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Autore: Juriaka    31/03/2021    3 recensioni
[KageHina | Kageyama-centric]
Il tonfo di una mela, lo schiocco delle ossa che si spaccano, e tu che all’improvviso ti trasformi in una marionetta con il collo girato dalla parte sbagliata.
Dondoli sempre più in alto, ululi appeso alla luna su un’altalena che però non è più un’altalena, bensì un cappio.

Attenzione: presenza di spoiler se non siete in pari con il manga!
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Note iniziali importanti: ciao, e grazie per essere qui! Volevo solo specificare che questa one-shot è scritta dal punto di vista della coscienza di Kageyama, per questo motivo è narrata in seconda persona. Vi lascio, grazie e buona lettura!


Pigliamosche e tramontana



La pioggia sulle guance, la pioggia che scivola lungo la pelle. Gocce di cioccolato sciolto, gocce di acido che scavano, gocce di cera che scottano.
Lacrime?
No, è solo pioggia, rispondi. Pioggia. Nient’altro che pioggia.
Sa un po’ di sale però questa pioggia, non trovi?

*

Come dici? Ti brucia lo stomaco? Eppure non hai ingerito niente di strano, tua sorella ti ha riempito la ciotola con il riso che mastichi da anni, lo stesso che comprava il nonno quando eravate bambini con le ginocchia perennemente sbucciate.
Il pesce, pensi. Forse sì, forse è stato il pesce.
O forse no. Forse non è stato il trancio di salmone ben cotto, non è lui il giuda che ti ha tradito. Magari quella che stai raccontando a te stesso è l’ennesima bugia, l’ennesima favola che sbrilluccica come porporina, poiché quando le tue dita non stringono la palla, hai bisogno di tenerle impegnate a infiocchettare la realtà che ti circonda nascondendo la polvere del tempo che hai perduto sotto un tappeto persiano.
Ma tu provaci lo stesso. Alza il viso e sporgi il mento, lascia che l’orgoglio ti pervada, che il senso di invincibilità ti tenga la mano anche quando abbandoni la palestra.
Come va lo stomaco? Brucia ancora, vero?
Rifletti. Scavati. Guardati. Prova ad analizzare ciò che ti circonda sebbene ti trovi al di fuori del perimetro che circoscrive il campo da gioco.
Interrogati. Devi trovare la causa, la risposta, la soluzione. È stato il tubetto del dentifricio vuoto a infastidirti? Oppure il getto d’acqua ghiacciata sulle spalle perché la caldaia è rotta? O il cartone del latte vuoto, ma che tua sorella ha rimesso comunque in frigo?
Come dici? Niente di tutto questo?
Sforzati di più, allora. Concentrati. Dissezionati.
È stata la foto, vero? La fotografia che Hinata ha inviato sul gruppo mentre eri nello spogliatoio, quella con Oikawa. La stessa che, sgomento, hai mostrato a Ushijima. E dapprima hai provato solo genuina perplessità, poi, però, l’hai guardata di nuovo. E non hai visto solo Hinata, ma anche il sole di Rio che gli baciava le spalle, il sorriso così largo che quasi il viso non bastava a contenerlo, la sabbia spolverata sulle clavicole. E lì, in quell’istante, l’immensità della distanza che intercorre fra voi due ti ha investito come un tornado, voi due che non siete mai stati separati neppure da una rete. Fa male, avvertire la consapevolezza improvvisa che i giorni trascorsi non torneranno più indietro. Che non ci sarà più nessun cazzo di liceo, nessuna cazzo di palestra, che tu e Hinata non frequenterete mai più la stessa scuola. Le dita pungono, sanguinano, ed eccola qui, la realizzazione annichilente di quel privilegio che era la vicinanza, di quel privilegio che erano tutte le possibilità che non ti sei mai accorto di avere e che di conseguenza non hai mai sfruttato.
Che c’è? Ti brucia di più lo stomaco, adesso?
Dovevi pensarci prima, Kageyama.

