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Autore: Old Fashioned    25/03/2021    10 recensioni
Prima guerra mondiale. A un giovane e ardimentoso pilota tedesco viene assegnata una strana missione: dovrà atterrare con il suo aereo dietro le linee nemiche e lì caricare a bordo una persona, poi rientrare alla base. Tutto semplice, all'apparenza, peccato che la persona che dovrà caricare, una pericolosa spia tedesca, sia inseguita dal suo arcinemico: una spia inglese di pari livello, disposta a tutto pur di catturare il rivale.
Questa storia è stata scritta per Crazy_person, come modesto ringraziamento per tutte le bellissime recensioni che mi ha sempre lasciato.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Gente mia,
ecco la seconda parte del quinto capitolo, si spera per il vostro sollazzo.
Come sempre ringrazio molto tutti coloro che mi stanno seguendo, chi mi ha messo in qualche lista e soprattutto chi ha avuto la gentilezza di lasciarmi un parere sulla vicenda.
Enjoy (si spera)!





Uscì dal posto di guardia assorto in una sua metaforica partita a scacchi. Si era creato un certo fermento sulla strada, c’erano soldati che giravano su e giù e lanterne che spazzavano muri e selciato. Si udivano un vociare sommesso e lo scalpiccio metallico di scarponi dalle suole chiodate.
Qua e là le finestre dei palazzi erano socchiuse, colse addirittura la sagoma di una donna affacciata.
Fece scorrere lo sguardo fino alla sommità degli edifici, quasi sperando di cogliervi la presenza del suo avversario. Non lo vide, ma era certo che non fosse lontano.
Magari c’era proprio lui, dietro una di quelle finestre socchiuse, e lo stava tenendo d’occhio.

Tiene gli occhi fissi sulla stufa, che è poco più di una scatola oblunga di metallo in cui arde un fuoco di sterco essiccato. Non c'è legna, in alta quota, e bisogna riscaldare con quello che si trova.
La locanda è composta da una sola stanza, col soffitto basso e le pareti dipinte. Col passare degli anni – chissà quanti, poi – le pitture si sono annerite e solo qua e là si distingue ancora qualcosa: un loto dai mille petali una volta bianco e rosato, il sorriso remoto di una Tara, la mano artigliata di un demone.
Fuori infuria la tempesta. Il vento ulula nelle gole ghiacciate, spinge turbini di neve in ogni recesso. Le bandiere lung-ta schioccano così forte che si odono persino all'interno, nonostante il crepitare della fiamma e il brusio sommesso degli avventori.
Queste sono molte preghiere,” dice Tenzin, il più vecchio ed esperto dei suoi sherpa. Annuisce e sorride, i suoi occhi obliqui diventano fessure nel volto segnato dalle intemperie. “Forse anche le tue,” soggiunge poi. Annuisce con convinzione.
Egli annuisce a sua volta, chiedendosi se ci sia una divinità, da quelle parti, disposta a prendersi a cuore la sua situazione.
Lo sherpa toglie dalla stufa un vecchio bricco di latta ammaccato, versa una tazza di tè fumante, vi aggiunge un pezzo di burro giallo e una presa di un sale grosso e appiccicoso che trae da una scatoletta di corno, poi la spinge nella sua direzione. Egli l'accetta con un cenno del capo.
Stringe il recipiente fra le mani, lascia che per qualche secondo il vapore bollente gli scorra sul viso. Ormai il vago odore di rancido del burro di yak ha smesso di dargli fastidio. Ha imparato anzi ad apprezzare la bevanda corposa che ne risulta, il suo gusto deciso. La sua capacità di riscaldarlo dopo giornate intere trascorse nel gelo dell'Himalaya.
Si protende appena in avanti, cercando di scrutare attraverso una delle piccole finestre che danno luce all'ambiente.
Tenzin fa una risata roca. “Cerchi lui?”
