
A proposito, l’Autrice ringrazia tutti voi per i vostri commenti ♥->  (screen da AO3)

Alla prossima settimana, e come sempre non siate timidi nell’esprimere ciò che pensate, come vedete è apprezzato!

-Light-

 

   
 
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