*


Respira. Respira la brezza dell’estate che s’intrufola dalla finestra socchiusa. Respira le lenzuola fresche che ti avvolgono le gambe. Percepiscine la morbidezza sulla pelle, sono vellutate come le primule imbevute di sole. Giugno è il tuo mese preferito. C’è un tepore inebriante, che fluisce nei muscoli come l’acqua profumata di bagnoschiuma in cui ti immergi la sera. È bella, l’estate di sera. Ha un cielo diverso, più blu, punteggiato da più stelle. Fa meno paura del buio d’inverno.
C’è anche più rumore, nelle notti d’estate, come se una scarica di adrenalina attraversasse il mondo. Somiglia al rumore che c’è sul campo, che riecheggia fra gli spalti.
Pensi all’allenamento dell’indomani. L’energia ti fa vibrare le ossa. Cristo, quanto ami la pallavolo. Delle volte l’amore che provi per quello sport è così intenso, così surreale, che non ti stupiresti se la tua pelle si crepasse come tempera, incapace di contenerlo del tutto.
Ora dormi. Dormi, lasciati cullare da quel profumo zuccherino che sa dell’indomani, del successo.
Oppure sbarra gli occhi, rigido come legno. Smetti, per un istante, di respirare. Affoga in quel gorgo che si materializza sotto il letto, come i mostri da cui fuggivi quando eri bambino.  
È il rumore del cristallo che s’infrange, un vaso di ceramica che si spacca sul pavimento. L’idillio svanisce, la serenità viene spazzata via da un pensiero che è sfuggito al tuo controllo.
Hinata. Hinata, Hinata. Un nome che ti sbriciola.
Come va lo stomaco, Kageyama?
Punta gli occhi sul soffitto che non vedi a causa del buio. Trasforma la gentilezza delle lenzuola in spine che ti uncinano le caviglie. Accantona il tepore dell’estate e ricopriti di ghiaccio, soffia via l’odore di fragola e lasciati inebriare da quello del rimpianto. Strozza il sonno, aprigli la nuca con una mazza chiodata.
Ci sei ancora, vero? E allora pensa al mare. Scruta la superficie dell’acqua che brilla della luce del sole. Accarezzala, ascolta lo sciabordio delle onde, il gorgoglio della schiuma che ti muore sulle caviglie, lo scricchiolio delle conchiglie che frantumi sotto i talloni. La sabbia, sotto le dita. La sabbia che è morbida, la sabbia che è gentile, ma che tu stai imparando a odiare con ogni fibra del tuo essere.
Inspira a fondo l’odore della salsedine. Lasciati pervadere i polmoni dal sapore del mare, come se la marea stesse suscitando un orgasmo fatto di acqua, sale, e di tutti i ninnoli perduti per sempre durante i tuffi.
Lo senti, vero? L’oceano. Quel ladro egoista che abbraccia il mondo, che risucchia gioielli e lacrime e baci e persino vite umane senza restituirle indietro, portandole nell’abisso come un drago che custodisce il proprio tesoro. Un po’ ti assomiglia, dopotutto.
Osservane il colore. È blu. È un blu più profondo di quello che ti scintilla nelle iridi, un blu che profuma di sudore, di labbra e di pelle.
Rifletti. I tuoi occhi, prima, erano l’unico mare in cui Hinata poteva nuotare. Ma cosa sono i tuoi occhi adesso, se paragonati all’oceano vero, a quella sconfinata distesa di acqua crudele e incantatrice, come il canto delle sirene?
Niente. Due pozzette invisibili al lato della strada.
Due pozzette che Hinata disdegnerebbe, perché oramai ha assaporato sulla lingua il sapore della libertà che solo il vero mare può offrire.
Non abbassare le palpebre. Tieni gli occhi sbarrati, finché non li sentirai inumidirsi.
Almeno avrai una scusa per piangere.
Non c’è niente su cui piangere, sibili. Poi ti mordi le labbra. Non c’è nessuno per cui piangere, insisti.
Bugiardo, bugiardo, bugiardo.
Lo senti il sapore metallico della codardia, Kageyama?
È lo stesso sapore che ha la ruggine.

