L’Auleta
Una folata di vento gelido scosse le impalcature della chiesa di Nostra Signora del Sacro Cuore e i teli bianchi si gonfiarono come spettri nell’oscurità. Sollevai un poco il bavero della cappa, cercando riparo nelle ombre dei grandi palazzi di Campo Marzio. I fantasmi di una città allo stremo si ammassavano agli angoli delle strade e nei vicoli, vittime e carnefici di un’umanità sporca e malsana, a malapena distinguibili dai mucchi di rifiuti che si accumulavano incontrollati ai bordi delle piazze. Seguii vicolo del Pegno fino a via dei Coronari. Persino in quella notte di tramontana, le candelaie offrivano i loro corpi fuori dalle osterie e sotto le edicole sacre. Le madonne di pietra e pittura volgevano gli sguardi al cielo, incuranti delle bassezze della città che avrebbe dovuto essere Santa. Incontrai poche persone, ubriachi per la maggior parte. Sfuggirono i miei sguardi, si ritirarono nelle ombre degli ingressi o sotto gli archi al mio passaggio e persino Inès, la prostituta spagnola dal volto rotondo e gli occhi di ossidiana che a volte non mi faceva pagare, si tirò indietro con un sussulto. Nessuno voleva ricevere una visita da Berenguer Fàbrega, quella notte meno che mai.
Poche settimane prima un uomo aveva chiesto di incontrarmi nelle sale sotto il colle Oppio, dove ricevevo i folli e i disperati disposti a pagare per una buona lama spagnola. Di solito, i gemiti delle prostitute, le bestemmie degli uomini e la puzza di umanità dannata che venivano da poco più a valle, da sotto i fornici del Colosseo, erano sufficienti a dissuadere i deboli di cuore e di stomaco. Per tutti gli altri, le lunghe ombre tra i marmi di uno splendore ormai svanito e un veloce baluginio della mia daga bastavano a convincerli che le loro anime non sarebbero state esenti dal peccato. Dio aveva abbandonato quel luogo, o forse non c’era mai stato. Di certo, aveva abbandonato me. Dodici anni erano passati da quella notte maledetta in cui mi aveva strappato ogni cosa e nessuna lama toledana avrebbe mai potuto rivaleggiare con il dolore che mi trapassava il petto. Una lama, in effetti, era tutto ciò che mi era rimasto.
Il mio cliente aveva indossato una maschera e aveva camuffato la voce, ma l’odore dell’incenso è come il fango del Tevere, ti si avvinghia addosso e non può essere scrostato. Non mi domandai cosa avesse spinto un prete così in basso da assoldare me, questo genere di domande non fa parte del mio mestiere. Quello che chiesi, piuttosto, fu l’entità della paga. Era buona e il compito semplice: dovevo recuperare un antico vaso trafugato da un palazzo di qualche incensato troppo importante perché se ne sapesse il nome. Non chiesi cosa avesse di speciale questo vaso né quale fosse il palazzo in questione, la paga era più che sufficiente. Ritrovare il vaso era stato facile. Il furto era stato un lavoro da dilettanti, che fossero addirittura arrivati a chiamare me, lo trovavo quasi offensivo. Un qualsiasi galoppino papale avrebbe potuto risolvere la questione e senza neppure sporcarsi la toga. Quel pomeriggio di tramontana, tuttavia, avevo capito. Il Paternostaro, signore indiscusso dei bravi e dei tagliagole di Campo Marzio, aveva commissionato il furto e si preparava a far uscire da Roma il vaso e altri beni di contrabbando alle prime luci dell’alba.
Percorsi i vicoli infangati dietro via dei Coronari, dove le botteghe dei paternostari si allineavano, chiuse a quell’ora della notte, e individuai l’unica che mi sarebbe mai potuta interessare in questa vita. Occhi invisibili mi seguirono nell’oscurità e io li depistai presto nel dedalo di vicoli. Presi una delle sentinelle del Paternostaro alle spalle e gli recisi la gola prima che potesse fiatare. Con un risucchio, la lama e l’elsa della mia daga si sporcarono di sangue nero. Lasciai l’uomo a morire in una pozzanghera bollente mentre scivolavo sul retro della bottega. Controllai la posizione della falce di luna nel cielo limpido. Avevo circa un quarto d’ora, prima che qualcuno si allarmasse. Trovai la porta e con uno scatto metallico la scassinai.