Egli annuisce. Lo cerca da giorni, in effetti. Sa che sta arrivando, o forse è già arrivato, ma non sa quale passo sceglierà per andarsene.
Si fa udire la voce dello sherpa: “Oggi lui non viene qui.”
Questa è l'unica strada praticabile.”
L'altro scuote la testa. Riempie una tazza anche per sé, vi aggiunge burro e sale, l'annusa e aggiunge altro burro, poi dice: “Se cerchi yeh-teh devi pensare come lui, altrimenti non lo trovi.”
Yeh-teh, il mostro delle montagne. Sa che i tibetani credono ciecamente alla sua esistenza, sa che qualcuno giura di averlo anche visto. Si domanda se Tenzin sia uno di quelli.
Sud'ba è un uomo, non un mostro,” risponde, e nel pronunciare quel nome rievoca l'immagine di un ufficiale alto, di bell'aspetto, impeccabile nell'elegante uniforme dei cosacchi.
Lo sherpa tira fuori dalla sua bisaccia una tavoletta di legno quadrata su cui è tracciato un diagramma di linee che si intersecano perpendicolari e diagonali. “Bagh-Chal,” dice. Rovescia sul tavolo il sacchetto delle pedine, quattro tigri e venti capre. “Tu giochi?” chiede poi.
Egli annuisce, anche se in quel gioco apparentemente semplice non è ancora riuscito a vincere una partita. Le sue tigri finiscono sempre confinate in un angolo del tavoliere e le sue capre vengono falcidiate senza pietà.
Come se avesse espresso quel pensiero ad alta voce, Tenzin fa una risatina e dice: “Devi capire.”
Conosco le regole del gioco,” risponde vagamente piccato.
Lo sherpa scuote la testa. “No, capire questo.” Si punta un indice sulla fronte. “Capire cosa voglio fare.”
Non so leggere nella mente.”
Tenzin si stringe nelle spalle, gli occhi scompaiono di nuovo nel volto sorridente. “E allora tu sempre perdi,” è la serafica conclusione, dopodiché gli chiede: “Tigri o capre?”
Tigri.”
Tu vai a caccia. Ma tu sai cosa farà la tua preda? Dove scapperà?”
Le parole dello sherpa hanno il valore di una rivelazione, in effetti. Diventano la metafora di quella spedizione, che sembra sotto ogni aspetto destinata a fallire. “Sud’ba vuole arrivare a Lhasa,” dice, assorto nel pensiero che da giorni gli sta martellando in testa.
Lui va,” conferma l’altro, “ma non oggi.”
Passerà di qui, è l’unico sentiero praticabile.”
Tenzin scuote la testa. “Le tue tigri oggi non mangiano niente,” conclude deluso.
Egli non risponde. Fissa assorto il tavoliere, poi getta uno sguardo alle pedine d’ottone. Sud’ba non è certo una capra, che scappa belando sulle balze di roccia per sfuggire alla tigre, e non è nemmeno yeh-teh, che si nasconde sulle cime delle montagne e forse non esiste nemmeno.
È un aristocratico di antica famiglia, discendente da una stirpe di cavalieri che già nel medioevo erano mercenari liberi da ogni obbligo feudale. Un doppiogiochista scaltro, che in definitiva serve solo se stesso.
L’Impero Britannico lo cerca per alcuni documenti che avrebbe sottratto con l’intento di venderli al miglior offerente.
Si chiede se l’Impero Russo lo stia cercando per lo stesso motivo. Non sarebbe impossibile, in effetti.
Chi sarà il destinatario di quel materiale? Chi deve incontrate Sud’ba a Lhasa?
Rievoca la capitale tibetana, l’immenso Potala, il Jokhang dai tetti d’oro.
La voce di Tenzin lo richiama alla realtà:“Muovi le tigri.”