*

Quando hai iniziato, ti domandi. Un momento, iniziato a fare cosa?
A cadere? A sprofondare? A capire?
Ti piace nuotare nell’abisso senza sole? Ti piace sguazzare nel buio a pancia all’aria, come un pesciolino morto? Sei felice, appagato, di essere finalmente riuscito a stuccare ogni singolo filo di luce ramata che era riuscito a intrecciarsi ai tuoi fili, fatti solo d’ombra?
Osserva il ricamo che eravate. Guardalo, stringi il tessuto setoso fra le mani affusolate.
Com’è diventato, adesso?


*

Pensi, pensi, pensi. D’improvviso riflettere si è trasformato in un passatempo doloroso di cui non riesci a fare a meno.
Dove hai sbagliato? Dove si trova la colpa?
In che senso, quale colpa? Hai davvero il coraggio di chiedertelo?
Quand’è l’ultima volta che hai chiamato Hinata? Quand’è l’ultima volta che hai sentito la sua voce? Quand’è l’ultima volta che hai utilizzato quelle dita tanto abili, tanto venerate, per digitare uno straccio di messaggio? Quand’è che hai saputo come stava, cosa faceva, senza che le labbra di Yamaguchi fungessero da tramite?  
Dillo. Dillo di nuovo, che la colpa non è tua. Azzardati.
Silenzio?
Silenzio.
Lo sapevi che il silenzio adora ballare? E lo sai con chi? Con il dolore, con la solitudine.
Perciò stringi il tuo biglietto. Presta attenzione a non perderlo come hai fatto col tempo e le occasioni. Attraversa la platea del teatro a passo strascicato, sprofonda nella poltrona in prima fila e punta gli occhi blu, copie bislacche dell’oceano, sul velluto del sipario rosso sangue, rosso cuore, rosso come i suoi capelli. Aspetta che le tende si spalanchino, e col sapore dei chiodi di garofano in bocca, goditi la danza lasciva e sfrenata fra ciò che avresti voluto dirgli e ciò che non gli hai mai detto perché hai avuto l’arroganza di pensare che ti avrebbe aspettato per sempre.
Non sbattere le palpebre. Non ti permettere.
Lascia che la vista si appanni e concediti una scusa per piangere.

*

No? Ti rifiuti che dalle tue ciglia sgorghino lacrime? Allora implodi.
Codardo, codardo, codardo.

*

Il tonfo di una mela, lo schiocco delle ossa che si spaccano, e tu che all’improvviso ti trasformi in una marionetta con il collo girato dalla parte sbagliata.
Dondoli sempre più in alto, ululi appeso alla luna su un’altalena che però non è più un’altalena, bensì un cappio. Sei sospeso nel vuoto, sei sospeso sopra l’oceano, o forse si tratta solo del riflesso dei tuoi occhi che ti fissano con disprezzo. Ti stanno conficcando in un tubo troppo stretto, le orecchie incassate nel cranio, le orbite che scricchiolano.
Allora, come va lo stomaco?
Hai voglia di vomitare, giusto?