L’odore di legno e cera mi assalì le narici. Nel buio della stanza si stagliavano le sagome informi di grossi mobili coperti da teli bianchi. Non mi soffermai a indagare. Sul camino ancora caldo alla mia sinistra trovai una lucerna. La accesi, illuminando una stanza affollata di macchine di qualche tipo e di tavolette di legno. Il pavimento era coperto di trucioli e segatura. Mi guardai attorno, scandagliando con lo sguardo l’ambiente alla ricerca di una sagoma che mi ricordasse un vaso. Un grembiule da lavoro era attaccato vicino all’unica altra porta della stanza. Trattenni il respiro, immobile, ascoltando le ombre tremolanti. L’urbe intera sembrava essersi fatta tutta d’un tratto silenziosa. Mi sporsi nella stanza accanto: uno sgabello, un tavolo, diversi rosari su di esso, una scatola piena di placchette metalliche, forse medagliette. Le imposte erano serrate, ma lasciavano entrare i suoni attutiti di risate che sapevano di vino a pochi piccioli. L’eco di Via dei Coronari arrivava lontanissima. Una scala alla mia destra portava ai piani di sopra. Mi mossi facendo attenzione a non lasciare tracce nei trucioli a terra e allora la vidi: la sagoma impercettibile di una botola. Qualcuno aveva sparso segatura e legno per mimetizzarla e aveva fatto un discreto lavoro. Lanciai uno sguardo alla scala. Esitai, poi mi risolsi.
Mi accucciai a terra per aprire la botola e il fodero della spada urtò sulle pietre del camino. Un tonfo sordo echeggiò nel silenzio. Mi raggelai, aspettando dei suoni dal piano di sopra. Silenzio. Attesi ancora un istante, poi finii di aprire il vano. L’oscurità e l’odore di muffa mi accolsero. La luce fioca della lucerna disegnò mucchi di casse, sacchi e contenitori di ogni tipo. Lo scantinato si estendeva molto più in là del raggio della fiamma, inghiottendola in un buio polveroso e disordinato. Vagai alla rinfusa, frugando fra stoffe, armi e sacchi di spezie. Nessuno di quegli oggetti avrebbe dovuto essere lì. Annusai un pizzico di una polvere finissima e marrone: una sola ciotola di quella roba avrebbe reso uno come me più ricco di quanto avrebbe potuto sperare di diventare in una vita. L’odore forte della spezia mi salì al naso, costringendomi a soffocare uno starnuto. Al piano di sopra qualcosa, impercettibile, si mosse. Mi guardai attorno alla ricerca di un vaso. Alzai un paio di teli, aprii qualche cassa.
Poi, lo vidi.
Imballato nella paglia, il vaso giaceva sul fondo si una cassa di legno. La luce della lucerna illuminò per qualche istante le forme morbide della ceramica. Sulla pancia, una fila di donne danzava incurante del tempo al ritmo di un auleta, un suonatore di flauto, in una festa eterna e senza pensieri. La musica silenziosa di quella scena avrebbe risuonato nei secoli, beata ed inconsapevole dello scorrere delle generazioni. Noi saremmo morti e diventati polvere e quelle ragazze avrebbero continuato la loro danza sfrenata. Un rumore interruppe i miei pensieri. Questa volta era stato chiaro: passi da qualche parte al piano di sopra. Afferrai il vaso e lo feci scivolare nella sacca che mi ero portato dietro. Spensi la lucerna e mi diressi verso l’uscita. Dal quadrato della botola sopra di me veniva una luce fioca e nessun rumore. Presi un respiro profondo, sganciando il laccetto che teneva la spada ferma nel fodero. Un passo alla volta, risalii la scala, consapevole di ogni scricchiolio.
Lui mi aspettava in bella vista davanti alla porta da cui ero entrato, occupandone quasi per intero la cornice. Il camino era acceso, le fiamme tremolavano incerte tra le braci. Squarci di luce danzarono sul volto dell’uomo e la lama di dolore che da dodici anni mi martoriava il petto sussultò penetrando più a fondo. Avrei riconosciuto quel viso ovunque: Francesco Adriani, l’uomo che in una notte maledetta aveva ucciso mia moglie e mia figlia. Entrambe le nostre spade lasciarono i foderi con un baluginio rossastro. I miei occhi erano incatenati ai suoi, pece dentro pece.