Egli tende meccanicamente la mano verso una delle sue pedine, mangia una capra, pensando distrattamente che gli sembra troppo facile trovare una capra proprio lì, come pronta per la sua tigre. Di nuovo guarda fuori. Stringe gli occhi, cercando di capire, attraverso quello che sembra un oblò da nave riciclato, se la tempesta stia calando di intensità.
Lo sherpa segue il suo sguardo, poi sorride e gli indica gli altri avventori della locanda, ovvero una carovana di mercanti. “Se loro stanno qui, è segno che non si può andare,” asserisce. “Loro vogliono andare presto a Lhasa, ma oggi neanche yeh-teh esce.” Fa una risatina, muove una capra. “Tua tigre non salta più,” dice poi.
Egli realizza che una delle sue quattro pedine è già bloccata e reprime un’imprecazione.
Tenzin ridacchia di nuovo.
Una raffica di vento particolarmente violenta fa salire dalla vallata un ululato lugubre, che davvero sembra il richiamo di una belva in cerca di preda. Egli si guarda intorno: l’oste sta parlando con qualcuno, il bricco dell’acqua sobbolle piano, facendo salire verso il soffitto dipinto una colonna di vapore diafano. Le capre stanno dilagando sul tavoliere del Bagh-Chal come formiche su un animale morto.
Devi pensare a cosa fai,” lo ammonisce lo sherpa. Muove un’altra delle sue pedine, poi solleva su di lui lo sguardo astuto.
Ci penso eccome,” è la risposta. E davvero sta pensando al suo avversario, e a quello che potrebbe fare. Sud’ba è un cosacco, è un uomo orgoglioso, forte e consapevole della propria forza. È coraggioso e scaltro. Sa che chiunque altro sarà rintanato da qualche parte ad aspettare la fine della tempesta, quindi dal suo punto di vista non vi è momento migliore per attraversare il passo e raggiungere la città.
La mia pelliccia,” ordina dopo quelle riflessioni.
Tenzin lo fissa stupito. “Tu vuoi uscire?”
Per tutta risposta, egli tira fuori una mappa della zona e la spiega sul tavolo. “Andrà verso Kampa,” dice con sicurezza. Indica il passo, che sulla cartina ingiallita dall’uso appare come una tenue linea tratteggiata fra due aree marrone scuro.
Kampa impossibile,” è la categorica risposta.”Troppa neve.”
Non per Sud’ba. Lui è uno che ci è nato, nella neve.”

Il vento ghiacciato morde, il furioso turbinare dei fiocchi candidi riduce la visibilità a pochi metri. Sebbene sia pieno giorno, la luce è quella di un crepuscolo spento.
Le creste aguzze del Kampa sono quasi sepolte dalla coltre di neve, ma si colgono ancora i vividi sprazzi di colore delle bandiere lung-ta che adornano il passo.
Egli volta la testa, per evitare che le raffiche gelide gli facciano lacrimare gli occhi e successivamente congelare le lacrime. Si accuccia alla base di uno sperone di roccia, si stringe nella pelliccia d’orso e lascia che la coltre bianca si depositi anche su di lui, nascondendolo alla vista.
Passa un tempo imprecisato, il vento ulula, la luce lentamente illividisce.
Una figura compare dall’avvallamento in cui si snoda il sentiero. Ha una pelliccia completamente bianca e procede rapida, muovendosi con agilità nonostante la neve fresca arrivi ben oltre le ginocchia. Non ha con sé né sherpa né altri accompagnatori.
Dà l’idea di un predatore scattante, una creatura che basta perfettamente a se stessa.
Egli inforca il binocolo. Per quanto infossato nell’ampio cappuccio di pelo, la figura ha un volto. Coglie labbra serrate, che ad ogni balzo fanno uscire un getto di vapore denso. Indovina una pelle arrossata dal freddo ma bianca. Dietro le spesse lenti scure che il misterioso individuo indossa, è pronto a giurarlo, ci devono essere occhi color acquamarina, dall’espressione beffarda.
Sud’ba,” mormora fra sé e sé.