*

Rannicchiati su un fianco. Respira.
Piano, sottovoce, come se non volessi farti ascoltare neanche dalla notte. Respira dolcemente, con la stessa gentilezza che ha la neve quando bacia la punta della lingua. Immagina, nascosto agli occhi delle stelle grazie al buio che ti avvolge con premura, grazie all’ombra in cui brancoli da sempre e di cui è fatto il tuo nome. Infilati sotto le coperte e fuggi dal riflesso dello specchio appeso accanto al letto.
Ma poi, si sta davvero così bene nelle tenebre?
Non divagare. Immagina.
Hinata.
Te lo ricordi il corpo di Hinata, vero? Quello che ti si stringeva addosso durante le curve sgraziate del pullman. Quello che ti cercava nel futon durante i ritiri con la Nekoma mentre ti fingevi addormentato. Quello su cui lasciavi scorrere gli occhi nello spogliatoio in un fruscio, sempre troppo di sfuggita, sempre troppo silenzioso. Hinata avrebbe preferito che tu lo sguardo glielo allacciassi addosso.
No, torna al corpo. Quindi, te lo ricordi? Rievocalo. Dipingi ogni candida sfumatura della pelle, scolpisci ogni singolo osso. Tratteggia la sua fisionomia come se stessi modellando l’argilla. Presta particolare attenzione alla curva del collo, ai fianchi, ai bottoni delle clavicole.
Di più, di più. I dettagli, disegna i dettagli. Sono le particolarità a fare la differenza. Hinata voleva risucchiare tutto di te e concederti in cambio tutto di lui. Tu invece non sei stato in grado né di prendere né di offrire.
Concentrati. Il suo corpo. Il neo vicino all’ombelico. Quello su cui volevi poggiare l’indice. Le ginocchia un po’ storte. Le scapole sporgenti, le spalle spruzzate di lentiggini come una spolverata di pioggia dorata.
Di più, di più. Hai così tanta paura del suo viso, Kageyama? Dei suoi occhi? Delle labbra che non hai mai avuto il coraggio di assaporare?
Fallo adesso, allora. Immagina. Concentrati. Immagina di nuovo. Descrivi cosa vedi, cosa si è arenato nella curva fra l’iride e la pupilla. Occhi grandi, famelici, sfarfallano di luce come se fossero fatti di fiamme e brace. Due pozze di rame egocentriche che attirano su di sé gli sguardi di tutti. Hinata voleva solo il tuo, ma l’hai capito troppo tardi.
E le ciglia? Le ciglia sono fili d’oro rosso che custodiscono i segreti dell’universo. Vorresti sentirle fremere contro le guance. E i capelli? Un nido di merli che ti piaceva scompigliare, in cui avresti voluto affondare il viso e addormentarti.
E allora accarezzagli la fronte con le dita titubanti. Lui te lo disse, una volta, che le trovava belle.
È soffice la sua pelle? È tiepida?
Somiglia all’estate. Somiglia alla luce di giugno.
E poi? Di più. Parla delle labbra che tremolano vittime della timidezza, come la superficie delle pozzanghere. Quelle stesse labbra che avevi timore persino di guardare. Passaci l’indice, toccale con la delicatezza di un passerotto e la disperazione di chi ucciderebbe per mangiare.
Come sono? Come sono?
Screpolate, sabbia asciutta. Ma vorresti baciarle comunque, pure se la sabbia ti fa schifo. Allora chinati e trova la sua bocca. Che sapore ha la sua saliva?
Sa di sudore e arancia. Sa di immaginario, perché queste non sono altro che mere fantasie che ti scoppiettano dietro le palpebre.
E adesso, adesso, c’è la parte divertente. La parte che ti eccita, che ti squaglia le ossa, che ti fa palpitare il cuore come se davanti avessi il boia.
Spoglialo. Togligli i vestiti, sfilaglieli piano come fiori di ciliegio oppure strappaglieli di dosso. Però spoglialo. Devi vederlo nudo.
Intrufola le mani sotto la sua canottiera, galleggia nel rumore del suo respiro accelerato. È agitato, forse anche lui ha paura del buio, dell’ombra. O forse teme quel flebile soffio di luce che trapassa dalla finestra socchiusa.
È inebriante, vero? La consapevolezza che la causa dei suoi occhi lucidi di lussuria siano i vostri baci e il tuo respiro, che rimbalza sul suo collo altrettanto accelerato, altrettanto intimorito.
Continua a spogliarlo. Annusa la sua pelle. Che ti ricorda? L’odore della ruggine? L’odore di un vigliacco? No, è un odore avvolgente e doloroso come quello della salsedine, penetra nei polmoni con una veemenza totalizzante. E poi si percepisce il retrogusto agrodolce degli agrumi.
Ci vorresti annegare, nel suo profumo. Vorresti prenderlo a sorsate come se fossi in balia del mare aperto. Vorresti respirarlo, vorresti che ti scorresse nelle arterie al posto dell’ossigeno.
Allora avvicina il viso. Avvicinalo, strofina il naso contro l’incavo del suo collo, un solco il cui unico scopo è quello di accogliere il tuo viso.
Casa.
Vorresti baciare ogni singolo centimetro di carne tenera. Affondare i canini nella pelle, sentirti esplodere sotto il palato il sapore metallico del sangue. Vorresti farlo a brandelli perché ti ha voltato le spalle, o forse vorresti che fosse lui quello a dilaniarti perché la verità è che tu gli hai sempre mostrato la schiena, diffidente come un gatto che non palesa la pancia a nessuno. Speri che ti trasformi in coriandoli: striscioline blu, bianche e nere da disperdere in aria come cenere. Anzi, nel mare. Nel mare di Rio che te lo ha portato via.
Non ti distrarre. Continua a esplorare la sua schiena con le dita, i rilievi delle vertebre e i cuscinetti che le intervallano, i muscoli, le ossa del bacino, la curva delle cosce. Accarezzagli la pancia come se fossi brezza di marzo, vento di scirocco e tramontana. Fagli tremare l’addome sotto le dita come una foglia, fallo gemere sino a fracassare il cristallo, riempigli gli occhi di lacrime, quelle che tu non hai il coraggio di lasciar gocciolare via. Fagli tremare le gambe come gelatina, per il bisogno impellente di sentirti dentro di lui. Fallo cedere. Fallo arrendere. Fallo supplicare.
Ma soprattutto, non farlo andare via, Kageyama. Trattienilo. Prendigli la mano e non lasciarla andare.