All’improvviso, sorrise e io seppi che lo avrei ucciso.
Stese la lama, la daga penzolava nella mano sinistra, oscillando da una parte all’altra, ipnotica. Lo imitai, poi lo incalzai con un colpo di taglio a sinistra. Lui parò, tornammo a studiarci. Cercò la mia spada con la sua, ci intrecciammo, poi tornò sulla difensiva. Mi strizzò un occhio. Gliel’avrei strappati con le mie stesse mani, quegli occhi. Andai con un colpo di taglio alla gamba destra, mi scoprii e lui mi colpì con un taglio superficiale alla spalla. Avrebbe potuto trafiggermi, ma non lo fece. Si stava divertendo, il bastardo. Lo attaccai ancora, cercando di bloccare la sua lama con la mia daga, ma ogni volta che pensavo di averlo preso, la sua spada spariva e ricompariva poco più in là, fuori portata. Tornai in difesa, la spada davanti a me a coprire il busto, ripresi fiato. Dall’altra parte della stanza, il mio avversario aveva abbassato la spada e sorrideva ancora. Col fiato corto mi lanciai verso di lui con un colpo di taglio diretto alla testa, lo schivò ma perse stabilità. La sua lama finì incastrata nell’elsa della mia daga, ma ne scivolò via, rapida come una biscia, e l’Adriani fu di nuovo fuori tiro. Ora però, non sorrideva più. Alzò la spada e la daga, si mise in una posizione bassa, quasi accucciato, con la lama stesa davanti a lui. Il suo viso era seminascosto dall’elaborata elsa della spada, ma potevo ancora vederne gli occhi, due tizzoni ardenti di eccitazione. Andai per incrociare la mia lama con sua, ma fendetti il vuoto e mi ritrovai la sua punta vicina al mio zigomo. Mi ritirai e lui mi era già addosso. Parai e schivai, ma la sua punta era ovunque. Indietreggiai, cercando lo spazio per caricare un colpo di taglio ben assestato, ma Adriani non mi dava respiro, un diavolo assatanato e inarrestabile. Un paio di volte penetrò il mio farsetto, senza mai andare a fondo, sempre tornando alla carica. Cercai di colpirlo sotto all’ascella scoperta con la daga, ma era fuori portata. Prima che potessi tornare in una posizione di difesa, un dolore lancinante mi trapassò l’avambraccio sinistro e la daga mi balzò di mano, rotolando a terra. Feci un passo indietro tendendomi il braccio, ma il mio avversario non si fermò. Sbattei contro un mobile e mi ritrovai a parare disperato, con la sua lama che saettava da ogni lato. Ormai schiacciato contro il legno spigoloso di una delle macchine, i colpi del mio avversario mi raggiungevano sempre più spesso, sempre più a fondo.
Sentii le forze venirmi meno, le immagini farsi confuse. Disperato, mi avvolsi la cappa intorno al braccio, la agitai davanti a me. Tanto bastò, la lama dell’Adriani rimase imbrigliata nella stoffa e io mi lanciai verso l’elsa della sua spada, incastrandola tra il mio braccio e il mio corpo, la punta letale ben lontana da me, da qualche parte alle mie spalle. Viso contro viso, incatenati in uno sguardo feroce, rimanemmo così, sospesi per un tempo indefinito. Poi, la furia prese il sopravvento e con una testata sentii il suo naso frantumarsi sotto la mia fronte e il sangue colare ovunque. Gli strappai l’arma tenendo il suo collo nell’incavo del mio braccio, si agitò lottando, ma aveva perso il suo vantaggio, ormai disarmato. Lo forzai a terra, a faccia in giù e con più violenza di quanta ne fosse necessaria. Gemette e io godei. Recuperai la mia daga, pronto a prendermi la mia vendetta. Osservai la punta di acciaio brillare del riflesso delle fiamme, la avvicinai al viso coperto di sangue dell’uomo, assaggiai la sua paura, la rigidità dei suoi muscoli sotto il peso del mio corpo, il battito furioso del suo cuore e il respiro corto nei polmoni. Mi gustai tutto, con calma, lo assaporai come un pregiato vino francese, ne ammirai ogni dettaglio alla luce rossa del camino. Appoggiai la lama al collo, aspettando di vedere il suo sangue mischiarsi ai trucioli e allo sporco del pavimento, come aveva fatto lui stesso dodici anni prima con mia figlia, lo sguardo terrorizzato di bambina ancora spalancato di innocente incredulità di fronte alla morte. Ne rividi i riccioli perfetti impregnati di sangue e la vista mi si appannò, la lama nel cuore ridotta ad un dolore insopportabile.