Come se l’avesse sentito, il russo si ferma all’improvviso, si guarda intorno. È nel mezzo del canalone, circondato da un’uniforme coltre bianca, ma non accenna a volersi mettere al coperto.
Egli apre la sacca, ne trae adagio il fucile col mirino da tiratore scelto. È una buona arma, che l’ha servito tante volte. Non fallirà.
Appoggia adagio la canna su una roccia, spinge una pallottola nella camera di scoppio. Si sfila il guanto dentro per poter appoggiare l’indice sul grilletto.
Sud’ba guarda verso di lui. Possibile che si sia accorto della sua presenza? Si morde il labbro costringendosi all’immobilità, mantiene l’occhio fisso sul mirino.
Poi il russo riprende a camminare. In breve gli sta dando le spalle, ancora qualche passo e oltrepasserà la cresta di Kampa.
Una bandiera improvvisamente si stacca, strappata via dalla furia della tempesta, un lampo rosso passa sul canalone e scompare.
Echeggia la detonazione, secca nel lamento lugubre del vento.

Il terribile Sud’ba, il fosco avventuriero cosacco che per anni si era preso gioco dei servizi segreti di tutta Europa, era morto con una fucilata nella schiena, come un cinghiale durante una battuta di caccia.
Il fatto non l’aveva sconvolto più di tanto, obiettivamente. La prima cosa che aveva imparato intraprendendo l’attività di spia era che in certi ambiti non c’è spazio per sentimentalismi e ideali. Il fine giustifica i mezzi, tutto il resto sono solo pastoie che creano problemi ed espongono a rischi inutili.
Diversi colleghi erano morti per non aver imparato da subito quella fondamentale verità.
Ripensò fugacemente al giovanotto di cui aveva cominciato l’addestramento: ucciso da un attimo di sentimentalismo. Aveva visto il povero Werwolf rantolante sul pavimento – e non era escluso che quell’esibizione di sofferenza fosse per la maggior parte una messa in scena a beneficio dell’inesperto ufficiale – e si era fatto prendere dalla pietà.
L’aveva trovato con il collo rotto, probabilmente non si era nemmeno reso conto di crepare.

Guardò di nuovo in alto: le finestre si erano richiuse tutte. La gente aveva già visto il poco che c’era da vedere, nella strada era nuovamente calato il silenzio.
Tese l’orecchio, ma non si udiva alcun rumore, neanche una lontana eco di cadenza militare. Non c’era nemmeno quella sensazione di presenza, indefinibile a parole ma chiara a chiunque si fosse mai trovato in caccia, che la preda vicina era in grado di trasmettere.
Posto che il Werwolf fosse una preda, ovviamente.
In ogni caso, lì non c’era più.
Si incamminò adagio, badando a mantenersi rasente ai muri. Le tenebre non erano più quelle fitte della notte fonda, il contorno dei palazzi era una sagoma nera su uno sfondo appena più chiaro.
Di nuovo pensò al Werwolf, cercò di fare proprio il suo modo di pensare. Tornò col ricordo a certi sciamani che aveva incontrato nelle sue peregrinazioni per l’Asia minore: aveva assistito ai rituali di viaggio extracorporeo. Lui stesso, dopo ingestione di opportune sostanze, gettato nella trance di possessione dal battere ritmico dei tamburi, aveva corso brevemente nella steppa col proprio spirito guida.
Per un attimo si chiese se quegli sciamani avrebbero potuto aiutarlo a entrare nella mente del suo avversario, ma subito dopo, con un’alzata di spalle sprezzante, si disse che ragionamento e deduzione lo avrebbero aiutato molto di più, esattamente com’era accaduto in Tibet con Sud’ba.
Sono un agente segreto in territorio nemico, si disse, ho con me informazioni di vitale importanza. Devo rientrare dietro le mie linee più rapidamente possibile. Cosa farò?
In breve la risposta gli balenò in mente, chiara come il sole che di lì a poco sarebbe sorto.