*

Codardo.

*

Passerà.
È il tuo nuovo mantra. Un sussurro che ripeti più volte al giorno come se avessi paura di dimenticarlo.
Passerà. Passerà, passerà, passerà.
Non può mica piovere per sempre, dopotutto. Sboccerà il glicine al tepore, torneranno le rondini e i pigliamosche.
No, non può piovere per sempre, hai ragione. Potrebbe però scoppiare un temporale. Potrebbe iniziare a grandinare. Potrebbe giungere persino un uragano, uno tsunami, la terza guerra mondiale.
Non basta volgere il viso dall’altra parte. Non puoi lasciartela alle spalle, questa frustrazione che si è avvolta intorno allo stomaco come il tralcio della vite, come edera infestante.
Devi reimparare a camminare da zero, le spalle ingobbite dal peso di un amore di cui non sai più cosa fartene.
Che non sai più a chi dare.

*

Adesso lo chiamo, sbotti.
Dimmi, con quale coraggio? Sei privo di buonsenso.
Me ne frego del buonsenso, sibili testardo. Io adesso lo chiamo.
Uno squillo, due squilli, tre squilli.
Il rumore dei passi che riecheggia nella stanza fa pensare al ticchettio di un orologio troppo frettoloso. O forse sei tu a non esserti mai accorto di quanto vada veloce il tempo.
Sette squilli, otto squilli, nove squilli.
La segreteria telefonica ti augura una buona giornata.
Forse è colpa del fuso orario, sussurri.
Bugiardo, bugiardo, bugiardo. A te le illusioni non sono mai sembrate dolci.
Hinata il giorno dopo non ti richiama. Neanche quello dopo ancora.
Una delusione imprevedibile? Un tradimento, una stilettata da parte di un amico?
Come quando versi due cucchiaini di zucchero nel caffè e al primo sorso scopri che hai confuso lo zucchero con il sale. Come quando un giorno esci di casa pensando che quella mattina non abbia nulla di diverso dalle altre, e poi c’è un boato improvviso e ti accorgi di aver perso un pezzo, come un aereo che si smantella durante il volo.
In un battito di ciglia ecco che da tre diventate due, in famiglia. Le sorprese della vita.
Te lo ricordi quando eravate nove e dieci, Kageyama?


*

Kageyama?
Hinata?
Scusami, ho visto solo adesso la chiamata.
Non fa niente. Come stai?
Bene. Tu?
Anche.
Okay.
Okay.
Ti serviva qualcosa?
No, niente.
Okay.
Okay.
Kageyama?
Che c’é?
Sto diventando forte. Sono diventato forte.
Pausa.
Preparati a perdere. Perché perderai.

*

Troppo tardi. Hinata non sa che hai già perso, fuori dal campo. Ti ha battuto senza neanche volerlo.