Uno schianto, alzai la testa.
La sacca con il vaso giaceva a terra, alcuni frammenti di ceramica sfuggiti e sparsi ovunque. Accanto al vaso, con gli occhi enormi e le mani davanti alla bocca, una bambina. Qualche boccolo del colore della pece le sfuggiva dalla cuffietta, il viso minuscolo era una maschera di orrore, troppo grande per un faccino così piccolo. Poteva essere mia figlia, non aveva più di cinque anni. Sentivo la sua accusa, forte e chiara nel silenzio assoluto dell’ora più buia della notte, bruciare come sale su una ferita aperta. Ci fissammo, io assassino di suo padre, lei vittima innocente. Avrei conficcato la stessa lama che trafiggeva il mio cuore nel suo, avrei fatto crescere in lei la rabbia e la furia dell’impotenza, la sete della vendetta, l’amarezza del dolore. Lo avrei fatto e questo non avrebbe riportato indietro né mia moglie né mia figlia. Avrei fatto scivolare quella lama sulla gola dell’Adriani e il mio dolore non sarebbe scomparso, la mia furia non si sarebbe azzittita.
Non lo feci. Mi sollevai dal corpo irrigidito del mio nemico, gli assestai un calcio per buona misura e raccogliendo i cocci sparsi a terra, me ne andai.
Qualche ora dopo, quando tornai a casa stanco e sanguinante, estrassi dalla sacca i frammenti del vaso, la causa prima di quella notte cruciale. Rovesciai i cocci sull’unico tavolo della mia stanza sopra l’Osteria dell’Orso, molti isolati lontano da casa dell’Adriani. La ceramica splendeva lucida alla luce della candela di sego, la danza delle ragazze ormai interrotta e rovinata in decine di frammenti scomposti, le membra disarticolate e devastate da un singolo momento di disattenzione. Sospirai e cominciai a rimontare i pezzi. L’alba mi sorprese immerso nella lentezza della ricostruzione, nell’atto catartico di rimettere insieme i frammenti di un idillio in frantumi. Quando il sole batté sui vetri sporchi della mia stanza, il vaso era di nuovo in piedi, bello e perfetto nella sua ragnatela di fratture ricomposte. Lo osservai, rigirandolo con delicatezza tra le mani, e allora aggiunsi l’ultimo pezzo. Il quadratino di ceramica prese il suo posto, il suonatore di quella musica eterna: l’auleta, il senso di tutto.
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NOTA AL TESTO
Non mi piace inserire note, sia perchè penso che interrompano il ritmo della lettura, sia perchè sono dell'idea che un buon testo storico debba essere accessibile anche senza bisogno di una conoscenza approfondita del periodo. Spero di aver raggiunto l'obiettivo.
D'altra parte, mi piace inserire a fine testo degli elementi, curiosità a volte, che possano interessare e coinvolgere il lettore. In questo caso, ho ambientato la scena nelle strade dietro all'attuale Piazza Navona.
Nostra signora del sacro Cure era in costruzione all'inizio del 1500 e ospitava nei suoi dintorni il quartiere spagnolo; oggi, è la sede dell'Istituto Cervantes di studi spagnoli.
Il colle Oppio era la sede della Domus Aurea (I secolo d.C.), che al tempo in cui si svolge la storia non era ancora stata ufficialmente scoperta, ma di cui se ne conosceva ampiamente l'esistenza; la zona tutta era piuttosto malfamata e sotto ai fornici del Colosseo le prostitute di bassissima lega offrivano i loro servizi...di certo non un posticino a modo!
Le candelaie erano allora le prostitute, le quali misuravano il tempo delle loro prestazioni con le candele, ragion per cui giravano con dei mazzi di candele (la prostituzione nella Roma rinascimentale richiederebbe un intero libro, quindi mi fermo qui).