§

Il tenente si voltò verso un alto letto dalla testata in ferro dipinto. Da esso penzolava una mano ossuta, rugosa, percorsa da vene azzurrine. “Era proprio necessario ucciderlo?” chiese.
L’agente segreto, impegnato a ispezionare il contenuto di un armadio, senza voltarsi rispose: “Non se n’è nemmeno accorto.”
“Bastava legarlo.”
L’uomo scosse la testa. “Col rischio che si mettesse a urlare? No, meglio essere sicuri.” Poi, dopo una pausa: “Lei è cattolico o protestante?”
Von Knobelsdorff lo fissò stupefatto. “Prego?”
L’altro si voltò verso di lui e lentamente scandì: “Voglio sapere se è cattolico o protestante.”
“Che c’entra?”
“Sa dire il rosario o no?”
Il giovane ufficiale aggrottò le sopracciglia. Si sporse a guardare il corpo abbandonato sul letto, poi replicò: “Qualche spiegazione in più non sarebbe fuori luogo.”
L’uomo annuì come per prendere atto della richiesta, ma non disse nulla. Si limitò a estrarre dall’armadio una veste talare e a misurarsela sul corpo. “Questa può andare,” concluse poi.
Von Knobelsdorff strinse le labbra contrariato, con la sensazione che quel modo di fare fosse una specie di prova di forza nei suoi confronti: lui faceva le domande, il tizio non rispondeva. A questo punto, lui aveva due scelte: seguirlo pedissequamente o impuntarsi ed esigere una risposta a tutti i costi.
Si chiese se sarebbe riuscito a prevalere su uno così, verbalmente o fisicamente, e si accorse di non esserne poi tanto sicuro. Di certo non avrebbe avuto il pelo sullo stomaco che il suo accompagnatore aveva più volte dimostrato di possedere.
Di nuovo fece girare lo sguardo sulla stanza, semplice al punto da apparire spoglia. Gli sembrava di essere imprigionato in una palude, perduto, senza la più pallida idea di dove si trovava e di come avrebbe fatto ad andarsene. In una circostanza del genere, poteva permettersi di dettare condizioni all’unica persona che essenzialmente lo stava tenendo lontano dalla prigionia e forse dal plotone d’esecuzione?
“Non so dire il rosario,” sospirò.
“Alla buon’ora,” rispose l’uomo, che nel frattempo aveva indossato la talare e stava finendo di abbottonarsela. “Il latino lo sa?”
“Certo.”
“Andiamo in sacrestia.”
“Cosa vuole fare?” chiese d’istinto von Knobelsdorff. Poi scosse la testa e soggiunse: “Tanto non mi risponderà, vero?”
L’altro si limitò a lanciargli una veste talare e a dire: “Tenga sotto pantaloni e camicia.”

“Non ha pensato che potrei contribuire maggiormente alla riuscita della missione, se sapessi cos’ha intenzione di fare?”
Il Werwolf alzò gli occhi al cielo. Era come provare a ballare il valzer con uno che non solo non aveva mai ballato in vita sua, ma non aveva mai nemmeno sentito un brano di musica.
Peccato che dalla riuscita di quella danza dipendesse la vita di entrambi.
Si voltò a guardare il giovane ufficiale, che con la talare addosso sembrava un pretino appena uscito dal seminario. “Primo, si parla in francese,” lo ammonì, “anche fra di noi.” Aprì un alto armadio di paramenti, ne trasse una semicotta e una stola viola, indossò entrambe. “Sa il francese, vero?”
“Certo,” giunse la piccata risposta.
“Lo parla bene?”
“Da quando avevo sei anni. Avevamo una istitutrice di Parigi.”