*

Ti manca. Ti manca così tanto che quasi non respiri. Chi l’avrebbe mai detto che una persona viva ti sarebbe mancata sino a questo punto? E perché ti manca? Perché esiste una sensazione dolorosa come quella di provare mancanza? Perché ci mancano cose e persone, quando non percepiamo altro che una continuo e pulsante dolore?
Non puoi aggiustare il tuo cuore. E prendere un aereo è fuori discussione, Hinata si starà scopando qualcuno in mezzo all’oceano caldo e tu qui hai un contratto da rispettare per cui sei pagato.
Allenamento, allenamento, allenamento.
Dimmi, Kageyama: come ci si sente quando finalmente si capisce che la pallavolo non è tutto?

*

Il corpo di Hinata è bollente, sa di melassa, gli tremano le ossa come papaveri al vento. Vorresti aprirgli le cosce e affondarci la faccia.
Respira, ubriacati dei suoi gemiti e del suo odore. Contagli le lentiggini, le stelle sulla schiena. Graffialo, gioca a unisci i puntini con le unghie, disegna mappe del cielo a furia di morderlo.
Hinata è tuo.
Sei mio, sei mio, sei mio, sussurri più volte, terrorizzato dall’eventualità che lo dimentichi.
Lo obblighi ad affondare il viso nel cuscino che ha il tuo odore intrappolato nella federa, e poi lo scopi con tutta la forza che possiedi. Una volta, due volte, tre volte.
Vuoi che guaisca sotto le tue spinte furiose, vuoi venirgli dentro e allacciarti a lui per sempre. Vuoi che la pelle di Hinata sappia sempre della tua saliva, del tuo sudore, del tuo sperma. Vuoi che sappia di tutto quello che avresti voluto dargli, ma che adesso troverà in altri.
L’oceano. Posso dargli l’oceano dei miei occhi, pensi. Gli farò capire che valgono di più di tutto il mare che abbraccia il mondo.
È questo, ciò che desideri? Infilarti sotto la sua pelle, nel midollo osseo, nella sua voce? Trasformarti in un parassita e infestare il suo corpo?
Di’ il mio nome, ringhi. Urlalo. Gridalo. Devono sentirti tutti.
Kageyama, Kageyama, Kageyama.
No, di più. Di più. Kageyama non è abbastanza. Le ombre sono sempre state invisibili senza la luce.
Tobio, Tobio, Tobio.
Lo afferri per un polso e lo costringi a voltarsi, perché ti piace guardarlo negli occhi mentre raggiungi l’orgasmo. Ti piace vedere il tuo stesso riflesso nelle sue pupille dilatate. O forse vuoi solo venirgli in faccia, appiccicarti fra le sue ciglia e rimanerci.
E mentre Hinata ti guarda, trovi un gorgoglio di soffi e mani che ti stringono, ti allontanano, ti cercano. Trovi un disastro scompigliato di pelle d’oca che consumerebbe l’acciaio. È mozzafiato.
Il mio nome, pensi.
E Hinata schiude le labbra gonfie di baci e rosse di morsi. Ma non soffia via il tuo nome. Non grida Tobio, non geme Kageyama.  
Dice: Tooru, Tooru, Tooru. Poi pronuncia nomi di ragazzi e ragazze brasiliani, nomi appartenenti a persone che non conoscerai né vedrai mai. Sussurra nomi di persone che forse neanche esistono, perché tu di Hinata non sai nulla, sai soltanto che è partito, che tornerà per ottenere la sua rivincita e che poi andrà via di nuovo perché è incapace di star fermo. È impossibile da arginare, proprio come l’oceano.
E l’oceano non si innamora dei codardi. L’oceano si innamora degli impavidi che indossano la camicia bianca sbottonata sino a metà petto, con i riccioli ribelli incrostati di sale.
E adesso? Che farai, nel buio senza ombre? Fisserai il soffitto con occhi stralunati?
Come lo chiamiamo questa volta il pianto, per celare l’imbarazzo?
Rugiada di primavera che scorre lungo le guance? Perle di capesante?
Come dici? Pioggia, ancora? Che noia. Non hai fantasia.
Che sia almeno acquazzone, Kageyama.

*

Affoga.




Note d’autore:

Mi dispiace! Non ha molto senso questa cosa ma insomma, grazie per essere arrivati sin qui!!! E Kageyama SCUSAMI giuro che smetterò di farti soffrire, prima o poi. Grazie per aver letto, see ya! ♥


  
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