Via dei Coronari esiste ancora oggi ed è una delle arterie principali dei Campo Marzio, proprio dietro a Piazza Navona. I coronari, così come i paternostari, erano i fabricanti di corone da rosario, che come immaginerete avevano un ampio successo commerciale nella Roma papalina.
L'antagonista di questa storia è un personaggio a metà fra la realtà e la fantasia e prende ispirazione da un (forse) maestro di scherma del 1500, detto il Patrnoster.
Il vaso in questione è ispirato ad un vaso attico del cd Gruppo di Polignoto, datato al V secolo a.C.
Poche settimane prima un uomo aveva chiesto di incontrarmi nelle sale sotto il colle Oppio, dove ricevevo i folli e i disperati disposti a pagare per una buona lama spagnola. Di solito, i gemiti delle prostitute, le bestemmie degli uomini e la puzza di umanità dannata che venivano da poco più a valle, da sotto i fornici del Colosseo, erano sufficienti a dissuadere i deboli di cuore e di stomaco. Per tutti gli altri, le lunghe ombre tra i marmi di uno splendore ormai svanito e un veloce baluginio della mia daga bastavano a convincerli che le loro anime non sarebbero state esenti dal peccato. Dio aveva abbandonato quel luogo, o forse non c’era mai stato. Di certo, aveva abbandonato me. Dodici anni erano passati da quella notte maledetta in cui mi aveva strappato ogni cosa e nessuna lama toledana avrebbe mai potuto rivaleggiare con il dolore che mi trapassava il petto. Una lama, in effetti, era tutto ciò che mi era rimasto.
Il mio cliente aveva indossato una maschera e aveva camuffato la voce, ma l’odore dell’incenso è come il fango del Tevere, ti si avvinghia addosso e non può essere scrostato. Non mi domandai cosa avesse spinto un prete così in basso da assoldare me, questo genere di domande non fa parte del mio mestiere. Quello che chiesi, piuttosto, fu l’entità della paga. Era buona e il compito semplice: dovevo recuperare un antico vaso trafugato da un palazzo di qualche incensato troppo importante perché se ne sapesse il nome. Non chiesi cosa avesse di speciale questo vaso né quale fosse il palazzo in questione, la paga era più che sufficiente. Ritrovare il vaso era stato facile. Il furto era stato un lavoro da dilettanti, che fossero addirittura arrivati a chiamare me, lo trovavo quasi offensivo. Un qualsiasi galoppino papale avrebbe potuto risolvere la questione e senza neppure sporcarsi la toga. Quel pomeriggio di tramontana, tuttavia, avevo capito. Il Paternostaro, signore indiscusso dei bravi e dei tagliagole di Campo Marzio, aveva commissionato il furto e si preparava a far uscire da Roma il vaso e altri beni di contrabbando alle prime luci dell’alba.
Percorsi i vicoli infangati dietro via dei Coronari, dove le botteghe dei paternostari si allineavano, chiuse a quell’ora della notte, e individuai l’unica che mi sarebbe mai potuta interessare in questa vita. Occhi invisibili mi seguirono nell’oscurità e io li depistai presto nel dedalo di vicoli. Presi una delle sentinelle del Paternostaro alle spalle e gli recisi la gola prima che potesse fiatare. Con un risucchio, la lama e l’elsa della mia daga si sporcarono di sangue nero. Lasciai l’uomo a morire in una pozzanghera bollente mentre scivolavo sul retro della bottega. Controllai la posizione della falce di luna nel cielo limpido. Avevo circa un quarto d’ora, prima che qualcuno si allarmasse. Trovai la porta e con uno scatto metallico la scassinai.