“Molto bene, speriamo che non si sia limitata a dare lezioni di lingua solo a cocchieri e valletti.” Senza dare al giovane il tempo di elaborare un’indignata replica, il Werwolf proseguì: “Usciremo vestiti da preti. Io sarò il parroco, lei il vicario. Come vede, ho i paramenti dell’estrema unzione, cosa che già dovrebbe instillare nella gente un sano rispetto, inoltre reciteremo il rosario e nessuno oserà interromperci, nemmeno gli inglesi, anche se non capiranno nemmeno cosa stiamo facendo.”
L’ufficiale abbassò gli occhi sul proprio abito, poi li alzò su di lui. Aveva l’espressione di chi si trova davanti una serie di pezzi meccanici sconosciuti e sa che la sua vita dipende da quanto rapidamente riuscirà ad assemblarli. “Le ho detto che non so recitare il rosario,” gli ricordò, con l’aria di star facendo una confessione oltremodo sconveniente.
“Dovrà solo leggere,” rispose il Werwolf indicandogli un breviario. In un tono che avrebbe voluto suonare rassicurante soggiunse: “Faremo qualche prova.”
“Ma...” L’ufficiale appariva sempre più preoccupato. “Ecco, poi dove andremo, così combinati?”
“Alla stazione.”
“Ma sarà piena di soldati inglesi!”
“Le viene in mente qualche altro modo per raggiungere le linee?”
L’altro si strinse nelle spalle. “Non lo so, nasconderci, muoverci di notte. Non farci vedere, insomma.”
Il Werwolf ghignò. “Conosce il detto, non è vero? Il modo migliore per nascondere qualcosa è lasciarlo in bella vista.”
“Penso che sia un detto stupido,” replicò l’ufficiale incrociando le braccia sul petto.
Di nuovo, la spia alzò gli occhi al cielo. Gettò uno sguardo alla finestra, dietro la quale si indovinava già il chiarore dell’alba. Se tendeva l’orecchio, si udivano i primi suoni della giornata che cominciava, il carretto sferragliante di un ortolano, lo sbattere di qualche imposta che veniva aperta per dar aria alle stanze.
Sentì anche il passo cadenzato di una pattuglia.
“Qui non stiamo giocando,” ringhiò senza nemmeno voltarsi. “Stiamo correndo un pericolo mortale, abbiamo alle calcagna il miglior agente segreto britannico e siamo in pieno territorio nemico, quindi lei ha due scelte: o fa esattamente quello che le dico, senza saltare su ogni due minuti con una delle sue domande insulse, oppure se ne va dove preferisce, e rientra dietro le linee tedesche con i metodi che le paiono più opportuni.”
A quelle parole, il giovanotto si mosse fino a trovarsi faccia a faccia con lui, strinse i pugni e furibondo esordì: “Senta un po’, signore...”
“No, senta lei,” lo interruppe bruscamente il Werwolf, “la mia pazienza finisce adesso. Le mie condizioni gliele ho dette, valuti lei cosa preferisce fare.”
Raggiunse la specchiera, raccolse dal piano di un mobile un collarino bianco e cominciò a sistemarselo sotto il colletto dell’abito talare con gesti nervosi. Non era escluso che l’indignato ufficialetto, orgoglioso e permaloso come una signorina di buona famiglia, se ne andasse per i fatti suoi, finendo ovviamente per farsi arrestare appena messo piede fuori dalla canonica, ma era arrivato il momento della verità: ormai non poteva più permettersi indugi, nemmeno per quel bel visetto. La Patria veniva prima.
“Si decida,” lo incalzò.

§

La stazione era un guazzabuglio di uniformi color khaki dell’esercito britannico, nel quale si coglieva qua e là il carta da zucchero di qualche divisa francese. Ogni tanto passavano dei civili, uomini perlopiù, ma anche donne, che invariabilmente, anche se attempate o con i figli per mano, suscitavano schiamazzi e apprezzamenti tra i soldati.
Appoggiato a una colonna, The Bishop osservava.
C’era un treno in partenza. Le caldaie stavano andando in pressione e da sotto la locomotiva uscivano sibilanti getti di vapore.