L’odore di legno e cera mi assalì le narici. Nel buio della stanza si stagliavano le sagome informi di grossi mobili coperti da teli bianchi. Non mi soffermai a indagare. Sul camino ancora caldo alla mia sinistra trovai una lucerna. La accesi, illuminando una stanza affollata di macchine di qualche tipo e di tavolette di legno. Il pavimento era coperto di trucioli e segatura. Mi guardai attorno, scandagliando con lo sguardo l’ambiente alla ricerca di una sagoma che mi ricordasse un vaso. Un grembiule da lavoro era attaccato vicino all’unica altra porta della stanza. Trattenni il respiro, immobile, ascoltando le ombre tremolanti. L’urbe intera sembrava essersi fatta tutta d’un tratto silenziosa. Mi sporsi nella stanza accanto: uno sgabello, un tavolo, diversi rosari su di esso, una scatola piena di placchette metalliche, forse medagliette. Le imposte erano serrate, ma lasciavano entrare i suoni attutiti di risate che sapevano di vino a pochi piccioli. L’eco di Via dei Coronari arrivava lontanissima. Una scala alla mia destra portava ai piani di sopra. Mi mossi facendo attenzione a non lasciare tracce nei trucioli a terra e allora la vidi: la sagoma impercettibile di una botola. Qualcuno aveva sparso segatura e legno per mimetizzarla e aveva fatto un discreto lavoro. Lanciai uno sguardo alla scala. Esitai, poi mi risolsi.
Mi accucciai a terra per aprire la botola e il fodero della spada urtò sulle pietre del camino. Un tonfo sordo echeggiò nel silenzio. Mi raggelai, aspettando dei suoni dal piano di sopra. Silenzio. Attesi ancora un istante, poi finii di aprire il vano. L’oscurità e l’odore di muffa mi accolsero. La luce fioca della lucerna disegnò mucchi di casse, sacchi e contenitori di ogni tipo. Lo scantinato si estendeva molto più in là del raggio della fiamma, inghiottendola in un buio polveroso e disordinato. Vagai alla rinfusa, frugando fra stoffe, armi e sacchi di spezie. Nessuno di quegli oggetti avrebbe dovuto essere lì. Annusai un pizzico di una polvere finissima e marrone: una sola ciotola di quella roba avrebbe reso uno come me più ricco di quanto avrebbe potuto sperare di diventare in una vita. L’odore forte della spezia mi salì al naso, costringendomi a soffocare uno starnuto. Al piano di sopra qualcosa, impercettibile, si mosse. Mi guardai attorno alla ricerca di un vaso. Alzai un paio di teli, aprii qualche cassa.
Poi, lo vidi.
Imballato nella paglia, il vaso giaceva sul fondo si una cassa di legno. La luce della lucerna illuminò per qualche istante le forme morbide della ceramica. Sulla pancia, una fila di donne danzava incurante del tempo al ritmo di un auleta, un suonatore di flauto, in una festa eterna e senza pensieri. La musica silenziosa di quella scena avrebbe risuonato nei secoli, beata ed inconsapevole dello scorrere delle generazioni. Noi saremmo morti e diventati polvere e quelle ragazze avrebbero continuato la loro danza sfrenata. Un rumore interruppe i miei pensieri. Questa volta era stato chiaro: passi da qualche parte al piano di sopra. Afferrai il vaso e lo feci scivolare nella sacca che mi ero portato dietro. Spensi la lucerna e mi diressi verso l’uscita. Dal quadrato della botola sopra di me veniva una luce fioca e nessun rumore. Presi un respiro profondo, sganciando il laccetto che teneva la spada ferma nel fodero. Un passo alla volta, risalii la scala, consapevole di ogni scricchiolio.
Lui mi aspettava in bella vista davanti alla porta da cui ero entrato, occupandone quasi per intero la cornice. Il camino era acceso, le fiamme tremolavano incerte tra le braci. Squarci di luce danzarono sul volto dell’uomo e la lama di dolore che da dodici anni mi martoriava il petto sussultò penetrando più a fondo. Avrei riconosciuto quel viso ovunque: Francesco Adriani, l’uomo che in una notte maledetta aveva ucciso mia moglie e mia figlia. Entrambe le nostre spade lasciarono i foderi con un baluginio rossastro. I miei occhi erano incatenati ai suoi, pece dentro pece.
All’improvviso, sorrise e io seppi che lo avrei ucciso.
Stese la lama, la daga penzolava nella mano sinistra, oscillando da una parte all’altra, ipnotica. Lo imitai, poi lo incalzai con un colpo di taglio a sinistra. Lui parò, tornammo a studiarci. Cercò la mia spada con la sua, ci intrecciammo, poi tornò sulla difensiva. Mi strizzò un occhio. Gliel’avrei strappati con le mie stesse mani, quegli occhi. Andai con un colpo di taglio alla gamba destra, mi scoprii e lui mi colpì con un taglio superficiale alla spalla. Avrebbe potuto trafiggermi, ma non lo fece. Si stava divertendo, il bastardo. Lo attaccai ancora, cercando di bloccare la sua lama con la mia daga, ma ogni volta che pensavo di averlo preso, la sua spada spariva e ricompariva poco più in là, fuori portata. Tornai in difesa, la spada davanti a me a coprire il busto, ripresi fiato. Dall’altra parte della stanza, il mio avversario aveva abbassato la spada e sorrideva ancora. Col fiato corto mi lanciai verso di lui con un colpo di taglio diretto alla testa, lo schivò ma perse stabilità. La sua lama finì incastrata nell’elsa della mia daga, ma ne scivolò via, rapida come una biscia, e l’Adriani fu di nuovo fuori tiro. Ora però, non sorrideva più. Alzò la spada e la daga, si mise in una posizione bassa, quasi accucciato, con la lama stesa davanti a lui. Il suo viso era seminascosto dall’elaborata elsa della spada, ma potevo ancora vederne gli occhi, due tizzoni ardenti di eccitazione. Andai per incrociare la mia lama con sua, ma fendetti il vuoto e mi ritrovai la sua punta vicina al mio zigomo. Mi ritirai e lui mi era già addosso. Parai e schivai, ma la sua punta era ovunque. Indietreggiai, cercando lo spazio per caricare un colpo di taglio ben assestato, ma Adriani non mi dava respiro, un diavolo assatanato e inarrestabile. Un paio di volte penetrò il mio farsetto, senza mai andare a fondo, sempre tornando alla carica. Cercai di colpirlo sotto all’ascella scoperta con la daga, ma era fuori portata. Prima che potessi tornare in una posizione di difesa, un dolore lancinante mi trapassò l’avambraccio sinistro e la daga mi balzò di mano, rotolando a terra. Feci un passo indietro tendendomi il braccio, ma il mio avversario non si fermò. Sbattei contro un mobile e mi ritrovai a parare disperato, con la sua lama che saettava da ogni lato. Ormai schiacciato contro il legno spigoloso di una delle macchine, i colpi del mio avversario mi raggiungevano sempre più spesso, sempre più a fondo.
Sentii le forze venirmi meno, le immagini farsi confuse. Disperato, mi avvolsi la cappa intorno al braccio, la agitai davanti a me. Tanto bastò, la lama dell’Adriani rimase imbrigliata nella stoffa e io mi lanciai verso l’elsa della sua spada, incastrandola tra il mio braccio e il mio corpo, la punta letale ben lontana da me, da qualche parte alle mie spalle. Viso contro viso, incatenati in uno sguardo feroce, rimanemmo così, sospesi per un tempo indefinito. Poi, la furia prese il sopravvento e con una testata sentii il suo naso frantumarsi sotto la mia fronte e il sangue colare ovunque. Gli strappai l’arma tenendo il suo collo nell’incavo del mio braccio, si agitò lottando, ma aveva perso il suo vantaggio, ormai disarmato. Lo forzai a terra, a faccia in giù e con più violenza di quanta ne fosse necessaria. Gemette e io godei. Recuperai la mia daga, pronto a prendermi la mia vendetta. Osservai la punta di acciaio brillare del riflesso delle fiamme, la avvicinai al viso coperto di sangue dell’uomo, assaggiai la sua paura, la rigidità dei suoi muscoli sotto il peso del mio corpo, il battito furioso del suo cuore e il respiro corto nei polmoni. Mi gustai tutto, con calma, lo assaporai come un pregiato vino francese, ne ammirai ogni dettaglio alla luce rossa del camino. Appoggiai la lama al collo, aspettando di vedere il suo sangue mischiarsi ai trucioli e allo sporco del pavimento, come aveva fatto lui stesso dodici anni prima con mia figlia, lo sguardo terrorizzato di bambina ancora spalancato di innocente incredulità di fronte alla morte. Ne rividi i riccioli perfetti impregnati di sangue e la vista mi si appannò, la lama nel cuore ridotta ad un dolore insopportabile.
Uno schianto, alzai la testa.