I soldati si accalcavano nelle carrozze, buttando gli zaini alla rinfusa, urlando e spingendosi. Qualcuno da qualche parte stava suonando un’armonica mentre un gruppetto di voci intonava ‘Pack up your troubles in your old kit bag’.
A un tratto udì qualcuno salmodiare: “Pater noster qui es in caleum. Santificetur nomen tuum. Adveniat regnum tuum. Fiat voluntas tuam, sicut in caelum et in terram.”
Una seconda voce, più sottile, che suonava vagamente emozionata, rispose: “Panem nostrum cotidianum da nobis hodie, et dimitte nobis debita nostra...”
Gli schiamazzi dei soldati calarono di tono. Qualcuno disse a qualcun altro: “E sta un po’ zitto, no?”
Seguì un biascicare di scuse.
“Che stanno facendo?” chiese poi una terza voce, attutita come durante una funzione.
La prima prese un tono di compiaciuta sicumera: “Dicono il rosario.”
“Il che?”
“Rosario. Sono cattolici.” Poi, dopo una pausa. “Quello è il latino.”
The Bishop si girò nella direzione da cui proveniva il conciliabolo e intravide due preti che si allontanavano, con le spalle un po’ curve e lo sguardo chino sul breviario.
Chi li incontrava si faceva il segno della croce, se francese, altrimenti si toglieva il berretto o mostrava comunque qualche segno di deferenza.
Egli tornò a fissare il treno che man mano andava riempiendosi di soldati. Qualcuno era evidentemente riuscito a conquistarsi una ragazza, durante il periodo trascorso nelle retrovie, e la stava salutando con gran profusione di lacrime e promesse.
Un altro sedeva su una panchina con un foglio sulle ginocchia, tentando di scrivere un’ultima lettera a casa.
Di nuovo echeggiarono le note dell’armonica, stravolta in un motivo triste.
L’agente segreto fece di nuovo girare lo sguardo tutt’intorno. Il treno stava partendo per il fronte, quindi era su quello che il dannato tedesco avrebbe cercato di salire. Si chiese se fosse ancora in compagnia dell’altro o se fosse da solo. Si chiese se avesse trovato il modo di indossare un’uniforme inglese per confondersi nella massa di soldati.
Intravide una pattuglia della polizia militare fermare una coppia di soldati e per un attimo si sentì invadere dall’eccitazione, ma subito dopo i due furono lasciati andare.
Il treno emise un lungo fischio, dal fumaiolo uscì una densa colonna grigiastra. Il cupo ribollire della caldaia si alzò di un’ottava.
Sulle banchine, i sergenti spingevano a bordo gli ultimi ritardatari. Colse con la coda dell’occhio qualcosa di nero in lontananza, si girò in quella direzione e vide mani volenterose protendersi per aiutare i due preti a salire in carrozza.
Le bielle si misero in movimento, le ruote stridettero sulle rotaie sollevando qua e là delle scintille, mentre il treno cominciava lentamente a muoversi.
The Bishop dardeggiò sguardi sulla folla in uniforme, senza riconoscere alcuna fisionomia nota. Le pattuglie della polizia militare, dal lui precedentemente allertate, continuavano a controllare i documenti dei soldati, ma nulla di irregolare sembrava attirare la loro attenzione.
Una cartaccia gli svolazzò tra i piedi.
A quel punto, dall’esterno della stazione provenne il grido di una voce femminile: “Hanno ucciso il parroco della chiesa di Saint Giles!”
La frase ebbe il potere di fargli accelerare i battiti. Fece qualche passo in quella direzione, adocchiò un capannello di donne. La voce aggiunse: “Dei ladri l’hanno strangolato nel sonno. In sacrestia hanno rovistato ovunque.”
Si girò verso il treno, che stava muovendosi sempre più veloce. Non era strano che due preti salissero su una tradotta militare?
Soffocò un’imprecazione e spiccò la corsa.


   
 
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