La sacca con il vaso giaceva a terra, alcuni frammenti di ceramica sfuggiti e sparsi ovunque. Accanto al vaso, con gli occhi enormi e le mani davanti alla bocca, una bambina. Qualche boccolo del colore della pece le sfuggiva dalla cuffietta, il viso minuscolo era una maschera di orrore, troppo grande per un faccino così piccolo. Poteva essere mia figlia, non aveva più di cinque anni. Sentivo la sua accusa, forte e chiara nel silenzio assoluto dell’ora più buia della notte, bruciare come sale su una ferita aperta. Ci fissammo, io assassino di suo padre, lei vittima innocente. Avrei conficcato la stessa lama che trafiggeva il mio cuore nel suo, avrei fatto crescere in lei la rabbia e la furia dell’impotenza, la sete della vendetta, l’amarezza del dolore. Lo avrei fatto e questo non avrebbe riportato indietro né mia moglie né mia figlia. Avrei fatto scivolare quella lama sulla gola dell’Adriani e il mio dolore non sarebbe scomparso, la mia furia non si sarebbe azzittita.
Non lo feci. Mi sollevai dal corpo irrigidito del mio nemico, gli assestai un calcio per buona misura e raccogliendo i cocci sparsi a terra, me ne andai.
Qualche ora dopo, quando tornai a casa stanco e sanguinante, estrassi dalla sacca i frammenti del vaso, la causa prima di quella notte cruciale. Rovesciai i cocci sull’unico tavolo della mia stanza sopra l’Osteria dell’Orso, molti isolati lontano da casa dell’Adriani. La ceramica splendeva lucida alla luce della candela di sego, la danza delle ragazze ormai interrotta e rovinata in decine di frammenti scomposti, le membra disarticolate e devastate da un singolo momento di disattenzione. Sospirai e cominciai a rimontare i pezzi. L’alba mi sorprese immerso nella lentezza della ricostruzione, nell’atto catartico di rimettere insieme i frammenti di un idillio in frantumi. Quando il sole batté sui vetri sporchi della mia stanza, il vaso era di nuovo in piedi, bello e perfetto nella sua ragnatela di fratture ricomposte. Lo osservai, rigirandolo con delicatezza tra le mani, e allora aggiunsi l’ultimo pezzo. Il quadratino di ceramica prese il suo posto, il suonatore di quella musica eterna: l’auleta, il senso di tutto.
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NOTA AL TESTO
Non mi piace inserire note, sia perchè penso che interrompano il ritmo della lettura, sia perchè sono dell'idea che un buon testo storico debba essere accessibile anche senza bisogno di una conoscenza approfondita del periodo. Spero di aver raggiunto l'obiettivo.
D'altra parte, mi piace inserire a fine testo degli elementi, curiosità a volte, che possano interessare e coinvolgere il lettore. In questo caso, ho ambientato la scena nelle strade dietro all'attuale Piazza Navona.
Nostra signora del sacro Cure era in costruzione all'inizio del 1500 e ospitava nei suoi dintorni il quartiere spagnolo; oggi, è la sede dell'Istituto Cervantes di studi spagnoli.
Il colle Oppio era la sede della Domus Aurea (I secolo d.C.), che al tempo in cui si svolge la storia non era ancora stata ufficialmente scoperta, ma di cui se ne conosceva ampiamente l'esistenza; la zona tutta era piuttosto malfamata e sotto ai fornici del Colosseo le prostitute di bassissima lega offrivano i loro servizi...di certo non un posticino a modo!
Le candelaie erano allora le prostitute, le quali misuravano il tempo delle loro prestazioni con le candele, ragion per cui giravano con dei mazzi di candele (la prostituzione nella Roma rinascimentale richiederebbe un intero libro, quindi mi fermo qui).
Via dei Coronari esiste ancora oggi ed è una delle arterie principali dei Campo Marzio, proprio dietro a Piazza Navona. I coronari, così come i paternostari, erano i fabricanti di corone da rosario, che come immaginerete avevano un ampio successo commerciale nella Roma papalina.
L'antagonista di questa storia è un personaggio a metà fra la realtà e la fantasia e prende ispirazione da un (forse) maestro di scherma del 1500, detto il Patrnoster.
Il vaso in questione è ispirato ad un vaso attico del cd Gruppo di Polignoto, datato al V secolo a.C.